Novità Di Maggio Parte VI. The National, Marshall Tucker Band, Todd Wolfe, Indigenous, Tea Leaf Green, Glenn Jones

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La band di Matt Berninger (e delle coppie dei fratelli Dessner e Devendorf), ossia i National – o, secondo alcuni, i The National, però è una grossa pirlata, visto che “the” in inglese è l’articolo determinativo che sostituisce indifferentemente i nostri il, lo, la, i, gli, le, quindi sarebbe “i I National”, ma ieri in televisione per commemorare Ray Manzarek ho sentito parlate di “i The Doors”, sic, fine della digressione grammaticale – una delle migliori band americane, originarie dell’Ohio ma residenti a Brooklyn, New York, pubblicano il loro nuovo album in studio, Trouble Will Find Me, il sesto della discografia. L’etichetta è la 4AD, il disco esce oggi e, come di consueto, è molto buono: indie rock, post punk, indie folk, baroque pop, alternative country, sono alcuni dei generi che vengono loro affibbiati, ma, secondo il sottoscritto, fanno del rock classico, dei giorni nostri ma che si riallaccia alle migliori tradizioni del passato, non per nulla vengono paragonati ai Joy Division e a Nick Cave, ma anche ai Wilco e Leonard Cohen. Tra gli ospiti presenti nel disco le brave St. Vincent e Sharon Van Etten, Sufjan Stevens e Richard Reed Parry degli Arcade Fire, tutta gente che è sulla loro lunghezza d’onda. Semplicemente bella musica.

La Marshall Tucker Band da Spartanburg, South Carolina festeggia la propria “elezione” nella South Carolina Music Hall Of Fame, con la pubblicazione, da parte della Shout Factory, di questo CD Live From Spartanburg, South Carolina, registrato il 19 settembre del 1995, per l’occasione del gruppo originale c’erano ancora Doug Gray, Paul Riddle, Jerry Eubanks e George McCorkle, oltre a Charlie Daniels, presente in gran parte dei brani e ai due batteristi degli Allman, Butch Trucks e Jaimoe. Ci sono tutti i classici, in versioni lunghe, poderose e vibranti. L’uscita ufficiale è il 28 maggio. La MTB è ancora in pista e fa dell’ottimo Southern Rock, nonostante il cap(p)ello bianco, ma quella serata è da incorniciare, anche per gli ospiti presenti.

Todd Wolfe con la sua band è un cliente abituale del Blog todd+wolfe, e quindi mi limito a segnalarvi l’uscita del suo nuovo album, l’ottavo, Miles To Go, in America autogestito, in Europa distribuzione Hypertension, visto che poi, probabilmente, ci ritornerò più diffusamente, anche se il CD è uscito già da qualche giorno, ma non ci rincorre nessuno Power-trio rock-blues energico (ma non solo) con aggiunta di tastiere ed armonica, chitarre a profusione, un misto di brani originali e cover, che spaziano da Forty Four di Chester Burnett (a.k.a. Howlin’ Wolf) a Valley Of The Kings di Marc Cohn, per arrivare a The Inner Light di George Harrison che era il lato B di Lady Madonna, un po’ di psichedelia “indiana”. Uno bravo.

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Anche gli Indigenous di Mato Nanji ricorrono abitualmente nel Blog un-chitarrista-che-fa-l-indiano-indigenous-featuring-mato-na.html, il nuovo album Vanishing Americans esce come di consueto per la Blues Bureau Inr’l/Shrapnel di Mike Varney e come genere siamo dalle parti di Todd Wolfe (potete leggere al link qui sopra). Data di uscita il 21 maggio, anche di questo probabilmente si riparlerà più diffusamente nel mio periodo mensile dedicato al rock-blues, per il momento un assaggio per chi non lo conosce.

