Proseguiamo Con I Dischi Fantasma, In Questo Caso Solo Vinile E Download: Anche Senza Tartarughe Che Lo Calpestano…Un Signor Musicista! Dave Simonett – Red Tail

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Dave Simonett – Red Tail – Dancing Eagle/Thirty Tigers LP e Download

Dave Simonett, come saprete, è il leader dei Trampled By Turtles, gruppo country-folk-grass-americana di Duluth, Minnesota (ho già sentito questa città…), una delle band più popolari del genere insieme a Old Crow Medicine Show ed Avett Brothers. Ma Dave è anche l’uomo dietro al moniker Dead Man Winter, che lui stesso ha definito “il mio progetto rock’n’roll” e titolare di due album il secondo dei quali, Furnace, è del 2017. Invece i TBT sono fermi al 2018, cioè all’ottimo Life Is Good On The Open Road, e così Simonett ha pensato che i tempi erano maturi per dare alle stampe il suo primo lavoro da solista. In realtà Red Tail, questo il titolo del LP, è nato un po’ per caso, in quanto Dave si è ritrovato in uno studio insieme a pochi fidati musicisti (non conosco i nomi essendo in possesso di un advance CD *NDB Che però come formato fisico non esiste, c’è solo il vinile) per registrare delle canzoni da lui scritte senza avere in testa un progetto in particolare: dopo aver ultimato otto pezzi, Dave ha considerato che lo stile intimista e cantautorale che li contraddistingueva non era adatto né ai TBT e neppure ai DMW, e solo in quel momento ha deciso di uscire con il suo nome in copertina.

Red Tail è dunque un bellissimo album in cui il nostro ci consegna una manciata di pezzi perlopiù lenti, una serie di ballate classiche sfiorate dal country e dal folk, decisamente adatte ad un ascolto autunnale, dove non c’è spazio per improvvisazioni dal vivo in torride jam come succede nei concerti dei Turtles. Poi però, essendo Simonett il principale songwriter in entrambe le configurazioni, è chiaro che qualche elemento in comune qua e là si sente, anche se qui c’è una maggiore attenzione alla profondità delle melodie e meno alle performance strumentali. L’album si apre in maniera splendida ed evocativa: Revoked è infatti una ballatona sognante ed eterea ma con un motivo ben definito ed un’atmosfera western (l’attacco strumentale può ricordare alla lontana Knockin’ On Heaven’s Door) con ottimo uso di steel e pianoforte, un brano coi fiocchi che fa sì che Red Tail inizi nel migliore dei modi. Pisces, Queen Of Hearts ha un ottimo intro strumentale per chitarra acustica e steel, poi arriva Dave ad intonare una deliziosa e toccante melodia di stampo country che ricorda da vicino le cose migliori di John Prine, ed è seguita dalla breve Silhouette, irresistibile country song di stampo classico, anni settanta https://www.youtube.com/watch?v=fdCNN8xfEd8 , e motivo davvero coinvolgente (chi ha detto Gene Clark?).

By The Light Of The Moon è un piccolo e squisito bozzetto elettroacustico, caratterizzato ancora da un motivo semplice e diretto, che precede la lunga In The Western Wind And The Sunrise, superba ballatona pianistica dal mood autunnale ma con un’intensità da brividi per tutti i suoi sei minuti. It Comes And Goes, pura, cristallina e con un sapore da western song alla Glen Campbell (merito di una leggera orchestrazione), precede le conclusive You Belong Right Here, eccellente ballata country-rock ancora con Prine in mente (la più elettrica del disco), e la pianistica e corale There’s A Lifeline Deep In The Night Sky, altro splendido brano che coniuga la lezione di The Band con una notevole sensibilità gospel https://www.youtube.com/watch?v=ne7IbfHvjAM . Un piccolo grande “dischetto” questo Red Tail (appena 33 minuti, ma decisamente intensi): in qualunque veste si presenti a noi, Dave Simonett si conferma un musicista di primo piano.

