Tre Album Da Riscoprire E Rivalutare. The Everly Brothers – Down In The Bottom: The Country Rock Sessions 1966-1968

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The Everly Brothers – Down In The Bottom: The Country Rock Sessions 1966-1968 – RPM/Cherry Red 3CD

Nel 1966 la popolarità degli Everly Brothers era in deciso calo, specie se rapportata ai fasti di fine anni cinquanta/primi sessanta, in cui i fratelli Don e Phil Everly erano stati giustamente indicati come uno degli acts più influenti della loro epoca (per dirne una, senza di loro forse Paul Simon avrebbe intapreso lo stesso la carriera di cantautore, ma probabilmente senza Art Garfunkel): infatti i due non portavano un singolo nella Top 40 da ben tre anni, e addirittura da cinque se si passava agli LP. Il loro ultimo disco, Two Yanks In England, era praticamente un album degli Hollies (che erano autori di gran parte delle canzoni e comparivano anche come backing band) cantato dagli Everly, e non ebbe successo come i precedenti: i nostri pensarono quindi di operare qualche piccolo cambiamento nel loro suono, ed i tre dischi interessati da tale rinnovamento (The Hit Sound Of The Everly Brothers, The Everly Brothers Sing e Roots) sono riuniti in questo triplo CD in digipak targato Cherry Red ed intitolato Down In The Bottom: The Country Rock Sessions 1966-1968, tutti quanti con una buona dose di bonus tracks in parte inedite.

In effetti il sottotitolo di questa ristampa è leggermente inesatto, in quanto solo Roots si può definire propriamente country-rock: diciamo che i due lavori precedenti, che pur presentano qualche sonorità countreggiante anche se mescolata alle consuete pop songs del duo e perfino a qualche accenno di psichdelia, sono da considerare come una graduale transizione verso Roots, che uscendo nel 1968 tenterà di inserirsi nel filone country-rock allora in voga e che aveva Byrds e Flying Burrito Brothers come esponenti di punta.

The Sound Of (1967, ma le sessions risalgono al ’66, da qui dunque il titolo dell’antologia) è formato da cover di brani più o meno noti, con la produzione di Dick Glasser e l’ausilio di diversi membri della famosa Wrecking Crew, tra cui Larry Knechtel, Hal Blaine, Terry Slater e Glen Campbell, già noto quest’ultimo come artista in proprio. L’album non vendette molto, ma vide i nostri proporre arrangiamenti raffinati e con le solite splendide armonie vocali di classici del rock’n’roll (Blueberry Hill, riletta in veste countreggiante, Oh, Boy! e Good Golly, Miss Molly), del country (I’m Movin’ On, Sea Of Heartbreak, che sembra scritta su misura per loro, e (I’d Be A) Legend In My Time), due brani associati a Ray Charles (Let’s Go Get Stoned e Sticks And Stones), un po’ di “British Invasion” (Trains And Boats And Plains, di Burt Bacharach ma portata al successo da Billy J. Kramer & The Dakotas, e The House Of The Rising Sun, incisa tenendo presente l’arrangiamento degli Animals ed indicando addirittura Alan Price come autore del pezzo). Poi ci sono brani scritti da autori esterni apposta per Don & Phil, come la beatlesiana Devil’s Child e la melodiosa She Never Smiles Anymore, opera di un giovane ed ancora sconosciuto Jimmy Webb. Tra le cinque bonus tracks del primo CD spiccano Even If I Hold It In My Hand, unico pezzo a firma Don Everly, un’altra canzone scritta da Webb (When Eddie Comes Home) ed il demo di Bowling Green, che sarà il brano di punta del disco successivo.

