Il Miglior Lavoro Di Sempre Del Nostro Amico Ormai Mezzo Italiano! Jono Manson – Silver Moon

jono manson silver moon

Jono Manson – Silver Moon – Appaloosa/Ird CD

Jono Manson ha da anni un rapporto speciale con la nostra penisola, avendo collaborato più volte con alcuni dei migliori musicisti nostrani come i Mandolin’ Brothers (è anche il produttore del loro ultimo 6), i Gang (Jono era dietro la consolle sia per Sangue E Cenere che per il bellissimo Calibro 77, e pare che concederà il tris anche per il prossimo lavoro dei fratelli Severini), Andrea Parodi e Paolo Bonfanti, oltre ad aver fatto parte del supergruppo Barnetti Bros. Band con Parodi, Massimiliano Larocca e Massimo Bubola e non mancare quasi mai nelle kermesse annuali del Buscadero Day. Ma Jono non vive in Italia, abita da anni a Santa Fe (New Mexico), e si ritrova a dover mandare avanti anche la sua carriera di musicista in proprio, ormai ferma al 2016 con l’ottimo The Slight Variations https://discoclub.myblog.it/2017/02/09/variazioni-lievi-ma-significative-sempre-ottima-musica-jono-manson-the-slight-variations/ : Manson si è preso del tempo, ha scelto le canzoni che reputava migliori ed è riuscito a fare ciò che si era prefissato, cioè il capolavoro di una vita. Sì, perché Silver Moon (questo il titolo del suo nuovo album, sempre distribuito dalla Appaloosa, altro punto di contatto con l’Italia) è un grande disco, il più bello, il più convinto di sempre per quanto riguarda il songwriter newyorkese, un lavoro dal respiro internazionale in cui la sua consueta miscela di ballate e brani rock in puro stile Americana toccano il vertice artistico massimo.

Jono questo lo sapeva, se lo sentiva, ed è per questo che per arricchire ancora di più il piatto ha chiamato attorno a lui una serie di ospiti da far tremare i polsi: non ci sono superstar (non aspettatevi Clapton o Knopfler), ma comunque non è da tutti avere contemporaneamente in un proprio album Warren Haynes, Terry Allen, James Maddock, Eliza Gilkyson, Joan Osborne, Eric “Roscoe” Ambel, oltre al nostro Bonfanti, al chitarrista degli Spin Doctors Eric Schenkman, all’altro axeman Eric McFadden fino al bravissimo tastierista Jason Crosby ed agli abituali collaboratori di Manson (Ronnie Johnson al basso, Paul Pearcy alla batteria e Jon Graboff alle chitarre e steel). Ma gli ospiti danno solo quel qualcosa in più, servirebbero a poco se non ci fossero le canzoni, ed in Silver Moon ne troviamo di bellissime, a partire da Home Again To You, scintillante pezzo che porta alla mente il primo Steve Earle, quello a metà tra country e rock: ritmo spedito, melodia accattivante e squisito accompagnamento chitarristico jingle-jangle. Only A Dream è cantata a due voci con Maddock, ed è una sontuosa rock ballad elettrica di stampo classico con il passo di quelle dei grandi della nostra musica, davvero bella, mentre la title track è una luccicante ballatona sudista, calda nei suoni ed impreziosita dagli splendidi organo e piano elettrico di Crosby e soprattutto dall’inconfondibile slide di Haynes: altra grande canzone.

Si rimane al sud con la goduriosa Loved Me Into Loving Again, saltellante e gustoso errebi con la voce di Manson doppiata dalla Osborne e l’aggiunta di una sezione fiati di quattro elementi; I Have A Heart è tosta ed elettrica, puro rock’n’roll di quelli che trascinano fin dalle prime note, con Springsteen come ispirazione principale, a differenza di I Believe che è un’intensa slow ballad dalle leggere reminiscenze dylaniane (ma vedo anche Butch Hancock) e con un motivo toccante e bellissimo. Con la cadenzata I’m A Pig siamo in territori rock-blues per un brano decisamente grintoso dominato dal piano di Crosby e dalla chitarra di Schenkman (e con un refrain corale vincente), Shooter è ancora più rock, una ballata elettrica e chitarristica di notevole impatto con Bonfanti che fa il bello e il cattivo tempo, mentre The Christian Thing è un lento strepitoso che sa un po’ di Messico ed un po’ di southern country, reso ancora più bello dalle voci di Terry Allen e della Gilkyson. Face The Music è ancora puro rock’n’roll ed è una delle più immediate ed irresistibili, Everything That’s Old (Again Is New) introduce un’atmosfera pop ed una slide degna di George Harrison, e porta alle due canzoni conclusive: la country ballad Every Once In A While, tersa e limpida, ed il blues elettrico e “texano” The Wrong Angel, di nuovo con Bonfanti alla solista. Jono Manson con questo Silver Moon è dunque riuscito perfettamente nel suo intento di regalarci il suo disco più bello di sempre (non disdegnando “a little help from his friends”), un lavoro che conferma la sua bravura nella scrittura, la sua competenza ed il suo amore per la vera musica.

Marco Verdi

Il Primo Disco Da “Top Ten” Del 2020? Terry Allen & The Panhandle Mystery Band – Just Like Moby Dick

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Terry Allen & The Panhandle Mystery Band – Just Like Moby Dick – Paradise Of Bachelors CD

Sinceramente non pensavo che Terry Allen, grandissimo cantautore texano attivo dagli anni settanta, avesse ancora voglia di scrivere ed incidere canzoni alla sua veneranda età (quest’anno sono 77 primavere), anche perché nel nuovo millennio ha dato alle stampe solo un album di materiale nuovo, l’ottimo Bottom Of The World del 2013. E invece Allen (che si dà ancora molto da fare come pittore, scultore ed artista multimediale) non solo ha appena pubblicato quasi a sorpresa un disco nuovo di zecca, Just Like Moby Dick, ma è riuscito a darci un lavoro di qualità eccelsa, probabilmente il suo migliore almeno da Human Remains del 1996 (qualcuno lo ha giudicato il suo album più riuscito dopo il capolavoro Lubbock (On Everything) del 1979, altri addirittura il suo migliore in assoluto: io direi più prudentemente che è meglio di tutto quello che Terry ha pubblicato tra Lubbock e Human Remains e anche dopo, e stiamo parlando di uno che non ha mai sbagliato un colpo).

Just Like Moby Dick ci consegna un artista lucidissimo ed in forma strepitosa, ancora in grado di scrivere canzoni splendide e di interpretarle con un feeling straordinario che non risente per nulla dell’età avanzata: i suoi brani partono sempre dal country per toccare quasi tutti i generi della musica americana (qui forse un po’ meno che in Lubbock), tra folk, rock, blues e ballate, e non mancano i testi tra il surreale ed il sarcastico, altro marchio di fabbrica del nostro. La voce di Terry con gli anni è diventata più profonda (ricorda un po’ quella di Kris Kristofferson), ed in questo disco si fa aiutare spesso e volentieri dall’ugola squillante della brava Shannon McNally https://discoclub.myblog.it/2017/07/12/cosi-brave-ce-ne-sono-poche-in-giro-shannon-mcnally-black-irish/ , che spesso diventa la voce solista, mentre alla produzione non c’è il solito Lloyd Maines (che però suona nel disco, slide acustica e dobro) ma un altro nome-garanzia: Charlie Sexton. Oltre ai tre musicisti appena citati la Panhandle Mystery Band in questo album è completata dal figlio di Terry, Bukka Allen, al piano e soprattutto fisarmonica, Richard Bowden al violino e mandolino, Glenn Fukunaga al basso, Davis McLarty alla batteria e Brian Standefer al violoncello.

