Il Titolo Del Disco Dice Tutto! Keb’ Mo’ – Bluesamericana

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Keb’ Mo’ – BLUESAMERICANA – Kind Of Blue Music

Se dovessi indicare un erede di Taj Mahal, anche se il buon Taj è tuttora vivo e vegeto, diciamo un epigono, un “seguace”, forse ancora meglio, vi farei sicuramente il nome di Keb’ Mo’. Entrambi eclettici polistrumentisti, Taj se la cava discretamente a chitarra, armonica, banjo, piano e ukulele, Kevin Moore, più virtuoso del “maestro”, suona chitarra, acustica, elettrica e slide, banjo, tastiere, basso, armonica, bravissimo pure alla resonator (e in questo album li suona tutti), come tecnica musicale è sicuramente superiore a Mahal, che però dalla sua ha una voce straordinaria, in grado di districarsi in tutti i generi, dal blues al soul e R&B, la musica reggae e caraibica in generale, naturalmente world music e tutti i sottogeneri, blues-rock, jazz blues, blues del delta, country music. Anche Keb’ Mo’ spazia attraverso vari stili, non per nulla, per ribadire questa caratteristica, ha voluto chiamare questo disco BluesAmericana, per ribattere a chi definisce la sua musica semplicemente Blues, mentre nei suoi dischi, fin dagli esordi ufficiali, con il disco omonimo del ‘94 (anche per lui, come per altri, forse il migliore, ma la qualità nel corso degli anni è rimasta sempre elevata, con qualche calo di tensione http://discoclub.myblog.it/2011/09/10/non-ci-ha-riflettuto-abbastanza-keb-mo-the-reflection/), ci sono sempre stati anche gli elementi della cosiddetta “Americana”: country, folk, rock, roots music, musica nera in generale e pure questo CD, al di là del titolo, si allinea su questi stilemi https://www.youtube.com/watch?v=jCXEv_1LavU .

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La voce di Keb’ Mo’ è pure notevole, calda e suadente, meno “vissuta” forse di quella di Taj Mahal, più pulita, ma non priva di forza e grinta, come testimoniano anche i recenti tributi a Jackson Browne e Gregg Allman.Tra i tanti con cui ha collaborato in questo album troviamo Colin Linden, che per non entrare in rotta di collisione con il virtuosismo di Moore, si cimenta qui al mandolino in The Worst Is Yet To Come, il brano che apre questo CD e che ben evidenzia la musica che poi troveremo a dipanarsi nei successivi pezzi: c’è il blues, il rock, un tocco di gospel, che non avevamo citato (nei cori), e il risultato, per certi versi, può ricordare alcunii episodi della Band, con banjo e mandolino che si inseguono armoniosamente in questo divertente inventario di piccole disgrazie che si succedono senza soluzione di continuità, “il peggio deve ancora arrivare”, recita il titolo https://www.youtube.com/watch?v=1hul1kuWDKE . Keb’ Mo’ parte sempre da una base acustica, che doveva essere nelle intenzioni, il fil rouge del disco, ma poi, grazie all’intervento di molti ospiti e all’ottimo lavoro del co-produttore Casey Warner, che suona anche la batteria in alcune canzoni, ottiene un suono più ricco e complesso. Ad esempio in Somebody Hurt You, che è un blues intriso di spiritual, con un bel call and response con i quattro vocalists che curano le armonie vocali nel brano, impreziosito dalle chitarre elettriche del titolare, un organo suonato da Michael Hicks e una tenue speziatura di fiati.

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Come è successo a molti artisti prima di lui, tutti direi, la vita scorre e quindi Keb’ Mo’ non è più di primo pelo, va per i 63 anni, con una lunga gavetta alle spalle, ha acquisito una esperienza che gli permette di districarsi nei vari umori che compongono questo BluesAmericana, ad esempio Do It Right, dove banjo e armonica colorano le tessiture armoniche del brano che viene attraversato da una delicata slide acustica che caratterizza questo brano. I’m Gonna Be Your Man è un blues più canonico, anche se citazioni di celebri frasi di altre canzoni e quell’aria tra soul e gospel sono sempre presenti, come l’immancabile slide acustica e la resonator, mentre una sezione ritmica, precisa e presente comunque in quasi tutti i brani, lascia spazio nel finale anche ai fiati. Move è il brano più elettrico della raccolta, Tom Hambridge siede dietro i tamburi, Paul Franklin aggiunge la sua pedal steel al corpo musicale della canzone e il risultato potrebbe ricordare le cose migliori di Robert Cray https://www.youtube.com/watch?v=ejm-js8JW9c .

