Altro Che Country, Questo E’ Rock’n’Roll Coi Fiocchi E Controfiocchi! Will Hoge – Tiny Little Movies

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Will Hoge – Tiny Little Movies – EDLO/Thirty Tigers CD

Will Hoge, originario del Tennessee ed allenatore di baseball mancato, è un countryman dal pelo duro che ridendo e scherzando ha già superato i vent’anni di carriera, gran parte dei quali trascorsi come artista indipendente (tranne un album del 2003 pubblicato dalla Atlantic ed un periodo di cinque anni in cui ha inciso per la Rykodisc), ma che negli ultimi tempi è distribuito dalla Thirty Tigers, tra le migliori indie labels oggi in America. Il suo nuovo album, che segue di tre anni Anchors https://discoclub.myblog.it/2017/08/22/da-nashville-tennessee-un-bravissimo-rock-troubadour-americano-will-hoge-anchors/ , si intitola Tiny Little Movies, ed è un lavoro particolare e diverso da tutto ciò che il nostro ha pubblicato in precedenza. Se infatti i dischi incisi in passato da Will, pur avendo un sound robusto e molto poco nashvilliano, erano comunque chiaramente di matrice country, con Tiny Little Movies Hoge ha voluto fare un vero e proprio rock’n’roll record. Il nostro infatti ha affittato per quattro giorni una sala prove a East Nashville e si è portato una band ristretta ma tostissima, composta dal chitarrista Thom Donovan e dalla sezione ritmica formata da Christopher Griffiths al basso e dal batterista Allen Jones, ed insieme hanno messo su nastro le undici canzoni che compongono il disco, undici brani di puro rock’n’roll chitarristico suonato in presa diretta e senza troppi fronzoli, dando poi da mixare il tutto a Matt Ross-Spang, noto per aver collaborato con Jason Isbell e Margo Price.

Due chitarre, basso, batteria e null’altro (se non per qualche sovrincisione di piano ed organo), un album rock al 100% in cui il nostro dimentica momentaneamente l’influenza di Buck Owens per palesare il suo amore per Rolling Stones e Bob Seger. Ma solo la grinta ed il suono non basterebbero se non ci fossero anche le canzoni, ed in Tiny Little Movies ce ne sono di notevoli, anche se la cosa non mi stupisce più di tanto perché Hoge è sempre stato un valido songwriter, tuttalpiù non me lo aspettavo così a suo agio nei panni del rocker. L’iniziale Midway Motel è un po’ il manifesto del suono dell’album, una rock’n’roll song bella e limpida, con le chitarre in primo piano, la sezione ritmica che picchia duro e Will che intona con voce arrochita un motivo di quelli che ti prendono subito, concedendosi anche un breve assolo di armonica: gran bella canzone, miglior avvio non ci poteva essere. The Overthrow vede il ritmo pompare di brutto per un pezzo decisamente aggressivo ed elettrico, oserei dire quasi punk, ma con l’approccio da vera rock’n’roll band per un pezzo trascinante e godurioso dal punto di vista chitarristico; Maybe This Is Ok è più tranquilla, con un inizio attendista quasi per sola voce e batteria, poi entrano di soppiatto gli altri strumenti e la temperatura sale di brutto nel refrain con le chitarre che si prendono il centro della scena.

La pessimistica Even The River Runs Out Of This Town abbassa i toni e vede il nostro nelle vesti del songwriter per un brano dallo sviluppo melodico toccante e dal sound in gran parte acustico, anche se non manca il solito intermezzo elettrico; in My Worst spunta un piano wurlitzer a dare un sapore sudista al pezzo, una sontuosa rock ballad dal ritmo cadenzato e splendide chitarre, nobilitata da un coro femminile che ci porta ancora di più all’interno dei Muscle Shoals Studios, almeno idealmente: grande canzone. La potente That’s How You Lose Her è ancora puro rock’n’roll, chitarre al vento ed ennesimo motivo vincente, Con Man Blues è persino più adrenalinica e dura come suono ma meno incisiva dal punto di vista dello script (e qui Will, non sto scherzando, canta che sembra Ozzy Osbourne https://www.youtube.com/watch?v=iWGJMuFyEVY ), ma con Is This All That You Wanted Me For l’album torna dalla parte giusta, con un’altra ballata dal suono caldo e con organo, piano e chitarre a dare un mood tipico da rock band anni settanta. Il CD, una piacevole sorpresa, si chiude con la lenta The Likes Of You, intensa e crepuscolare, la bella The Curse, altra rock song tersa e solare che sembra uscita dalla penna di Tom Petty, e lo slow All The Pretty Horses, un brano ricco di pathos che vede spuntare dal nulla ma abbastanza chiaramente l’influenza di The Band.

