Un Ennesimo Disco Di Rock Tosto Dello Smilzo! Too Slim And The Taildraggers – The Remedy

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Too Slim And The Taildraggers – The Remedy – Vizztone Label Group

Negli ultimi tempo, più o meno regolarmente ogni due anni, Tim Langford e soci ci regalano una nuova prova a nome Too Slim And The Taildraggers: il menu è sempre a base di blues rock robusto con elementi roots, proposto nella classica formula triangolare. Il leader, voce e chitarra, nonché autore dei brani, il bassista Zach Kasik, nel cui studio Wild Feather Recording di Nashville è stato registrato l’album, e il batterista Jeff “Shakey” Fowlkes, con la produzione del CD gestita collettivamente, sono i protagonisti. Stessa formazione del precedente High Desert Heat e anche stessa formula e stile https://discoclub.myblog.it/2018/06/30/il-calore-del-deserto-non-smorza-il-poderoso-rock-blues-chitarristico-di-langford-e-soci-too-slim-the-taildraggers-high-desert-heat/ : Last Last Chance è un boogie and roll, tra Chuck Berry e ZZ Top, con la voce roca e vissuta di Langford a guidare la band in un brano che ricorda anche gli Stones primi anni 70, rock tirato ma eseguito con classe e senza esagerazioni.

In She’s Got The Remedy il suono si indurisce, la voce viene filtrata ed il risultato forse non soddisfa del tutto, troppo carico, anche se l’assolo di wah-wah del buon Tim è veramente gagliardo, Devil’s Hostage è un bel rock-blues della scuola Billy Gibbons, anche a livello vocale, tempo cadenzato e chitarra tagliente, per un ottimo esempio di southern rock vecchia scuola, e l’assolo è veramente notevole, fluido e ruggente. Reckless, robusto groove alla Bo Diddley (più Mona che Who Do You Love), una armonica (Jason Ricci?) a doppiare la chitarra, in un drive che ricorda stranamente anche i primi Jethro Tull, Kasik alla voce, vira decisamente verso il blues, sempre con un eccellente lavoro di Langford che rilascia un altro assolo di quelli tosti https://www.youtube.com/watch?v=XlbQziHCUco ; Keep The Party Talkin’ cambia armonicista, qui Sheldon Ziro, e il riff, siamo dalle parti dei Canned Heat di On The Road Again, ma non la grinta e il tiro della band, che nella parte centrale accelera e lancia il nostro verso un altro assolo poderoso https://www.youtube.com/watch?v=KYRODR3bO0M .

Too Slim non scherza neppure quando si arma di bottleneck come nella cover di Sunnyland Train di Elmore James, dove va di slide alla grande, mentre in Sure Shot, con banjo d’ordinanza e atmosfere sospese ed inquietanti, si vira verso un sound decisamente più rootsy, con finale chitarristico di grande appeal https://www.youtube.com/watch?v=P4oLOMBwODE . Platinum Junkie, di nuovo cantata da Kasik, ha un ritmo decisamente funky, ancora con l’armonica in bella evidenza a duettare con la solista di Langford, sempre in agguato, mentre in Snake Eyes ancora con il banjo aggiunto alle operazioni, si torna al rock desertico del precedente album, con la solista che questa volta lavora di fino in continui rimandi, Think About That, con armonica sempre presente, è nuovamente orientata verso un blues elettrico dove la chitarra di Slim regna sovrana, e la conclusiva Half A World Away è l’unica concessione verso una ballata, diciamo più un mid-tempo consistente, che conferma la varietà di temi impiegati nell’albumda Too Slim And The Taildraggers, al momento una delle migliori band in ambito rock-blues. Gli amanti del genere sono avvisati.

