Un Bel Box Per Celebrare La Premiata Ditta “Iggy & Ziggy”. Iggy Pop – The Bowie Years

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Iggy Pop – The Bowie Years – Virgin/Universal 7CD Box Set

Nel 1974 Iggy Pop era ad un bivio: sciolti definitivamente gli Stooges (cult band proto-punk definita “tra le più rumorose del pianeta”) ed immerso fino al collo nell’uso di droghe, il rocker del Michigan sembrava un musicista finito, solo, ed incerto su cosa fare della propria vita. L’aiuto venne dall’amico David Bowie (che aveva già collaborato con lui remixando l’ultimo album degli Stooges Raw Power), ospitandolo in quella che in quegli anni era la sua città, Berlino, ed esortandolo a piantarla con gli stravizi ed a riprendere in mano la sua carriera musicale; i due così incomincarono a scrivere canzoni insieme, brani che saranno l’ossatura dei primi due dischi da solista di Iggy, The Idiot e Lust For Life, usciti entrambi nel 1977. Ma Bowie non si limitò a collaborare con l’Iguana alla stesura dei brani, ma accettò di produrli contribuendo anche a suonare tastiere, chitarre e sax e reclutando musicisti che facevano parte del suo giro, come il chitarrista Carlos Alomar e la sezione ritmica formata dai fratelli Tony e Hunt Sales (che in futuro formeranno con lui i Tin Machine). Avere Bowie alla consolle era poi una garanzia, in quanto il Duca Bianco aveva da poco rilanciato la carriera dei Mott The Hoople, producendo il loro comeback album All The Young Dudes e scrivendo la celebre title track, ed era stato responsabile anche del capolavoro di Lou Reed Transformer.

Ed il risultato finale non smentì la fama di David (che in quel periodo era una delle rockstar più in voga al mondo), in quanto sia The Idiot che soprattutto Lust For Life sono ancora oggi considerati i due migliori album di un Iggy Pop tirato nuovamente a lucido: nonostante ciò il successo fu deludente, ed a poco servì la tournée promozionale che vedeva Bowie addirittura all’interno della band (ma Pop – nato James Newell Osterberg – è sempre stato un rocker di nicchia, dato che l’unico vero successo lo avrà negli anni ottanta con l’album Blah Blah Blah ed il singolo Real Wild Child, entrambi guarda caso prodotti ancora da Bowie). I due album in questione costituiscono l’ossatura del cofanetto di cui mi accingo a scrivere, un box di sette CD chiamato appunto The Bowie Years (titolo che non mi fa impazzire in quanto secondo me sminuisce la figura di Pop, ma forse un The Berlin Years avrebbe avuto minor appeal commerciale), che oltre a The Idiot e Lust For Life ripropone anche il live uscito all’epoca T.V. Eye, un dischetto di rarità ed outtakes (che vere outtakes non sono, come vedremo), e ben tre diversi concerti dal vivo sempre del 1977, ovviamente inediti. (NDM: per chi non volesse sostenere la spesa del box, i due album originali sono usciti anche in versione doppia deluxe: The Idiot con accluso uno dei tre live “nuovi” – a Cleveland, presso l’Agora Ballroom di “springsteeniana” fama – e Lust For Life con T.V. Eye sul secondo CD).Ma ecco una disamina dei contenuti del cofanetto.

CD 1: The Idiot. Questo album risente parecchio dell’influenza di Bowie (e di Berlino), in quanto vede un Iggy meno feroce di quando era a capo degli Stooges e più sperimentale, con brani di stampo rock che però presentano anche elementi di musica elettronica di ispirazione “kraut”. Il disco si apre con il funk-rock molto bowiano di Sister Midnight, e prosegue prima con la cadenzata ed intrigante Nightclubbing (con grande lavoro di Alomar alla chitarra) e poi con la coinvolgente Funtime, che vede Iggy cantare “alla Lou Reed” e Bowie gigioneggiare da par suo durante tutto il brano. Detto dell’insolita Tiny Girls, soffusa, lenta e raffinata (e con un lungo assolo di David al sax), The Idiot è anche l’album in cui compare la versione originale della famosa China Girl, con la quale proprio Bowie avrà successo negli anni ottanta in una versione pop-rock-dance, anche se per me il brano migliore del disco è l’ipnotica ed avvolgente rock ballad chitarristica Dum Dum Boys.