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La pedal steel rimane anche per la successiva For Better Or Worse, una di quelle ballate struggenti, sulle pene d’amore in questo caso, che di tanto in tanto il nostro amico ci regala, cantata con grande partecipazione e suonata in modo compiuto, con slide e steel che si integrano perfettamente, avete presente il Ry Cooder più ispirato?   That’s Alright è una cover di un brano di Jimmy Rogers, il bluesman, Moore suona tutti https://www.youtube.com/watch?v=vtTxLIrumSYgli strumenti, lasciando solo la batteria a Steve Jordan, in un blues elettrico, di quelli duri e puri, molto bello, tipo il ricordato Taj Mahal dei primi dischi https://www.youtube.com/watch?v=sh16F0PguE0 . The Old Me Better, firmata con John Lewis Parker, è un perfetto esempio di Crescent City sound, con tanto di marching band aggiunta, i California Feet Warmers, che aggiungono autenticità al brano, difficile tenere fermi i piedi. Altro brano che giustifica l’Americana nel titolo è More For Your Money, scritta con Gary Nicholson, spesso pard di Delbert McClinton, una sorta di moderno ragtime elettroacustico sulla falsariga di certe cose di David Bromberg, come pure So Long Goodbye altra ballatona amorosa, dolce il giusto, senza essere troppo zuccherosa. Un buon album, tra i migliori della sua discografia.

Bruno Conti    

Nel “Nido” Del Blues! Joe Louis Walker – Hornet’s Nest

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Joe Louis Walker – Hornet’s Nest – Alligator/Ird 25-02-2014

Prendete uno che suona la chitarra come una via di mezzo tra Hendrix e Stevie Ray Vaughan (sentire per credere l’iniziale Hornet’s Nest), con il “tocco” di Clapton e la crudezza di un Buddy Guy, senza dimenticare lo sconfinato amore per il Blues di uno come Michael Bloomfield, che a San Francisco, dalla fine degli anni ’60 fino alla morte, è stato, oltre che il suo co-inquilino, una sorta di mentore per il giovane Joe Louis Walker. Se aggiungete una voce che neanche il miglior Robert Cray, otteniamo un musicista che sa maneggiare rock, blues, soul e R&B, con un tocco di gospel, con la classe dei migliori e in più una “ferocia” che ha pochi riscontri nell’attuale panorama del blues nero http://www.youtube.com/watch?v=d79xn_XaQ_0 . Se poi affidiamo un tale fenomeno nelle mani di un produttore capace (nonché ottimo batterista ed autore) come Tom Hambridge, colui che ha guidato le recenti avventure di Guy, Cotton, Thorogood, e il precedente Hellfire dello stesso Walker http://discoclub.myblog.it/2012/02/01/uno-dei-migliori-bluesmen-in-circolazione-joe-louis-walker-h/ , non vi resta che schiacciare il tasto Play e godervi una cinquantina di minuti di ottima musica.

https://www.youtube.com/watch?v=8SlyZyg7xHE

Joe, discograficamente parlando ha iniziato abbastanza tardi, nel 1986, quando aveva già 37 anni, ma poi ha recuperato abbondantemente, pubblicando da allora qualcosa come 25 album, compreso questo Hornet’s nest, che è il suo secondo per la Alligator. Non vi racconterò frottole parlandovi di seconde o terze giovinezze, perché i dischi di Walker sono sempre stati, qualitativamente parlando, di valore elevato, qualcuno superiore agli altri, e quest’ultimo rientra nella categoria, ma tutti piuttosto buoni http://www.youtube.com/watch?v=bZ0RnIq-o60#t=33 . Nella tana di questo “calabrone” si sono calati anche alcuni ottimi musicisti, quelli utilizzati abitualmente da Hambridge: l’ineffabile Reese Wynans alle tastiere, che è il trait d’union con SRV, Tommy McDonald al basso e il secondo chitarrista Rob McNelley, oltre a Tom stesso, alla batteria. In All I wanted to go c’è la “nuova” Muscle Shoals Horn Section, guidata da Jim Horn al sax. Il tutto è stato registrato ai Sound Stage Studios di Nashvile, con un autentico e moderno suono sudista.

https://www.youtube.com/watch?v=0mb94JWIsD0

Detto della robustissima title-track posta all’inizio del CD, con le due chitarre che si sfidano con una cattiveria inusitata, mentre il resto della band, Wynans in testa, è indaffaratissima, anche il resto del disco ha un sound energico, come era stato per il precedente Hellfire, un po’ un marchio di fabbrica di Hambridge. La fiatistica All I Wanted To Go, ha un substrato R&B che l’avvicina al Cray più pimpante, ancora con l’organo di Wynans co-protagonista. L’ode al blues di Chicago As The Sun Goes Down, dall’andatura più lenta e maestosa, ha quel suono di chitarra lancinante che è tipico di Walker e discende dalla teoria dei grandi chitarristi elettrici della storia delle 12 battute. Stick a fork in me è un brano più normale, quasi di routine per il nostro, anche se in molti dischi di cosiddetti “fenomeni” della chitarra farebbe fuoco e fiamme, ascoltatevi che assolino ti cava dal cilindro. Don’t Let Go, la prima cover, è un bellissimo rock and roll, scritto da Jesse Stone, l’autore di Flip, Flop And Fly e di Shake, Rattle and Roll, eseguita come se invece che ai Sound Stage fossimo ai Sun Studios, e con lo spirito di Elvis che aleggia nell’aria, con i coristi di Walker che replicano lo stile dei Jordanaires (ma in effetti sono loro, Ray Walker e Curtis Young) con ottimi risultati. Love Enough sembra un brano di Clapton quando riprende un pezzo di Robert Johnson, con quel tipo di scansione ritmica ed approccio sonoro elettrico, mentre l’assolo alla slide è assolutamente delizioso.

