Non Avrei Mai Pensato Che Un Giorno Lo Avrei Recensito! Neil Young – Homegrown

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Neil Young – Homegrown – Reprise/Warner CD

A volte il destino è strano: finalmente ti decidi a far uscire ufficialmente un disco che hai nei cassetti da 45 anni e che è forse il principale desiderio nascosto (ma neanche troppo) dei tuoi fans, e con tutte le date a disposizione vai a scegliere quella in cui Bob Dylan pubblica il suo primo album di canzoni nuove in otto anni, ed uno dei suoi migliori delle ultime due decadi. Ma, facezie a parte, un po’ ancora non ci credo che sono qui a parlarvi di Homegrown, album registrato da Neil Young tra il 1974 ed il 1975 che in origine doveva rappresentare una sorta di seguito di Harvest, ma che poi è stato lasciato da parte diventando uno dei maggiori oggetti del desiderio da parte degli estimatori del musicista canadese (nonché il più celebre dei suoi LP “unreleased”, un elenco che comprende titoli come Chrome Dreams, Island In The Sea, Oceanside/Countryside, la prima versione di Old Ways e Toast, mentre Hitchhiker come sapete è stato pubblicato nel 2017).

La storia è abbastanza nota: Homegrown, un disco elettroacustico tra rock, country e folk realizzato tenendo presenti le sonorità di Harvest, era bello che pronto per uscire (c’era anche la copertina, che poi è la stessa dell’edizione odierna), ma un Neil Young ancora scosso per la perdita degli amici Danny Whitten e Bruce Berry ebbe il colpo di grazia a causa del naufragare della sua relazione con l’attrice Carry Snodgress, con cui aveva una relazione dal 1971 dalla quale era nato il piccolo Zeke (affetto tra l’altro da paralisi cerebrale): la cosa fece cadere il nostro in una profonda depressione che lo convinse a cancellare l’uscita di Homegrown a favore del cupo Tonight’s The Night. Negli anni seguenti Neil ha poi pubblicato alcuni pezzi pensati per quel disco, alcuni potenziati, altri completamente rifatti, altri ancora lasciati così com’erano, ma di Homegrown più nessuna traccia nonostante la notizia di una pubblicazione imminente, poi puntualmente smentita, verrà data più volte nelle decadi a venire. Ora però è la volta buona (anche se un altro ritardo di due mesi c’è stato, ma stavolta per il coronavirus), e Homegrown è finalmente una realtà, ed esattamente con la tracklist pensata all’epoca: sono stati quindi lasciati nei cassetti diversi altri titoli, alcuni noti in quanto già presenti nella discografia younghiana (Pardon My Heart, Deep Forbidden Lake, The Old Homestead), altri più oscuri nonostante Neil negli anni li abbia occasionalmente suonati dal vivo (Love/Art Blues, Homefires, Mediterranean, Frozen Man, Daughters, Barefoot Floors).

Risentito oggi Homegrown non ha perso nulla delle sue qualità: è infatti un disco bello, intenso e tipico del Neil Young mid-seventies, con momenti di profonda malinconia alternati a potenti svisate elettriche. Non è forse il capolavoro che la leggenda narrava, in quanto sia Harvest che Zuma e forse anche On The Beach e Tonight’s The Night sono superiori, ma teniamo presente che lo standard qualitativo del Bisonte in quegli anni era incredibilmente alto. Tra i sessionmen presenti nelle varie canzoni ci sono vecchie conoscenze (Ben Keith alla steel, Tim Drummond al basso e Karl T. Himmel alla batteria) ma anche alcuni ospiti di vaglia, come il pianista Stan Szelest e soprattutto i “The Band Boys” Robbie Robertson e Levon Helm e la voce di Emmylou Harris. Tre dei dodici pezzi totali sono pubblicati nelle versioni già note (le splendide Love Is A Rose e Star Of Bethlehem, presenti sull’antologia Decade, e la discreta Little Wing che nel 1980 aprirà l’album Hawks And Doves), mentre due brani che in seguito verranno reincisi qui sono nella prima stesura: l’energica e roccata title track, bella versione con Keith alla slide e forse migliore di quella rifatta coi Crazy Horse per American Stars’n’Bars, e White Line (che Neil pubblicherà addirittura nel 1991 su Ragged Glory sempre con il Cavallo Pazzo), ottima anche in questa resa a due chitarre con Young e Robertson come soli musicisti presenti. I brani “nuovi” iniziano con Separate Ways (che comunque il nostro ha suonato diverse volte dal vivo), una notevole ballata country-rock elettroacustica caratterizzata dalla bella steel di Keith e dal tipico drumming di Helm: la parte vocale, anche se non particolarmente rifinita, è incisiva grazie anche alla solida melodia.