Proprio Bowling Green, uno splendido e scintillante folk-rock, apre il secondo dischetto nonché l’album Sing (1967), prodotto ancora da Glasser e con più o meno gli stessi musicisti del precedente (ma con in più il grande James Burton, all’epoca chitarrista di Elvis), ed un approccio più spostato verso il pop psichedelico, termine da prendere comunque con le molle in quanto stiamo pur sempre parlando degli Everly. Quasi metà dei pezzi sono scritti dal bassista Slater, i migliori dei quali sono la già citata Bowling Green, A Voice Within, il cui sound è influenzato dalle band britanniche, e le psichedeliche all’acqua di rose Talking To The Flowers e Mary Jane; ci sono poi un paio di originali di Don (l’orecchiabile I Don’t Want To Love You, scritta insieme a Phil, e l’eterea ballata It’s All Over, già incisa in passato dai due), un pezzo roccato e coinvolgente (Deliver Me, di Danny Moore) ed il rifacimento di Somebody Help Me, grande successo dello Spencer David Group di Steve Winwood,  pubblicata l’anno prima su Two Yanks In England. C’è anche la scelta bizzarra di includere una versione del superclassico dei Procol Harum A Whiter Shade Of Pale (non adattissima ai nostri), mentre è invece ottima Mercy, Mercy, Mercy, scritta dal non ancora leader dei Weather Report Joe Zawinul per il Cannonball Adderley Quintet. Le bonus tracks qui sono ben nove, tra cui sei sono brani usciti solo su singolo: da non perdere la bella rilettura della classica Love Of The Common People e la squisita Nothing But The Best di Rick Kemp.

E veniamo a Roots (1968), il migliore dei tre album presi in esame e quello che rappresenta la vera svolta nel suono dei fratelli, un disco che è anche una delle prime produzioni di un giovane Lenny Waronker, che nei seventies diventerà uno dei nomi più richiesti in cabina di regia, e che vede ancora i membri della Wrecking Crew con l’aggiunta delle tastiere di Van Dyke Parks. L’album vede dunque Don & Phil perfettamente calati nei panni di novelli cantanti country-rock, con cristalline versioni di classici come Mama Tried e Sing Me Back Home (le due canzoni più celebri di Merle Haggard), Less Of Me di Glen Campbell, T For Texas di Jimmie Rodgers e You Done Me Wrong di George Jones; un paio di pezzi sono scritti da Ron Elliott, leader dei Beau Brummels e collaboratore del disco (le folkeggianti Ventura Boulevard e Turn Around), mentre l’unico brano originale dei due fratelli, I Wonder If I Care As Much, è quasi psichedelico e non imperdibile (c’è anche una canzone, Living Too Close To The Ground, scritta dall’attrice Venetia Stevenson, all’epoca moglie di Don). Completano il quadro una pimpante rilettura del traditional Shady Grove in puro stile bluegrass ed un inedito del giovane Randy Newman, Illinois, brano già con l’impronta futura del pianista e cantante di Los Angeles. Sette le tracce bonus tratte dalle sessions, la maggior parte delle quali sono canzoni originali di Phil & Don (Omaha è la migliore), completata da due preziose cover di Mr. Soul (Neil Young) e In The Good Old Days (Dolly Parton) e da una bluesata e grintosa Down In The Bottom di Willie Dixon.

Con Roots, nonostante il perdurante insuccesso del disco, gli Everly Brothers sembravano lanciati verso una nuova carriera all’insegna del country-rock, e nessuno all’epoca poteva immaginare che come duo (quandi escluse le peraltro poche fatiche soliste) avrebbero pubblicato soltanto più cinque album durante il resto della carriera, due negli anni settanta e tre negli ottanta: un motivo in più per riscoprire le registrazioni incluse in questo triplo CD.

Marco Verdi

Correva L’Anno 1968 3. Elvis Presley – ’68 Comeback Special: 50th Anniversary Edition

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Elvis Presley – ’68 Comeback Special: 50th Anniversary Edition – RCA/Sony 5CD/2Blu-ray Box Set – 2LP “The King In The Ring”

Ennesima riedizione, si spera quella definitiva, per il famoso ’68 Comeback Special di Elvis Presley, uno dei più clamorosi casi di rilancio della carriera di un artista nella storia della musica. I “favolosi” anni sessanta non erano stati così favolosi per i pionieri del rock’n’roll dei fifties, soppiantati da artisti appartenenti a generi via via più in voga come il Folk Revival, la British Invasion, la psichedelia e la Summer Of Love: Elvis però ci aveva messo del suo, disperdendo il suo talento durante tutta la decade per partecipare a filmetti di terza categoria (e relative insulse colonne sonore) e riducendosi a parodia di sé stesso, molto più che nel successivo periodo “Elvis grasso” a Las Vegas negli anni settanta, in cui almeno la sua abilità di performer era ai massimi livelli. Gran parte della colpa di questo era da attribuire al famigerato manager di Elvis, il “Colonnello” Tom Parker, che aveva ridotto il nostro ad una sorta di burattino nelle sue mani, privilegiando una visione dollarocentrica della sua carriera, e lasciando la musica in secondo piano (emblematica una scena del bel serial tv Vinyl, passato lo scorso anno su Sky, nel quale il protagonista del film, un discografico indipendente di grandi visioni, si trova a colloquio negli anni settanta con uno stanco e demotivato Elvis all’interno della “Jungle Room”, e riesce a riattivare la scintilla nei suoi occhi spenti convincendolo a fare un disco di crudo rock’n’roll come all’inizio della carriera: Parker, sentita la cosa, arriva a minacciare fisicamente il protagonista con l’intento di fargli abbandonare l’idea. E’ finzione, certo, ma il personaggio era quello).