https://www.youtube.com/watch?v=lQIIm0lwKq0

Ramblin’ Soul è il miglior brano dell’album, ancora con le due chitarre arrapate e soprattutto una lunga parte strumentale che ricorda i migliori Stones blues dell’era di Mick Taylor. Dico questo non a caso perché il pezzo successivo, la seconda cover, Ride on, baby, porta la firma Jagger/Richards, anche se questo brano che appariva su Flowers, ed era stato eseguito per primo da Chris Farlowe, non è particolarmente conosciuto. Bella versione però, sembra un brano del miglior Southside Johnny, con la sua andatura caracollante e springsteeniana. Soul City, l’ultima cover, porta la firma di Kid Andersen, il chitarrista norvegese dei Nighcats, ed è un ottimo esempio di funky rock, tra l’Hendrix dei Band Of Gypsys e Sly Stone, con una serie di assolo che vanno nella stratosfera della chitarra. Che è nuovamente protagonista nel poderoso slow blues, ancora con slide, che porta il nome di I’m Gonna Walk Onstage, non posso che confermare, questo suona! Not In Kansas Anymore, a riprova di quello spirito rockista evocato più volte, sembra un brano degli Who dei primi anni ’70, i migliori. E se, come si suole dire, tutti i salmi finiscono in gloria, quale migliore modo di concludere se non con un bel gospel come Keep The Faith, che ci permette di gustare la voce vellutata di Joe Louis Walker (e l’organo Hammond di Wynans e i Jordanaires) in tutto il suo splendore. 

Bruno Conti

Buddy Guy Non Lascia, Anzi Raddoppia! Il 30 Luglio Compie 77 Anni E Pubblica “Rhythm & Blues”.

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Buddy Guy – Rhythm And Blues – 2CD RCA – 30-07-2013

Nel 2010 l’ultimo album di studio di Buddy Guy, Living Proof, ha vinto il Grammy come miglior disco di Blues Contemporaneo. Questo di per sé è un segnale, ma non un marchio di garanzia assoluta, perché nel corso degli anni la statuetta è stata assegnata anche un po’ a casaccio ad album e gruppi che nulla c’entravano con il genere per cui venivano premiati, penso ai Jethro Tull miglior gruppo Heavy Metal!, o a dischi “veramente brutti” come avrebbe detto Fiorello/La Russa. Non è il caso di Guy che di Grammy ne ha vinti 6, meritatamente, nella sua carriera. Naturalmente per non smentire la sua fama il nostro amico Buddy, subito dopo, ad inizio 2013, ha pubblicato un CD, Live At Legends, registrato al suo famoso club di Chicago, con solo 7 pezzi dal vivo e tre brani in studio tratti dalle sessions di Living Proof. Non che fosse brutto, tutt’altro, ma se considerate che i concerti di Buddy Guy prevedono tutta una ritualità di gigionerie, dialoghi con il pubblico, numeri di acrobazia solistica e tutto il repertorio del grande performer, non rendeva neanche lontanamente l’idea di un musicista che ha praticamente “inventato” la chitarra rock nel Blues. Chiedete a Jeff Beck, Eric Clapton, Keith Richards o, se fosse possibile, ai compianti Jimi Hendrix e Stevie Ray Vaughan dove hanno preso il loro armamentario di soli, riff, feedback, invenzioni pirotecniche alla chitarra e la risposta sarebbe. “B.G:”!

Ai puristi si arricciano i capelli (come quelli di Jimi), Marshall Chess ai tempi non gli ha fatto un incidere un disco, usandolo “solo” come chitarrista nei dischi di Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Little Walter e Koko Taylor, ma l’eco dei suoi concerti è stata pari all’effetto che ha avuto il 1° album dei Velvet Underground su qualche decina di migliaia di gruppi che sono nati negli anni a venire. Il British Blues Revival, il blues-rock e la nascita del power-trio, almeno per la quota chitarra solista, devono sicuramente molto a questo istrionico signore, che non ha mai avuto un riscontro discografico pari alla sua bravura, anche se nel corso degli anni ha pubblicato fior di dischi, da Hoodoo Man Blues con la band di Junior Wells, suo litigioso partner per moltissimi anni a A Man And The Blues primo album per la Vanguard nel 1968, passando per il super classico Buddy Guy & Junior Wells Plays The Blue del 1972, lo strepitoso Stone Crazy per la Alligator del 1981 e “rinascite” varie, come i pluridecorati Damn Right I’ve Got The Blues (quanto è vero!) e Feels Like Rain, fino ad arrivare alla nuova partnership con il grande batterista (e produttore e autore) Tom Hambridge, che prima con Skin Deep del 2008 (dove suonavano Clapton, Tedeschi & Derek Trucks, Robert Randolph) e il successivo Living Proof ha fatto sì che vivesse la sua sesta o settima vita artistica.