Try è una delicata country ballad (acustica, ma full band) sullo stile di Harvest, con pochi ma calibrati strumenti ed un bellissimo ritornello reso ancora più prezioso dalla steel e dall’intervento vocale della Harris; la malinconica Mexico vede Neil da solo al piano per un breve e tenue brano dalla musicalità quasi fragile, a differenza di Florida che non è una canzone ma una conversazione di Young con Keith e sottofondo di…bicchieri di vino (!): l’avrei lasciata volentieri in un cassetto. Bella la gentile ed intensa Kansas, solo voce, chitarra ed armonica, mentre We Don’t Smoke It No More è un blues cadenzato e pianistico con aggiunta di slide, un pezzo strepitoso e coinvolgente nonostante Neil non sia propriamente un bluesman: singolare poi che la voce entri solo dopo quasi due minuti e mezzo. L’ultimo dei brani inediti è anche uno dei migliori: Vacancy è infatti una notevole rock song elettrica e potente dal motivo diretto, un pezzo che è la quintessenza di Young e che non capisco come possa essere rimasto da parte fino ad oggi. Homegrown non sarà dunque quel masterpiece di cui si è a lungo favoleggiato, ma è di sicuro un disco che tende dal buono all’ottimo e che rappresenta alla perfezione il Neil Young della metà degli anni settanta.

E comunque dopo aver aspettato 45 anni il minimo che si possa fare è non farselo sfuggire.

Marco Verdi

Come Dylan Anche Neil Young Pubblicherà A Sorpresa Un “Nuovo” Disco Il 19 Giugno: Si Tratta Di Homegrown, Album Previsto In Origine Per Il 1975

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Neil Young – Homegrown – Reprise/Warner CD LP – 19-06-2020

Se ne parlava da quasi un anno, visto che lo stesso Neil Young aveva annunciato l’uscita di Homegrown per la primavera del 2020, il 18 aprile il giorno del RSD, poi è partita la pandemia e si pensava che, come è successo per oltre la metà delle recenti uscite discografiche, anche questa sarebbe stata rinviata a una lontana data, ancora da destinarsi. Invece, forse stimolato anche dalla uscita del nuovo Bob Dylan sempre per il 19 giugno, pure il canadese ha deciso di dare il via libera per la pubblicazione nella stessa data (ma potrebbe sempre ripensarci, visto che mancano ancora una ventina di giorni, anche se nei vari siti di vendita si può prenotare regolarmente). Già che c’era, più o meno in contemporanea, il vecchio Neil ha sancito per il 21/08/2020 anche l’uscita del 2° volume delle Archive Series: qui mi permetto di dubitare, considerando che il cofanetto viene annunciato e poi rimandato ormai dal lontano 2011. Nel frattempo Young ha rinunciato ai formati DVD e Blu-ray audio che sembravano il suo nuovo credo, tornando al buon vecchio CD, o al limite al download, ma visto che non ci sono ancora dati certi, se non che dovrebbe trattarsi di un Box da 10 CD che coprirà il periodo 1972 -1976, veniamo ad Homegrown che proprio da quell’epoca arriva e vediamone i contenuti annunciati, con dovizia di particolari, dallo stesso autore.

Partiamo dalla tracklist:

Homegrown:

01 Separate Ways
02 Try
03 Mexico
04 Love Is a Rose
05 Homegrown
06 Florida
07 Kansas
08 We Don’t Smoke It No More
09 White Line
10 Vacancy
11 Little Wing
12 Star of Bethlehem

Ed ecco i molti dettagli svelati da Young in persona su suo sito a fine aprile: le dodici canzoni, tutte firmate dallo stesso Neil, e registrate tra giugno 1974 e gennaio 1975, avrebbero dovuto uscire appunto nel 1975 con il titolo di Homegrown, ma poi alla fine l’uscita del disco fu cancellata. Cinque dei brani, alcuni usciti in seguito anche in differenti versioni, mentre qui sono nelle prime takes, sono poi apparsi su altri dischi: “Love Is A Rose ” è stata pubblicata su Decade nel 1977,  “Homegrown” ri-registrata con i Crazy Horse e pubblicata su American Stars ‘N Bars nel 1977,  “White Line” addirittura due volte. ancora con i Crazy Horse per Chrome Dreams, album del 1975, rimasto inedito e anche per Ragged Glory del 1990, mentre la versione che appare nel CD è quella registrata con Robbie Robertson della Band, entrambi alla chitarra acustica,  “Little Wing” è uscita su Hawks And Doves nel 1980, infine “Star Of Bethlehem” di nuovo su American Stars ‘Bars.

Le sette mai pubblicate prima sono Separate Ways, che prevede la presenza di Ben Keith alle chitarre e Levon Helm della Band alla batteria. Try, dedicata a Carrie Snodgrass, prima compagna di Neil e mamma di Zeke, con le armonie vocali di Emmylou Harris e Ben Keith alla pedal steel, mentre Mexico è un brano in solitaria (come altri nel CD) solo Young, voce, armonica e chitarra, come pure Kansas e anche Florida dovrebbero appartenere alla categoria, il brano in questione con introduzione parlata. La “confessionale” We Don’t Smoke It More è un blues alla Neil Young tipico di quel periodo turbolento, alla Tonight’s The Night; infine Vacancy è un altro pezzo con Neil contemporaneamente a chitarra e armonica. Ovviamente per l’album vennero registrati parecchi altri brani dai nomi suggestivi tipo “Mediterranean”, “Hawaii”, “Homefires”, ”The Old Homestead”, “Barefoot Floors”, “Hawaiian Sunrise” (aka “Maui Mama”), “Bad News Has Come To Town”, “Frozen Man”, “Daughters”, “Deep Forbidden Lake”, “Give Me Strength”, “Love/Art Blues” and “Pardon My Heart, che verranno buoni magari per altri futuri progetti, forse per il famigerato Archives II. Nel “nuovo” CD oltre ai musicisti citati appaiono anche Tim Drummond al basso, Karl T. Himmel alla batteria, Mazzeo (?) ai backing vocals e Stan Szelest al piano e Wurlitzer.