Marco Verdi

Un’Ottima String Band Direttamente Dai Monti Appalachi. Fireside Collective – Elements

fireside collective elements

Fireside Collective – Elements – Mountain Home CD

Uno dei filoni più attivi della musica americana è quello delle cosiddette “string bands”, cioè quei gruppi che suonano prevalentemente strumenti a corda e si ispirano alle tradizioni folk, country e bluegrass per creare qualcosa di nuovo. I capostipiti del genere sono senz’altro gli Old Crow Medicine Show, i migliori del lotto, gli Avett Brothers, che però negli ultimi anni hanno differenziato il suono aggiungendo abbondanti dosi di rock e pop, ed i Trampled By Turtles, che sono anche quelli che hanno cambiato meno negli anni (mentre i Mumford & Sons li abbiamo purtroppo persi da diverso tempo). Tra le band più promettenti di questo genere musicale vorrei segnalare i Fireside Collective, un quintetto che proviene direttamente dai monti Appalachi, precisamente dal North Carolina, e che con Elements pubblica il suo terzo lavoro dopo gli autodistribuiti Shadows And Dreams del 2014 e Life Between The Lines del 2017. I cinque ragazzi suonano una miscela molto creativa e coinvolgente appunto di country, bluegrass, folk e mountain music, e la loro caratteristica principale è quella di abbinare ad una strumentazione chiaramente tradizionale una serie di canzoni originali di stampo più moderno, così da creare un mix decisamente stimolante.

Il gruppo, che ha al suo interno ben tre lead vocalists, è formato dal leader Jesse Iaquinto al mandolino, Joe Cicero alla chitarra, Alex Genova al banjo, Tommy Maher al dobro e Carson White al basso: come avrete notato manca la batteria, ma vi posso assicurare che ascoltando il disco non ve ne accorgerete. Elements è prodotto da Travis Book (leader degli Infamous Stringdusters, altra string band) in maniera molto pulita, con le voci e gli strumenti che risaltano allo stesso modo, ed è un album che nel corso dei suoi tredici brani ci presenta una band che sa abbinare mirabilmente tecnica e feeling, ed in più è in grado di scrivere canzoni decisamente piacevoli. Dopo una breve introduzione in cui i nostri accordano gli strumenti si parte a tutta birra con Winding Road, una deliziosa country song dalla melodia accattivante ed immediata che ricorda la Nitty Gritty Dirt Band d’annata, con un ritornello corale e la band che inizia a darci dentro di brutto con gli assoli. Back To Caroline è un vivace bluegrass guidato dal banjo e suonato con notevole velocità e senso del ritmo, un pezzo che coniuga alla perfezione tradizione e modernità e che è seguito dalla limpida Circles, una country ballad che evidenzia la caratteristica principale dei Fireside, cioè pubblicare brani che mescolano una scrittura attuale ad un accompagnamento al 100% acustico, con le voci come ulteriore punto di forza.

Done Deal è ancora un bluegrass dalla linea melodica squisita che ricorda molto da vicino gli Old Crow (forse pure troppo dato che il motivo somiglia parecchio a quello di Wagon Wheel) ed uno splendido dobro, Bring It On Home è cadenzata e rimanda maggiormente al country delle origini, da Hank Williams in giù, Waiting For Tennessee è uno strepitoso brano tra folk e bluegrass con una melodia molto “appalachiana” ed una prestazione strumentale collettiva da applausi: con i suoi sei minuti è il brano più lungo del CD, ma scorre in un baleno. Where The Broad River Runs è puro folk d’altri tempi, intenso e drammatico (forse la più tradizionale finora dal punto di vista musicale), a differenza di Night Sky From Here che è un country-grass strumentale trascinante e dal ritmo acceso, con cambi di tempo e melodia assolutamente creativi (ottimo il banjo), mentre l’orecchiabile Don’t Stop Lovin’ Me è puro country-rock suonato acustico con il dobro in evidenza. High Time non è quella dei Grateful Dead, ma è ugualmente una bella canzone, tersa, fluida e con l’aggiunta di una steel suonata da Maher, She Was An Angel è l’ennesimo solare brano tra country e bluegrass ancora con gli Old Crow in mente; il CD si chiude con la forsennata Fast Train, nella quale i nostri suonano a velocità altissima, e con la ripresa strumentale di Winding Road.

E’ giunta l’ora di scoprire i Fireside Collective, soprattutto se un certo tipo di musica country “tradizionale” è pane per i vostri denti.