Perché Buddy Guy è un artista, non solo un artigiano del Blues, una delle ultime Leggende, non solo del Chicago Blues a cui spesso viene accostato. Questo nuovo doppio Rhythm And Blues ribadisce la grande classe di questo musicista e lo fa con 21 nuovi pezzi, quasi tutti scritti da Hambridge (con vari pard, tra i quali lo stesso Guy) che hanno la statura di piccoli classici, sembrano brani blues familiari, già sentiti, e in questo caso è inteso come un complimento, ravvivati da una piccola ed usuale pattuglia di ospiti, quasi sempre presente nei dischi dell’artista di Lettsworth, Lousiana, suonati come Dio comanda da un gruppo di musicisti guidati da Tom Hambridge, che ancora una volta si conferma un piccolo Re Mida del (Rhythm) & Blues, il suo tocco dà vita a questa canzoni, perché possono dire quel cazzo che vogliono ma un buon produttore è già metà dell’opera, aggiungigli dei musicisti come David Grissom, Reese Wynans, Tommy McDonald, i redivivi Muscle Shoal Horns ed il gioco è fatto.

Kid Rock (e Keith Urban) ce li potevano risparmiare, ma il primo serviva per il gioco di parole con Messìn’ With The Kid, una delle due cover scritte da Mel London, l’altra è Poison Ivy posta in chiusura. Buddy Guy (e la sua chitarra) hanno ancora una grinta incredibile come dimostrano brani come la pirotecnica Justifyin?, il duetto spaziale con una sempre più lanciata (e incredibile) Beth Hart in una poderosa What You Gonna Do About Me dove Guy risponde colpo su colpo, il duetto con Gary Clark Jr. nella scoppiettante Blues Don’t Care e con 3/5 degli Aerosmith (Tyler, Perry & Whitford) nella “cattivissima” Evil Twin. Fiati e voci femminili arricchiscono il sound, il giochetto del primo disco Rhythm ed il secondo Blues non c’entra molto con i contenuti che si dividono equamente tra i due stili, e tanto rock, con la chitarra che viene strapazzata, con slide e senza, con wah-wah e pura e semplice, accarezzata o lancinante, sempre entusiasmante. Esce il 30 luglio, lo stesso giorno in cui Buddy Guy compirà 77 anni. Quindi Buddy non lascia, ma raddoppia!

Uno dei dischi Blues(rock) dell’anno. Semplicemente consigliato!  

Bruno Conti    

Di Nuovo Lo “Smilzo”! Too Slim & The Taildraggers – Blue Heart

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Too Slim And The Taildraggers – Blue Heart – Underworld Records

In questi ultimi anni sono diventato una sorta di “cantore” delle gesta di Tim Langford, in arte Too Slim. E se il disco acustico in solitaria dello scorso anno, Broken Halo, pur non entusiasmandomi, non era poi malvagio one-man-ban-tim-too-slim-langford-broken-halo.html, i precedenti Shiver e il disco dal vivo Time To Live, avevano confermato la bontà di un personaggio in pista da più di 25 anni e con una quindicina di album al suo attivo. Ma questo Blue Heart è uno dei migliori della sua carriera e lo rilancia ai vertici qualitativi di metà anni ’90, quando vinceva parecchi premi, nelle varie classifiche blues di fine anno. Il bassista E. Scott Esbeck (già con i Los Straitjackets) e il batterista Jeff “Shakey” Fowlkes ( con Robert Bradleys Black Water Surprise, Kid Rock, Uncle Kraker) sono i nuovi Taildraggers, ma non suonano nel disco! Ohibò, e questo cosa vuol dire? Significa, come ricordo spesso, parere personale magari non condiviso, che i nomi sono importanti e ricordarli aiuta a capire cosa si ascolta. In caso contrario come farebbe uno a ricordare quei meravigliosi musicisti che suonavano, che so,  nei dischi registrati ai Muscle Shoals Studios o in quelli della Motown o della Hi Records, per citare alcuni casi eclatanti.

Ma anche oggi i nomi di produttori e musicisti sono importanti: prendiamo questo album, il produttore è Tom Hambridge che suona anche la batteria (all’opera con profitto negli ultimi anni con Eric Burdon, Joe Louis Walker, Thorogood, James Cotton, Buddy Guy) e la differenza nel sound si sente, ogni rullata o colpo di grancassa sembra una schioppettata, e anche gli altri strumenti hanno un suono ben definito da etichetta importante, anche se il tutto poi è stato registrato in quel di Nashville negli studi di una piccola label come la Underworld. Se poi aggiungiamo che anche gli altri musicisti non scherzano un c…., a partire dal bassista Tommy McDonald che suona in tutti i dischi citati prima con Hambridge, e anche nel disco Loosen Up di tale R.B. Stone, che non ha ancora avuto il tempo di sentire ma di cui ho letto ottime case (il giorno ha solo 24 ore!), all’organo c’è Reese Wynans, alla seconda chitarra Rob McNelley, dalla band di Delbert McClinton e come ospite in un paio di brani il leggendario Jimmy Hall, dai Wet Willie e Brothers of The Soutland. E il 50 % è già fatto, se niente niente, il nostro amico riesce a scrivere anche dei buoni pezzi, portiamo a casa il risultato: e i nove pezzi a nome Tim Langford, più un paio di cover di autori pochi noti confermano l’impressione, il disco è buono, se amate quel blues, sapido e ricco di rock, southern, boogie e con coloriture soul e R&B, siete capitati nel posto giusto.