Bruno Conti

Il Calore Del Deserto Non Smorza Il Poderoso Rock-Blues Chitarristico Di Langford E Soci. Too Slim & The Taildraggers – High Desert Heat

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Too Slim & The Taildraggers – High Desert Heat – VizzTone Label Group/Underworld Records            

Business As Usual per Tim Langford e I suoi Taildraggers: lo stile non cambia, piccole variazioni qui e là, ma se amate il genere, il menu è sempre un robusto blues-rock chitarristico, come da oltre 30 anni a questa parte è loro usanza https://discoclub.myblog.it/2016/05/05/30-anni-sempre-smilzo-molto-tosto-too-slim-and-the-taildraggers-bad-moon/ . Diciamo che le novità questa volta le cerchiamo nel contorno: nuova etichetta, la VizzTone (che distribuisce la Underworld Records), nuovo bassista Zach Kasik, che affianca l’ineffabile batterista Jeff “Shakey” Fowlkes, che “resiste” da ben due dischi ai vorticosi cambi di formazione che Langford impone alla sua band. L’altra novità è la presenza come ospite aggiunto dell’armonicista Sheldon” Bent Reed” Ziro che non può sottrarsi neppure lui alla regola del nomignolo per i musicisti del gruppo, e la cui presenza accentua parzialmente, ma solo in un brano, la quota blues di questo High Desert Heat, forse anche per la reputazione della nuova etichetta di distribuzione nelle 12 battute, benché il disco sia stato registrato, come al solito, in quel di Nashville.

L’unica cover è una poderosa ripresa del classico dei Chambers Brothers, Time Has Come Today, una canzone che era il cavallo di battaglia di una delle prime band all-black, che già nel 1968, quindi prima della hendrixiana Band Of Gypsys, fondeva in modo innovativo soul, gospel, R&B a rock e musica psichedelica: un brano di una potenza inaudita ancora oggi, anche nella versione “breve” del 45 giri, circa 5 minuti, contro la versione lunga dell’album dell’epoca che durava undici minuti, comunque grande canzone, riff gagliardo e grande lavoro alla solista di Langford, ben spalleggiato dalla sezione ritmica che tira di brutto, peccato finisca troppo presto, avrei gradito la long version. Il boogie blues di Trouble è l’unico a presentare l’armonica di Ziro (che mi ricorda il timbro sonoro di John Popper dei Blues Traveler) che regala al brano un’aura quasi alla Canned Heat, con qualche retrogusto dell’amato Hendrix, sempre presente nella musica di Too Slim che inizia a scaldare la solista https://www.youtube.com/watch?v=zFus8xdFWHM ; Broken White Line accentua invece l’elemento sudista comunque presente nella musica del gruppo, un mid-tempo avvolgente dove il groove del trio è più rallentato ma sempre incisivo, fino all’immancabile intervento della chitarra di Langford che per la prima volta innesta un voluttuoso wah-wah.

Un tocco funky non guasta nel rock sinuoso di Stories To Tell, con One Step At A Time, uno dei brani più lunghi del CD, che ci riporta al blues-rock classico della formazione, tra Free e ZZ Top, con le giuste quote rock sempre presenti grazie alla solista incisiva del nostro, sound che viene ribadito anche nella successiva What You Said, dove agli ZZ Top immancabili si aggiunge anche qualche reminiscenza à la Robin Trower, prima della lunga ed ipnotica Run Away dove il suono è più “spazioso” ed angolare, con le improvvise aperture della solista in wah-wah che stanno addirittura tra Hendrix e il Peter Green di End Of The Game. La cadenzata Little More True è un ulteriore ottimo esempio del rock-blues vigoroso dei Too Slim & the Taildraggers, immerso appunto nel  power trio rock più classico che ci si possa aspettare, con l’immancabile break chitarristico ad animarne la parte centrale; e se chitarra deve essere anche la paludosa e sospesa Lay Down Your Gun ne alza la quota con un’altra spazzata di wah-wah. Chiude questo High Desert Heat il blues spaziale e desertico della title track, un brano dove la slide in cui Langford è maestro, fa finalmente la sua unica ed insinuante apparizione, in un brano strumentale dal fascino misterioso.

Bruno Conti

Dopo 30 Anni Sempre “Smilzo” Ma Pure Molto Tosto! Too Slim And The Taildraggers – Bad Moon

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Too Slim And The Taildraggers – Blood Moon – Underworld Records 