Nel 1968 però si era arrivati ad un punto di non ritorno, e così Parker approcciò il produttore televisivo Bob Finkel con l’idea di uno special natalizio nell’ambito della serie di trasmissioni Singer Presents (sponsorizzata dalla celebre azienda produttrice di macchine per cucire). Inizialmente sembrava che Elvis dovesse cantare solo canzoni natalizie, cosa che non gli interessava fare, ma poi Finkel ed il regista del programma Steve Binder ebbero l’idea di rendere la trasmissione un vero e proprio ritorno dell’artista alla performance dal vivo con lo spirito rock’n’roll dei primi giorni. Elvis accettò con entusiasmo, e per una volta non diede ascolto a Parker che tentennava…ed il resto è storia. Lo special televisivo ebbe infatti un grandissimo successo, e così il disco che ne venne tratto, Elvis (NBC TV Special) e riportò in auge il nome del nostro, che da lì in poi la smise di recitare in film di serie C e riprese in mano la sua carriera musicale, e ricominciò anche a fare concerti. Il programma mostrò un Elvis in strepitosa forma fisica, tirato a lucido in un completo di pelle nera, ed autore di una solida performance nella quale riprese in mano anche i vecchi successi degli anni cinquanta, dando finalmente una sensazione di spontaneità (vennero anche richiamati i suoi musicisti dell’epoca, il chitarrista Scotty Moore ed il batterista D.J. Fontana).

Lo spettacolo era però tutt’altro che improvvisato, ed era una sorta di taglia e cuci di varie performance che comprendevano due show da seduto con strumentazione parca ed intima, due in piedi con orchestrazioni più complesse, coreografie, cori gospel, eccetera (e diverse basi musicali erano in playback), ma il risultato finale era quello di un artista finalmente a suo agio e che faceva ciò che gli riusciva meglio: cantare. Negli anni sono uscite, in album postumi o sparse in varie antologie e cofanetti, praticamente tutte le performance legate a questo speciale, ed oggi la Sony pubblica per il cinquantenario quello che dovrebbe essere il box definitivo, cinque CD e due BluRay in cui troviamo tutto ciò che è successo in quel mese di Giugno del 1968 (c’è anche un doppio vinile intitolato The King In The Ring, che si limita ai due concerti “sit-down”, che deve il titolo alla disposizione a cerchio dei musicisti). Il cofanetto, realizzato in formato LP pur non contenendo vinili (e con all’interno uno splendido libro pieno di note, testimonianze e strepitose foto ad alta definizione, un vero incentivo all’acquisto), potrebbe sembrare l’ennesima operazione inutile dell’industria discografica dato che non c’è nemmeno l’ombra di un inedito, ma è così se siete in possesso della discografia completa di Elvis prima e dopo la morte, cosa abbastanza complicata. Certo, se nel 2008 vi siete accaparrati l’edizione in quattro CD per il quarantennale, e anche e soprattutto il triplo DVD edito nel 2004, che contiene la parte video uguale a quella dei 2 Blu-ray, potete anche bypassare, ma se non è così (come nel caso del sottoscritto che ha solo il disco originale ed il postumo Tiger Man), questo box è assolutamente da avere.