Ok, anche la produzione di Hambridge non può migliorare più di tanto la voce di Langford, ma la inserisce in un ambito più adatto e la valorizza (in fondo non è che Billy Gibbons abbia una voce straordinaria) , non puoi creare un Jimmy Hall, e quando quest’ultimo canta in Good To See You Smile Again, la differenza si sente, ma la voce è un dono di natura, puoi migliorarla come hanno fatto Clapton ed altri nel corso degli anni, ma non si diventa Solomon Burke o Eric Burdon dalla mattina alla sera. Per cui accontentiamoci e godiamoci il boogie  rock “cattivo” di Wash My Hands che riffa alla ZZ Top, con la chitarra anche slide di Too Slim che comincia a fare i numeri. O l’ottimo hard slow blues di Minutes Seem Like Hours, ricco di atmosfere e di chitarre, ma anche il blues più tradizionale della title-track Blue Heart, con l’armonica di Jimmy Hall a dividersi il proscenio con la chitarra di Langford, Hambridge oltre ad essere indaffarato in fase di produzione, aggiungi un filtro alla voce qui, alza il basso di là, picchia di gusto sulla sua batteria e ottiene il risultato del titolo di una canzone, Make It Sound Happy, con il basso pompatissimo di McDonald in soccorso della solista indurita del buon Tim.

Il brano cantato da Jimmy Hall è uno slow blues di quelli Doc, con l’organo di Wynans che soffia in sottofondo. Organo che rimane protagonista anche nelle atmosfere sudiste di When Whiskey Was My Friend per lasciare spazio alla chitarra indiavolata di Langford nella hendrixiana If You Broke My Heart. Ma i blues lenti esaltano le virtù chitarristiche del nostro amico come nell’ottima New Years Blues, mentre il funky di Shape Of Blues To Come di tale David Duncan, al di là dei virtuosismi di chitarra e organo, entusiasma meno. Viceversa Preacher, di uno che si chiama Ross Sermons, è una vera “predica” su come si usa la slide e Tim Langford nel campo non ha bisogno di lezioni. Per la conclusiva Angels Are Back si torna alle atmosfere acustiche del precedente Broken Hall, piacevole e ben suonata, ma elettrico Too Slim è un’altra cosa, se avesse una bella voce, mezzo punto in più!

Bruno Conti  

Sembra Quasi Un Disco Di Delbert McClinton! Delbert And Glen – Blind, Crippled And Crazy

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Delbert And Glen – Blind, Crippled & Crazy – New West

Sembra quasi un disco (di quelli belli) di Delbert McClinton, ma forse perché Glen Clark di dischi a nome proprio ne ha registrati ben pochi (anzi direi uno solo nel 1994), dai tempi in cui si esibivano come coppia ad inizio anni ’70 e hanno lasciato un paio di testimonianze a nome Delbert & Glen, una omonima e Subject To Change, pubblicate  tra il 1972 e il 1973, ma lo stile, già allora, era quello che poi il Texano di Lubbock, Delbert, avrebbe abbracciato nel corso della sua lunga carriera, un misto di blues, Soul, swamp rock, country e varie altre influenze che di solito si catalogano tra roots rock e Americana, ma che si può tranquillamente definire come country got soul, termine che riassume bene questa mescolanza di musica nera e bianca.

I due non sono più dei giovanotti, McClinton in particolare, nato nel 1940, appariva già come armonicista, nel lontano 1962, in Hey Baby, un brano di Bruce Channel che forse molti non ricordano come titolo, ma fa parte di quelle irresistibili canzoncine dal ritornello additivo che un altro Bruce sa maneggiare con cura di fronte a folle oceaniche, e proprio in virtù di quella partecipazione, Delbert, leggenda vuole, nel successivo tour europeo insegnò i primi rudimenti dell’armonica a John Lennon. Si diceva dell’età anagrafica che è quella che è, ma le voci e la grinta sono sempre quelle dei tempi d’oro, per questo Blind, Crippled & Crazy, registrato lo scorso anno in quel di Nashville (ma scordatevi il country più bieco), la coppia si è affidata alla co-produzione di Gary Nicholson, che a rotazione con i due, firma anche gran parte del materiale, a parte un canzone firmata dal figlio di McClinton, Clay, Oughta Know, che è la più bluesata del lotto e consente ad Anson Fundenburgh di scaldare le corde della sua solista con un intervento unico ma molto efficace.