Tim Langford, in arte Too Slim, con la sua band dei Taildraggers, in circa 30 anni di attività, che festeggiano quest’anno, ha pubblicato una ventina di album, compresi Live ed antologie, oltre ad un paio di dischi in solitaria (non memorabili) http://discoclub.myblog.it/2012/07/21/one-man-ban-tim-too-slim-langford-broken-halo/ , più o meno sempre centrando l’obiettivo di regalarci delle abbondanti dosi di sano blues(rock) misto a roots music e “americana”, partendo dalla loro base di Spokane, nello stato di Washington (quindi dei “nordisti”), anche se la loro sede negli ultimi anni è stata fissata in quel di Nashville, dove era stato registrato anche l’ultimo album del 2013, quel Blue Heart dove la produzione era affidata allo specialista Tom Hambridge http://discoclub.myblog.it/2013/07/10/di-nuovo-lo-smilzo-too-slim-the-taildraggers-blue-heart-5501/ . Ora dopo tre anni di pausa, interrotti da una doppia antologia pubblicata nel 2014 (con brani anche re-incisi per l’occasione), tornano con questo nuovo album Blood Moon, pubblicato come di consueto a livello indipendente dalla loro etichetta Underworld Records,, che ci propone dieci brani di coinvolgente musica sempre dalle parti del rock e dintorni.

In un neppur troppo velato omaggio a Hendrix, uno dei brani, Twisted Rail, ha una breve Slight Return Version, che se non impensierisce Voodoo Child, ha comunque grinta e wah-wah da vendere. Per il resto, business as usual per Too Slim And The Taildraggers: dopo la parentesi dell’album precedente, dove suonavano i musicisti scelti da Hambridge, si ritorna al classico power trio, con Jeff “Shakey” Fowlkes, come di consueto alla batteria e il nuovo bassista Eric “Stretch” Hanson, che riprendono imperterriti a macinare cavalcate chitarristiche, come ad esempio l’iniziale Evil Mind, che ha, questa sì, più di un sapore hendrixiano, grazie al continuo impiego del pedale wah-wah da parte di Tim Langford. E più di una parentela con il sound di Jimi ce l’hanno anche i due brani più lunghi dell’album, la title-track Blue Moon, minacciosa e avvolgente, una sorta di slow rock-blues futuribile che qualche (lontana) parentela con il classico di Hendrix ce l’ha, grazie ai continui rilanci della solista, e la citata prima parte di Twisted Rails, che va verso un sound sempre caratterizzato dalla grinta chitarristica e dal buon lavoro della sezione ritmica, agile e al contempo rocciosa, con continui cambi di tempo come il genere richiederebbe.

Langford non è un cantante formidabile, ma è un fedele seguace della scuola del power trio, come traspare anche da un commento favorevole e rispettoso, letto sul suo Facebook, dove dice di avere visto per la prima volta dal vivo Robin Trower, e di essere rimasto impressionato dalla classe del chitarrista britannico, da sempre una delle sue fonti di ispirazione. Get Your Goin’ Out On ha ritmi e sapori più stonesiani e comunque vicini ad un southern boogie che pur sempre american music è, mentre Gypsy è una sorta di “hard ballad” dalle atmosfere più sospese, anche se forse un tantino irrisolte, insomma il brano fatica a decollare, a parte il consueto buon lavoro chitarristico nella parte centrale che evidenzia l’ottima tecnica di Too Slim. My Body inserisce anche degli elementi acustici, per una specie di ballata malinconica che si regge su un sound più ricercato grazie ad un arrangiamento sofisticato e meno caciarone. Ma poi si ritorna subito a tutto riff con Dream dove Langford si sdoppia a due chitarre, per un brano anche questo che però fatica a rimanere nella memoria, pur se con qualche vaga reminiscenza dei Pink Floyd lato Gilmour, inutile dire che tutto ruota intorno alla solista del nostro, che è poi il motivo per cui si ascolta questo tipo di dischi. Letter accelera i ritmi e si torna al boogie’n’roll sudista, grintoso ma poco più e Good Guys Win, ancora più veloce, ricorda certe cose dei Ten Years After di Alvin Lee, rock-blues potente e incentrato sul lavoro della solista. Insomma in questo disco molto rock, volendo anche rude e potente, ma poco blues, se le orecchie non mi ingannano direi che Langford non tocca in modo significativo una sola volta la sua chitarra in modalità slide, e per uno che ne è considerato un virtuoso è un fatto quantomeno curioso.