Just Like Moby Dick è quindi un disco di canzoni pure, senza le stranezze della ristampa dello scorso anno Pedal Steal + Four Corners https://discoclub.myblog.it/2019/04/12/una-ristampa-interessante-ma-di-certo-non-per-tutti-terry-allen-pedal-stealfour-corners/: solo grande musica. Houdini Didn’t Like The Spiritualists (titolo super) è una splendida ballata dal chiaro sapore texano, limpida e distesa, in cui Terry duetta alla grande con la McNally in un tripudio di chitarre acustiche, slide, fisarmonica e violino ed un ritornello delizioso: un inizio notevole. Abandonitis è più ritmata, elettrica e spigolosa, ma è smussata dalla fisa e dalla slide di Maines, e poi l’incedere del brano tra country e rock è decisamente coinvolgente; Death Of The Last Stripper, scritta da Terry con la moglie Jo Harvey Allen e con Dave Alvin, è un’altra Texas ballad pura e cristallina, di nuovo servita da una melodia di prima qualità e da un’intensità non comune, merito anche della voce carismatica del nostro. All That’s Left Is Fare-Thee-Well prosegue sullo stesso stile, una canzone di confine dal pathos incredibile eseguita a tre voci (canta anche Sexton, che è co-autore del pezzo con Terry e Joe Ely) e con intermezzi strumentali da pelle d’oca, grazie all’onnipresente fisa di Bukka e a Maines, qui al dobro.

La lenta Pirate Jenny alterna strofe intense e profonde in cui Allen quasi parla al solito squisito refrain a due voci, mentre American Childhood è uno dei punti cardine del disco, una sorta di mini-suite in tre movimenti che fa crescere ulteriormente di livello il lavoro, e che inizia con la trascinante Civil Defense, elettrica e bluesata, prosegue con l’incalzante Bad Kiss e termina con la mossa e vibrante Little Puppet Thing, altro brano dallo sviluppo strumentale splendido ed influenze quasi tzigane. La pianistica All These Blues Go Walkin’ By è semplicemente meravigliosa, una ballatona cantata (solo da Shannon) e suonata in modo sontuoso, da brividi lungo la schiena, che contrasta apertamente con la saltellante City Of The Vampires, quasi cabarettistica nell’accompagnamento ma dannatamente seria nell’insieme ed indubbiamente coinvolgente. Il CD si chiude con la languida Harmony Two, una incantevole country song d’altri tempi, direi anni cinquanta, e con Sailin’ On Through, altra irresistibile ballata tipica del nostro, nuovamente intrisa di Texas fino al midollo.

Un grande disco questo Just Like Moby Dick, un lavoro che, pur essendo uscito alla fine di Gennaio, ritroveremo a Dicembre in molte classifiche di fine anno.

Marco Verdi

Una Ristampa Interessante, Ma Di Certo Non Per Tutti! Terry Allen – Pedal Steal/Four Corners

terry allen pedal steal

Terry Allen – Pedal Steal/Four Corners – Paradise Of Bachelors 3CD/LP

Se siete abituali frequentatori di questo blog non devo dirvi io chi è Terry Allen: texano, cantautore e musicista geniale e spesso dissacrante, ma anche artista a 360 gradi, pittore, scultore e chi più ne ha più ne metta. Una figura non da poco quindi, talmente originale e bonariamente “fuori di testa” da attirare l’attenzione di David Byrne, un altro non proprio normale, che nel 1986 lo volle come collaboratore nel suo celebre progetto True Stories. Musicalmente Allen negli ultimi anni ha parecchio diradato i suoi contributi: Bottom Of The World, il suo album più recente, è del 2013, e seguiva il precedente Salivation dopo ben 14 anni; ma Terry non è mai stato molto prolifico come musicista in proprio, anche se in passato ci ha regalato almeno un capolavoro assoluto come Lubbock (On Everything) https://discoclub.myblog.it/2016/10/27/due-notevoli-ristampenel-segno-del-texas-steve-earle-guitar-townterry-allen-lubbock-on-everything/  ed altri grandi dischi come Juarez, Human Remains e lo stesso Salivation.

Nel 1985 Allen ricevette dalla Margaret Jenkins Dance Company di San Francisco l’incarico di comporre una colonna sonora per un balletto (!), e la risposta fu Pedal Steal, una suite della durata di poco più di mezz’ora idealmente basata sulla figura di Wayne Gailey, suonatore di steel guitar semisconosciuto ma molto considerato da Allen. Pedal Steal venne messo in commercio all’epoca insieme a Rollback, un album di canzoni più canoniche, e riedito in CD solo nel 2006 (senza Rollback). Oggi la Paradise Of Bachelors ristampa una versione rimasterizzata (devo dire in maniera eccelsa) di Pedal Steal, e lo fa in grande stile, in una confezione identica a quella di un doppio LP “gatefold” con il CD dell’opera, il vinile contenente lo stesso album, e soprattutto altri due CD che contengono altri quattro lavori di Allen, quattro drammi radiofonici andati in onda tra il 1986 ed il 1993 ma mai pubblicati prima né in vinile né in CD, ed anch’essi della durata di 30 minuti circa ciascuno, con l’aggiunta finale di un bel booklet formato maxi con tutti i testi e foto rare di dipinti e sculture che rivelano l’arte visionaria di Allen.

I titoli delle quattro “radio plays” sono Torso Hell (1986, all’epoca circolato brevemente in musicassetta, ma sfido chiunque a dimostrare di possederne una copia), Bleeder (1990), Reunion (Return To Juarez) (1992) e Dugout (1993), qui rinominate per brevità Four Corners, come si fossero quattro elementi della stessa suite (ma gli argomenti trattati sono diversissimi tra loro). Aspettate però a fregarvi le mani compiaciuti, in quanto qui il Terry Allen cantautore è molto poco presente, in quanto sia Pedal Steal che le quattro parti di Four Corners sono in realtà dei lunghi racconti (anche abbastanza “strani”) con la maggioranza di parti narrate, in gran parte da Terry stesso e dalla moglie Jo Harvey Allen, e di musica ce n’è davvero poca. Delle cinque opere, Pedal Steal è forse quella con più equilibrio tra narrazione e musica, ma siamo sempre su un rapporto di 75/25, anche se il gruppo che accompagna Allen (chiamato per l’occasione The Panhandle Mystery Band) presenta nomi di tutto rispetto come Lloyd Maines (che tra le varie chitarre suona anche la pedal steel, lo strumento ovviamente principale), Richard Bowden al violino e mandolino, Bobby Keys e Don Caldwell ai sassofoni e Butch Hancock come special guest.

Come ho già detto Pedal Steal è composto da un’unica traccia, una narrazione con tanto di pause, rumori ambientali e diavolerie varie, qualche parte strumentale di collegamento ma anche frammenti di canzoni, ed i pochi brani completi sono comunque interrotti dalla parte narrata, per poi riprendere. Le parti musicali sono sublimi (ma, ripeto, troppo brevi, spesso finiscono quando ci si comincia a prendere gusto), come l’introduzione in cui spicca la steel di Maines, o Billy The Boy, uno strepitoso brano dal sapore messicano, o ancora la scintillante Fort Sumner, bellissima country song per chitarre acustiche, elettriche e marimba, o ancora Lonely Road, un pezzo dal sapore western diretto e vibrante. C’è anche un lungo assolo quasi distorto di steel, alla Jimi Hendrix, e due brani non di Allen, cioè un breve accenno all’evergreen Sentimental Journey per solo sax ed il traditional Give Me The Flowers, splendidamente eseguito da Hancock, voce e chitarra.