CD 2: Lust For Life. Uscito a soli cinque mesi da The Idiot, questo lavoro è decisamente più diretto e rock’n’roll, con meno sperimentazioni e più chitarre. Intanto contiene la splendida The Passenger, grande rock’n’roll song che ad oggi è il pezzo più noto di Iggy (anche se su singolo uscì solo come lato B), dotata di uno dei riff più trascinanti di sempre, ma anche la title track è un gran pezzo, con una lunga e coinvolgente introduzione a tutto ritmo ed Iggy che fa uscire il suo particolare carisma (e la potente e diretta Sixteen non è certo da meno). Ottime anche Some Weird Sin, che aumenta la quota rock’n’roll del disco con un brano di grande appeal chitarristico, e l’orecchiabile Success, che stranamente mi ricorda qualcosa di molto vicino al Jersey Sound. Infine, troviamo ancora due canzoni che Bowie riproporrà negli eighties, cioè la deliziosa ballad Tonight (Ziggy la canterà in duetto con Tina Turner) e l’incalzante Neighbourhood Treat.

CD 3: T.V. Eye – 1977 Live. Album dal vivo uscito nel 1978 di soli 36 minuti, che vede un Iggy in gran forma a capo di un gruppo comprendente Bowie alle tastiere ed il futuro Heartbreaker Scott Thurston alla chitarra ritmica (la solista è di Stacey Heydon). Otto canzoni registrate a Cleveland, Kansas City e Chicago, con versioni decisamente più crude e rock di brani tratti dai due album del ’77 (due a testa: Funtime e Nightclubbing da The Idiot e la title track e Sixteen da Lust For Life) e quattro versioni assolutamente incendiarie di brani degli Stooges, le tonitruanti T.V. Eye, I Got A Right ed il classico I Wanna Be Your Dog, mentre la lenta ed ipnotica Dirt è al limite della psichedelia. CD 4: Edits & Outtakes. Il CD più deludente del box: solo dieci pezzi (ma l’ultimo è una recente intervista ad Iggy) ma nessun vero inedito, bensì una manciata di versioni “edit” uscite su singolo e quattro missaggi alternati di Dum Dum Boys, Baby, China Girl e Tiny Girls, praticamente identici agli originali.

CD 5-6-7: Live In 1977. Tre dischetti registrati rispettivamente al Rainbow Theatre di Londra, all’Agora di Cleveland (ma con tracce diverse da quelle apparse su T.V. Eye) ed ai Mantra Studios di Chicago. Tre ottime testimonianze della forma di Iggy dal vivo con altrettante performance abbastanza simili tra loro: l’unica magagna (ma non da poco) è la qualità amatoriale della registrazione del concerto di Londra, con un suono “fangoso” da bootleg appena discreto, mentre il live a Cleveland è inciso benissimo e quello a Chicago è una via di mezzo tra i due ma decisamente più accettabile del primo. Il repertorio è basato per la maggior parte su brani del periodo Stooges che sui due album del 1977 (anche perché all’epoca di questi tre concerti Lust For Life non era ancora uscito, e sono presenti in anteprima solo Tonight e Turn Blue), con versioni ancora più infuocate e punkeggianti che in T.V. Eye ed highlights del calibro di Raw Power, 1969, Gimme Danger, I Need Somebody, Search And Destroy e la già citata I Wanna Be Your Dog.

The Bowie Years è quindi un cofanetto che non può mancare nella collezione dei fans di Iggy Pop (e dello stesso Bowie), mentre per gli altri saranno sufficienti le riedizioni doppie di The Idiot e Lust For Life.