La produzione è affidata allo stesso Young con Elliot Mazer (forse il fantomatico Mazzeo?) a parte due brani co-prodotti con Ben Keith.

Nel frattempo Neil Young in piena pandemia ha pubblicato anche un nuovo video e relativa canzone shut It Down con i Crazy Horse.

Ora non ci resta che aspettare, forse, per l’uscita del 19 giugno, in seguito alla quale il buon Marco Verdi, a cui lascio l’onere e l’onore vi delizierà con il suo parere sul disco. Per ora è tutto, alla prossima.

Bruno Conti

P.S. Se oggi vi è capitato di entrare sul Blog forse avrete assistito ad una sorta di Work In Progress del Post, in quanto il Blog aveva assunto una vita propria, per certi versi come un disco di Neil Young, ma questa è la versione definitiva.

Un Doveroso Recupero Per Uno Dei Migliori Album Del 2019. J.J. Cale – Stay Around

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J.J. Cale – Stay Around – Because Music/Universal CD

Quest’anno nella mia personale classifica dei dieci dischi migliori usciti nel corso degli ultimi dodici mesi ho inserito ben due album postumi, l’emozionante Thanks For The Dance di Leonard Cohen ed il lavoro di cui mi accingo a parlare: Stay Around di J.J. Cale (che all’epoca della sua uscita, fine Aprile, non è stato recensito sul blog come mi ha ricordato Bruno, probabilmente per un classico caso di “lo faccio io-lo fai tu-non lo fa nessuno”). A differenza però del disco finale di Cohen, che è stato creato dal figlio Adam partendo da tracce vocali del padre al quale sono state poi aggiunte musiche registrate per l’occasione, l’album di Cale si compone di brani incisi dal musicista dell’Oklahoma nel corso degli anni e da lui prodotti e mixati ma poi lasciati in un cassetto. Il periodo indicativo delle varie registrazioni di Stay Around va dalla fine degli anni ottanta all’inizio dell’attuale secolo, ed i 15 brani sono stati selezionati dalla moglie di Cale, Christine Lakeland (musicista a sua volta) e masterizzati dal grande Greg Calbi: la Lakeland non ha dovuto aggiungere nulla, le canzoni erano già belle che pronte, ma la selezione è stata fatta con tale cura ed amore che Stay Around non sembra per nulla una collezione di outtakes, ma un disco pensato per essere pubblicato così com’è.

Già avere un nuovo lavoro ascritto a Cale a dieci anni da Roll On è una bella notizia (dalla sua morte improvvisa nel 2013 per infarto non era ancora stato pubblicato nulla), ma che fosse possibile ascoltare un album di questa qualità era aldilà di ogni più ottimistica previsione, in quanto (almeno a mio parere) siamo di fronte ad un disco che si pone tranquillamente nella Top Five del barbuto songwriter e chitarrista (*NDB A questo link trovate la Top 8 che gli avevo dedicato poco prima dell’uscita dell’album sia sul Buscadero che sul Blog https://discoclub.myblog.it/2019/04/19/in-attesa-del-nuovo-album-stay-around-in-uscita-il-26-aprile-ecco-8-dischi-da-avere-se-amate-la-musica-di-jj-cale-parte-i/ e in una rarissima circostanza, nel banner pubblicitario della etichetta Because Music, a fianco di Mojo e Uncut, era stato citato appunto anche il Buscadero) . Stay Around vede infatti il nostro cimentarsi con una serie di canzoni di primissima scelta (tutte scritte da lui tranne My Baby Blues che è della Lakeland) nel suo tipico stile “laidback” tra rock, country e blues, un suono che Cale avrebbe potuto sostenere di avere praticamente inventato se non fosse stato una persona di una modestia rara.

In più, nel disco troviamo una serie di sessionmen formidabili, nomi di primissimo piano che chi legge queste pagine virtuali conosce alla perfezione: David Briggs, Kenny Buttrey, Bobby Emmons, Tim Drummond, Spooner Oldham, Jim Keltner e Reggie Young. Lights Down Low fa iniziare il CD in modo eccellente con un saltellante country-blues suonato in punta di dita, in cui il mix elettroacustico delle chitarre con il piano elettrico è goduria pura; Chasing You è una canzone mossa ed allegra, quasi rock’n’roll, con Cale che canta in modo diretto una melodia vincente (forse il nostro non aveva una voce straordinaria, ma era perfettamente adeguata al suo concetto di laidback music), ed è seguita da Winter Snow, blues elettroacustico di stampo rurale nel tipico stile di J.J. La title track è un mezzo capolavoro, una slow ballad che profuma di country, suonata in maniera fantastica e cantata in maniera quasi sussurrata (con la voce che doppia sé stessa): grandissima classe.