Un’opera dunque affascinante, ma capisco che l’ascolto possa non essere facile, soprattutto se siete abituati al Terry Allen “semplice” songwriter. Torso Hell è ancora più straniante: nato da un’idea per un film horror mai realizzato (si parla della vita post-guerra di un reduce dal Vietnam senza braccia e gambe, ma miracolosamente vivo, ed il tutto è raccontato in maniera anche piuttosto cruda), è narrato al 90% e le poche parti strumentali sono prodotte da synth e tastiere, più degli effetti che musica vera e propria. Nelle altre tre mini-suite ci sono strumenti più “convenzionali” (tutti suonati da Allen, Maines e Bowden), ma anche qui le parti parlate la fanno da padrone e di musica vera ce n’è poca, per non parlare di canzoni: solo brevi accenni al traditional Auld Lang Syne, al classico gospel Rock Of Ages ed alla cover del brano di Carl Perkins Dixie Fried in Bleeder, qualche intermezzo strumentale tra Messico e musica “desertica” (alla Ry Cooder) in Reunion, e praticamente nulla in Dugout.

In conclusione, una ristampa che non manca di interesse, ma che può risultare decisamente  complessa e poco digeribile per l’ascoltatore “casuale”, e che mi sento di consigliare tuttalpiù ai die-hard fans di Terry Allen.

Marco Verdi

Dopo Quello A Van Zandt, Un Altro Toccante Omaggio Ad Un Grande Texano. Steve Earle & The Dukes – Guy

steve earle guy

Steve Earle & The Dukes – Guy – New West CD

Esattamente dieci anni fa Steve Earle pubblicò Townes, un bellissimo album nel quale il cantautore di Guitar Town omaggiava la figura e le canzoni del grande Townes Van Zandt, leggendario songwriter texano che fu una vera e propria ossessione per il giovane Steve, che fin dai primi anni settanta si era messo in testa di doverlo incontrare a tutti i costi (poi riuscendoci), in quanto suo idolo assoluto all’epoca. In questa operazione di ricerca, ad un certo punto Earle si imbatté anche nella figura di Guy Clark, che in quel periodo era considerato un cantautore di belle speranze ma non aveva ancora pubblicato alcunché. L’esordio di Clark però, il formidabile Old # 1 (1975), provocò un terremoto nel mondo musicale texano (e di Nashville, dove fu registrato), ed ancora oggi è considerato tra i più importanti dischi di cantautorato country di sempre. Ebbene, quel disco vide anche la prima apparizione ufficiale di Steve, alle backing vocals, in quanto Guy si era nel frattempo preso a cuore le vicende del nostro insegnandogli i segreti del songwriting e diventando per lui una sorta di mentore. Ed Earle negli anni non ha mai dimenticato quello che Clark e Van Zandt hanno significato per lui, citandoli più volte come fonte di ispirazione primaria e riconoscendo che per la sua formazione sono stati più importanti di Bob Dylan; in più, tra i tre si era sviluppata una profonda amicizia sia personale che artistica, che era culminata con la pubblicazione nel 2001 del live a tre Together At The Bluebird Café.

Oggi Steve completa il discorso idealmente cominciato nel 2009 con Townes e pubblica Guy, che fin dal titolo fa capire che questa volta al centro del progetto ci sono le canzoni di Clark. Ed il disco è, manco a dirlo, davvero splendido, di sicuro al pari di Townes ma secondo me anche superiore, e vede un Earle più ispirato che mai regalarci una serie di interpretazioni di brani di livello altissimo inerenti al songbook clarkiano. D’altronde Steve ultimamente è in gran forma: il suo ultimo lavoro, So You Wanna Be An Outlaw (che segnava il ritorno alle atmosfere country-rock delle origini https://discoclub.myblog.it/2017/07/05/uno-splendido-omaggio-al-country-texano-anni-settanta-steve-earle-the-dukes-so-you-wannabe-an-outlaw/ ), è stato uno dei migliori dischi del 2017, e l’album di duetti con Shawn Colvin dell’anno prima Colvin & Earle era un divertissement fatto con classe. Per Guy Earle non ha chiaramente dovuto occuparsi della stesura delle canzoni (come per Townes, d’altronde), dovendo comunque limitarsi ad escluderne parecchie per riuscire a stare dentro un album singolo, data la qualità assoluta del songbook appartenente al cantautore texano. Avendo quindi i brani già belli e pronti, Steve li ha comunque interpretati con cuore, passione, amore e grande rispetto, aiutato, a differenza di Townes che era accreditato al solo Steve (e con la presenza di musicisti di studio), dai fidi Dukes: Chris Masterson, chitarra, Eleanor Whitmore, violino, mandolino e chitarra, Ricky Ray Jackson, steel guitar, Kelley Looney, basso, e Brad Pemberton alla batteria; il disco ha quindi un bel suono country-rock robusto e vigoroso, lo stesso di So You Wanna Be An Outlaw.

Un’ora netta di musica, sedici canzoni una più bella dell’altra, tra brani di stampo folk, momenti di puro country texano e qualche sconfinamento nel rock: i superclassici di Clark ci sono tutti, dalla mitica Desperados Waiting For A Train (versione da pelle d’oca, con la voce di Steve che quasi si spezza) alla drammatica The Randall Knife, passando per capolavori come Texas 1947, L.A. Freeway (grandissima versione), Rita Ballou, stupenda anch’essa, ed una That Old Time Feeling più toccante che mai. Ma Earle ed i suoi Dukes dicono la loro anche nei pezzi meno famosi, a partire da una potente ripresa della splendida Dublin Blues, title track di uno degli album più belli di Clark: ritmo acceso, arrangiamento quasi alla Waylon con chitarre, violino e steel in evidenza e la voce arrochita ma espressiva del nostro come ciliegina. Oppure la meno nota The Ballad Of Laverne And Captain Flint, puro country con bel refrain corale, la toccante ballata Anyhow I Love You, che non ricordavo così bella, la guizzante e swingata Heartbroke, una strepitosa Out In The Parking Lot elettrica, roccata e che sembra uscire direttamente da Copperhead Road, o ancora la struggente She Ain’t Going Nowhere, in assoluto una delle ballate più belle di Guy. C’è anche un pezzo, The Last Gunfighter Ballad, non inciso oggi, ma risalente allo splendido tributo a Clark This One’s For Him del 2011, una versione spoglia voce e chitarra che evidentemente Steve pensava non fosse necessario rifare. Per finire poi con l’intensa ed emozionante Old Friends, un inno all’amicizia in cui Earle è accompagnato da un dream team di musicisti, che comprende i vecchi compagni di Clark Shawn Camp e Verlon Thompson a mandolino e chitarra, Mickey Raphael naturalmente all’armonica, e soprattutto il contributo alle lead vocals di gente come Emmylou Harris, Terry Allen, Jerry Jeff Walker e Rodney Crowell.

Degno finale per un disco di rara bellezza.

Marco Verdi

Un Bellissimo Tributo…Made In Italy! When The Wind Blows -The Songs Of Townes Van Zandt

when the wind blows the songs of townes van zandt

VV.AA. – When The Wind Blows: The Songs Of Townes Van Zandt – Appaloosa/IRD 2CD

Ogni tanto anche in Italia, in campo musicale, sappiamo fare le cose per bene: When The Wind Blows è uno splendido tributo alle canzoni del grande Townes Van Zandt, songwriter texano scomparso ormai da più di vent’anni ma ancora di enorme importanza ed influenza per molti, ed è stato fortemente voluto da Andrea Parodi, che ha prodotto il doppio CD (32 canzoni, due ore di musica) insieme a Jono Manson, musicista americano ma che ultimamente è spesso coinvolto in progetti “nostrani”. Ed il disco, oltre ad essere molto bello ed a comprendere il meglio del songbook di Van Zandt, è caratterizzato dalla presenza di un cast internazionale di livello eccelso, con diversi nomi di alto profilo ed altri meno conosciuti, ma sempre nel nome della professionalità e della grande musica; l’unica cosa in cui il doppio CD è un po’ carente e nelle informazioni, dato che mancano i sessionmen presenti nei vari pezzi, e le liner notes si limitano ad una presentazione (in inglese) del Townes Van Zandt Festival che si svolge ogni anno a Figino Serenza, nel comasco. *NDB Comunque proprio a quel link contenuto nel libretto http://townesvanzandtfestival.com/index.php/cd trovate tutte le informazioni sui musicisti che suonano nell’album, brano per brano).