Marco Verdi

Ecco Un Altro Gruppo Che Non Sbaglia Un Disco Neanche Volendo! Marley’s Ghost – Travelin’ Shoes

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Marley’s Ghost – Travelin’ Shoes – Sage Arts CD

Quando si parla di gruppi che rielaborano la tradizione country, folk e bluegrass in chiave moderna la mente va subito a Old Crow Medicine Show, Avett Brothers e Trampled By Turles, ma spesso ci si dimentica di citare i Marley’s Ghost, sestetto californiano in giro da più di trent’anni. Una band di veterani quindi, ed infatti i capelli dei membri sono ormai irrimediabilmente grigi (quando non del tutto assenti), ma la loro forza nel suonare ed abilità nel produrre grande musica è pari a quella dei gruppi citati sopra. I Marley’s Ghost (Mike Phelan, chitarre, dobro, basso, violino e voce, Ed Littlefield Jr., chitarre, steel, basso e voce, Jon Wilcox, mandolino, chitarre e voce, Dan Wheetman, basso, steel, chitarra e voce, Jerry Fletcher, piano e voce, Bob Nichols, batteria) sono meno rock sia degli Old Crow che dei Fratelli Avett, pur avendo una sezione ritmica ed usando qua e là anche la chitarra elettrica, ma si rifanno più direttamente a sonorità tradizionali di generi come country, bluegrass, folk, gospel e old time music, rilette comunque con grande forza ed eccellente perizia strumentale.

 

Non hanno inciso moltissimo in 32 anni, appena una dozzina di album, ma proprio per questo quando esce una loro pubblicazione si può stare certi che non sarà una delusione. I loro ultimi due lavori, i bellissimi Jubilee e The Woodstock Sessions, erano prodotti da Larry Campbell, uno che con questo tipo di musica va a nozze, ed infatti i nostri lo hanno voluto a bordo anche per questo nuovissimo Travelin’ Shoes, un album davvero splendido, forse ancora più bello dei precedenti, in cui il sestetto rivisita a modo suo una serie di brani della tradizione gospel, con l’aggiunta di appena due brani originali. Il risultato è di altissimo livello, una strepitosa collezione di brani che rivedono il gospel aggiungendo cospicue dosi di ritmo, passando dal country al rock al bluegrass con estrema disinvoltura, e senza un attimo di tregua. Che non ci troviamo di fronte ad un disco qualsiasi lo si capisce fin dalla title track posta in apertura, che inizia per voce e banjo, poi entra il resto del gruppo ed anche la sezione ritmica comincia a farsi sentire: il binomio tra l’accompagnamento grintoso e la melodia tipicamente folk è vincente, in gran parte grazie alla fusione delle varie voci. Hear Jerusalem Moan è un traditional molto noto, ed è eseguito con uno splendido arrangiamento tra gospel e bluegrass, con alternanza tra parti vocali ed assoli strumentali (particolarmente belli quelli di violino e pianoforte);You Can Stand Up Alone, dopo un lungo intro a cappella, è eseguita in maniera cadenzata e con una deliziosa veste doo-wop anni sessanta (e la chitarra è elettrica), rilettura irresistibile, tra le più belle del CD.

Someday è scritta da Campbell, ed è un saltellante country-gospel contraddistinto da una performance in punta di dita ed all’insegna della classe sopraffina di cui i nostri sono provvisti in grande quantità. So Happy I’ll Be è un vecchio pezzo di Flatt & Scruggs, un coinvolgente gospel sullo stile di brani come Will The Circle Be Unbroken e Amazing Grace, superbamente eseguito e cantato alla perfezione; nell’insinuante Shadrack i nostri sembrano degli epigoni di Tennessee Ernie Ford, con quel tipico approccio old style ed un bel botta e risposta tra voce solista e coro, il tutto con un vago sapore jazzato. Run Come See Jerusalem è un capolavoro, sembra uscita di botto da un disco anni settanta di Ry Cooder, dall’intro di chitarra elettrica, all’atmosfera a metà tra Hawaii e Messico (c’è anche una fisarmonica), ed il coro fa la parte che fu di Bobby King e Terry Evans: magnifica. Judgement Day, unico pezzo originale dei nostri (ad opera di Wheetman), è un altro highlight assoluto, una splendida western ballad elettrica che sarebbe piaciuta a Johnny Cash, vibrante e dalla melodia epica, When Trouble’s In My Home richiama ancora Cooder (quello di Boomer’s Story), canzone tra folk, gospel e blues, con slide acustica ed intesa vocale perfetta, mentre Standing By The Bedside Of A Neighbor è uno scintillante e ritmato western swing con il grande Bob Wills come riferimento principale. Chiudono l’album la cristallina A Beautiful Life, puro country con un tocco di gospel, e con Sweet Hour Of Prayer, un toccante slow pianistico e corale che ha quasi il sapore di un brano natalizio.

