7 Settembre 2018: Il Giorno Dei Paul! Parte 1: Paul Simon – In The Blue Light

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Paul Simon – In The Blue Light – Sony CD

Per pura coincidenza, i due Paul più famosi della musica contemporanea, cioè Paul Simon e Paul McCartney, hanno deciso entrambi di fare uscire i loro nuovi lavori il 7 Settembre. Oggi comincio con l’esaminare la proposta del cantautore americano, domani sarà la volta del Paul inglese.

A mio modesto parere (ma so di essere in buona compagnia) Paul Simon non fa un grande disco da un’era geologica, cioè dal mitico Graceland del 1986: The Rhythm Of The Saints (1990) era comunque un buon album, ma alternava grandi canzoni a momenti di noia, mentre You’re The One (2000) aveva il suono ma mancava clamorosamente di canzoni valide, e Surprise (2006), nonostante la presenza di Brian Eno, era sullo stesso livello di mediocrità. Gli ultimi due lavori del songwriter newyorkese, So Beautiful Or So What ed il recente Stranger To Stranger https://discoclub.myblog.it/2016/06/03/sempre-il-solito-simon-complesso-moderno-dai-suoni-stranieri-paul-simon-stranger-to-stranger/ , erano un po’ meglio, ma anche lì non è che i pezzi memorabili abbondassero, e Paul si salvava col mestiere e mascherando il tutto con una produzione ed un suono eccellenti (ho tralasciato, in quanto non era un album vero e proprio, la colonna sonora del fallimentare musical The Capeman: a me era piaciuta, ma non ditelo a nessuno). Mentre scrivo queste righe Paul sta ultimando il suo tour d’addio Homeward Bound, che si concluderà il 22 Settembre al Flushing Meadows Corona Park di New York (nei Queens, vicino a dove andava a scuola da bambino, aspettiamoci ospiti e l’immancabile album dal vivo), e per celebrare meglio il nostro ha deciso di dare alle stampe questo In The Blue Light, album nuovo di zecca che però non contiene inediti, ma dieci brani da lui scelti dal suo repertorio e incisi ex novo, con arrangiamenti totalmente ripensati.

Paul non ha scelto i brani più noti del suo songbook, ma canzoni minori che forse per lui avevano un significato particolare, e le ha davvero rivoltate come calzini, in collaborazione con il suo storico produttore ed amico Roy Halee (tornato a bordo già con Stranger To Stranger). Simon ha sempre avuto una cura maniacale per gli arrangiamenti, ed è stato un pioniere per quanto riguarda le contaminazioni musicali ed i suoni influenzati da culture lontane dalle nostre, però in Into The Blue Light Paul non ha inserito nessuna sonorità “etnica”, ma ha scelto comunque una serie di musicisti del pedigree formidabile: oltre ai soliti noti Steve Gadd e Vincent Nguini, abbiamo gente come John Patitucci, Bill Frisell, Jack DeJohnette, Wynton Marsalis, Sullivan Fortner ed in due pezzi il sestetto d’archi yMusic. Come avrete notato, una lista di musicisti che proviene dal modo del jazz, ed infatti è proprio il jazz la base dei nuovi arrangiamenti pensati da Paul, una rielaborazione di gran classe e raffinatezza, con un gusto sopraffino per i suoni calibrati al millimetro, anche se questo non basta per fare un grande disco. Le canzoni infatti sono contraddistinte da un passo spesso lento, a volte anche lentissimo, e le atmosfere sono qua e là un po’ freddine anche se il tutto risulta tecnicamente ineccepibile: ma Simon ha sempre fatto musica più con la testa che con il cuore, e non potevo certo pensare che cambiasse a quasi ottant’anni.