L’album parte con la splendida Snowin’ On Raton, affrontata da Jaime Michaels con piglio da vero countryman, limpida e deliziosa; non conoscevo Luke Bolla, ma la sua Heavenly Houseboat Blues (con Paolo Ercoli) è davvero riuscita, una ballata acustica cristallina, suonata e cantata in maniera emozionante, ed anche lo svedese Christian Kjellvander non lo avevo mai sentito, ma credetemi se vi dico che Tower Song è da brividi, solo voce e chitarra ma un feeling “alla Chip Taylor” ed un timbro caldo e profondo. Ecco arrivare un tris d’assi, uno dietro l’altro: il grande Terry Allen si fa sentire ormai di rado, ed è un vero peccato in quanto è ancora in forma smagliante, e la sua White Freightliner Blues è solida, ritmata ed elettrica; anche Joe Ely ha diradato di molto la sua produzione negli ultimi anni, ed è dunque un piacere sentirlo tonico ed in palla nella toccante If I Needed You, mentre Thom Chacon conferma il suo ottimo momento con una Still Looking For You folkeggiante e bellissima. Non mi metto a citare tutti i partecipanti per non dilungarmi, ma mi limito a quelli che raggiungono o sfiorano l’eccellenza (e già questi non sono pochi): il bravo Slaid Cleaves ci regala una Colorado Bound per voce e strumenti a corda molto suggestiva, Andrea Parodi fa sua con piglio sicuro la nota Tecumseh Valley traducendola liberamente in italiano (non mi sembra che Townes citasse Genova ed Alghero…), ma fornendo una delle prove migliori e più creative del lavoro, mentre David Corley, con una voce a metà tra Van Morrison e Tom Waits tira fuori una To Live Is To Fly decisamente intensa.

My Proud Mountains nelle sapienti mani dei Session Americana è puro folk (con un ottimo crescendo strumentale), la bella voce di Kimmie Rhodes, accompagnata solo dallo splendido pianoforte di Bobbie Nelson (sorella di Willie), fa un figurone in Catfish Song, mentre il sempre più bravo Sam Baker (autore anche del disegno in copertina) dà il suo contributo con una struggente e quasi fragile Come Tomorrow; il primo CD termina con Malcolm Holcombe alle prese con una Dollar Bill Blues dal sapore western. Il secondo dischetto comincia con l’ottimo Jono Manson che rilascia una limpida e countreggiante At My Window, seguito dal redivivo Chris Jagger (fratello di Mick) che ci delizia con Ain’t Leavin’ Your Love, in puro stile folk-blues. Tra gli highlights da segnalare una drammatica Highway Kind ad opera di Chris Buhalis, la vibrante Flyin’ Shoes da parte di Radoslav Lorkovic, emozionante (e che pianoforte) ed una roccata ed energica Loretta, affidata a James Maddock, sempre più bravo anche lui. Non conosco Jeff Talmadge, ma la folkie I’ll Be Here In The Morning affidata a lui è scintillante, a dir poco, così come la profonda Lungs nelle mani di Richard Lindgren, mentre l’attore e cantante Tim Grimm fa sua Colorado Girl con classe e feeling. Waiting Around To Die, uno dei pezzi più cupi di Townes, è perfetta per Michael McDermott, ed il capolavoro assoluto del texano, Pancho & Lefty, una delle più belle canzoni di sempre in assoluto, viene affrontata con bravura e rispetto dal newyorkese Paul Sachs, una rilettura lenta nella quale la melodia risalta in tutta la sua bellezza. Chiude Jack Trooper, figlio di Greg, con il puro folk dal sapore quasi irlandese di Our Mother The Mountain.

Un tributo eccellente quindi, realizzato in maniera professionale e contraddistinto dal grande amore e rispetto dei partecipanti per la figura di Townes Van Zandt, il tutto senza protagonismi e, per citare un brano del grande texano, “for the sake of the songs”.

Marco Verdi

Due Notevoli Ristampe…Nel Segno Del Texas! Steve Earle – Guitar Town/Terry Allen – Lubbock (On Everything)

steve earle guitar town deluxe

Steve Earle – Guitar Town/30th Anniversary Edition – MCA/Universal 2CD

Terry Allen – Lubbock (On Everything) – Paradise Of Bachelors 2CD

Parliamo di due ristampe, ma non ristampe qualsiasi, in quanto nella fattispecie si tratta di due dischi a loro modo fondamentali, l’uno perché ha dato il via ad una carriera luminosa (e l’album in sé è considerato tra i più importanti nell’ambito della rinascita del country nella seconda metà degli anni ottanta), ed il secondo perché è semplicemente un capolavoro, il miglior lavoro di uno degli artisti di culto per eccellenza: entrambi i dischi, poi, hanno il Texas come elemento in comune.

Steve Earle, a dire il vero, è sempre stato un texano atipico, in quanto ha vissuto per anni a Nashville e da parecchio si è spostato a New York, ma la sua musica, almeno nei primi anni, risentiva non poco dell’influenza del Lone Star State. Penso che un disco come Guitar Town non abbia bisogno di presentazioni: considerato giustamente come uno degli album cardine del movimento new country breed (solitamente associato a Guitars, Cadillacs di Dwight Yoakam, uscito lo stesso anno), contiene una bella serie di classici di Steve, brani che hanno resistito nel tempo e che ancora oggi suonano freschi ed attuali, in più con una qualità di incisione decisamente professionale (è stato uno dei primi album country ad essere inciso in digitale), che questa nuova edizione ha ulteriormente migliorato. Non dimentichiamo che Steve aveva avuto molto tempo per preparare queste canzoni, dato che aveva iniziato a frequentare l’ambiente giovanissimo già negli anni settanta (era nel giro di Guy Clark e Townes Van Zandt), ma non era mai riuscito a pubblicare alcunché prima del 1986, complice anche una fama di ribelle e di persona dal carattere poco accomodante (con già tre matrimoni falliti alle spalle, mentre oggi siamo arrivati a sette), che da lì a qualche anno lo condurrà anche dietro le sbarre. Earle nel corso della sua carriera ha suonato di tutto, dal rock, al folk, alla mountain music, al blues, ma Guitar Town, così come Exit 0 uscito l’anno dopo, era ancora un disco country, anche se molto elettrico e con poche concessioni al suono di Nashville, merito anche dei Dukes, band che accompagnerà Steve praticamente durante tutta la carriera, pur con vari cambi di formazione (questa prima versione vede gente del calibro di Richard Benentt, in seguito collaboratore fisso di Mark Knopfler, Bucky Baxter, poi per anni in tour con Bob Dylan, Harry Stinson ed Emory Gordy Jr., che produce anche il disco).