Tell You ‘Bout Her ha una ritmica insinuante ed uno sviluppo a metà tra rock e jazz (per non parlare della solita performance chitarristica di grande finezza, ma dovrei dirlo ad ogni brano), uno dei pezzi più immediati del CD; splendida la folkeggiante Oh My My, eseguita in totale solitudine da J.J., voce e chitarra acustica, ma con un feeling enorme ed una mastria unica nel far scorrere le dita sul manico, mentre My Baby Blues è un rock-blues elettrico e decisamente trascinante, anche se come al solito Cale non perde il suo aplomb. Girl Of Mine è un godurioso blues acustico che ci porta idealmente sulle rive del Mississippi, Go Downtown è una suggestiva ballatona d’atmosfera nella quale si capisce da dove ha preso spunto Mark Knopfler per dare un suono ai suoi Dire Straits, If We Try è ancora uno slow acustico che sa di country e blues, puro e cristallino. La jazzata e cadenzata Tell Daddy, in cui il pianoforte ha un ruolo importante, è un brano di classe sopraffina che precede la bucolica Wish You Were Here, dall’ennesimo magistrale lavoro chitarristico, e la ritmata e coinvolgente Long About Sundown, puro Cale (un pezzo che Eric Clapton potrebbe far suo senza problemi). Il CD si chiude con la melodia orecchiabile di Maria, dal sapore vagamente latineggiante, e con la rilassata e suadente Don’t Call Me Joe.

Stay Around è quindi il miglior testamento musicale possibile per l’esimio J.J. Cale, un lavoro ispiratissimo e di grande livello artistico: se ve lo siete perso non è mai troppo tardi per rimediare.

 Marco Verdi

Ecco Il Disco Dal Vivo Che Aspettavamo Da 46 Anni! Neil Young & Stray Gators – Tuscaloosa

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Neil Young & Stray Gators – Tuscaloosa – Reprise/Warner CD

Mentre scrivo queste righe mancano pochissimi giorni all’inizio dell’estate, e come volevasi dimostrare anche questa volta il secondo volume degli archivi di Neil Young non si è visto (se vi ricordate, lo scorso anno il musicista canadese aveva ipotizzato una pubblicazione primaverile). In compenso però il “Bisonte” non manca mai di far filtrare comunque qualcosa dalla sterminata quantità di registrazioni inedite del suo passato: questa volta è il turno di Tuscaloosa, un CD dal vivo che documenta parte di un concerto di Neil con gli Stray Gators durante la tournée di Harvest, inciso nel 1973 al Memorial Auditorium della località del titolo, in Alabama. A quell’epoca la popolarità di Young era ai massimi livelli, in quanto Harvest, uscito nel 1972, era fino a quel momento il suo album più famoso e più venduto in assoluto (e lo è ancora oggi), e quindi c’era parecchia trepidazione alla notizia che l’anno seguente l’ex Buffalo Springfield avrebbe pubblicato il suo primo live album ufficiale tratto dal tour promozionale seguente.

In quegli anni purtroppo non era ancora nota una delle caratteristiche principali del nostro, cioè la sua tendenza a non dare (quasi) mai al pubblico quello che vuole, e così il disco che era uscito, Time Fades Away, non era risultato per nulla rappresentativo del rassicurante suono country-rock di Harvest: non solo non conteneva nessun pezzo da quel disco, ma neppure da quelli precedenti. Infatti Time Fades Away era composto esclusivamente da brani inediti (cosa inaudita per l’epoca), ed in più caratterizzati da un suono duro e spigoloso, per nulla adatto ai passaggi radiofonici: nessuno allora sapeva che quell’album sarebbe stato il primo tassello della cosiddetta “trilogia del dolore”, un anno prima di On The Beach e due prima di Tonight’s The Night (Neil forse si pentì di quella mossa, ed in un certo senso la rinnegò dato che Time Fades Away vedrà solo nel 2017 la sua prima edizione in CD). Ora, dopo 46 anni, Neil rimette le cose a posto con Tuscaloosa, un live album strepitoso con un Bisonte in forma smagliante, che esegue alla perfezione una scaletta stavolta perfettamente equilibrata tra brani oscuri e pezzi famosi, ma con una performance rilassata e ricca di feeling, e non nervosa e scorbutica come nel disco del 1973.

Ad accompagnarlo sono i già citati Stray Gators, un gruppo formidabile che non ha il suono roboante dei Crazy Horse ma una maggiore duttilità e disponibilità ad adattare lo stile anche a brani più roots: Ben Keith alla steel guitar, Jack Nitzsche al piano e la sezione ritmica formata da Tim Drummond al basso e Kenny Buttrey alla batteria. Undici canzoni per 52 minuti di musica (avrei anche accettato qualcosa in più, non mi offendevo di certo), con tutti i dischi pubblicati fino ad allora da Neil gratificati da almeno una canzone, con l’eccezione di Everybody Knows This Is Nowhere. La serata si apre con un brano tratto dal primo album di Young, una versione intima e molto intensa di Here We Are In The Years, eseguita da Neil in perfetta solitudine con la chitarra acustica; After The Gold Rush è rappresentata proprio dalla title track, suonata come al solito al pianoforte: rilettura strepitosa, tra le più belle mai sentite, resa ancora più toccante dalla voce fragile del nostro che pare sul punto di spezzarsi in un paio di passaggi. Ecco salire sul palco gli Stray Gators, ed ovviamente viene dato grande spazio a Harvest (a differenza di quanto accadde su Time Fades Away), a partire da una vibrante Out On The Weekend, praticamente perfetta e forse ancora più convinta che in studio, per proseguire con due splendide versioni della title track e del super classico Heart Of Gold (e la reazione del pubblico fa venire giù il teatro).