Con Travelin’ Shoes i Marley’s Ghost hanno aggiunto un altro gioiello ad una collezione già preziosissima: tra i dischi più belli di questa prima parte di 2019, almeno nel genere country e derivati.

Marco Verdi

Un Gradito Ripescaggio Dal Recente Passato Di Un’Ottima Band. Hackensaw Boys – The Old Sound Of Music Sessions

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Hackensaw Boys – The Old Sound Of Music Sessions – Valley Entertainment CD

Questo non è il nuovo album degli Hackensaw Boys (anche se a tre anni di distanza da Charismo sarebbe stato lecito pensarlo), ma la ristampa di due introvabili EP, The Old Sound Of Music Vol 1 & 2, incisi nel 2009 ma pubblicati nel 2011 dal gruppo originario della Virginia. Per chi non li conoscesse, gli Hackensaw Boys sono una string band che fa parte dello stesso filone dei vari Old Crow Medicine Show, Avett Brothers e Trampled By Turtles, un combo che propone nuove canzoni con uno stile da old-time band: musica country, folk e bluegrass suonata con una gran dose di forza ed inventiva ed un innato senso del ritmo. In una ventina d’anni hanno inciso sette album in studio e tre EP, due dei quali sono appunto riuniti in questo The Sound Of Music Sessions, che è da trattare un po’ come se fosse un lavoro nuovo in quanto i due dischetti del 2011 sono da tempo fuori catalogo e non erano facili da reperire all’epoca dell’uscita.

E la musica contenuta in questa ristampa e davvero piacevole e riuscita, dodici canzoni in cui i nostri passano con grande disinvoltura da un genere all’altro, ma sempre rimanendo ben ancorati alla tradizione, e con la particolarità che su sei elementi (Ferd Moyse, Justin Neuhardt, Jesse Fiske, Shawn Galbraith, Ward Harrison e Robert Bullington) ben quattro scrivono le canzoni e le cantano da solisti, garantendo una maggiore varietà di stili. C’è da dire che i sei nomi che ho appena citato facevano parte del gruppo in quel periodo, ma oggi solo Moyse è rimasto alla guida, trattando la band più come un collettivo dal quale si può liberamente entrare ed uscire che come una formazione stabile. Over The Road è un bluegrass suonato a velocità forsennata, ci sono anche basso e batteria, con una melodia corale di stampo tradizionale (ma il brano è originale, come tutti gli altri), subito seguito dalla cristallina Spring Fruit, una ballata tutta giocata sull’intreccio degli strumenti a corda ed un motivo anche qua cantato a più voci, e con Can’t Catch Me, in cui il leader è Moyse (che ha un timbro molto simile a quello di Levon Helm), un pezzo inizialmente dal passo lento e cadenzato ma che all’improvviso si trasforma in un altro bluegrass limpido e travolgente.

Ritmo altissimo anche in End Times, che se fosse suonata da strumenti elettrici sarebbe sicuramente un grintoso rock’n’roll; Silver Lining è una spedita country song dallo script più moderno ma sempre coinvolgente al massimo, mentre Restaurant Girl è più malinconica, e sostenuta da un bell’interscambio tra violino e banjo, una melodia profonda ed un ottimo assolo di mandolino. Con Going Home rientriamo in zona rockin’ country, ennesima bluegrass song suonata con un’attitudine quasi punk, impossibile tenere il piede fermo, Knoxville Blues è una limpida e gentile country ballad, che dimostra che i nostri non sono bravi solo a pigiare il piede sull’acceleratore. Do You Care? è ancora rock’n’roll acustico travestito da brano country, tempo cadenzato e botta e risposta voce-coro, mentre con la vertiginosa Chains On riprende il viaggio sul treno in corsa; il dischetto si chiude con la soffusa On Our Own (il ritmo è sempre alto, ma la batteria è spazzolata) e con Noon Or Midnight, che si stacca dal resto essendo un country-rock decisamente più moderno ed in cui spunta anche una chitarra elettrica.