Marco Verdi

Forse Un Po’ Estrema Come Strategia Di Marketing! – Se Ne E’ Andato Anche David Bowie 1947-2016!

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E’ passata meno di una settimana dalla mia recensione per questo blog dell’ultimo disco di David Bowie, Blackstar http://discoclub.myblog.it/tag/david-bowie/ , che devo tornare ad occuparmi del “Duca Bianco”, ma stavolta ne avrei fatto volentieri a meno: è infatti giunta stamattina la notizia, come il classico fulmine a ciel sereno, della sua scomparsa, in pace come scrive il suo entourage su Facebook, dopo una battaglia di 18 mesi contro il cancro, una malattia tenuta nascosta fino all’ultimo (ma David, specie ultimamente, aveva fatto della privacy quasi una seconda arte), all’età di 69 anni compiuti da tre giorni.

Bowie (nato David Robert Jones) ha avuto, specie negli anni settanta, una grande importanza sia a livello musicale che soprattutto di immagine, reinventandosi in continuazione e spiazzando più volte pubblico e critica: dopo gli esordi folk-rock londinesi, nei quali palesava l’influenza di Bob Dylan (da lui definito “come una mamma” ed omaggiato nell’album Hunky Dory con Song For Bob Dylan), divenne uno degli artisti di punta del movimento glam con la creazione del suo alter ego Ziggy Stardust e l’album The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars, iniziando una serie di trasformazioni a livello di look che lo affermarono come uno degli artisti più avanti nella gestione della propria immagine (ben prima dei Kiss, tanto per fare un esempio), oltre a rivelare al mondo un interprete dallo spiccato gusto per la teatralità, che lo porteranno in seguito a diventare anche un apprezzato attore cinematografico.

Nel prosieguo della decade, Bowie lascerà presto il mondo del glam, passando con disinvoltura dal pop-soul e funk (gli album Diamond Dogs e Young Americans), sfiorando il krautrock con Station To Station (dove creerà l’algido personaggio del Thin White Duke) e soprattutto con la trilogia berlinese di Low, Heroes e Lodger, realizzata in collaborazione con Brian Eno e Robert Fripp e che gli diede l’immortalità con la title track del secondo dei tre album.

Gli anni ottanta saranno contraddistinti soprattutto dal successo di Let’s Dance (album e singolo), dove alla chitarra troviamo nientemeno che Stevie Ray Vaughan, diversi duetti che voleranno alto nelle hit parade (tra cui Under Pressure coi Queen e la cover di Dancing In The Streets con Mick Jagger, eseguita al Live Aid in versione video), oltre che la bellissima Absolute Beginners (più dylaniana che mai), colonna sonora del film omonimo.

Negli anni novanta, dopo la parentesi hard rock con i Tin Machine (che personalmente ho sempre trovato un po’ indigesta), Bowie sperimenterà sonorità elettroniche, hip-hop e drum’n’bass con l’elegante Black Tie White Noise ed i terribili (per me, ma per qualcuno sono capolavori) Outside e Earthling, tornando finalmente ad un sound più classico e rassicurante nel nuovo millennio con Hours (del 1999), Heathen (2002) e Reality (2003), fino ai dieci anni di silenzio totale  interrotti nel 2013 dal più che buono The Next Day.

Personaggio di grande carisma e dalla personalità decisamente sfaccettata, è sempre stato restio alle classificazioni ed alle banalità, Bowie ha passato tutta la carriera a sperimentare diversi stili, dando molto raramente al suo pubblico quello che si aspettava (e Blackstar è solo l’ultimo esempio in tal senso): per il sottoscritto una discografia bowiana consigliata per neofiti potrebbe essere composta dai seguenti album: Space Oddity, Hunky Dory, Ziggy Stardust, Young Americans, Heroes, Let’s Dance e The Next Day (ma anche Aladdin Sane, Scary Monsters e Tonight andrebbero considerati). Oppure il bellissimo box Five Years 1969-1973 (pubblicato pochi mesi fa), che comprende tutti i dischi di David del primo periodo, compresi live, colonne sonore, singoli e rarità, che però ha il difetto di non costare poco (anche l’antologia tripla del 2014 Nothing Has Changed è perfetta per chi non dovesse conoscere il nostro).