Per il resto è difficile distinguere i due a livello strumentale, suonano entrambi l’armonica, e gli interventi allo strumento, in alcune recensioni, Clark in World Of Hurt e McClinton in un paio di altri sono stati invertiti, tanto sono indistinguibili i due. Per le voci il problema non si pone: quello più “Bravo”, dalla voce ancora potente e pimpante è decisamente Delbert McClinton, ma anche Glen Clark si difende con classe, specie in una ballata country come Just When I Need You The Most, che ricorda quelle più belle di Don Henley nei primi Eagles. D’altronde i due armonizzano alla perfezione, come se non fossero passati più di 40 anni dai tempi delle prime collaborazioni, ma quando c’è da guidare le danze è McClinton che incanta con la sua voce “nera”, come nel country-blues-rock con uso di slide (Bob Britt) di Good As I Feel Today o nelle derive country-soul alla Little Feat dell’iniziale Been Around A Long Time, dove il violino di James Pennebaker (anche alla chitarra nel resto del disco con il bravo Britt), la batteria dell’ottimo Tom Hambridge e le tastiere di Bruce Katz che sostituiscono il “solito” Kevin McKendree in quasi tutto l’album, sono un buon viatico per chi ama nella propria musica la giusta quota di funky.

E l’incipit del brano fotografa alla perfezione quello di cui stiamo parlando: “I Ain’t Old But I Been Around A Long Time/ Long Enough To Know Age Is Just A State Of Mind”, non credo che occorra traduzione e lo dimostrano nel vigoroso Rock’n’Roll che risponde al nome di Whoever Said It Was Easy, nel Texas Blues della fumante Oughta Know, già citata o nel soul vecchio stile di World Of Hurt, che potrebbe venire dalle strade della vicina Memphis, Tennessee. E ancora nel sound elettroacustico del mid-tempo More And More, Less And Less dove la voce di McClinton assume tonalità non dissimili da quelle di un altro veterano tornato in gran forma ultimamente, il gallese Tom Jones. Somebody To Love You, cantata a due voci alternate, è un altro bel blues, con Britt, Katz e Hambridge di nuovo sugli scudi e Sure Feels Good è un ottimo esempio di un Delbert McClinton d’annata con steel e armonica a colorare il suono. Tell My Mama di Clark è country got soul, pianino honk tonk e ritmi neri mentre Peace In the Valley potrebbe venire dal repertorio dei Blasters o dei Rockpile o addirittura di Chuck Berry, come la giri buona musica, d’altronde come quella che si sprigiona da tutto questo dischetto assolutamente godibile, niente di nuovo, ma che classe ragazzi!

Bruno Conti

Nel Frattempo La Alligator Continua A Non Sbagliare Un Disco! James Cotton – Cotton Mouth Man

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James Cotton – Cotton Mouth Man – Alligator 07-05-2013

Il lungo titolo del Post è un composito tra un album di Luca Carboni e un film della Wertmuller, ma il contenuto è inequivocabilmente 100% Cotton, come riportava il titolo di uno dei suoi dischi migliori. Il vecchio leone del Mississippi può anche avere perso la voce per i problemi di salute legati ad un cancro alla gola contratto alla fine degli anni ’90, e l’ultima esecuzione vocale “seria” risale al 2000, ma come armonicista è nella categoria Giant, come ci ricordava anche il suo penultimo disco, e primo per la Alligator, del 2010.

James Cotton è sicuramente una delle ultime “leggende del blues”: nativo di Tunica, Mississippi, è stato però una delle colonne portanti del blues di Chicago dall’inizio degli anni ’50, prima con Howlin’ Wolf e poi, in alternanza con Little Walter, ma anche da solo, l’armonicista della band di Muddy Waters, nel periodo migliore di McKinley Morganfield, all’incirca fino a metà anni ’60. Tra il 1966 e il ’67 ha iniziato la sua carriera solista, mantenendo comunque una fittissima agenda di impegni (anche un ritorno con Waters per Hard Again) che gli permette di contare la bellezza di 914 credits nella lista delle collaborazioni su AllMusic (non saranno tutti veri perché non sempre il portale musicale è precisissimo ma rimane un numero ragguardevole)!

E sapete una cosa, secondo me, questo Cotton Mouth Man si inserisce nella Top 5 dei suoi migliori lavori all time. Tom Hambrige, il batterista, autore e produttore (anche di questo CD), che negli ultimi anni ha lavorato proficuamente con Joe Louis Walker, George Thorogood e Buddy Guy, confermandosi una sorta di Willie Dixon bianco, ha realizzato un piccolo capolavoro con questo album. Concepito come una sorta di concept album sulla vita di Cotton, questo escamotage permette di incorporare nella musica, che è tutta scritta ex novo, anche molti riff e fraseggi dai classici del blues, senza rischiare la denuncia per plagio. Lo stesso Cotton, Richard Fleming, Gary Nicholson e Delbert McClinton hanno collaborato come co-autori, ma il cuore dell’album risiede nell’opera di Hambridge. L’armonica di James, ancora in grandissima forma al suo strumento, ha un ruolo fondamentale, così come la presenza di un vero who’s who della musica tra gli ospiti che si alternano nel disco.