Il primo CD vede la riproposizione del disco originale, con Elvis accompagnato dalla Wrecking Crew, ovvero lo strepitoso ensemble di sessionmen di Los Angeles presente su una miriade di album di quel periodo (tra cui lo straordinario bassista e pianista Larry Knetchel, il batterista Hal Blaine ed i chitarristi Tommy Tedesco, Mike Deasy e Al Casey) e da una lunga serie di backing vocalists (compresa Darlene Love): sette tracce, perlopiù lunghi medley tra canzoni e dialoghi, provenienti anche da sessions diverse. Dopo il celeberrimo inizio di Trouble/Guitar Man, abbiamo versioni scintillanti di brani di punta del repertorio del nostro, un mix formidabile di rock’n’roll e ballate con titoli come Lawdy, Miss Clawdy, Heartbreak Hotel, Hound Dog, All Shook Up, Can’t Help Falling In Love, Love Me Tender, Jailhouse Rock. C’è anche un bel trittico di brani gospel (Where Could I Go But To The Lord/Up Above My Head/Saved) e due pezzi lenti incisi in studio, i singoli Memories e If I Can Dream. In più, quattro tracce bonus, tra le quali It Hurts Me e Let Yourself Go non presenti nel programma originale. Il secondo e terzo CD (in mono, così come il quarto, mentre il quinto è in stereo ed il primo un mix di entrambe le cose) ripropongono per intero sia i due “sit-down” shows che i due “stand-up”: in particolare sono strepitosi i due spettacoli da seduto, che senza volerlo anticiperanno di molto l’approccio unplugged che poi diventerà moda con MTV (anche se la chitarra di Moore è elettrica). Qui rivediamo finalmente l’Elvis musicista a tutto tondo (ed anche chitarrista), rilassato, informale, scherzoso e perfettamente a suo agio, ma tremendamente serio quando snocciola performance da urlo di pezzi come That’s All Right (che nel 1956 diede inizio a tutto), Heartbreak Hotel, Blue Suede Shoes, One Night, Are You Lonesome Tonight, Baby What You Want Me To Do (suonata per ben cinque volte complessivamente) e Tiger Man: due concerti da cinque stelle.

Non che i due show “in piedi” siano di molto inferiori, anche qua Elvis è in pieno controllo e forse perfino più convinto nella prestazione vocale, solo il suono è più lavorato ed orchestrato e le due scalette sono sovrapponibili (a differenza di quelle dei due “sit-down shows”, che avevano delle varianti), ma comunque la seconda esibizione è semplicemente fantastica, con il King in pura trance agonistica. E le grandi canzoni si sprecano: oltre a quelle suonate nei due spettacoli da seduto, troviamo anche trascinanti riproposizioni di All Shook Up, Don’t Be Cruel, Jailhouse Rock, Trouble e Guitar Man, oltre alla splendida Can’t Help Falling In Love che per me è in assoluto la più bella ballata di Elvis. Il quarto dischetto ci offre le prove in camerino prima di andare in scena, con Elvis che cazzeggia alla grande con i membri della band, ma poi si cimenta anche in brani che non troveranno spazio nello show, come I Got A Woman di Ray Charles, Blue Moon, Danny Boy e Blue Moon Of Kentucky, ed il gruppo riprende anche il famoso Peter Gunn Theme di Henry Mancini. Ottimo per capire come il nostro si preparava prima di uno spettacolo, peccato che la qualità sonora non sia delle migliori. Il quinto ed ultimo CD, molto interessante, ci fa sentire le prove insieme alla Wrecking Crew, con una serie di canzoni che, eccetto Trouble e Guitar Man (ed anche Memories ed If I Can Dream, che però erano cantati dal vivo su base pre-registrata), Elvis non suonerà nei quattro show di cui sopra, ma che finiranno in forma ridotta a far parte dello show. E ci sono diverse cose decisamente intriganti, come la solida Nothingville, un tentativo poi abortito di fare Guitar Man ad un tempo molto più veloce, una versione piena di ritmo del classico di Jimmy Reed Big Boss Man (peccato sia troppo breve), la deliziosa ballad It Hurts Me ed una strepitosa Saved (due takes), tra gospel e rock’n’roll, cantata in maniera inarrivabile. Infine i due BluRay (che al momento non ho visto) contengono, oltre allo special andato in onda in origine e le quattro performance seduto ed in piedi, tutta una serie di prove, outtakes, scene tagliate e chicche varie, praticamente ogni minuto del dietro le quinte (alcuni di questi filmati erano già finiti sul recente documentario The Searcher.

Ribadisco, se di queste sessions avete poco o niente, un cofanetto da non perdere, anche se non costa poco: per sentire e vedere il Re del rock’n’roll nel suo ambiente naturale.

Marco Verdi

Ancora Il 2016 Maledetto! Questa Volta Se Ne E’ Andato Leon Russell!