E poi una Old Man da brividi lungo la schiena (con Keith grande protagonista alla steel) e, nel finale, una grandissima Alabama (non poteva mancare vista la location), tra le ballate rock più belle del songbook del canadese, interpretazione lirica e piena di pathos. Infine abbiamo quattro brani all’epoca inediti, due che finiranno su Time Fades Away (la frenetica ed elettrica title track, eseguita con grinta ed un approccio quasi dylaniano e di gran lunga migliore di quella uscita nel 1973, e la conclusiva Don’t Be Denied, cadenzata e chitarristica ma anche fluida e rilassata, ed anche inspiegabilmente sfumata nel finale) e due che andranno addirittura su Tonight’s The Night due anni dopo, cioè il sanguigno country-rock Lookout Joe (che in realtà anche in origine era una outtake di Harvest, e quindi con gli Stray Gators al posto dei Crazy Horse) ed una roboante New Mama, rock song elettrica e spigolosa ma coinvolgente. Tuscaloosa è uno dei migliori live album di Neil Young, tra archivi ed uscite “normali”: peccato solo che non sia doppio.

Marco Verdi

Il Secondo Cofanetto Della Serie Archives O Magari Il Nuovo Album Con I Crazy Horse? Ma Quando Mai: Per Il 7 Giugno Neil Young Annuncia Un “Nuovo” Live Del 1973 Con Gli Stray Gators Tuscaloosa.

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Neil Young + Stray Gators – Tuscaloosa – Reprise/Rhino – 07-06-2019

Mesi fa Neil Young aveva annunciato per maggio l’uscita del secondo box della serie Archives, ma mancando tre giorni direi che a questo punto sembra alquanto improbabile l’uscita e a nessuno è dato sapere quando avremo il piacere di vederlo pubblicato. Ma poi il canadese un paio di settimane fa ha fatto sapere che erano pronte almeno 11 canzoni nuove e sarebbe entrato a giorni in studio con i Crazy Horse (tra l’altro nella nuova formazione con Nils Lofgren che ha sostituito il dimissionario Frank “Poncho” Sampedro che lascia il gruppo dopo quasi cinque decadi di onorata carriera). E quindi, direte voi, ecco che viene annunciata la data per il nuovo disco di studio, il primo dai tempi di Psychedelic Pills del 2012 con i Crazy Horse: ovviamente, se avete letto il titolo del Post, non è così, l’annuncio c’è stato, ma per la pubblicazione di un concerto inedito registrato il 5 Febbraio del 1973 all’Università di Tuscaloosa in Alabama, accompagnato dagli Stray Gators, ovvero Tim Drummond, Kenny Buttrey, Jack Nitzsche e Ben Keith. Il disco è stato prodotto dallo stesso Neil Young con Elliot Mazer.

Un concerto particolare e comunque di notevole interesse, dove Young esegue un brano tratto dal primo album, mentre il grosso delle canzoni viene da After The Gold Rush Harvest, ma c’è anche la title track di Times Fades Away che uscirà solo a fine 1973 e dei brani che poi verranno pubblicati su Tonight’s The Night solo nel 1975. Quindi esibizione particolarmente interessante di cui vi riporto la tracklist completa qui sotto:

1. Here We Are In The Years
2. After The Gold Rush
3. Out On The Weekend
4. Harvest
5. Old Man
6. Heart Of Gold
7. Time Fades Away
8. Lookout Joe
9. New Mama
10. Alabama
11. Don’t Be Denied

Anche per oggi è tutto: nei prossimi giorni, tra l’altro, anche altre notizie su varie ristampe di prossima uscita, tra cui il nuovo cofanetto di Bob Dylan Rolling Thunder Revue: The 1975 Live Recordings di cui è stata ufficializzata la data sempre per il 7 giugno, ma non è ancora definitiva la lista dei brani contenuti nei 14 CD e il prezzo indicativo che avrà il box.

Bruno Conti

Supplemento Del Sabato: L’Apoteosi Del Dylan Performer! Bob Dylan – Trouble No More: The Bootleg Series Vol. 13/1979-1981 Parte I

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Bob Dylan – Trouble No More: The Bootleg Series Vol. 13/1979-1981 – Columbia/Sony 2CD – 4LP – Box Set 8CD/DVD

Il periodo più controverso della lunga carriera di Bob Dylan, più ancora della famosa “svolta elettrica” del 1965, è sicuramente stato quello del triennio 1979-1981, durante il quale il grande cantautore, in preda ad una violenta crisi mistica che lo portò anche ad aderire alla setta dei Cristiani Rinati, pubblicò tre album a carattere gospel, sia dal punto di vista musicale che da quello dei testi (Slow Train Coming, Saved e Shot Of Love, quest’ultimo peraltro con il ritorno di alcuni brani dal carattere “laico”). Ma se la musica contenuta in quei tre dischi ottenne diversi riconoscimenti (compreso un Grammy per Gotta Serve Somebody) sia per il suono “caldo” dei Muscle Shoals Studios (dove vennero incisi i primi due) sia per la qualità delle canzoni, le critiche vennero rivolte più che altro alle parole, piene di lodi al Signore e con toni talvolta da predicatore, ed in gran parte anche alla discutibile copertina di Saved. Ma i commenti più feroci il nostro li ebbe a seguito della lunga tournée che intraprese per promuovere i tre lavori, in primo luogo perché tra un brano e l’altro si produceva in lunghi e stucchevoli sermoni di stampo ultra-conservatore (famosa una sua tiritera contro gli omosessuali), ma soprattutto in quanto decise di proporre solo le canzoni a sfondo religioso, compresi parecchi inediti, ed eliminando dalla setlist ogni traccia di classici del passato anche recente, cosa che mandò in bestia più di un fan (ma Bob non si scompose, anzi: una sera, introducendo una rara performance di Mary Of The Wild Moor, canzone popolare del 1800, disse beffardo “Mi chiedete sempre le vecchie canzoni: ecco, questa è vecchia davvero”).