La partenza è fulminante: su un groove trascinante ordito dalla coppia Hambridge-Tommy McDonald, la voce dell’ottimo Darrell Nulisch e l’armonica poderosa di Cotton, la chitarra di Joe Bonamassa confeziona uno dei migliori solo della sua carriera, conciso ma fulminante come poche volte, l’epitome perfetta del blues(rock). Dopo una breve introduzione di quella che fu la voce del nostro amico, riparte un train sonoro inarrestabile, non per nulla Midnight Train, dove si ricompone la coppia Gregg Allman voce (efficace ma non fantastico per l’occasione) e Chuck Leavell al piano Wurlitzer, ben sorretta da due delle colonne portanti della band dello stesso Cotton, il chitarrista Tom Holland e il bassista Noel Neal. Leavell rimane, al piano acustico, per un sentito omaggio a Waters, Mississippi Mud, uno slow blues che ci permette di apprezzare quello che è, quando vuole, uno dei più grandi cantanti del blues contemporaneo, Keb’ Mo’, eccellente in questo brano. Anche nell’altro resoconto della vita di Cotton nella Chicago anni ’50, He Was There, possiamo ascoltare la James Cotton Blues Band al completo in questo caso, con Jerry Porter che si reimpossessa (per un brano) del seggiolino della batteria a scapito di Hambridge, Nulisch alla voce solista, Holland alla chitarra e l’ospite Leavell al piano, un blues “duro e puro”.

Fantastica è la tiratissima Something For Me con un drive alla Allman Brothers dei tempi di Duane garantito da un assatanato Warren Haynes alla chitarra slide e voce e con Cotton che soffia nella sua armonica come se non avesse i 78 anni che ha! Wrapped Around My Heart con Chuck Leavell che passa all’organo per l’occasione e Rob McNelley alla solista è un gagliardo slow blues cantato alla grande da Ruthie Foster, il sound ricorda quello dei migliori brani dell’ultimo Robert Cray, ben tipizzati dal recente Nothin But Love, di cui questo Cotton Mouth Man si candida come successore per il miglior disco blues elettrico contemporaneo del 2013, e che voce ragazzi, la Ruthie! Ancora Darell Nulisch si difende con classe in una vigorosa Saint On Sunday, dove la chitarra di Rob McNelley (una delle sorprese del disco, è il solista della band di McClinton, ma suona anche in un miliardo di dischi country, di quelli buoni) e l’armonica di Cotton hanno modo di mettersi in evidenza e anche il datore di lavoro di McNelley, ovvero Delbert McClinton, si conferma uno dei migliori cantanti bianchi tuttora in circolazione nella sapida Hard Sometimes, mentre l’armonica di Cotton giganteggia sul tutto.

I ritmi latin blues in apertura di Young Bold Women alleggeriscono per un attimo il mood del disco e si alternano con atmosfere più tirate in una gustosa varietà. Bird Nest On The Ground è l’unica cover del disco, un Muddy Waters minore, come notorietà della canzone, ma non per l’intensità dell’esecuzione, sempre garantita dalla house band del disco, senza ospiti in questo caso, se si esclude Leavell al piano (peraltro presente in quasi tutti i brani, meno due). L’unico ospite che non lascia ma raddoppia è l’ottimo Keb’ Mo’, anche alla chitarra, in una soffusa e leggermente vellutata Wasn’t My Time To Go. Vigorosa viceversa la atmosfera da puro electric Chicago Blues che si respira in Blues Is Good For You, quasi un manifesto di intenti, mentre la conclusione, in tono minore, è affidata al duetto tra James Cotton, anche alla voce, spezzata e vissuta, oltre che all’armonica e Colin Linden alla Resonator Guitar in Bonnie Blue.

La data di uscita ufficiale sarebbe il 7 maggio ma per i misteri del mercato discografico è già in circolazione nelle nostre lande. Un ottimo disco di blues, da 4 stellette nei primi 5 brani, ma eccellente nella sua totalità, candidato già fin d’ora alle liste dei migliori di fine anno e degno epilogo della categoria, se così sarà, ma non è detto, della carriera di uno dei più grandi armonicisti della storia del Blues, degno erede del suo mentore Sonny Boy Williamson!

Bruno Conti

P.s Per una volta non ci sono video recenti relativi all’album, per cui ho inserito due o tre classici, riservandomi di aggiornare eventualmente il post in futuro.

