A Volte I “Miracoli Accadono”

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Oggi non ho avuto tempo di scrivere un post “serio” per cui, tornando sul luogo del delitto, mi limito a segnalarvi due piccoli “miracoli”. Tramite i benefattori dell’Ird, ai quali ho rotto i ministri Maroni, ma per una giusta causa, girando per negozi italiani (non faccio pubblicità visto che il mio vecchio negozio non esiste più, rimane solo il logo che campeggia in alto nel blog), dovreste trovare finalmente disponibili i due ultimi album di Otis Gibbs, Joe Hill’s Ashes e Grandpa Walked a Picketline, sono due piccoli capolavori di cantautorato tout court, puro e semplice. Un particolare ulteriore per stuzzicare la vostra fantasia e che mi ero dimenticato di segnalare nel post dedicato a Gibbs, a riprova della qualità dei prodotti: il penultimo album è prodotto da Chris Stamey ex leader dei Db’s e nel disco suonano, tra gli altri, Don Dixon, grande cantautore e co-produttore dei R.e.m., Al Perkins a pedal steel e dobro, ex dei Manassas, Flying Burrito Brothers, Desert Rose Band, collaboratore degli Stones e mille altre band, Will Rigby, anche lui nei Db’s e Tim Easton, ottimo chitarrista e cantautore pure lui. Per La serie scusate se è poco, e i risultati, come già magnificato, si sentono. Mi ripeto, l’ultimo disco, Joe Hill’s Ashes è anche meglio!

L’altro “piccolo miracolo”, tutto italiano, è che il nuovo disco di Mary Gauthier The Foundling, è uscito con una settimana di anticipo (strano ma vero) è quindi lo trovate già nei migliori negozi (una volta la case discografiche dicevano così).

Settimana ricca con due dei dischi più belli dell’anno e la settimana prossima esce la ristampa dell’anno, Exile on Main Street degli Stones.

Bruno Conti

Un Uomo Solo Al Comando Con La Sua Chitarra. Luka Bloom – Dreams In America

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Luka Bloom – Dreams in America – Skip Records – Ird

Con questo sono diciannove album, live e raccolte comprese, l’uomo che per la sua famiglia si chiama Barry Moore, il fratello minore di Christy Moore. Un geniale cantautore irlandese, uno dei “Best Kept Secrets” della musica mondiale. In questo disco (e questo è il motivo del titolo ispirato dal Giro d’Italia in corso) rivisita in versione solitaria il meglio del suo repertorio. Per chi ama la musica di qualità. Sentire, prego!

Bruno Conti

Novità Maggio-Giugno 2010. Conferme, Rinvii e Qualche New Entry: Dave Matthews, Crash Test Dummies, John Mellencamp, Cure Eccetera

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Partiamo con alcune conferme e un “possibile” rinvio: il rinvio potrebbe essere il cd+dvd dal vivo di James Taylor & Carole King che non ho visto nelle liste di uscita dell’11 maggio ma magari esce ugualmente. Clamorosa conferma, dopo mesi e mesi di speculazioni, a metà giugno esce il box di John Mellencamp On The Rural Route 7609 di cui vi ho già segnalato in un vecchio post la lista dei brani inediti, non è un pacco, o meglio è un “pacco” quello che vedete effigiato qua sopra in tutto il suo splendore, quindi c’è, esiste. Conferma per il giorno 11 maggio anche per il DVD o per la confezione 2CD+DVD di Alchemy Live dei Dire Straits. Confermo anche che il disco di Eli Paperboy Reed Come And Get It è molto bello, non so ancora se esce il 18 maggio ma state allerta.

Il 25 maggio, dopo alcuni rinvii, esce la versione Deluxe di Disintegration dei Cure: contiene il CD originale rimasterizzato nel primo dischetto, un secondo CD con Outtakes e demos, 20 brani in tutto (poi magari in un prossimo post vi do la lista completa) e un terzo CD Live Entreat Plus registrato alla Wembley Arena nel 1989 + un libretto di 20 pagine, anche questo comunque lo vedete qui sopra.

Per la serie meglio tardi che mai il 1 giugno esce anche in Italia il Box della Dave Matthews Band Europe 2009, 3CD/DVD + Librone fotografico con il concerto di Lucca nei 3 cd e il concerto alla O2 Academy di Brixton a Londra nel DVD. Distribuzione Edel il prezzo dovrebbe essere sotto i 50.00 euro, quindi più contenuto dell’edizione import. Per chi non l’ha preso, approfittare dell’occasione, concerto fantastico.

Confermati per l’11 maggio anche Ligabue, Keane, Dead Weather, la versione doppia musical di American Idiot dei e con i Green Day, i Plan B, il nuovo Tony Braxton e i Deftones.