Guitar Town andrà al numero uno in classifica, ma Steve a questo non importerà, dato che da lì a due anni darà alle stampe il suo capolavoro, Copperhead Road, pieno di sonorità rock non molto nashvilliane, con grande scorno dalla MCA che pensava di fare di lui una superstar. E’ sempre un grande piacere riascoltare comunque grandi canzoni (e futuri classici del genere) come la title track, Good Ol’ Boy (Gettin’ Tough) e Someday, scintillanti country-rock come Goodbye’s All We’ve Got Left e Fearless Heart, o country puro come la tersa Hillbilly Highway, chiaramente influenzata da Hank Williams, ma anche esempi dello Steve balladeer, con le lucide ed intense My Old Friend The Blues e Little Rock’n’Roller (ma Think It Over e Down The Raod non sono certo dei riempitivi): tutti brani che se conoscete un minimo il nostro non vi saranno certo ignoti. Il secondo CD di questa edizione per il trentennale ci propone un concerto inedito, registrato a Chicago a Ferragosto dello stesso anno, inciso benissimo, e con Steve e Dukes  in gran forma che suonano tutte le canzoni di Guitar Town, in veste molto più rock che su disco (che qua e là qualche arrangiamento più “cromato” ce l’aveva), oltre a sette pezzi in anteprima da Exit 0 (su dieci totali), tra cui segnalerei la springsteeniana Sweet Little 66, il country’n’roll The Week Of Living Dangerously e la trascinante San Antonio Girl, uno splendido tex-mex in puro stile Sir Douglas Quintet, ed in più la sua signature song The Devil’s Right Hand, due anni prima di Copperhead Road ed in versione molto più country (ma l’aveva già incisa Waylon Jennings, che Steve ringrazia prima di suonarla) ed una solida rilettura elettrica di State Trooper, proprio quella del Boss.

terry allen lubbock

Terry Allen è invece sempre stato legato a doppio filo al natio Texas, dal momento che le sue canzoni ne hanno sempre parlato in lungo e in largo, e questa può essere una delle ragioni per le quali all’interno dei confini texani è una vera e propria leggenda, ma al di fuori non ha mai sfondato. Però Terry se ne è sempre fregato, ha sempre fatto musica quando aveva la voglia e l’ispirazione (appena nove dischi in quarantun anni parlano chiaro), e non ha mai cambiato il suo stile diretto, ironico e pungente, a volte persino “perfido”, al punto che l’ho sempre visto, dato che è anche un ottimo pianista, come una sorta di Randy Newman texano, ma con una vena sarcastica spesso ancora più accentuata, quasi a livello di Warren Zevon (che quando voleva sapeva essere cattivo come pochi). Anche apprezzato pittore, Allen è considerato in maniera un po’ riduttiva un artista country, ma in realtà è un songwriter fatto e finito, capace di scrivere canzoni geniali e di usare il country come veicolo espressivo. Il suo esordio, Juarez (già un ottimo disco) è datato 1975, ma è con il doppio Lubbock (On Everything), uscito quattro anni dopo, che il nostro firma il suo capolavoro, un disco pieno di grandi canzoni, che non ha una sola nota fuori posto, suonato e cantato alla grande e che negli anni è sempre stato considerato un album di grande ispirazione da parte dei suoi colleghi, e ancora oggi è giudicato uno dei progenitori del movimento alternative country. Negli anni Lubbock ha beneficiato di diverse ristampe in CD, ma tutte, volendolo far stare su un solo dischetto, presentavano diverse parti accorciate, canzoni in ordine diverso e talvolta persino eliminate (High Horse Momma), così da snaturare l’opera originale. Oggi finalmente esce per la Paradise Of Bachelors (*NDB etichetta specializzata in artisti oscuri, ma spesso interessanti: Hiss Golden Messenger, Itasca, Nathan Bowles, Steve Gunn, ma anche Michael Chapman) questa bellissima ristampa in doppio CD digipak, ricco libretto pieno di note e commenti (anche di Allen stesso), un suono parecchio rinvigorito e, cosa più importante, per la prima volta dal vinile originale le canzoni conservano la loro lunghezza e sono messe nell’ordine corretto. Ed il disco si conferma splendido, con Terry accompagnato da una band da sogno (con Lloyd Maines come direttore musicale, polistrumentista e produttore, più Ponty Bone alla fisarmonica, Kenny Maines e Curtis McBride a basso e batteria, Richard Bowden al violino, oltre a Joe Ely all’armonica ed al suo chitarrista dell’epoca Jesse Taylor).

Con una serie di canzoni splendide, a partire dalla più famosa, la straordinaria New Dehli Freight Train che era già stata pubblicata due anni prima dai Little Feat nell’album Time Loves A Hero, qui in una versione potente e più country di quella del gruppo di Lowell George, ma pur sempre un grandissimo brano. Il pianoforte è centrale in tutte le canzoni, fin dall’apertura di Amarillo Highway, una country song strepitosa, cantata con forza e suonata in modo magnifico, con un ritornello memorabile, subito seguita dalla languida High Plains Jamboree, tutta incentrata su piano e steel, dallo scintillante honky-tonk The Great Joe Bob e dalla straordinaria The Wolfman Of Del Rio, solo voce, piano e chitarra, ma con un motivo splendido ed un feeling enorme. E ho nominato solo le prime quattro, ce ne sono ancora diciassette, ma il livello resta sempre altissimo, a tal punto che la parola capolavoro non è sprecata: mi limito a citare la squisita The Girl Who Danced Oklahoma, puro country come oggi non si fa quasi più, l’irresistibile Truckload Of Art (ma dove le trovava canzoni così?), le imperdibili Oui (A French Song) e Rendezvous USA, con testi da sbellicarsi e musica sublime, la bossa nova anni sessanta Cocktails For Three, la già citata High Horse Momma, un gustoso pastiche in puro stile dixieland, le caustiche FFA e Flatland Farmer, unite in medley e con uno strepitoso finale chitarristico, la geniale The Pink And Black Song, tra rock’n’roll e doo-wop, e la deliziosa The Thirty Years War Waltz, tra le più belle del disco e con Terry formidabile al piano.

Se non avete Lubbock (On Everything) è assolutamente arrivato il momento di correre ai ripari, se viceversa possedete anche una delle precedenti ristampe non è strettamente necessario l’acquisto di quest’ultima edizione, ma almeno andate a risentirvelo.

Marco Verdi

Non Solo Cowboys, Tantissime Belle Canzoni! Tom Russell – The Western Years

tom russell the western years

Tom Russell – The Western Years – Rockbeat Records 2 CD

Tom Russell è uno dei migliori cantautori americani! Partiamo da questo assunto, e lo accantoniamo momentaneamente. L’arte della raccolta (di successi, ma qui non ne vedo), della compilation, se preferite, è un mestiere difficile da praticare. O ti lanci sui Greatest Hits, ma come detto in questo caso neanche l’ombra (per quanto, tra le cover qualcosa c’è), oppure sui Best Of, ma si può provare anche con la raccolta a tema. E questo The Western Years mi sembra rientri di diritto nella categoria. Compilati dallo stesso Russell, con l’aiuto di James Austin (o viceversa) i 2 CD non seguono la sequenza cronologica, che di solito è il modus operandi preferito per questi progetti, ma pescano qui e là nella copiosa discografia del nostro: 8 brani vengono da Indians Cowboys Horses Dogs (già i titoli dei dischi di Tom sono uno spettacolo in sé), 6 da Borderland, 5 da The Man From God Knows Where, uno ciascuno da The Rose Of San Joaquin e Hot Walker, 5 da un’altra antologia, Song Of The West – The Cowboy Collection, uno da Love And Fear e 2 da Blood and Candle Smoke, quello più recente, del 2009, più tre brani registrati dal vivo a Columbus, Ohio il 9/11/97, che sono la quota di inediti di questa antologia.