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Voglio chiudere ricordando Bowie con le sue due canzoni che forse preferisco, appartenenti entrambe al periodo “spaziale”.

 

Riposa in Pace, vecchio Ziggy, e scusa per il titolo del post (ma da ironico english man quale eri, so che non ti sei offeso).

Marco Verdi

*NDB Visto che il buon David amava molto sia le stelle che lo spazio, direi che come omaggio non poteva mancare anche la canzone che lo ha lanciato negli spazi profondi, dove sta per ritornare.

Il Primo Disco “Importante” del 2016…Ma Non E’ Per Tutti! – David Bowie – Blackstar

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David Bowie – Blackstar – ISO/RCA CD – LP – 08-01-2016

Quando poco meno di tre anni or sono David Bowie tornò a sorpresa dopo dieci anni di silenzio assoluto con l’album The Next Day http://discoclub.myblog.it/2013/03/12/ancora-tu-ma-non-dovevamo-vederci-piu-david-bowie-the-next-t/ , fece quello che non molto spesso ha fatto nella sua carriera, ovvero dare al suo pubblico esattamente ciò che si aspettava, cioè un disco di puro e classico Bowie-sound, mossa abbastanza comprensibile in quanto, dopo un periodo di assenza così prolungato, era vitale per lui affermare al mondo di essere ancora in perfetta forma ed in grado di intrattenere come, con alti e bassi, aveva sempre fatto.

Con Blackstar (che esce, altrettanto a sorpresa, l’8 di questo mese, in coincidenza del suo sessantanovesimo compleanno) il discorso è diverso, in quanto David, essendo tornato tra noi in tutto e per tutto (anche se di concerti non se ne parla), si sente in pieno diritto di fare la musica che vuole e con chi vuole. E, nel caso di Blackstar, in una maniera che non accontenterà proprio tutti. Le prime recensioni online, tutte ugualmente entusiastiche (ma ormai Bowie è entrato a far parte della categoria degli intoccabili), parlano di un disco sperimentale e modernista, senza strizzate d’occhio pop al grande pubblico: tutto vero, anche se il musicista inglese ci ha spesso abituato a mosse spiazzanti (la trilogia berlinese degli anni settanta, le distorsioni hard dei Tin Machine, l’hip-hop presente su alcuni brani di Black Tie, White Noise, per non parlare dei due famigerati dischi di musica industrial e drum’n’bass Outside e Earthling), ma siccome io sono come San Tommaso volevo sapere se, a monte di tutto, il disco è bello o no.

Beh, sicuramente strano lo è, ed in certi punti anche parecchio, ma devo dire che al primo ascolto, benché piuttosto ostico in molti momenti, non mi è dispiaciuto affatto, anche se confido in futuri ascolti per migliorare ulteriormente il giudizio: certamente Blackstar non è un disco per tutti (e forse nemmeno per tutti i fan di Bowie), non è musica da mettere in sottofondo o da ascoltare in macchina, ma è prodotto benissimo (da David col fedele Tony Visconti), suonato alla grande ed il tanto temuto modernismo è quasi sempre tenuto a bada e dosato con gusto e misura. L’album (che non ha versioni deluxe particolari, ma non si sa mai dato che The Next Day era uscito di nuovo dopo pochi mesi con un intero CD in più, per la gioia di chi se lo era comprato subito) vede la presenza, insieme a Bowie che suona la chitarra acustica, di una sezione ritmica composta da Tim Lefebvre al basso e Mark Guiliana alla batteria, e di vari musicisti di estrazione jazz, un genere dal quale David ha sempre amato essere contaminato (l’ottimo Donny McCaslin, grande protagonista del disco con il suo sassofono, Ben Monder alla chitarra, con uno stile decisamente à la Robert Fripp, Jason Lindner alle tastiere), oltre al tanto temuto (da me) James Murphy, ovvero il DJ dietro il progetto elettronico LCD Soundsystem, che per fortuna limita il suo intervento alle percussioni in un paio di pezzi.