Una gradevole occhiata nello specchietto retrovisore per gli Hackensaw Boys, nell’attesa di poter ascoltare un disco totalmente nuovo.

Marco Verdi

Sempre Più Bravi Ed Innovativi. Trampled By Turtles – Life Is Good On The Open Road

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Trampled By Turtles – Life Is Good On The Open Road – Banjodad Records

Da quando si sono fatti conoscere dal grande pubblico con l’ottimo Stars And Satellites (12), e il successivo Live At First Avenue (13), recensiti puntualmente su queste pagine https://discoclub.myblog.it/2013/11/24/i-cantori-del-new-bluegrass-trampled-by-turtles-live-at-first-avenue/ , i Trampled By Turtles non hanno più sbagliato un colpo (in senso musicale), come certificato anche dal più recente e sempre valido Wild Animals uscito nel 2014, sino ad arrivare a questo ultimo lavoro Life Is Good On The Open Road, in cui danno vita ad una nuova forma innovativa di bluegrass progressivo. Per chi non ha familiarità con questo sestetto di Minneapolis, i Trampled By Turtles si sono formati nel lontano 2003 in quel di Duluth (è questo dovrebbe già essere sinonimo di garanzia, visto il concittadino), e sin dagli esordi il loro stile è stato un “cocktail” assai riuscito di folk, bluegrass, rock e country, generi che negli anni si sono fusi creando nel tempo una loro particolare impronta unica e distintiva. La formazione nell’attuale line-up è composta dal frontman Dave Simonett alla chitarra, voce solista e armonica, Tim Saxhaug al basso e cori, Dave Carroll al banjo e cori, Erik Barry al mandolino e cori, Ryan Young al violino e cori, e Eamonn McLain al violoncello e cori, ricordando che il trio Simonett, Saxhaug e Young, sono parte anche di un progetto parallelo i bravissimi Dead Man Winter https://discoclub.myblog.it/2011/09/28/progetti-collaterali-dead-man-winter-bright-lights/ , autori di due album di rilievo come Bright Lights (11) e Furnace (17).

Registrato in una capanna nei bei boschi del Minnesota (i Panchyderm Studios di Cannon Falls), il percorso musicale si apre nell’occasione con la veloce Kelly’s Bar, la traccia più bluegrass del disco, per poi passare alla ballata country We All Get Lonely, una canzone strabiliante che mette in evidenza i punti di forza della band, che sviluppa il “sound” degli Avett Brothers nella coinvolgente e trascinante The Middle, e poi ritorna alla ballata agrodolce con Thank You, John Steinbeck (un delizioso omaggio al celebre scrittore di Uomini e Topi e Furore). Il viaggio prosegue con l’accattivante ritornello di una infuocata Annihilate, alimentata dal banjo del bravissimo Dave Carroll, il folk agreste di Right Back Where We Started, la luminosa bellezza della title track Life Is Good On The Open Road (dove ancora una volta eccelle il songwriting di Simonett), per poi ritornare a suonare veloci come un fulmine nell’intrigante punk-bluegrass di una fiammeggiante Blood In The Water. Il viaggio sonoro si avvia alla conclusione con la disillusione stile country di I Went To Hollywood, non prima di commuoverci nuovamente con la triste e bellissima I’m Not Here Anymore, far muovere i piedini degli ascoltatori disposti a ballare sulle note “celtiche” dello strumentale Good Land, e poi terminare il percorso con un’altra dolente e struggente ballata come I Learn The Hard Way, dove gli intrecci di banjo, violino, mandolino, e la voce particolare di Simonett, rapiscono anche l’ascoltatore più distratto.