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Quindi sono raccolti gli anni che vanno dal 1995 al 2009: mancano le “origini”, quelle con Patricia Hardin, in un’altra vita, prima che il nostro amico, californiano di nascita, si trasferisse a New York, per sbarcare il lunario, per un breve periodo, facendo il tassista, come racconta lui stesso in un sapido aneddoto nelle note, che coinvolge il grande paroliere Robert Hunter, a cui uno sfiduciato ma sempre combattivo Russell fece sentire una canzone, che poi si rivelò essere Gallo Del Cielo https://www.youtube.com/watch?v=w2PUuTdei7k . Inutile dire che Hunter lo incoraggiò a riprendere la carriera di cantautore, ma ci voleva un sordo o un rappresentante di qualche casa discografica per non accorgersi del talento di questo signore. Ma questa è un’altra storia, lontana nel tempo, anche se parte tutto da lì, quella che dal 1984 al 1994 lo vide pubblicare una decina di album per la Philo Records, prima di approdare alla Hightone che gli pubblicò tutti gli album da cui attinge questa antologia. Il West è la “scusa” per questa raccolta, ma, diciamocelo francamente, Tom Russell è un grande narratore per canzoni, storie di vita e di eventi, piccoli e grandi, bozzetti che sono come racconti, dove ogni canzone è in sé una piccola poesia in musica (e che musica), il tutto cantato con una passione e una partecipazione che ha pochi riscontri nell’attuale canzone “popolare” americana (al sottoscritto la sua voce ricorda moltissimo quella di Guthrie Thomas, altro “grande”, ingiustamente dimenticato).

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Giustamente lo si accosta al filone texano, Joe Ely, Guy Clark, Terry Allen, Butch Hancock, Robert Earl Keen, Lyle Lovett, e se ne potrebbero aggiungere a decine, sono spiriti affini, ma Russell ha collaborato anche con Dave Alvin e Ian Tyson che certo texani non sono, e il suo autore preferito, spesso eseguito (in questa antologia ci sono due brani) è il sommo Bob Dylan. Però come ricordano alcune interviste riportate nell’interessante libretto che correda questo doppio, Tom si considera una persona del sud ovest, un Southwestern man, nel Texas ormai risiede il suo cuore, e probabilmente anche se vivesse in Groenlandia lo spirito dei suoi brani sarebbe sempre pervaso da questa idea di “West”. Poi le storie possono raccontare di galli da combattimento con un occhio solo, Gallo del Cielo, qui in versione live, ma secondo chi scrive, insuperabile nella versione donata agli annali della musica da Joe Ely in Letter To Laredo, ma anche canzoni tra fiction e realtà, come la bellissima Sitting Bull In Venice, che narra dell’incontro di Toro Seduto con la calli veneziane, quando venne in Europa insieme al circo di Buffalo Bill, https://www.youtube.com/watch?v=fIZlmjfwW4Y  o ancora i piccoli noir alla Raymond Chandler di The Man From God Knows Where che ci raccontano storie ambientate nella Los Angeles anni ’50, nell’infanzia di Russell. Ma anche semplicemente belle canzoni sentimentali e malinconiche come Bucking Horse Moon https://www.youtube.com/watch?v=1yTB0lVQHY0 , per non dire di un brano stupendo come California Snow, scritta con Dave Alvin, che non sentivo da anni e mi è parsa nuovamente bellissima https://www.youtube.com/watch?v=GzJNDxmAuFE . In fondo lo scopo di questa antologia è anche questo: riscoprire vecchie canzoni che magari non si ascoltavano da anni e, sentite tutte insieme fanno proprio un bel effetto.

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Certo comprarsi un doppio per tre inediti live (ovviamente chi ha già tutto, e chi legge questo spazio temo appartenga alla categoria) è una follia, in questi tempi duri di spending review; gli altri due dal vivo sono Navajo Rug https://www.youtube.com/watch?v=5JW_kl-2d78 , cantata con Katy Moffatt e The Sky Above, The Mud Below http://discoclub.myblog.it/2011/09/06/ma-allora-escono-ancora-dischi-belli-tom-russell-mesabi/ . Però so non lo conoscete, o nell’inevitabile “celo/manca”, il secondo prevale sul primo, direi che l’acquisto è imprescindibile! Almeno una hit (non nella versione di Russell) nel CD c’è, El Paso, un n°1 per il suo autore Marty Robbins, anche se nel libretto, unico errore, peraltro veniale, viene attribuita a Woody Guthrie. Ci sono due brani di Dylan, come ricordato, Seven Curses e Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts https://www.youtube.com/watch?v=uonjSyOku5Q  (ma sul recente Mesabi http://discoclub.myblog.it/2011/09/06/ma-allora-escono-ancora-dischi-belli-tom-russell-mesabi/  fa anche una stupenda A Hard Rain’s A Gonna Fall, che qui sarebbe fuori argomento), a dimostrazione della totale sintonia con le canzoni che vengono sempre reinterpretate in modo stupendo. Comunque le giriamo sono 34 canzoni di notevole spessore, tra cui ricorderei anche le cover di Prairie In The Sky di Mary McCaslin, Gulf Coast Highway di Nancii Griffith e The Ballad Of Sally Rose, una delle rare canzoni firmate da Emmylou Harris, con l’allora marito Paul Kennerly, nel primo periodo di carriera. Una curiosità statistica, El Paso, il brano di cui sopra, è stato eseguito ben 359 volte dal vivo dai Grateful Dead, il gruppo per cui proprio Robert Hunter ha firmato alcune delle sue più belle liriche e di cui Tom Russell, sempre nell’ottimo libretto, ricorda la mail che gli inviò in occasione della pubblicazione di Blood And Candle Smoke: “Grande musica. Grandi Testi. Ce l’hai fatta”, che mi sembra possa fotografare alla perfezione il contenuto di questa doppia compilation:

CD 1

  1. Tonight We Ride
  2. East Texas Red
  3. El Paso
  4. Little Blue Horse
  5. Hills Of Old Juarez
  6. Old Blue
  7. California Snow
  8. Sitting Bull In Venice
  9. Bucking Horse Moon
  10. Seven Curses
  11. Chickasaw County Jail
  12. Tramps & Hawkers
  13. Grapevine
  14. Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts
  15. Claude Dallas
  16. The Ballad Of William Sycamore

CD 2

  1. Dance Hall Girls
  2. El Llano Estacado
  3. Part 1 – The Man From God Knows Where
  4. Patrick Russell
  5. Down The Rio Grande (Aka Rio Grande)
  6. Prairie In The Sky
  7. Casey Jones
  8. Stealing Electricity
  9. Racehorse Haynes
  10. Gulf Coast Highway
  11. Bacon Rind, Chief Seattle, The Ballad Of Ira Hayes
  12. The Santa Fe At Midnight
  13. The Ballad Of Sally Rose
  14. American Rivers
  15. Santa Ana Wind
  16. Navajo Rug (Live)
  17. The Gallo Del Cielo (Live)
  18. The Sky Above, The Mud Below (Live)

 

Bruno Conti

Semplicemente Una Delle Più Grandi Band Di Sempre! Little Feat – Rad Gumbo: The Complete Warner Bros. Years 71-90

little feat rad gumbo

*NDB Torna il supplemento della Domenica Del Disco Club, dischi, gruppi e musicisti che hanno fatto la storia del Rock (e altro). Se il Blog fa giudizio, nei giorni festivi periodicamente c’è sempre spazio per questa rubrica: la parola a Marco!

Little Feat – Rad Gumbo: The Complete Warner Bros. Years 71-90 – Rhino/Warner 13 CD Box Set in uscita il 25-02-2014

Tra le mode discografiche degli ultimi tempi, una delle più apprezzate è la riproposizione delle discografie complete (o quasi) di gruppi o solisti che hanno fatto la storia della nostra musica, in piccoli box comodi e pratici, con tutti gli album in formato mini-LP, ad un prezzo il più delle volte contenuto (basti pensare al recente cofanetto dedicato a Ry Cooder): l’ultimo in ordine di tempo ad essere preso in esame è il periodo Warner, cioè il migliore, di uno dei gruppi americani cardine degli anni settanta, i Little Feat.

little feat rad gumbo back little feat rad gumbo open

Se leggete abitualmente questo blog sapete già di chi stiamo parlando, ma per quei pochi che ancora non li conoscono, questo box di 13 CD, che raccoglie tutta la discografia degli anni settanta più i premi due album della reunion di fine anni ottanta (ed una chicca che vedremo), è assolutamente indispensabile per colmare una grave lacuna nella propria discoteca personale.