Sono tempi difficili, e scariche elettriche come quelle che ci può dare un disco come Tiny Little Movies non saranno utili a risolvere i problemi ma possono indubbiamente contribuire a farci stare un po’ meglio.

Marco Verdi

 

 

Da Nashville, Tennessee Un Bravissimo Rock Troubadour Americano. Will Hoge – Anchors

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Will Hoge – Anchors – Edl Records/Thirty Tigers

Will Hoge non è un novellino, esordisce nel 2001 con Carousel pubblicato dalla Atlantic (ma ne aveva già pubblicato uno autogestito nel 1997 Spoonful – Tales Begin To Spin), presentandosi come un cantautore rock abbastanza tirato, non molto dissimile (salvo forse nel talento) dall’amico Dan Baird dei Georgia Satellites, che gli dà una mano in questo primo album per una major, discreto ma non memorabile, senza una direzione musicale ben definita. L’Atlantic gli dà fiducia e nel 2003 esce un nuovo album per loro, Blackbird On A Lonely Wire: Baird non c’è più, ma il chitarrista che lo sostituisce non scherza, tale Brian Layson, che oggi è uno dei sessionmen più apprezzati a Nashville, tra gli ospiti troviamo la rocker Michelle Branch, Rami Jaffee dei Wallflowers all’organo, e un sound che rimane energico ma vira verso un buon blue collar rock con elementi jangle. Naturalmente il disco non vende e Hoge viene scaricato, ma persiste con la sua musica, pubblicando un terzetto di album per la Rykodisc negli anni che vanno tra il 2007 e il 2009, tra cui Draw The Curtains, di nuovo con Baird e Jafee, ma anche Garrison Starr; Pat Buchanan Reese Wynans, che mostra una vena sudista e The Wreckage, forse il suo migliore fino ad oggi, prodotto da Ken Coomer dei Wilco, che suona anche la batteria nel disco, dove appare la futura Pistol Annie Ashley Monroe e il bravissimo chitarrista Kenny Vaughan dei Fabulous Superlatives di Marty Stuart, disco che vira verso un country(rock) di qualità, già presente comunque anche negli album precedenti e che contiene Even If It Breaks Your Heart, che gli frutterà un numero 1 nelle classifiche country nella versione della Eli Young Band.

Pure in Number Seven, a dimostrazione della stima di cui gode Hoge tra i colleghi arriva come ospite Vince Gill, e ad affiancare Vaughan come chitarrista ci sono anche Carl Broemel dei My Morning Jacket, Bucky Baxter alla pedal steel e Kenny Greenberg. Senza dimenticare che comunque nei dischi di Will suona spesso anche la band con cui gira l’America per concerti. Finito il periodo Rykodisc Hoge pubblica due ulteriori dischi a livello indipendente, Never Give In, che grazie alla presenza di Doug Lancio alla chitarra, tra i tantissimi musicisti impiegati, molti gli stessi dei dischi precedenti, indica una influenza di Hiatt, ma anche Mellencamp e Bob Seger vengono citati tra le fonti di ispirazione e l’ultimo Small Town Dreams,sempre per la piccola etichetta di Nashville, la Cumberland Records, disco che conferma le bontà delle sue composizioni (non a caso tra quelli che firmano i brani con lui c’è un certo Chris Stapleton) e le influenze country-rock, roots e blue collar, con una predilezione per le ballate.