E dei Tea Leaf Green secondo voi non si è mai parlato nel Blog? Certo che sì (ma di cosa non si è parlato?): jam-bands-che-passione-tea-leaf-green-radio-tragedy.html). Ottavo album di studio (oltre ad una decina di Live) per una delle migliori Jam Bands della Bay Area, si chiama In The Wake ed è uscito da qualche giorno per la loro etichetta, Greenhouse Records. Anche su questo, se trovo il tempo, vorrei ritornarci con un Post dedicato, ma non è facile, per cui, almeno in breve, vi segnalo tutte le uscite più interessanti e il più tempestivamente possibile.

Di Glenn Jones diffusamente non vi ho parlato mai (e ho fatto male), se non segnalando il precedente disco The Wanting, sempre in questa rubrica, ma ora ne esce già uno nuovo My Garden State, sempre distribuito dalla Thrill Jockey. Jones non è uno nuovo, in circolazione da fine anni ’80, quando era il leader dei Cul De Sac, una band di rock sperimentale, nel corso del tempo si è trasformato un un fantastico chitarrista acustico (e banjoista), influenzato dall’American Primitivism dei grandissimi Robbie Basho e John Fahey (e tanti altri che non citiamo ma conosciamo, anche in questo caso sarebbe bello parlarne, prendo nota) e insieme allo scomparso Jack Rose (e altri) è stato uno dei prosecutori della loro opera.

Sempre a proposito di tempo, quando mi siedo di fronte alla tastiera del computer, purtroppo non ho ancora sviluppato un rapporto telepatico con lo stesso e quindi devo pensare a cosa e di chi devo scrivere e, per esempio, come nel caso del breve ricordo di ieri dedicato allo scomparso Ray Manzarek è venuta una cosa un po’ striminzita anche se sentita: d’altronde quando si parla di queste cose è come se fosse morto un parente alla lontana, un cugino o uno zio che non vedevi da tanti anni, ma al quale eri affezionato, perché avevi condiviso con lui, nel caso di un’artista, la sua musica, nella veste di ascoltatore, quindi almeno qualche riga per celebrarlo è il minimo per qualcuno che si è “amato”! 

A domani, con altre novità.

Bruno Conti

Jam Bands Che Passione! Tea Leaf Green – Radio Tragedy!

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Tea Leaf Green – Radio Tragedy! – Greenhouse/Surfdog Records

“Le Jam band sono gruppi musicali le cui esibizioni dal vivo ricalcano una cultura di musica “improvvisata” avuta origine negli anni 60 con il gruppo dei Grateful Dead e che continua ancora oggi con gruppi come Phish, String Cheese Incident, Leftover Salmon ed altri. Le “performance” di questi gruppi offrono un’estesa improvvisazione musicale, estensioni ritmiche e sequenze di accordi sempre variabili che spesso varcano diversi generi musicali.”

Così, testuale, riporta Wikipedia alla voce Jam Band. A parte l’italiano stentato si può sottoscrivere tutto. E aggiungere che i Tea Leaf Green, da San Francisco, California, sono tra i più rappresentativi del genere oltre che tra i più prolifici, con sette album in studio, compreso questo Radio Tragedy, e più o meno altrettanti dal vivo, oltre a un paio di DVD. Niente a vedere come mole di produzione con i Phish, ma si difendono. Come genere invece qualche affinità la vedo.

Soprattutto da un paio di album a questa parte, da quando hanno iniziato a curare molto di più anche la parte canzone nei loro dischi in studio. Questo nuovo album contiene undici brani che durano “solo” 47 minuti. Facciamo un passo indietro, al termine jam band: secondo me la bravura dei gruppi che fanno parte di questo movimento non è tanto nella parte improvvisativa (che ha la sua importanza, ci mancherebbe!), quanto in quello che ci sta intorno. Mi spiego meglio. Chi va ad assistere ad un concerto di questi gruppi o ascolta un loro disco non vuole essere “distratto” dalle canzoni che spesso sono solo un pretesto per le lunghe improvvisazioni al loro interno e quindi quelli più bravi cercano di comporre brani che non diano fastidio a questo aspetto della musica, estremizzando leggermente perché poi uno vuole anche memorizzare i brani. Questa è una mio teoria ma secondo il sottoscritto spesso questi brani sono interscambiabili, il “cuore” della vicenda si svolge nella sequenza degli assoli, nel virtuosismo, nel lasciarsi perdere nel flusso musicale. Certo non sempre è vero ma soprattutto nei concerti dove spesso le covers imperano è molto importante.