Bruno Conti

Di Nuovo Lo “Smilzo”! Too Slim & The Taildraggers – Blue Heart

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Too Slim And The Taildraggers – Blue Heart – Underworld Records

In questi ultimi anni sono diventato una sorta di “cantore” delle gesta di Tim Langford, in arte Too Slim. E se il disco acustico in solitaria dello scorso anno, Broken Halo, pur non entusiasmandomi, non era poi malvagio one-man-ban-tim-too-slim-langford-broken-halo.html, i precedenti Shiver e il disco dal vivo Time To Live, avevano confermato la bontà di un personaggio in pista da più di 25 anni e con una quindicina di album al suo attivo. Ma questo Blue Heart è uno dei migliori della sua carriera e lo rilancia ai vertici qualitativi di metà anni ’90, quando vinceva parecchi premi, nelle varie classifiche blues di fine anno. Il bassista E. Scott Esbeck (già con i Los Straitjackets) e il batterista Jeff “Shakey” Fowlkes ( con Robert Bradleys Black Water Surprise, Kid Rock, Uncle Kraker) sono i nuovi Taildraggers, ma non suonano nel disco! Ohibò, e questo cosa vuol dire? Significa, come ricordo spesso, parere personale magari non condiviso, che i nomi sono importanti e ricordarli aiuta a capire cosa si ascolta. In caso contrario come farebbe uno a ricordare quei meravigliosi musicisti che suonavano, che so,  nei dischi registrati ai Muscle Shoals Studios o in quelli della Motown o della Hi Records, per citare alcuni casi eclatanti.

Ma anche oggi i nomi di produttori e musicisti sono importanti: prendiamo questo album, il produttore è Tom Hambridge che suona anche la batteria (all’opera con profitto negli ultimi anni con Eric Burdon, Joe Louis Walker, Thorogood, James Cotton, Buddy Guy) e la differenza nel sound si sente, ogni rullata o colpo di grancassa sembra una schioppettata, e anche gli altri strumenti hanno un suono ben definito da etichetta importante, anche se il tutto poi è stato registrato in quel di Nashville negli studi di una piccola label come la Underworld. Se poi aggiungiamo che anche gli altri musicisti non scherzano un c…., a partire dal bassista Tommy McDonald che suona in tutti i dischi citati prima con Hambridge, e anche nel disco Loosen Up di tale R.B. Stone, che non ha ancora avuto il tempo di sentire ma di cui ho letto ottime case (il giorno ha solo 24 ore!), all’organo c’è Reese Wynans, alla seconda chitarra Rob McNelley, dalla band di Delbert McClinton e come ospite in un paio di brani il leggendario Jimmy Hall, dai Wet Willie e Brothers of The Soutland. E il 50 % è già fatto, se niente niente, il nostro amico riesce a scrivere anche dei buoni pezzi, portiamo a casa il risultato: e i nove pezzi a nome Tim Langford, più un paio di cover di autori pochi noti confermano l’impressione, il disco è buono, se amate quel blues, sapido e ricco di rock, southern, boogie e con coloriture soul e R&B, siete capitati nel posto giusto.

Ok, anche la produzione di Hambridge non può migliorare più di tanto la voce di Langford, ma la inserisce in un ambito più adatto e la valorizza (in fondo non è che Billy Gibbons abbia una voce straordinaria) , non puoi creare un Jimmy Hall, e quando quest’ultimo canta in Good To See You Smile Again, la differenza si sente, ma la voce è un dono di natura, puoi migliorarla come hanno fatto Clapton ed altri nel corso degli anni, ma non si diventa Solomon Burke o Eric Burdon dalla mattina alla sera. Per cui accontentiamoci e godiamoci il boogie  rock “cattivo” di Wash My Hands che riffa alla ZZ Top, con la chitarra anche slide di Too Slim che comincia a fare i numeri. O l’ottimo hard slow blues di Minutes Seem Like Hours, ricco di atmosfere e di chitarre, ma anche il blues più tradizionale della title-track Blue Heart, con l’armonica di Jimmy Hall a dividersi il proscenio con la chitarra di Langford, Hambridge oltre ad essere indaffarato in fase di produzione, aggiungi un filtro alla voce qui, alza il basso di là, picchia di gusto sulla sua batteria e ottiene il risultato del titolo di una canzone, Make It Sound Happy, con il basso pompatissimo di McDonald in soccorso della solista indurita del buon Tim.

