Sempre Tra Blues E Soul, E La Voce Non Ha Bisogno Di “Controllo Dei Danni”! Curtis Salgado – Damage Control

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Curtis Salgado – Damage Control – Alligator Records/Ird

Già detto, ma repetita iuvant e quindi ricordiamolo di nuovo: Curtis Salgado è il “Blues Brother” originale, quello sul quale Belushi e Aykroyd hanno basato i loro due personaggi, ma condensati in uno, un eccellente armonicista e un formidabile cantante che il successo ha eluso, rimanendo un fantastico artista di culto, inanellando in una quarantina di anni abbondanti di carriera una serie di album di grande qualità, con alcune punte di eccellenza, Nonostante i molteplici problemi di salute (penso che il titolo del disco venga da lì)  che definire tali è quantomeno minimizzare (due tumori, un quadruplo bypass coronarico) ha continuato pervicacemente a sfornare nuova musica: l’ultimo CD era Rough Cut, un album principalmente acustico, in coppia con Alan Hager, pubblicato dalla Alligator (sempre garanzia di qualità) https://discoclub.myblog.it/2018/02/26/sempre-il-blues-brother-originale-anche-in-versione-piu-intima-curtis-salgado-alan-hager-rough-cut/ ,che dal 2012 lo ha messo sotto contratto. A due anni di distanza arriva ora questo Damage Control e ancora una volta Salgado centra l’obiettivo: forse, ma forse, la voce non è più così potente e devastante come qualche anno fa, ma ha acquistato una patina di vissuta maturità e francamente è ancora una delle migliori in assoluto in quell’ambito tra blues, soul e rock’n’roll dove Curtis ha pochi rivali.

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E come Dustin Hoffman (lui una volta) non sbaglia un colpo: il disco è stato registrato tra la California e il Tennessee, con la produzione dello stesso Salgado e con l’aiuto di una nutrita pattuglia di formidabili musicisti. Dodici canzoni nuove e una cover, per un album che ancora una volta farà godere come ricci gli appassionati di questa musica senza tempo: si parte subito bene con la “provocatoria” The Longer That I Live, una robusta apertura dove Curtis è accompagnato da Kid Andersen alla chitarra solista, Mike Finnigan all’organo, Jim Pugh al piano, con la sezione ritmica di Jerry Jemmott al basso e Kevin Hayes alla batteria, con Salgado che canta con il solito impeto e la classe del cantante soul che sono sempre insite in lui e incantano l’ascoltatore, oltre  a “testimoniare” https://www.youtube.com/watch?v=ikRzUBWoUIY . In What Did Me In Did Me Well, sfodera anche l’armonica e ci regala una blues ballad incantevole, sempre con quella voce ancora magnifica capace ci convogliare lo spirito delle 12 battute (e che assolo Kid Andersen), ma anche retrogusti gospel e soul, una meraviglia, specie quando si “incazza” nel finale. Nella ironica You’re Going To Miss My Sorry Ass arriva l’altra pattuglia di collaboratori, George Marinelli alla chitarra, Kevin McKendree ad un piano quasi barrelhouse, Johnny Lee Schell alla seconda voce, Mark Winchester al contrabbasso e Jack Bruno alla batteria, per un’altra eccellente canzone tra R&R e blues.

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Precious Time, con Marinelli alla slide ha un che di stonesiano (in effetti lo stesso Salgado ha parlato di un “Rock’n’roll Record”), e Wendy Moten alle armonie vocali attizza come si deve il buon Curtis https://www.youtube.com/watch?v=3uYEWzjW1g4 . La deliziosa e saltellante Count Of Three ci introduce alle delizie della doppia chitarra di Schell e Dave Gross, oltre alla batteria di Tony Braunagel, mentre il nostro amico guida la truppa con la solita verve, ma poi non può esimersi dal regalarci una di quelle sue superbe ballate accorate dove eccelle e Always Say I Love You, con organo gospel scivolante di Finnigan e il piano di Jackie Miclau, sono sicuro che avrebbe incontrato l’approvazione di Solomon Burke, un altro che aveva una big voice come Salgado, simile nel timbro, la Moten emoziona sullo sfondo. Per la lezione di storia di Hail Might Caesar, arriva una piccola sezione fiati e si va di errebì scandito con il nostro che un po’ gigioneggia, ma ci piace proprio per quello https://www.youtube.com/watch?v=gnQTttAgiL0 ; in I Don’t Do That No More siamo a metà strada tra Fabulous Thunderbirds e Blasters, e la band tira alla grande, con McKendree che va di boogie piano con passione e pure il nostro ci mette il solito impegno.

Curtis Salgado

Anche Oh For The Cry Eye è condotta con la la souplesse che solo i grandi hanno, un tocco di Dr. John o Allen Toussaint qui, un tocco sexy della Moten là, e Curtis che sovraintende al tutto https://www.youtube.com/watch?v=e37RK80kOFQ , prima di rituffarsi nel blues per una notturna e raffinata title-track, che cita anche coloriture jazzy e R&B https://www.youtube.com/watch?v=aU7Pd06DV-A , Truth Be Told, con Wayne Toups a fisa squeezebox e seconda voce, ci regala anche un bel tocco di allegro cajun che non guasta https://www.youtube.com/watch?v=fK5M9qBQm44 , e nella minacciosa e funky The Fix Is In, di nuovo con armonica d’ordinanza pronta alla bisogna, ci istruisce sulle virtù della buona musica blues, con Andersen, Finnigan e Pugh a spalleggiarlo in questa lezione sulle 12 battute https://www.youtube.com/watch?v=42jOLh5b7b8 , prima di congedarci con una travolgente e rauca versione della classica Slow Down di Larry Williams (la cantava anche Paul McCartney nei Beatles), che è puro R&R con fiati come raramente si ascolta ai giorni nostri https://www.youtube.com/watch?v=X8JJFixLwsQ . Curtis Salgado ha colpito di nuovo!