Appurato che spesso le migliori band non si formano come iniziative imprenditoriali, ma come gruppi di amici che si riuniscono per suonare della musica insieme, i Trampled By Turtles dopo 15 anni in studi di  registrazione, accattivanti e energici spettacoli dal vivo, si sono costruiti una vasta e fedele base di “fans”, che li seguono da una costa all’altra dell’America. Life Is Good On The Open Road è l’ottavo disco in studio dei TBT, tutti prodotti con la stessa casa discografica la loro Banjodad Records, con cui si sono potuti permettere di avere sempre il controllo creativo dei dischi, e anche se, unico appunto che forse si può fare, la voce del leader non è particolarmente memorabile, ma complessivamente le armonie vocali sono formidabili, questo nuovo lavoro è comunque un’ulteriore riprova del fatto che questo talentuoso sestetto è composto da musicisti onesti, oltre che capaci, che continuano a mettere il loro cuore e la loro anima in ogni disco, per scrivere grandi canzoni e rimanere fedeli a sé stessi.

Tino Montanari

Il Nome Fa Abbastanza Schifo, Ma La Musica No! The Brothers Comatose – City Painted Gold

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The Brothers Comatose – City Painted Gold – Swamp Jam CD

La storia del rock è piena di gruppi dai nomi strani, particolari o addirittura poco invitanti: in questa terza categoria farei ricadere i Brothers Comatose, anche se gli elementi funerei si limitano al nome. Due fratelli a capo della band ci sono, ma si chiamano Morrison (Ben alla voce e chitarre, Alex alla voce, banjo e mandolino), e sono aiutati dal bassista Gio Benedetti, dal violinista Philip Brezina (bravissimo, una forza della natura) e da Ryan Avellone alle chitarre e mandolino. I cinque, che hanno già due album alle spalle (Songs From The Stoop del 2010 e Respect The Van del 2012) vengono da San Francisco, ma come avrete intuito dagli strumenti non fanno né rock psichedelico, né pop californiano, e neppure musica cosmica influenzata dal Laurel Canyon Sound, bensì si possono far ricadere in quel filone dei nuovi tradizionalisti dominato da band come Old Crow Medicine Show, Avett Brothers (che però sono molto più rock) e Trampled By Turtles.

I Comatose sono però ancora più legati ad un suono old time, non usano strumenti elettrici e neppure la batteria, anche se le loro canzoni sono comunque intense e piene di ritmo, grazie agli ottimi impasti sia vocali che strumentali. Una struttura profondamente tradizionale quindi, con elementi country, bluegrass e folk: City Painted Gold raggruppa mirabilmente tutte queste caratteristiche, coniugandole con una scrittura invece più attuale e meno legata a stilemi tipici delle canzoni popolari di sessanta/settanta anni fa. Un buon disco, coinvolgente, ritmato ed ottimamente cantato, forse non al livello dei gruppi che ho citato prima ma neppure lontano anni luce. Brothers apre l’album, un country-folk dall’accompagnamento classico ma con una melodia dal sapore moderno: domina il violino di Brezina, suonato splendidamente, vero strumento solista; Angeline è un bluegrass dal ritmo velocissimo, un refrain decisamente orecchiabile ed altra prestazione maiuscola del fiddle (ma tutta la band è un treno in corsa, altro che comatosi). La title track, dedicata a San Francisco, è una delicata ballata con un suggestivo coro femminile in sottofondo, ed un ritmo che cresce man mano, Tops Of The Trees è una canzone dalla struttura moderna, ma suonata con strumenti tradizionali https://www.youtube.com/watch?v=N7Im9kFGUug , mentre Knoxville Foxhole ha un sapore più antico, una bella armonica, intrecci chitarristici di valore ed una coinvolgente melodia corale.

She’s A Hurricane è puro country, The Way The West Was Won, ancora dal ritmo frenetico, è un altro bluegrass di chiara ispirazione western (come da titolo), con le chitarre che incalzano ed il violino scatenato: una delle più riuscite del CD; la gradevole Black Lightmoon è un blues acustico vivace e suonato alla grande, che piace nonostante la voce leggermente filtrata del leader, mentre Dance Upon Your Grave torna al folk d’altri tempi, una bella canzone, limpida e dallo script molto solido, anche questa la metterei tra le migliori (e gli stop & go strumentali sono da applausi). Chiudono l’album, un’iniezione di freschezza da parte di un gruppo di cui sentiremo ancora parlare, la fluida e rilassata Valerie e Yohio, caratterizzata da una melodia scintillante ed anche toccante, grazie anche ad un bel coro: un finale decisamente positivo per un bel dischetto.

Comatosi a chi?

Marco Verdi