Un Grande Piccolo Trio Da Houston, Texas Di Nuovo In Pista. ZZ Top – La Futura

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ZZ Top – La Futura – American Recordings/Universal  11-09-2012

Se vogliamo aprire brutalmente, non è che gli ultimi album degli ZZ Top siano stati memorabili, e per ultimi intendiamo almeno un trentennio (forse anche qualcosa di più, perché molti non hanno ancora metabolizzato i sintetizzatori di Eliminator e i video su MTV, ma quelli almeno avevano le belle donnine). Gli ultimi album buoni (El Loco,) o anche eccellenti (Deguello), i 30 anni di vita li hanno superati da un bel pezzo e, casualmente, o forse no, sono stati gli ultimi ad avere un titolo in spagnolo, come quasi tutti i loro grandi dischi. Non a caso, anche l’ultimo disco decente del trio, Antenna del 1994, aveva quelle radici linguistiche, se non musicali.

Gli ZZ Top sono sempre stati un gruppo anomalo nel mare magnum del southern rock: un trio di boogie-rock-blues texano che però non aveva tra gli elementi fondanti del proprio sound anche quella quota country che era (ed è) uno degli elementi quasi indispensabili per chi fa musica “sudista”. Però hanno sempre abbondantemente bilanciato con spruzzate corpose di (hard) rock. Cosa ci voleva per far sì che tornassero a fare della buona musica? Questo era il quesito fondamentale. La risposta ovvia era: un buon produttore! Hanno scelto Rick Rubin che è un buon alchemista del suono ma non quel genio della consolle che ci vogliono far credere (chiedere a CSN!) o non sempre (anche se tra barbuti ci si intende). Uno dei grandi problemi di Rubin sono i tempi: questo album è in gestazione da almeno quattro anni, per un totale di dieci brani, fa una canzone ogni cinque mesi. Poi è ovvio che non è così e si dice che il materiale registrato, e scartato, avrebbe potuto riempire 20 CD, ma la percezione esterna è quella. Se poi aggiungiamo che a giugno, in formato digitale, era già stato pubblicato l’EP Texicali, le canzoni nuove da ascoltare rimangono solo sei. Comunque se prendiamo La Futura globalmente come album c’è di che rimanere soddisfatti. Non un capolavoro ma un solido lavoro di quel southern-boogie-hard-rock-blues che ce li ha sempre fatti amare (beh, non proprio sempre!).

Gotsta Get Paid, il brano di apertura, è una sorta di risposta virtuale a Just Got Paid, uno dei loro super classici che si trovava su Rio Grande Mud,e se la voce di Billy Gibbons ti fa venir voglia di prenotargli una visita dall’otorino, le chitarre di Billy, il basso di Dusty Hill e la batteria di Frank Beard martellano i loro ritmi con gusto rinnovato come ai vecchi tempi e senza l’ombra di un synth all’orizzonte, ma una “ispirazione” da un pezzo rap degli anni ’90 trattato alla ZZ Top. Chartreuse, che si pronuncia all’inglese, per fare rima con Blues, proprio quello è, un bel blues vecchio stile, l’unico firmato da tutto il gruppo (e anche in questo caso, partendo da un brano di Gillian Welch) e cantato da Dusty Hill che pompa con rinnovato vigore sul suo basso, come peraltro con i soci non aveva mai cessato di fare dal vivo. E la caratteristica principale di questo album è proprio l’immediatezza, che non lascia intendere i quattro anni che ci sono voluti per realizzarlo. Anche Consumption è un funky-blues di quelli ribaldi, nella loro migliore tradizione. Over You è una lenta ballata vagamente soul, in omaggio a quei grandi della musica nera che li hanno ispirati ad amare questa musica. Billy Gibbons la canta con passione prima di lasciarsi andare ad un assolo ispirato e conciso.

E qui finisce l’EP. L’album continua sulla stessa falsariga con Heartache In Blue dove fa capolino anche una armonica, suonata da James Harman, che conferma l’autenticità degli intenti. I Don’t Wanna Lose, Lose, You è una canzone costruita intorno ad un riff che Gibbons dice viene per metà da Keith Richards e metà da Bo Diddley, il risultato è ZZ Top al 100%. Tra l’altro Over You e I Don’t Wanna Lose sono state scritte da Gibbons in coppia con l’ottimo produttore/batterista Tom Hambridge, quello degli ultimi notevoli lavori di Joe Louis Walker, Thorogood e Buddy Guy e mille altri, ha una lista di collaborazioni tipo pagine gialle del Blues. Flyin’ High ha un altro riff poderoso, da rock-blues classico, un po’ alla Free o Bad Company, ed è il famoso brano che è stato sparato nello spazio insieme all’astronauta della Nasa. It’s Too Easy Manana è il brano scritto da Gillian Welch e David Rawlings con Gibbons e riceve il trattamento alla ZZ Top per diventare uno slow blues “lavorato e atmosferico” di qualità. Anche Big Shiny Nine è un brano di cui dici subito dalla prima nota, ZZ Top! Have A Litte Mercy nelle loro intenzioni originali avrebbe dovuto essere un brano alla BB King. Sì, ma come l’avrebbe suonato se fosse stato bianco e nato in Texas. Perché questo è, come tutto il disco: un grande piccolo trio di texani che suona il Blues visto dal profondo Sud. E questa volta ritornano a farlo bene!

Bruno Conti