Queste critiche misero però in secondo piano il fatto secondo me più importante, e cioè che le performances di Dylan erano tra le migliori della sua carriera: infatti il nostro era in forma vocale strepitosa, come forse mai prima d’ora (eccetto il periodo con la Rolling Thunder Revue) e mai più dopo (tranne in parte il tour con Tom Petty del 1986-1987), ed in più le sue prestazioni erano letteralmente arse dal sacro fuoco, come se cantare quei pezzi a sfondo biblico fosse l’ultima cosa della sua vita. E, dulcis in fundo, il gruppo che lo accompagnava era la sua migliore band di sempre (esclusi ovviamente gli Heartbreakers e The Band) con luminari degli studi di Muscle Shoals come il bassista Tim Drummond e l’organista Spooner Oldham, il chitarrista dei Little Feat, Fred Tackett, il grandissimo Jim Keltner alla batteria ed il pianista Terry Young (nel 1981 si aggiunsero Steve Ripley alla chitarra, mentre i due tastieristi furono rimpiazzati da Willie Smith e, soprattutto, da Al Kooper); la vera novità del suono però fu da imputare al coro gospel femminile, un vero muro del suono vocale che nel corso dei tre anni vide avvicendarsi Clydie King, Carolyn Dennis, Helena Springs, Madelyn Quebec, Regina McCrary, Mona Lisa Young, Mary Elizabeth Bridges e Gwen Evans. Oggi finalmente la Columbia rimette le cose a posto con questo splendido tredicesimo volume delle Bootleg Series dylaniane, intitolato Trouble No More e dedicato per la quasi totalità dei suoi 8 CD (il Bignami di due dischetti, o quattro LP, non lo prendo neanche in considerazione) alle performances dal vivo di quel controverso triennio (fortunatamente senza sermoni), ben cento canzoni in versione mai sentita e con una moltitudine di highlights, anche nei brani che si ripetono (ma Dylan è sempre stato famoso per non suonare mai una canzone per due volte allo stesso modo), e con la chicca nel terzo e quarto CD, di outtakes e versioni alternate del trittico di album di studio. Inutile spendere però altre parole, e mi lancio quindi in una disamina dettagliata del cofanetto (che include anche un DVD con il film che dà il titolo al box, un interessantissimo documentario di un’ora realizzato quest’anno dalla regista Jennifer LeBeau, e due bellissimi libri pieni di splendide foto inedite e con le note brano per brano dei primi quattro CD).

CD 1-2: Live – due dischetti con il meglio del lungo tour (che è anche la stessa tracklist della versione doppia “economica”), che iniziano con una Slow Train molto più energica e potente che in studio, con un grande Tackett. Il meglio si ha con la splendida ballata I Believe In You, tra le più belle melodie mai scritte da Bob, qui cantata alla grande, una When You Gonna Wake Up? più tonica e roccata di quella in studio, quasi infuocata nella performance vocale, When He Returns, già in Slow Train Coming con una prestazione magnifica da parte di Dylan, e da pelle d’oca anche dal vivo, la bellissima e gioiosa Precious Angel (con Tackett che tenta di emulare Mark Knopfler, che suonava nella versione originale), oppure la squisita Covenant Woman, uno dei brani più sottovalutati del periodo, dotata di un motivo toccante. Poi abbiamo le trascinanti Solid Rock e Saved (quest’ultima con un ottimo Young al piano), le emozionanti In The Garden e Pressing On, entrambe con un crescendo strepitoso, ed una Gotta Serve Somebody in Germania nel 1981 da brividi. Tra i pezzi tratti da Shot Of Love spiccano la fantastica Every Grain Of Sand (tra le più belle del songbook dylaniano), nell’unica volta in cui è stata suonata in tutto il tour, una granitica The Groom’s Still Waiting At The Altar con Carlos Santana alla solista, e la splendida Caribbean Wind nella sola versione live di sempre. E poi ci sono le canzoni inedite, a partire dalla magnifica Ain’t Gonna Go To Hell For Anybody, un trascinante gospel cantato in maniera superba, la saltellante Ain’t No Man Righteous, No Not One, dalla melodia diretta ed istantanea e la potente Blessed Is The Name, tra rock’n’roll e gospel.