Detto questo, occorre anche farli questi benedetti dischi in studio (e i Grateful Dead, e in misura minore i Phish, questo l’avevano capito). Ma visto che dischi se ne vendono pochi mentre i concerti sono sempre affollati non sempre si riescono a mediare le due cose. Come si diceva prima, i Tea Leaf Green negli ultimi tempi sembrano interessati a curare anche l’aspetto compositivo. E per questo hanno aggiunto un secondo batterista nella loro formazione! No, forse questo non c’entra. 

Sinceramente ammetto che se dopo il primo ascolto del CD mi avreste chiesto di ricordare un brano del disco, che mi era assai piaciuto nel suo insieme, sarei stato in seria difficoltà. Ma onestamente questo accade anche per dischi di altri generi. E visto che qui i generi sono tutti “rollati” insieme la cosa è ancora più difficoltosa. Ma considerando che uno gli album non li ascolta solo una volta (anche per mestiere e piacere) le canzoni cominciano a dipanarsi con maggiore chiarezza: l’iniziale All Washed Up ha un inizio da “rock classico” poi diventa più “classica” (nel senso di musica classica per l’uso prominente delle tastiere) con un finale chitarristico frenetico senza dimenticare l’input percussionistico dei due batteristi. It’s easy to be your lover con il suo cantato in falsetto e ritmi quasi reggae per certi versi ricorda i My Morning Jacket, ma l’uso per le armonie vocali di una voce femminile e le improvvise aperture strumentali la rende più complessa. Non dimenticate mai che poi dal vivo questi brani si espandono e l’assolo di chitarra, molto bello, che qui dura un minuto potrebbe durarne fino a dieci. I primi due brani sono firmati dal tastierista Trevor Garrod.

Il terzo brano You’re my star è del chitarrista Josh Clark, un brano quasi psichedelico, dall’andatura incalzante con il wah-wah dell’autore che si contende gli spazi del brano con le armonie vocali tra Beatles e Acid Rock. Non mancano le atmosfere acustiche quasi pastorali di una brano come My Oklahoma Home (scritta dal bassista Reed Mathis) con i suoi impasti vocali quasi Weastcoastiani (d’altronde da lì vengono) che ricordano qualcosa dei Grateful Dead più gentili. Anche Fallen Angel è una bella canzone con una melodia facilmente memorabilizzabile, frizzante, quasi country-rock ma sempre vivace nella parte strumentale. Sleep Paralysis è un altro brano dall’impianto principalmente acustico non dissimile dalle sonorità di Fleet Foxes e Decemberists che avanzano nella scena musicale americana. Le tastiere di Germinating Seed si sommano alla chitarra tagliente di Clark e al solito tessuto percussionistico per una piccola gemma psych. Honey Bee non è quasi country, lo è pienamente, aiutata anche da una lap steel che si aggiunge all’armamentario sonoro del gruppo, brano piacevole che nulla aggiunge e nulla toglie.

The Cottonwood Tree rimane su atmosfere sonore simili ma è molto più convincente e complesso nell’esecuzione.

Arise è un altro brano che mescola sixties e belle melodie come ora sembra usare nella musica made in Usa anche per merito dei gruppi citati prima. Nothing Changes il brano che conclude l’album è l’unico che supera i sei minuti e qui il piacere dell’improvvisazione nel gruppo del batterista Scott Rager si fa più urgente e irrefrenabile, più simile a come sono i loro concerti dal vivo.

Bel disco e bravi loro nella ricerca di nuove (vecchie) atmosfere musicali. File under jam band/classic rock.

Bruno Conti