Il pezzo più noto del disco è senza dubbio René And Georgette Magritte With Their Dog After The War, tratto da Hearts And Bones che era uno dei suoi album migliori di sempre (e forse non tutti sanno che in origine doveva essere il reunion album di Simon & Garfunkel, poi i due hanno “stranamente” litigato): canzone splendida, che fa la sua bella figura anche in questa versione minimale e cameristica, essendo infatti uno dei due pezzi con il sestetto yMusic (più Paul alla chitarra elettrica), con gli archi che accarezzano la melodia facendola risaltare ancora di più. Un altro pezzo che ogni tanto negli anni Paul riproponeva dal vivo è One Man’s Ceiling Is Another Man’s Floor (tratta da There Goes Rhymin’ Simon) un brano bluesato che qui mantiene l’impianto originario aggiungendo un sapore jazz: ritmo cadenzato, ottimo pianoforte di Joel Wenhardt ed un crescendo strumentale notevole, che culmina con l’ingresso di tromba e sax. Uno dei pezzi con più brio, ed infatti è stato messo in apertura di CD. Io non avrei preso in considerazione l’album You’re The One per scegliere canzoni da riarrangiare, dato che lo considero il meno riuscito di tutta la carriera di Paul, che però evidentemente la pensa in modo diverso, dato che di brani da quel disco ne ha scelti ben quattro: in Love sono solo in quattro a suonare, con la riconoscibilissima chitarra di Frisell come leader, per un brano soffice e rilassato, suonato con classe ma sul quale mantengo le mie perplessità riguardo allo script, Pigs, Sheep And Wolves, solo voce, percussioni ed una sezione fiati di sei elementi guidati dalla tromba di Marsalis, è rielaborata quasi dixieland, ma anche qui la canzone latita parecchio, mancando di una vera e propria melodia.

The Teacher è un po’ meglio, sia per un miglior motivo di fondo che per il bell’accompagnamento chitarristico dei fratelli brasiliani Odair e Sergio Assad, in stile flamenco, mentre la lunga (più di sette minuti) Darling Lorraine è suonata alla grande, con una band da sogno che vede in contemporanea Frisell, Nguini, Gadd e Patitucci, e la canzone ne esce migliorata. Can’t Run But (da The Rhythm Of The Saints) è l’altro pezzo con gli yMusic, che qui suonano in maniera nervosa e movimentata, aderendo in maniera perfetta alla linea melodica del brano: Paul canta con il consueto fraseggio vocale rilassato ed il tutto risulta intrigante (l’arrangiamento è di Bryce Dessner, chitarrista e membro di punta dei National). How The Heart Approaches What It Yearns, che viene da One Trick Pony, è puro jazz d’atmosfera, con un accompagnamento di classe sopraffina, che vede la tromba di Marsalis gareggiare in bravura col fantastico piano di Fortner ed il basso di Patitucci: se proprio vogliamo è un po’ soporifera, ma volete mettere addormentarsi con musicisti come questi? Il disco termina con Some Folks Lives’ Roll Easy (presa da Still Crazy After All These Years), tutta incentrata sullo splendido piano classicheggiante di Fortner e con la sezione ritmica Patitucci/DeJohnette che spazzola sullo sfondo, e con Questions For The Angels, che era una delle canzoni migliori di So Beautiful Or So What, ed anche qui si colloca tra le più riuscite, con begli intrecci tra l’acustica di Simon e l’elettrica di Frisell.  Un buon disco quindi, ma non il grande disco che da troppi anni i fans di Paul Simon aspettano, un po’ per la discutibile scelta di alcune canzoni, un po’ per il poco calore umano del suo autore, più propenso a confezionare piccoli e raffinati capolavori di tecnica strumentale che a regalare emozioni.

Marco Verdi

P.S: tra pochi mesi, forse già entro l’anno a detta di qualcuno, Simon dovrebbe pubblicare anche Alternate Tunings/Rare and Unreleased, una collezione appunto di rarità, demos ed inediti presi da vari momenti della sua carriera. Sulla carta dovrebbe essere un disco imperdibile, ma vedremo meglio al momento dell’uscita.