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Marco Verdi

Sogno O Son Desto? Ce L’Hanno Fatta! Crosby, Stills, Nash & Young – CSNY 1974

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Crosby, Stills, Nash & Young – CSNY 1974 – Rhino Box 3CD + DVD

Nel corso degli anni si era più volte vociferato circa un’imminente pubblicazione del meglio tratto dai concerti della reunion del 1974 di Crosby, Stills, Nash & Young, addirittura lo scorso anno per un breve periodo c’è stata anche una data (fine Agosto) annunciata da Graham Nash, da anni curatore ufficiale degli archivi del supergruppo, ma poi puntualmente tutto veniva rimandato a non si sapeva bene a quando, come spesso capita quando c’è bisogno anche dell’approvazione di Neil Young. Quando però qualche mese fa è apparsa su internet la foto della confezione di questo cofanetto, con tanto di tracklist, si è capito che era giunta finalmente l’ora, anche se io non ci ho creduto fino a quando non ho avuto in mano la mia copia https://www.youtube.com/watch?v=EaBJPgKsiDY .

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Ebbene sì, è tutto vero: CSN&Y 1974 è un sontuoso box di tre CD più un DVD (c’è anche la solita versione singola inutile e quella supercostosa in vinile multiplo e box in legno), che raccoglie un’ampia selezione di quaranta brani (nella parte audio), tratti dal meglio dei concerti della mitica tournée nordamericana e canadese (con puntatina finale a Wembley) del famoso quartetto, pare dietro le pressioni insistenti del leggendario promoter Bill Graham, un tour che, al pari del ritorno on stage di Bob Dylan & The Band (che portò all’album live Before The Flood), fu senz’altro l’evento musicale del 1974. I rapporti tra i quattro all’epoca erano però ai minimi termini, ed il tour ne risentì pesantemente: problemi di ego, donne, alcol e droga non aiutarono di certo le relazioni, al punto che anche le sessions per un album di studio, che avrebbe dovuto intitolarsi Human Highway, furono interrotte dopo soli due o tre brani. (*NDM: i quattro ci riprovarono due anni dopo, ma con esiti analoghi, e parte di quelle sedute – dopo la cancellazione dal mix delle voci di Crosby e Nash – andrà a formare Long May You Run, unico disco a nome Stills-Young Band. Bisognerà attendere fino al 1988 per vedere pubblicato un nuovo lavoro di CSN&Y, il discreto – a me piace – American Dream).

Photo of CROSBY STILLS & NASH and CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG

La leggenda ha per anni narrato che, proprio a causa di questi problemi, le prestazioni dei quattro non fossero state all’altezza della loro fama, ma adesso che sono finalmente riuscito ad ascoltare questo box, devo affermare con vigore che non era vero niente. Avranno anche scelto le performances migliori, ma qui il risultato è talmente eclatante da superare addirittura il mitico Four Way Street: una serie di grandissime canzoni, interpretate con un feeling mostruoso da quattro musicisti in stato di grazia (Stills e Young soprattutto), emozionanti e talvolta al limite della commozione nei brani più intimi, incendiari nei pezzi più elettrici, grazie anche all’aiuto di una sezione ritmica perfetta che vede Tim Drummond al basso e Russell Kunkel alla batteria (con l’aggiunta di Joe Lala alle percussioni). Un box splendido quindi, quattro grandissimi artisti catturati in un momento irripetibile, con la ciliegina di un’incisione talmente perfetta da sembrare inerente a concerti di pochi mesi fa; il tutto accompagnato da una elegante confezione (sul tipo dei box individuali di Crosby, Stills e Nash) ed un libretto pieno di testimonianze e di bellissime foto rare (e bella anche l’idea, nelle line-up canzone per canzone, di indicare la marca ed il modello di chitarra usata).

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CD1: il box ricalca quello che era il concerto tipo dell’epoca, con una prima parte elettrica, un lungo intermezzo acustico, ed un finale dove tutto veniva messo a ferro e fuoco: Love The One You’re With, che apriva i concerti, è una delle più belle canzoni di Stephen Stills, e conosce qui la sua versione definitiva, con Stills e Young che iniziano subito la loro personale “guerra” fatta di duelli chitarristici al fulmicotone https://www.youtube.com/watch?v=sKueuhiAtNo . Wooden Ships è la quintessenza del rock lisergico e del Laurel Canyon Sound, potente testimonianza di un periodo leggendario; Immigration Man, uno dei cavalli di battaglia di Graham Nash, è al solito ricca di pathos, mentre Helpless commuove ancora a distanza di quarant’anni (e Young dimostra subito di essere la punta di diamante del gruppo, ma questo lo sapevamo già). David Crosby regala momenti di grande musica con la bella Carry Me, ma è di nuovo Young a farla da padrone con Traces e soprattutto con la nuova (all’epoca) On The Beach, una lunga e fluida versione di uno dei capolavori misconosciuti del canadese.

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Il primo dischetto si chiude con Black Queen, più di otto minuti nei quali i due ex Buffalo Springfield fanno a gara a chi è più bravo, con grande godimento da parte del pubblico (e del sottoscritto), ed una fantastica Almost Cut My Hair, per chi scrive il miglior brano della carriera di Crosby, in una versione semplicemente da paura https://www.youtube.com/watch?v=rqe49_9uvxI .