Blackstar, solo sette canzoni, si apre con la lunga title track (quasi dieci minuti), una mini-suite preceduta in rete da un video che definire inquietante è dir poco: una partenza obliqua, con una melodia ipnotica, le tanto temute sonorità “moderne”, una ritmica complessa ed il sax che è l’unica cosa suonata in maniera normale, anche se il tutto non fa certo pensare ad un singolo radiofonico. Poi al quarto minuto l’atmosfera si fa tetra, il ritmo cessa, arriva un coro che sembra provenire dall’aldilà, mentre David intona un motivo quasi normale (almeno per i suoi standard), anche se le stranezze non mancano, ed un finale straniante in cui spunta anche un flauto (anch’esso suonato da McCaslin). Un brano tutto sommato affascinante, anche se di difficile assimilazione. ‘Tis A Pity She Was A Whore non è del tutto sconosciuta (era sul lato B del singolo Sue (Or In A Season Or Crime uscito nel 2014), anche se per Blackstar è stata reincisa da capo a piedi: inizia con una batteria secca ed un sax che sembra cercare l’accordo giusto, poi Bowie comincia a cantare una melodia tipica delle sue (cioè non convenzionale), il ritmo si fa pressante ed il brano, nonostante qualche voluta dissonanza, non risulta affatto spiacevole, anche se non è esattamente la canzone da mettere ad un appuntamento galante.

Lazarus è il singolo corrente in radio in questi giorni (* NDB. Ed è anche la title-track del nuovo musical di Broadway scritto da Bowie https://www.youtube.com/watch?v=B_3mEWx2e_8): introdotta da basso e batteria, è più lenta della precedente brano, l’uso dei fiati e la melodia abbastanza lineare la rendono la canzone più fruibile finora, anche se i riff quasi distorti di chitarra tendono volutamente a rompere gli equilibri. Molto bello l’assolo di sax ed il lungo finale strumentale (ripeto, piaccia o non piaccia il genere, qui ci sono dei musicisti con le contropalle). Ed ecco proprio Sue (Or In A Season Of Crime), anch’essa in versione diversa da quella apparsa sull’antologia Nothing Has Changed: quella di due anni fa mi piaceva poco, e anche se questa rilettura più elettrica e “rock” (termine da prendere con le molle in questo disco) migliora le cose, io continuo a considerarlo un brano minore; Girl Loves Me inizia come una filastrocca allucinata, con la ritmica sghemba ed un synth sullo sfondo, siamo di nuovo sul versante “strano”, ma se finora tutto è stato abbastanza coeso e con un’idea di progetto, questo mi sembra fra tutti il pezzo più fine a sé stesso. Dollar Days è invece una sorprendente ballata pianistica dall’andamento canonico, con un sax soffuso, la chitarra acustica che finalmente si sente e la voce che tesse una melodia decisamente classica (e pure riuscita), finalmente il Bowie meno ostico, che ci regala una boccata d’aria fresca; I Can’t Give Everything Away, che chiude l’album a 41 minuti, torna solo parzialmente alle atmosfere del resto del disco, nel senso che la base è moderna (pur senza esagerare), ma il motivo risulta abbastanza orecchiabile, seppur nei canoni bowiani.

Quindi un lavoro volutamente spiazzante, nel quale però Bowie non arriva a punte di modernismo esasperato stile Earthling: non mi sento comunque di consigliarlo a chiunque, anche se, come ho già detto, ripetuti ascolti potrebbero far aprire qualche porta in più.

Marco Verdi