Sempre Il Solito Simon, Complesso E Moderno, Ricco Di Suoni “Stranieri”. Paul Simon – Stranger To Stranger

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Paul Simon – Stranger To Stranger – Concord/Universal

Quell’occhio, benevolo ma inquietante, che ti scruta dalla copertina di questo nuovo Stranger To Stranger è quello di un signore di 75 anni (a metà ottobre) che, a differenza per esempio di Dylan, ha preferito rivolgere il suo sguardo verso il “futuro”, con un album costruito su sonorità “moderne”, forse con più grooves e ritmi rispetto alle melodie del passato, ma sempre ricco di fascino e complessi intrecci sonori. Che poi ci riesca completamente magari è soggetto ai diversi punti di vista degli ascoltatori, ma sicuramente ci prova. Questo disco in fondo è “solo” il tredicesimo album di studio in una carriera solista iniziata nel lontano 1972 (e contando anche il Paul Simon Songbook, pre-Simon & Gafrunkel, del 1965 e la colonna sonora di One Trick Pony): quindi non una carriera particolarmente ricca di prove discografiche, e in questo senso ogni nuovo CD di Paul Simon è un evento. Il precedente album So Beautiful Or So What era un buon disco, magari non un capolavoro (http://discoclub.myblog.it/2011/04/10/temp-d60b04cfdc8f0c74be0a93f5c8899c81/), e, a mio modesto parere, neppure questo Stranger To Stranger lo è, pur se superiore a quel disco e non così formidabile come lo sta dipingendo la parte della critica musicale mondiale che ne ha già parlato.

Nell’ambito della “modernità” dei suoni è sicuramente superiore a Surprise, il disco del 2006 registrato con Brian Eno, che non aveva retto alle aspettative della strana coppia, e come contenuti musicali a You’re The One, il disco del 2000 e al pasticciato musical Songs From The Capeman, quindi forse il miglior disco di Simon dai tempi di The Rhythms Of The Saints, ma comunque nettamente inferiore sia a quel disco, come ai capolavori Graceland Hearts & Bones (quello che prediligo in assoluto). A proposito di modernità per l’occasione Simon rispolvera l’ottuagenario Roy Halee, il produttore ed ingegnere del suono dei suoi dischi migliori, non più avvezzo al suono di pro-tools ed altre diavolerie elettroniche (e Paul ha dovuto fargli da tramite verso le nuove tecnologie) ma che non sembra avere perso il tocco magico nel fondere nuovi suoni con il calore del suono analogico. Come al solito (da cui il titolo del post) Paul Simon non ha perso il vizio di sperimentare ardite e, in parte, riuscite aggregazioni di diverse sonorità: lo spirito folk e melodico della sua tradizione, la musica popolare di diversi paesi e continenti, dal folklore del Perù al flamenco della Spagna, passando per l’amata Africa, e anche i beat elettronici dell’italiano Clap! Clap (Digi D’Alessio, con la D, all’anagrafe Stefano Crisci da Firenze), oltre all’utilizzo di strumenti mutuati dalla musica contemporanea di Harry Partch e alla batteria di Jack De Johnette e la voce di Bobby McFerrin, da un ambito jazz. Ed ecco quindi apparire, nei vari brani, strumenti come il gopichand, la Hadjira, la trombadoo, il Big Bong Mbira, il chromelodeon, lo zoomoozophone, accanto a glockenspiel, celeste, marimba e flamenco dancing (prego?!?).