Il brano cantato da Jimmy Hall è uno slow blues di quelli Doc, con l’organo di Wynans che soffia in sottofondo. Organo che rimane protagonista anche nelle atmosfere sudiste di When Whiskey Was My Friend per lasciare spazio alla chitarra indiavolata di Langford nella hendrixiana If You Broke My Heart. Ma i blues lenti esaltano le virtù chitarristiche del nostro amico come nell’ottima New Years Blues, mentre il funky di Shape Of Blues To Come di tale David Duncan, al di là dei virtuosismi di chitarra e organo, entusiasma meno. Viceversa Preacher, di uno che si chiama Ross Sermons, è una vera “predica” su come si usa la slide e Tim Langford nel campo non ha bisogno di lezioni. Per la conclusiva Angels Are Back si torna alle atmosfere acustiche del precedente Broken Hall, piacevole e ben suonata, ma elettrico Too Slim è un’altra cosa, se avesse una bella voce, mezzo punto in più!

Bruno Conti  

“One Man Band” – Tim “Too Slim” Langford – Broken Halo

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Tim “Too Slim” Langford – Broken Halo – Underworld Records

Non sono mai stato un grande fan dei dischi “acustici” fatti dai gruppi rock (se hanno sempre suonato boogie, blues o comunque musica elettrica una ragione ci sarà!) o delle prove in solitaria dei leaders dei suddetti gruppi, ma devo ammettere che questo disco di Tim Langford, più noto per essere la carismatica voce solista e chitarrista dei Too Slim & The Taildraggers (too%20slim%20and%20the%20taildraggers), un suo certo fascino ce l’ha.

E’ già la seconda volta che il nostro amico si cimenta in questo formato, lo aveva già fatto nel 1999 con un disco intitolato Pint Store Blues e ora si ripete con questo Broken Halo, anche se onestamente, ripeto, lo preferisco quando si cimenta con il boogie-southern-blues-rock del suo gruppo, questo disco non è affatto malvagio: registrato solo con l’ausilio di chitarra acustica, slide, dobro e ukulele (quest’ultimo uno strumento che negli ultimi anni sta vivendo una nuova giovinezza), si passa dal blues acustico di un brano come You Hide It Well che potrebbe provenire dalle Plantation sessions pre-elettriche del grande Muddy attraverso brani strumentali come l’iniziale La Llorona, con un dobro o una slide, che è parente non alla lontana del Cooder autore di musica da film o ancora Princeville Serenade un delizioso duetto tra dobro e ukulele che ha un fascino senza tempo. Three Chords come dice il titolo è un semplice e delicato country-blues quasi sussurrato da Langford che con i pochi strumenti di cui si è circondato per questo disco costruisce un brano molto accattivante, per poi ripetersi, nella più grintosa Shaking A Cup, che pur nei limiti imposti dal suono spartano si avvale anche di un’armonica e di alcune piccole percussioni.

Forty Watt Blues utilizza addirittura una drum machine che non risulta fastidiosa com’è spesso caratteristica di questi marchingegni e anche il linguaggio volutamente crudo del testo lo avvicina agli stilemi classici del genere. In Broken Halo, oltre alla batteria elettronica si sente anche un basso elettrico che accentua questo effetto da one man band, ma devo ripetere che a questo punto l’avrei preferito con un gruppo vero? Non devo! Il trucchetto viene ripetuto per North Dakota Blues con risultati più soddisfacenti per chi scrive e presumo anche per chi ascolta, visto che Tim Langford è comunque un chitarrista più che adeguato anche quando suona una chitarra acustica e soffia nella sua armonica. Per Dollar Girl, il terzo e ultimo brano ad avvalersi dei ritmi programmati, Langford ne scova uno più movimentato che regala una maggiore vivacità alle procedure sonore. Long Tail Black Cat ci riporta al suono acustico con un walkin’ blues arcano ben eseguito sulla slide risonante del buon Tim, mentre la conclusiva Gracie è una delicata e sentita ballata che racconta la scomparsa della nonna e gli effetti degli eventi sul nonno e sulla famiglia vista con gli occhi disincantati di un bambino, e risulta uno dei brani più belli dell’album. Come ci si potrebbe aspettare da uno che suona Reverend Guitars il disco è forse troppo “canonico” ma piacevole, se preso a piccole dosi.

Bruno Conti