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CD2: la parte acustica, nella quale però sono spesso presenti anche basso e batteria, dove, oltre a classici del quartetto come The Lee Shore (intensissima), Our House e Guinnevere, troviamo molti highlights delle carriere soliste, come Change Partners di Stills (splendida in questa versione spoglia), la sempre grande Only Love Can Break Your Heart di Young, Blackbird dei Beatles, già da allora un punto fermo delle loro performances, o la nota (era su Harvest) Old Man, sempre chiaramente di Young. Ci sono anche vere e proprie chicche, come Long May You Run, in anticipo di tre anni sulla versione conosciuta, un ripescaggio di uno Stills “oscuro” dei tempi degli Springfield come Myth Of Sisiphus e, ancora di Young, la notevole Mellow My Mind, che uscirà un anno dopo su Tonight’s The Night, e la rarissima Love Art Blues (faceva parte del leggendario Homegrown, album cancellato praticamente un minuto prima di essere pubblicato), una scintillante country ballad. Chiudono i superclassici Teach Your Children, che quindi non era ancora posta a fine serata, e l’amatissima (dal pubblico) Suite: Judy Blue Eyes.

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CD3: i quattro riprendono in mano gli strumenti elettrici e ci regalano una sequenza di dieci brani che infiammano letteralmente la platea, a partire da una acidissima Dejà Vu, mai così bella (e ve lo dice uno che non l’ha mai amata alla follia) https://www.youtube.com/watch?v=w50jv5pXNTk , seguita dall’interessante My Angel (Stills), tra funky e Santana, e da Pre-Road Downs, un hit minore ad opera di Nash (era sul mitico primo album di CSN, quello del divano). E Young? Beh, il bisonte in questo CD dà il meglio, a partire dalla superba Don’t Be Denied (era originariamente su Times Fades Away, il rarissimo – e mai ristampato su CD – album live dell’anno prima), e l’allora nuova Revolution Blues, sintetica ma di grande impatto. Push It Over The End è poi una sorta di Santo Graal per i fans di Young, un pezzo che prima faceva parte di Homegrown e poi di Human Highway, quindi due progetti abortiti e per questo una canzone ancora inedita, che si presenta qui in tutto il suo splendore e la sua liricità.

Military Madness è purtroppo sempre attuale, mentre Long Time Gone rimane una delle più belle canzoni di Crosby; gran finale con la sempre trascinante Chicago e con Ohio (all’epoca ancora attualissima), semplicemente nella migliore versione da me mai ascoltata https://www.youtube.com/watch?v=S_7-tfsMDjk .

Il DVD contiene otto brani, quattro ripresi a Landover, Maryland, e quattro a Wembley, che al momento in cui scrivo queste righe non ho ancora visto, ma mi riprometto di farlo al più presto.

Tanto, basta ed avanza la parte audio: già fin d’ora il disco dal vivo (e d’archivio) dell’anno.

Marco Verdi

*NDB. Il DVD l’ho visto io, bellissimo, però solo 42 minuti e spiccioli, un delitto, visto il prezzo del cofanetto: secondo Crosby non c’era abbastanza materiale di buona qualità, sonora ed artistica, ma a giudicare da quello che si vede è una colossale palla di dimensioni galattiche. La qualità è eccellente, sia per i quattro brani registrati a Landover, e destinati ad essere mandati sul circuito interno dello stadio, secondo le informazioni riportate nel filmato, con ottime versioni di Only Love Can Break Your Heart, eseguita da tutti e quattro, con Stills al piano e Young in ottima forma vocale, una fantastica Almost Cut My Hair, con duello ancora tra Stills e Young a colpi di chitarra e di basetta (veramente epiche entrambe, con Crosby che si difende anche lui), Grave Concern di Nash non è un brano notissimo, ma cionondimeno molto bello e per finire la breve porzione nel Maryland, una notevole versione di Old Man di Neil Young, accompagnato solo da Kunkel alla batteria e da Tim Drummond al basso, uno dei musicisti più sottovalutati della storia, bravissimo al suo strumento. Prima della porzione registrata a Wembley, appare la scritta che dice che il materiale registrato nell’occasione, con apparecchiature professionali, era destinato ad essere utilizzato per usi televisivi o cinematografici, ma “fino ad ora”, non lo è stato (come sapete è circolato sia come Vhs e poi DVD, in edizioni “piratate”, sparito anche da YouTube). E quell’until now che mi spaventa, perché secondo me, anche se Crosby & Co. hanno detto che quella sera non hanno suonato e cantato all’altezza dei loro migliori standard, da quello che si vede e se sente non si direbbe, e quindi “temo” che prima o poi un DVD ufficiale della serata (o di entrambe) prima o poi apparirà: in ogni caso, grandi versioni di Johnny’s Garden con Stills che lascia a Young il lavoro della solista in una sua canzone, una ottima versione di Our House di Graham Nash, con tutti a cantare sul palco e che alla fine si complimentano con lui, con pacche e abbracci, non proprio la situazione di quattro persone che, secondo le leggende, non si potevano vedere, almeno in questi due concerti. Grandissima versione, quasi psichedelica, di Déjà Vu, cantata da Crosby e con Young anche al piano (ma tutti e quattro si alternano alle tastiere) e Stills alla solista e, per finire, una rara e tiratissima Pushed It Over The End nuovamente di Young, ennesima dimostrazione di una serata e di un tour imperdibili. Se uscirà il DVD mi “incazzerò” come l’automobilista di Gioele Dix, per il momento confermo quanto detto da Marco, imperdibile!