Ebbene sì, perché è il groove, l’afflato ritmico, quello che vince in questo Stranger To Stranger, ogni tanto la volontà di sperimentare nuovi suoni va a scapito della melodia, spesso in passato protagonista principale delle canzoni più belle di Paul Simon, e qui ce ne sono comunque alcune notevoli. Però, andando a stringere, due brani sono strumentali, The Clock, che è un breve sketch di un minuto per orologio, mbira e chitarra acustica e la delicata e deliziosa In The Garden Of Edie, dedicata alla moglie Edie Brickell, una sorta di ninna nanna pastorale sussurrata a bocca chiusa su uno strato di strumenti suonati dallo stesso Paul. Poi ci sono i tre brani dove appare l’elettronica di Clap! Clap!, molto presente ma non troppo invasiva, utilizzata con giudizio ed un certo gusto: nell’iniziale The Werewolf dove viene incorporata in un maelstrom di percussioni etniche, batterie elettroniche, fiati, organo, celeste, chitarra slide, battiti di mano, schiocchi di dita, inserti di fiati e mille altri particolari che la rendono affascinante e unica. Wristband, molto ritmata, viaggia sul suono del basso di Carlos Henriquez, strumento sempre molto amato da Paul, gli inserti vocali di Keith Montie, i fiati di Andy Snitzer CJ Camerieri e di mille percussioni, per un altro intreccio non inconsueto nella musica del nostro, mentre la breve Street Angel è costruita solo sul groove di vari strumenti e percussioni, il campionamento delle voci del Golden Gate Quartet (che qualcuno ha inserito tra i musicisti del disco, peccato che quelli originali non esistono più da una cinquantina di anni), ma mi sembra più irrisolta rispetto alle due precedenti.

La title-track Stranger To Stranger è una canzone splendida, sognante ed avvolgente, un classico di Simon, con la chitarra intrigante del fedele Vincent Nguini, l’apporto ritmico del bravissimo batterista (e polistrumentista) Jim Oblon, il flauto di Alex Sopp e gli inserti dei fiati di C.J. Camerieri, oltre al flamenco dancing sinuoso di Nino De Los Reyes, affascinante. Particolare anche la breve In A Parade (uno dei quattro brani che faticano ad arrivare ai due minuti), solo la voce di Paul e le percussioni di Oblon, canzone che è “interpretata” dallo stesso carattere del brano Street Angel, ma non mi acchiappa particolarmente nella sua sequenza di liriche di cui non afferro a fondo il senso. Proof Of Life, viceversa, è un altro brano splendido, intenso ed incalzante, ma al tempo stesso soffuso, con un cantato tipico di Simon ed una ricca strumentazione, dove fiati, percussioni e tratti orchestrali si integrano perfettamente con le chitarre del nostro e di Vincent Nguini, questa volta alle acustiche. Molto bella anche Riverbank, una canzone vivace ed elettrica, caratterizzata da un doppio basso, acustico ed elettrico, dalla chitarra circolare dello stesso Simon e dal tocco magico della batteria di Jack De Johnette, che si unisce ai mille percussionisti impiegati nel disco, con viola e cello, oltre alla marimba, a dare tocchi di colore al sound. E splendida Cool Papa Bell, dove ci rituffiamo nei suoni e nei ritmi africani di Graceland, di nuovo con la chitarra elettrica di Vincent Nguini a menare le danze, il basso tuba di Marcus Rojas a fornire la quota New Orleans del sound e tutti gli strati di percussioni che avvolgono, questa volta senza soffocarla o nasconderla troppo, la melodia della canzone. Ottima anche la conclusiva, dolcissima Insomniac’s Lullaby, di nuovo una ninna nanna minimale, costruita intorno alla chitarra e alla voce di Paul Simon, circondate comunque da mille strumenti appena accennati e dalla voce di McFerrin, impegnati a dare profondità e spessore al suono.

Esiste anche una immancabile e costosa versione Deluxe (singola) che aggiunge altri cinque brani: Horace and Pete, l’unico inedito, Duncan ( Live) bellissima https://www.youtube.com/watch?v=IPjzRZCCAPA , Wristband ( Live), entrambi registrati nel febbraio del 2016 nella nota trasmissione televisiva A Prairie Home Companion, Guitar Piece 3 ( un altro breve brano strumentale), e New York is My Home con Dion, già apparso nell’omonimo disco del cantante newyorkese. Quindi, concludendo, un bel disco, a tratti ottimo, ma, almeno per il sottoscritto, non un capolavoro assoluto. Poi ce lo dirà il tempo, se rimarrà come questa canzone https://www.youtube.com/watch?v=T0tmgmBBm4E

Esce oggi 3 giugno.

Bruno Conti