Come si evince da questa lunghissima introduzione (ma il personaggio merita) Will Hoge è uno di quelli bravi, come conferma il nuovo Anchors, disco numero 10 della sua discografia, autoprodotto per la propria etichetta Edl Records e poi affidato alla eccellente Thirty Tigers che ne cura la distribuzione. Nel frattempo il nostro amico ha sciolto la band che lo accompagnava nei concerti, girando da solo nel 2016, solo voce, chitarra e tastiere (ma nei suoi dischi lo ha sempre fatto, suonando anche armonica e vibrafono) e preparando le canzoni per il nuovo album, dove si produce da solo, ma utilizza ancora una volta ottimi musicisti come Jerry Roe, batterista (Emmylou Harris & Rodney Crowell, ma anche l’ultimo ottimo di Shannon McNally) il bassista Dominic Davis (Jack White, Wanda Jackson; Luther Dickinson, Jim Lauderdale) e i due chitarristi Brad Rice (Son Volt, Rayn Adams) Thom Donovan (Ruby Amanfu e in passato Robert Plant), Dave Cohen al piano (anche lui con Shannon McNally di recente) oltre a Fats Kaplin, violino, mandolino e pedal steel, nonché una piccola sezione fiati in un brano. Come ospite, a duettare in un pezzo è presente Sheryl Crow, che è la seconda voce in Little Bit Of Rust, uno dei pezzi più country del disco, una bella ballata midtempo rootsy-rock con uso di mandolino e violino affidati a Kaplin e un tagliente assolo di slide che non guasta, tra le migliori del disco, che comunque mantiene un ammirevole elevato livello qualitativo in tutti i gli undici brani che lo compongono.

Per intenderci siamo dalle parti di quei troubadours alla Hayes Carll, Pat Green Jack Ingram, forse non dei numeri uno, ma comunque ottimi autori e cantanti. Will Hoge ha una voce leggermente roca e vissuta il giusto, come confermano brani come la splendida southern ballad Cold Night In Santa Fe, che ha profumi che rimandano addirittura alla Band. Ottima anche l’iniziale The Reckoning, una country song cadenzata che ricorda i primi Son Volt o i Wilco, quelli più melodici e avvolgenti, con un bel lavoro elettroacustico delle chitarre, oppure la deliziosa 17, una canzone dove qualcuno ha visto delle analogie con il miglior Bob Seger degli anni ’70, e quando entrano i fiati nel finale e una slide di nuovo a tagliare in due il brano, qualche elemento del Van Morrison californiano aggiungerei io, ebbene sì è così bella. Young As We Will Ever Be rimanda al jingle jangle del miglior Tom Petty, con le chitarre spiegate e un assolo alla Mike Campbell; groove e ambiente sonoro poi replicati anche nell’eccellente Baby’s Eyes che è più dalle parti di Wildflowers, con qualche tocco anche alla George Harrison, sempre bella comunque.

The Grand Charade è un’altra ballatona di quelle malinconiche e dolenti, brani come quelli che si trovano nei migliori dischi country dei cantanti californiani degli anni ’70, con un bel lavoro del piano di David Cohen. Non manca il R&R a tutte chitarre presente nei dischi precedenti e (This Ain’t) An Original Sin ne è un ottimo esempio, ritmo, grinta, sudore, coretti springsteeniani e riff a tutto spiano, per un brano da sentire a volume adeguato mentre viaggiate in automobile. Will Hoge veleggia per i 45 anni e tiene famiglia, ma ogni tanto gli scappa la ballata “amorosa” come la delicata Through Missing You, con un breve assolo di slide degno del miglior David Lindley. Per non dire della splendida Angels Wings una country ballad di quelle perfette nobilitata dal grande lavoro di Fats Kaplin alla pedal steel, brano che rimanda di nuovo alle canzoni più emozionanti del Bob Seger targato anni ’70 con una interpretazione vocale veramente ispirata di Will Hoge. Manca ancora la title-track Anchors (come avrete notato i brani non appaiono nella recensione nella sequenza del disco, ma in fondo chi se ne frega), un altro mid-tempo dall’andatura riflessiva e sobria, dove le chitarre acustiche ed elettriche costruiscono ancora una volta una sognante atmosfera sonora di grande impatto emotivo per l’ascoltatore, Per il sottoscritto, fino a questo punto, il disco è una delle più piacevoli sorprese del 2017. Peccato non averlo visto quando è venuto in Italia all’anteprima del Buscadero Day il 4 luglio scorso.