Bruno Conti

Confermo, Trattasi di Uno Bravo: Forse Migliore Anche Del Disco Precedente! Owen Campbell – Breathing Bullets

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Owen Campbell – Breathing Bullets – owencampebllmusic.com/Roc Records

“Questo è uno bravo, talent show a parte”! Così concludevo la recensione del precedente disco di Owen Campbell The Pilgrim, uscito nel 2014 e accolto con buone critiche in giro per il mondo e vendite interessanti nel suo paese, l’Australia http://discoclub.myblog.it/2014/11/09/i-talent-producono-anche-dei-talenti-veri-australia-owen-campbell-the-pilgrim/ . Perché questo signore, non più giovanissimo, è approdato alla musica che conta (almeno a livello qualitativo) attraverso la versione down under di Australia’s Got Talent, ma aveva comunque già pubblicato dei dischi a livello locale prima di partecipare al famoso talent. Diciamo che, a mio avviso, le eccezioni alla regola, ovvero che i partecipanti ai talent show dovremmo lasciarli al loro destino, sono abbastanza rare: mi vengono in mente d’acchito Crystal Bowersox, prodotta da Jono Manson, ma era American Idol e in Australia a The Voice la bravissima Mahalia Barnes, la figlia di Jimmy, ma si contano sulle dita di una mano. Ora Campbell, dopo un paio di EP, Songs For Syria e In The Shadow Of The Greats, un mini di cover di brani celebri https://www.youtube.com/watch?v=DL3jasJ5RNw , approda a questo nuovo album Breathing Bullets, registrato in quel di Memphis, con la produzione di Devon Allman e con Tom Hambrdige che si occupa, con buoni risultati come sempre, del lato tecnico: i musicisti, a parte l’ottimo Rick Steff alle tastiere e Wendy Moten alle armonie vocali, sono nomi locali, mai sentiti da chi scrive, ma che contribuiscono comunque al suono solido e vibrante che scaturisce dal disco, con un punto di merito per il secondo chitarrista, dal nome esotico, Von Dé Nammla, che duetta spesso con Owen nelle parti strumentali del CD.

Per il resto siamo di fronte ad un disco che potremmo definire “sudista”, sia per la provenienza di Owen, viene dal New South Wales australiano, sia per la musica, una miscela di blues, rock, qualche tocco soul e un pizzico di country, Americana – bisognerebbe forse dire Australiana –  dieci brani che portano tutti la sua firma, dove si apprezza la sua voce, non eccelsa magari, ma consistente, se dovessi azzardare un paragone mi ricorda quella di Chris Rea quando si occupa di blues e non di canzoncine, oppure anche, vagamente, Tony Joe White, senza dimenticare i modelli southern,  come è ovvio per un disco registrato tra Memphis, Nashville e il sud dell’Australia. La canzone Breathing Bullets racconta delle frustrazioni degli ultimi anni, quando ha dovuto “respirare pallottole”, ovvero tornare a fare il musicista di strada, dopo anni di tour che lo avevano portato in giro per il mondo, Italia inclusa, risorgendo come una sorta di fenice musicale, più forte e gagliardo di prima: un brano che tira alla grande, con organo, chitarre e una scatenata Wendy Moten, che tirano la volata a Campbell, per un canzone che mescola rock got soul, profumi gospel e pure qualche reminescenza stonesiana alla Gimme Shelter, bella partenza. Sempre bluesy, con un bel blend di chitarre acustiche ed elettriche, e il solito organo di Steff, è la successiva On My Knees, ancora la Moten che titilla la voce vibrante di Owen, per un altro sano pezzo di rock, sudista e sudato.

Howling è un ottimo mid-tempo atmosferico, avvolgente e incalzante, potrebbe ricordare persino le cose di quel grande che fu un altro Campbell, John, non dimenticato, spero (almeno da chi scrive, sicuramente) grande musicista americano, e anche l’assolo di chitarra è cattivo e ruvido quanto basta. C’è spazio anche per brani più acustici, folkeggianti, come la raccolta Rattlin’ Round, un perfetto brano da stoyteller, quale Owen Campbell anche è, non sfigura, per dire, rispetto a certe ballate malinconiche di Steve Earle. Eagle Man nasce da un viaggio di ritorno dal Grand Canyon, una sorta di sogno ad occhi aperti su un vecchio indiano, a tempo di ballata, con chitarra acustica, violoncello ed organo a circondare mirabilmente la bella voce del nostro, mentre Keep On Walkin’ ritorna al rock-blues deciso del resto del disco, con la slide a dettare l’atmosfera, sino a che non entra l’armonica, sempre suonata da Campbell, a chiudere il cerchio. Soldier Of Fortune, sembra un brano del vecchio british blues più rockeggiante, pensate a Savoy Brown, Foghat, ancora grazie alla slide tagliente che rievoca Rod Price, con la Motem che si “agita” nuovamente, sempre sullo sfondo. Rise ci introduce di nuovo all’uso del bottleneck, questa volta usato con classe su un tessuto acustico, ma dall’arrangiamento complesso ed affascinante, altra gran bella canzone, come pure Struggle Town, ancora una pillola di rock sudista energico e ricco di grinta, mentre il finale è lasciato al country, un po’ vaudeville, un po’ honky tonk, della deliziosa Coming Home To You. Non posso che confermare, questo signore è bravo, se il vostro budget ve lo permette fateci un pensierino, il disco merita.

Bruno Conti