Little-Feat live 1975

Formatisi nel 1969 a Los Angeles su iniziativa del geniale cantante e chitarrista Lowell George (già membro delle Mothers Of Invention di Frank Zappa, che aveva intuito prima di tutti il suo talento) e del tastierista Bill Payne, i Little Feat (che pare prendessero il nome dalla dimensione dei piedi di George) furono probabilmente il primo gruppo di Americana della storia (insieme a The Band, che però aveva una dimensione più rock) in quanto la loro musica fondeva mirabilmente rock, blues, errebi, country, funk, southern rock, boogie, marcate influenze di New Orleans ed in un secondo tempo perfino jazz e fusion.

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Lowell George era la vera punta di diamante del gruppo, un songwriter geniale ed anche ottimo chitarrista (purtroppo incostante e con brutte abitudini – leggi droghe ed alimentazione non proprio bilanciata – che lo porteranno ad una morte prematura), ma anche Payne era (è) un pianista della Madonna, ed i restanti membri del gruppo (Sam Clayton, Roy Estrada, sostituito dopo pochi anni da Kenny Gradney, Richie Hayward e Paul Barrere) un treno in corsa che in quegli anni aveva pochi rivali come backing band (Jimmy Page, non un pivello qualsiasi, dichiarò che i Feat erano il suo gruppo americano preferito).

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E’ quindi un piacere immenso ripercorrere l’epopea della band californiana, dall’esordio del 1971 Little Feat, un disco ancora un po’ acerbo e parzialmente influenzato dal blues, ma con un futuro classico come Truck Stop Girl ed una prima versione simil-demo del loro capolavoro, Willin’ (e Ry Cooder in session), ai due album seguenti, gli imperdibili Sailin’ Shoes e Dixie Chicken, due dischi da cinque stelle che hanno imposto i Feat come una delle realtà più brillanti del periodo: brani come Tripe Face Boogie, A Apolitical Blues, Cold Cold Cold, Teenage Nervous Breakdown, la stupenda Dixie Chicken, un brano così “New Orleans” che sembra impossibile sia stato scritto da un californiano, Fat Man In The Bathtub, Roll Um Easy e la meravigliosa Willin’, in assoluto una delle più belle canzoni della decade (e non solo).

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In più, comincia con questi due album l’iconica serie di artwork ad opera di Neon Park, tra il surreale e l’umoristico, che diventerà un punto fermo della discografia della band; Feats Don’t Fail Me Now, del 1974, ha la sfortuna di venire dopo due capolavori come i due album precedenti, ma è comunque un signor disco, con una prima facciata quasi perfetta (Rock & Roll Doctor, Oh Atlanta, Skin It Back, Down The Road  e Spanish Moon) e con Emmylou Harris e Bonnie Raitt ospiti.

A questo punto della carriera comincia la fase discendente: George inizia ad avere seri problemi fisici e si disinteressa sempre di più delle sorti del gruppo (terrà il meglio per sé stesso, pubblicandolo poi nell’ottimo album solista Thanks I’ll Eat It Here), mentre il resto della band, con Payne in testa, pretende di avere più spazio ed introduce nel suono elementi jazzati e quasi fusion.

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Si sa che nelle band la democrazia ha sempre funzionato poco (basti pensare all’ultimo album dei Creedence, Mardi Gras, o ai brani dei Grateful Dead non scritti da Jerry Garcia), ed i due lavori che i Feat pubblicano in questo periodo, The Last Record Album e Time Loves A Hero, sono i meno interessanti della loro discografia: si salvano chiaramente i (pochi) brani a firma di George (specialmente Rocket In My Pocket) ed una splendida versione di New Delhi Freight Train di Terry Allen.

Little_Feat_-_Waiting_for_Columbus

Dal vivo però il sestetto continua ad essere una formidabile macchina da guerra, come testimonia il fantastico live del 1978 Waiting For Columbus (l’unico doppio CD presente in questo box), un album imperdibile nel quale tutti i classici del gruppo vengono proposti nella loro versione definitiva, un momento di ispirazione generale che ha pochi eguali nella storia della musica (personalmente è nella mia Top 3 dei dischi live anni 70, subito dopo il Live At Fillmore East degli Allman e Rock And Roll Animal di Lou Reed, con Made In Japan dei Deep Purple a fungere da disturbatore).

Little_Feat_-_Down_on_the_Farm

Le condizioni di salute di George sono però sempre più critiche, e la situazione precipiterà durante le sessions per Down On The Farm, quando il talentuoso musicista viene trovato morto per un attacco di cuore (causato da anni di stravizi): il resto della band porterà a termine da sola il disco (che per ironia della sorte è meglio dei due precedenti lavori di studio) per poi annunciare lo scioglimento.

Hoy_hoy

Ma la storia non finisce qui: nel 1981 esce Hoy Hoy!, una collezione di brani live inediti e di demos ed outtakes di studio (un ottimo disco, in quanto c’è dentro parecchio Lowell George) e, nel 1988, la reunion a sorpresa dei membri originali, con l’aggiunta del chitarrista Fred Tackett e, al posto di George, di Craig Fuller, ex membro dei Pure Prairie League.

Little_Feat_-_Let_It_Roll Little_Feat_-_Representing_the_Mambo

I primi due album della nuova formazione sono anche gli ultimi (o quasi) di questo box: Let It Roll è un buon disco, suonato alla grande (i Feat sono sempre dei grandi musicisti), anche se si sente la mancanza del genio di George, mentre Representing The Mambo è più riuscito, grazie soprattutto ad una serie di canzoni di qualità superiore.

La carriera dei Little Feat proseguirà fino ad oggi, tra dischi buoni, un paio ottimi (Ain’t Had Enough Fun e Join The Band, sorta di auto-tributo con grandi ospiti) ed altri più ordinari, l’uscita di Fuller e l’ingresso (e poi uscita) della vocalist Shaun Murphy e, purtroppo, la perdita recente (nel 2010) di Hayward, andato a far compagnia a George a causa di un cancro al fegato.

little feat hot cakes

Il box in questione non prende in considerazione questi album, in quanto usciti per altre etichette, ma ha in serbo un’ultima sorpresa: un CD intitolato Outtakes From Hotcakes, pieno di inediti in studio e live del loro periodo d’oro, una vera leccornia finora disponibile soltanto all’interno del box di quattro CD Hotcakes And Outtakes, uscito nel 2000.

Motivo in più, insieme al costo non elevato, per accaparrarsi questo cofanettino: dentro c’è musica tra la migliore degli ultimi quarant’anni.

Marco Verdi

Novità Di Febbraio Parte II. Nick Cave & Bad Seeds, Son Of Rogues Gallery, Terry Allen, Jerry Garcia, Dawn McCarthy & Bonnie Prince Billy, Endless Boogie, Otis Taylor, Fabulous Thunderbirds

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Nonostante l’incremento nel numero di recensioni dei CD che non appaiono in questa rubrica, ultimamente anche due o tre Post al giorno (grazie anche ai collaboratori), il numero delle uscite interessanti è sempre soverchiante. Per cui oggi prima tranche delle uscite di martedì 19 febbraio (e qualche titolo già uscito), domani il resto con qualche anticipazione di quelle di martedì 26. Per cui partiamo con:

Nick Cave & The Bad Seeds tornano con un nuovo album, Push The Sky Away, il 15° con la band dopo una serie di colonne sonore e dischi con i Grinderman, oltre a Dig!!!Lazarus, Dig!!!, che era formalmente a nome Bad Seeds ma aveva delle sonorità decisamente più durette. Qui si torna al sound classico di Nocturama più che a quello di Abattoir Blues/The Lyre Of Orpheus. L’etichetta è Bad Seed Ltd, e il disco esce in due versioni, quella normale con 9 brani e una versione Deluxe con DVD, che contiene altre due tracce con immagini create appositamente per le due canzoni bonus, oltre ad un libretto di 32 pagine (l’immagine la vedete qui sopra). L’album è stato registrato in Francia con il produttore Nick Launay, ma senza Mick Harvey, per la prima volta, in uno studio, Le Fabrique, che ha le pareti foderate di vecchi vinili di musica classica e quindo, ovviamente, l’atmosfera sonora ne ha risentito. Da quello che ho sentito mi sembra molto bello, un ritorno al Nick Cave che amo di più. Il nostro amico appare anche in…

Son Of Rogues Gallery – Pirate Ballads, Sea Songs & Chanteys il secondo capitolo, sempre pubblicato dalla Anti, dei brani dedicati alle canzoni dei pirati. Produce sempre Hal Willner ed i partecipanti sono i seguenti:

Track Listing

Disc 1:

  1. Leaving of Liverpool (Shane MacGowan w/Johnny Depp & Gore Verbinski)
  2. Sam’s Gone Away (Robyn Hitchcock)
  3. River Come Down (Beth Orton)
  4. Row Bullies Row (Sean Lennon w/Jack Shit)
  5. Shenandoah (Tom Waits w/Keith Richards)
  6. Mr. Stormalong (Ivan Neville)
  7. Asshole Rules the Navy (Iggy Pop w/A Hawk and a Hacksaw)
  8. Off to Sea Once More (Macy Gray)
  9. The Ol’ OG (Ed Harcourt)
  10. Pirate Jenny (Shilpa Ray w/Nick Cave & Warren Ellis)
  11. The Mermaid (Patti Smith & Johnny Depp)
  12. Anthem for Old Souls (Chuck E. Weiss)
  13. Orange Claw Hammer (Ed Pastorini)
  14. Sweet and Low (The Americans)
  15. Ye Mariners All (Robin Holcomb & Jessica Kenny)
  16. Tom’s Gone to Hilo (Gavin Friday and Shannon McNally)
  17. Bear Away (Kenny Wollesen & The Himalayas Marching Band)

Disc 2:

  1. Handsome Cabin Boy (Frank Zappa & the Mothers of Invention)
  2. Rio Grande (Michael Stipe & Courtney Love)
  3. Ship in Distress (Marc Almond)
  4. In Lure of the Tropics (Dr. John)
  5. Rolling Down to Old Maui (Todd Rundgren)
  6. Jack Tar on Shore (Dan Zanes w/Broken Social Scene)
  7. Sally Racket (Sissy Bounce (Katey Red & Big Freedia) with Akron/Family)
  8. Wild Goose (Broken Social Scene)
  9. Flandyke Shore (Marianne Faithfull w/Kate & Anna McGarrigle)
  10. The Chantey of Noah and his Ark (Old School Song) (Ricky Jay)
  11. Whiskey Johnny (Michael Gira)
  12. Sunshine Life for Me (Petra Haden w/Lenny Pickett)
  13. Row the Boat Child (Jenni Muldaur)
  14. General Taylor (Richard Thompson w/Jack Shit)
  15. Marianne (Tim Robbins w/Matthew Sweet & Susanna Hoffs)
  16. Barnacle Bill the Sailor (Kembra Phaler w/Antony/Joseph Arthur/Foetus)
  17. Missus McGraw (Angelica Huston w/The Weisberg Strings)
  18. The Dreadnought (Iggy Pop & Elegant Too)
  19. Then Said the Captain to Me (Two Poems of the Sea) (Mary Margaret O‘Hara)

Ovviamente il brano di Frank Zappa non è stato creato appositamente per l’occasione, a differenza di tutti gli altri brani. Anche questo molto buono.

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Altre tre uscite, un paio già disponibili e una in uscita martedì.

Ritorno anche per Terry Allen. L’ultimo disco ufficiale, Salivation, era del 1999, anche se aveva fatto una apparizione nel disco di Ryan Bingham del 2007, Mescalito e nel 2012 è uscito un CD dal vivo, autodistribuito, registrato nel 1971. Bottom Of The World è uscito il 22 gennaio per la propria etichetta e vede la partecipazione, oltre ad Allen, piano e tastiere, di Lloyd Maines, immancabile alle chitarre, Richard Bowden, viola e mandolino, Richard Standefer, al cello, oltre al figlio Bukka Allen, organo B3 e accordion, e moglie al seguito Sally, alle armonie vocali. Il nostro amico Terry, ne fa pochi ma quasi sempre buoni e questo è tra i migliori.

Annunciato da parecchi mesi esce in questi giorni il primo capitolo di una nuova serie di materiale d’archivio dal vivo della Jerry Garcia Band, si intitola Garcia Live Volume One March 1st 1980 Capitol Theater. Triplo CD pubblicato dalla ATO Records, questa la tracklisting:

Early Show

  1. Sugaree
  2. Catfish John
  3. How Sweet It Is
  4. Simple Twist of Fate
  5. Sitting in Limbo >
  6. That’s All Right
  7. Deal

Late Show:

  1. Mission in the Rain
  2. That’s What Love Will Make You Do
  3. Russian Lullaby
  4. Tiger Rose (w/ Robert Hunter)
  5. The Harder They Come
  6. Promontory Rider (w/ Robert Hunter)
  7. Midnight Moonlight
  8.  Dear Prudence

Nelle varie incarnazioni di Will Oldham, quella come Bonnie Prince Billy è una delle più ricorrenti. Questo volta in coppia con la cantante Dawn McCarthy ci propone uno dei capitoli più piacevoli e di gradevole ascolto, un CD tutto dedicato ai brani che erano nel repertorio degli Everly Brothers, When The Brothers Sang, pubblicato come di consueto dalla Domino Records, è cantato quasi sempre all’unisono dai due vocalists per ricreare le armonie classiche dei fratelli Everly, uno dei grandi e più influenti gruppi nella storia del rock, da Simon & Garfunkel in giù. Tra i brani è presente anche una cover di Somebody help me, uno dei brani più belli dello Spencer Davis Group di Steve Winwood che lo avevano cantato ed inciso un anno prima degli Everly Brothers.

 

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Un terzetto blues, con diversi stili e punti di vista sul genere.

Gli Endless Boogie sono un quartetto di blues-rock psichedelico che viene dall’area di Brooklyn, New York, non per niente il nuovo disco si chiama Long Island, esce su etichetta No Quarter e ci danno dentro alla grande. 8 brani per un totale di 79 minuti, ma nel precedente ce n’era uno di quasi 23 minuti, sentire please…tra Blue Cheer e stoner rock, ma anche Canned Heat, vai col boogie!

Otis Taylor ci sorprende ad ogni disco con qualche sorpresa. Questa volta è il caso di un disco dove il suo classico Blues (classico, ma molto personale) si incrocia con la musica dei Nativi Americani nella persona di Mato Nanji, il leader degli Indigenous, quindi anche sonorità più elettriche del solito, per questo My World Is Gone che esce, come di consueto per la Telarc.

Altro ritorno, quello dei Fabulous Thunderbirds, a otto anni dal precedente Painted On, questo On The Verge, il primo edito dalla Severn, presenta per la prima volta su disco, la band di Kim Wilson, con la nuova formazione che vede la presenza dei fratelli Moeller, Jay alla batteria e l’eccellente Johnny alla chitarra (forse il più adatto a raccogliere l’eredità di Jimmie Vaughan, come ha dimostrato il suo disco solista del 2010, Bloogaloo, anche se deve mangiarne ancora di pagnotte). Mike Keller alla seconda chitarra e Jason Bermudes al basso completano la formazione. Electric Texas Blues come di consueto. Il video non c’entrerebbe, però è bello e c’è Kim Wilson all’armonica.

Per oggi basta, alla prossima!

Bruno Conti