Bruno Conti

Non Più Solo Countryman, Ma Un Songwriter Completo! Hayes Carll – Lovers And Leavers

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Hayes Carll – Lovers And Leavers – Highway 87/Thirty Tigers CD

Con cinque dischi in quindici anni, non si può certo dire che Hayes Carll, singer-songwriter texano, sia uno che inflazioni il mercato discografico. Dopo i due album di esordio, nei quali aveva fatto già intravedere buone qualità (specie nel secondo, Little Rock), è con lo splendido Trouble In Mind del 2008 che il nostro si rivela come uno dei più dotati talenti in campo alternative country, con un disco di ottime canzoni in perfetto stile Americana, condite da testi contraddistinti da uno spiccato senso dell’ironia, un lavoro bissato tre anni dopo dall’altrettanto valido KMAG YOYO, altro CD molto country-oriented che non faceva che confermare quanto di buono Carll aveva mostrato in precedenza.

Ora, a ben cinque anni di distanza, Hayes torna tra noi con Lovers And Leavers, che segna un deciso cambiamento di registro: un lavoro molto meno country e più folk, nel quale il nostro predilige le ballate ed i pezzi più riflessivi, ma da un certo punto di vista migliora anche la qualità della sua proposta: Lovers And Leavers ci mostra infatti un autore definitivamente maturato, che ha una perfetta padronanza della materia e sa come fare un album intero di sole ballate senza annoiare neppure per un attimo. In più, Hayes ha scelto come produttore uno dei migliori sulla piazza, Joe Henry, che fa al solito un ottimo lavoro e si conferma perfetto per un certo tipo di sonorità, cucendo attorno alla voce del nostro pochi strumenti, centellinando gli interventi, e mettendo in risalto le melodie piene di fascino dei dieci brani presenti. Anche la band che accompagna Carll è frutto di una attenta selezione: oltre a Hayes stesso che suona la chitarra acustica, troviamo il fedelissimo (di Henry) Jay Bellerose alla batteria, che come di consueto fa un lavoro raffinatissimo e mai invasivo, l’ottimo Tyler Chester al piano ed organo, David Piltch al basso ed Eric Heywood alla steel; avrete notato l’assenza assoluta di chitarre elettriche, ma devo dire che durante l’ascolto del CD quasi non ci si fa caso.

Dulcis in fundo, Hayes ha scritto i pezzi di questo disco con alcuni personaggi a noi ben noti, dal famoso countryman Jim Lauderdale, ai meno conosciuti ma non meno validi Darrell Scott e Will Hoge, passando per Jack Ingram, l’ex signora Earle, Allison Moorer e, in Jealous Moon, addirittura J.D. Souther. Drive inizia soffusa, con un arpeggio chitarristico ed una leggera percussione, e la voce di Carll ad intonare una melodia molto folk, un brano puro con un bel crescendo emozionale. E la mano di Henry si sente già. Molto bella Sake Of The Song, un pezzo tra folk e blues dal motivo coinvolgente, ritmo cadenzato ed ottimi fills di piano, steel ed organo, mi ricorda curiosamente certe cose dei Kaleidoscope (un grandissimo gruppo oggi purtroppo totalmente dimenticato dove suonavano David Lindley Chris Darrow): grande canzone. Anche Good While It Lasted è dotata di un pathos notevole, pur avendo tre strumenti in croce intorno alla voce particolare del leader: è proprio da brani come questo che si comprende la crescita esponenziale del nostro come autore, e la scelta di Henry, un maestro della produzione “per sottrazione”, si rivela vincente.

You Leave Alone ha l’andatura di una country ballad, ma anche qualche vaga somiglianza con Deportee di Woody Guthrie: voce e poco altro, ma che feeling; My Friends ha un suono più pieno, con punti in comune con il country “cosmico” di Gram Parsons, il passo è sempre lento ma non ci si annoia per niente; The Love That We Need, scritta a sei mani con Ingram e la Moorer, è in effetti una delle migliori del CD, con la sua melodia splendida e grande uso del piano, una ballata sontuosa. La tenue e “sotto strumentata” Love Don’t Let Me Down precede The Magic Kid, altra folk song purissima e dal solito accompagnamento pulito e di gran classe. Il dischetto termina con Love Is So Easy, molto John Prine primo periodo (testo ironico compreso) e graditi riff di organo stile sixties, e con Jealous Moon, chiusura malinconica e poetica per un album davvero notevole.

Ottime canzoni, musicisti di valore e produzione perfetta: Hayes Carll ormai è uno dei “nostri”.

Marco Verdi