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Ancora non si è spenta l’eco della scomparsa del grande Leonard Cohen, che purtroppo dobbiamo registrare un’altra grave perdita nel mondo del rock: si è infatti spento ieri, all’età di 74 anni, Claude Russell Bridges, meglio conosciuto come Leon Russell, musicista di lungo corso e giustamente considerato uno dei più grandi pianisti bianchi della musica rock, vero e proprio idolo per esempio di “colleghi” dello strumento quali Randy Newman ed Elton John, ma anche vera e propria figura di riferimento nell’ambito di un certo rock di matrice sudista e ricco di contaminazioni con soul e gospel.

Nativo dell’Oklahoma, Russell iniziò a muovere i primi passi come membro degli Starlighters (in cui militava anche un giovanissimo J.J. Cale) e poi come sessionman per conto terzi negli anni cinquanta, fino ad arrivare a Los Angeles nei sessanta e ad entrare a far parte di quell’enorme ensemble di musicisti di studio conosciuto come The Wrecking Crew, arrivando ad incidere anche con Phil Spector, i Byrds (suonava su Mr. Tambourine Man), i Beach Boys, perfino Frank Sinatra e molti altri. Il suo esordio discografico si ebbe nel 1968 con Inside The Asylum Choir, inciso insieme al musicista texano Marc Benno, ma in quegli stessi anni iniziò a frequentare il giro di Eric Clapton (suonando anche sul debutto solista omonimo di Manolenta e scrivendo con lui la classica Blues Power) e di Delaney & Bonnie, partecipando ai loro primi album ed accompagnandoli anche in tour. Fu poi il direttore musicale di quell’allegro e splendido carrozzone che fu Mad Dogs & Englishmen, forse la prova più convincente della carriera di Joe Cocker, e nel 1971 fu chiamato da George Harrison, suo grande estimatore, per suonare il piano nella house band del famoso Concert For Bangladesh (durante il quale ebbe anche un eccellente momento come solista, con un medley fra Young Blood dei Coasters e Jumpin’ Jack Flash degli Stones).

Nel 1969 aveva anche contribuito a fondare la Shelter Records, etichetta in seguito fallita, ma che negli anni pubblicò, oltre ai suoi lavori, anche album di J.J. Cale, Don Nix, Phoebe Snow, Freddie King, oltre a far esordire Tom Petty & The Heartbreakers. Ovviamente Leon in quegli anni (ed anche in seguito), portava avanti anche la sua carriera solistica, che però era piuttosto avara di soddisfazioni (le sue canzoni più note, Delta Lady e A Song For You, ebbero più successo in versioni di altri, la prima con Joe Cocker e la seconda con una moltitudine di artisti, dei quali il maggior successo lo ebbero i Carpenters, ma la incise anche una leggenda come Ray Charles), ed anche i suoi album, inappuntabili dal punto di vista musicale, non vendettero mai molto (con l’eccezione del bellissimo Carney del 1972, che salì fino al secondo posto, ed il seguente Leon Live, al nono), facendo di lui uno degli artisti di culto per antonomasia della storia del rock, ma sempre richiestissimo come musicista per conto terzi; nel 1979 il suo ultimo successo per decenni, con l’album One More For The Road condiviso con Willie Nelson.

Per tutti gli anni ottanta, novanta e la prima decade dei duemila Leon ha continuato ad incidere, pur diradando la sua produzione, finché nel 2010 il suo grande fan Elton John decise di tirarlo letteralmente fuori dalla naftalina incidendo con lui il bellissimo The Union (prodotto da T-Bone Burnett), album che ebbe un ottimo successo e contribuì a far conoscere la figura di Russell anche alle generazioni più giovani, e facendogli assaporare finalmente un meritatissimo istante di popolarità. Ancora un disco molto bello nel 2014, Life Journey, poi più nulla fino alla morte avvenuta ieri in seguito a complicazioni sopraggiunte dopo un intervento al cuore.

Leon Russell era il classico musicista che non ebbe mai neanche un decimo della fama che avrebbe meritato, ma credo che lui sia stato felice così, di aver suonato la musica che gli piaceva di più insieme ai migliori al mondo; io vorrei ricordarlo con un toccante brano contenuto in The Union, nel quale oltre a Leon ed Elton partecipa anche il “Bisonte” Neil Young.

Addio, Leon.

Piccola considerazione conclusiva: come nei thriller il cui finale “aperto” lascia presagire un seguito, l’inquietante domanda da porsi è “A chi toccherà adesso?”.

Marco Verdi