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Il 1 giugno in Italia, distribuzione Edel, ma già dall’11 maggio negli States, tornano i Crash Test Dummies con un nuovo album Oooh La La (titolo in comune con un vecchio titolo dei Faces, quello con Petrolini in copertina, nella versione in vinile tirando il fondo della copertina si muoveva il mento): produce Stewart Lerman già con Antony & The Johnsons e Roches, canta, scrive fa tutto Brad Roberts quello con il vocione baritonale, gli altri sono tutti nuovi.

Ma questa Karen Elson non sarà mica la top model spaziale inglese? Ebbene sì è lei, dicono che il disco, in uscita il 28 maggio distr. Self, sia bello, produce e suona la batteria, il marito Jack White. Te pareva era già quindici giorni che non faceva nulla! Per la precisione 17 giorni dall’uscita del disco dei Dead Weather. Vale proprio il detto “Uno ne pensa e cento ne fa”. Ma si dice così?

Nuovo album anche per Bettye Lavette Interpretations: British Rock SongBook, la grande soul woman americana, come da titolo, interpreta brani di Beatles, Pink Floyd, Who, Rolling Stones, Led Zeppelin e chi più ne ha più ne metta, sembra interessante anche se ha avuto qualche recensione contrastante. Nei prossimi giorni aggiungo il mio modesto parere.

Direi che può bastare, alla prossima.

Bruno Conti

 

Sempre Più Strani! Sparrow And The Workshop – Crystals Fall

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Sparrow and the Workshop – Crystals Fall – Distiller Records

Prosegue la ricerca di gruppi sempre più “strani” e oscuri. Questi dovrebbero chiamarsi in italiano, più o meno, La Bottega del Passero, sono un trio formato da uno scozzese, un gallese e un’americana di origine irlandese che come hobby ha lo “Stone Skimming” (il sasso che scivola, quando eravate ragazzini o anche adesso vi sarà capitato di lanciare un sasso levigato su una superficie d’acqua e vedere quante volte rimbalza, di questo si tratta, Jill O’Sullivan si è pure piazzata terza al campionato del mondo, sezione femminile).

Già, ma chi è Jill O’Sullivan? Un attimo di pazienza! E’ la cantante, violinista e, quando serve, chitarrista acustica del gruppo; con lei suonano, Nick Packer, bassista e all’occorrenza chitarrista elettrico (più la seconda che il primo) e il batterista e secondo cantante, Gregor Donaldson. Non saprei dirvi che genere fanno, rock sicuramente, potrei azzardare folk-rock, acid folk-rock, tentiamo? Si inseriscono in quel filone di gruppi, dai Fleet Foxes ai Mumford and sons, che idealmente si rifanno alla musica di anni ’60 e anni ’70, probabilmente inconsciamente senza averla mai sentita, ma forse sì. E quindi nomi come i Fairport Convention di Sandy Denny o i Jefferson Airplane di Grace Slick ti vengono subito in mente. D’altronde se in quegli anni potevano esistere gruppi come gli Incredible String Band o i Pearls Before Swine cosa volete che possa succedere dei Sparrow and The Workshop? Al massimo che facciano della buona musica!

E sapete una cosa? Sono pure bravi, tutto funziona alla perfezione come nell’officina di un passerotto (traduzione alternativa): hanno fatto due EP, Sleight of Hand e Into The Wild che sono stati ripresi nella loro interezza con l’aggiunta di due brani, remixati e trasformati in questo album d’esordio Crystals Fall.

Si parte dai gentili toni folk dell’iniziale Into The Wild, ma subito Packer inizia a mulinare la sua chitarra elettrica, Jill O’Sullivan inizia a scaldare i polmoni con grande vigore, la batteria segue tempi quasi militari e le storie si fanno subito vagamente gotiche, “Porta via il mio cuore, così io posso essere libera”, urla Jill nel finale, ma con garbo, quello non manca mai, non sono sguaiati o pedo-metallari. Anche l’inizio del secondo brano, Blame it on me evoca subito atmosfere Zeppeliniane, che si placano quasi all’istante, e la bella voce della O’Sullivan si libra serena sulle sciabolate di chitarra e batteria con un piccolo aiuto vocale di Donaldson, la chitarra poi si lancia in un breve assolo grintoso e celtico al tempo stesso e di nuovo la musica si fa tranquilla nello spazio di un nanosecondo. I will break you, occhio anche ai titoli, segue territori più folk-rock, sempre con la bella voce della cantante in evidenza, d’altro canto è lei la stella! Comunque è sempre presente questo dualismo piano e forte nella loro musica, un po’ come per i Mumford and Sons, momenti delicati, crescendi, improvvise esplosioni sonore, ritorno alla quiete, la teoria del grunge applicata, con migliori risultati (Ok, con le dovute eccezioni), al folk-rock. Anche Mercenary parte con un tempo folk vagamente da valzer, la voce della O’Sullivan si intreccia con quella di Donaldson in modo tranquillo, ma anche stavolta non ce la fanno, verso i due minuti, batteria e chitarra prendono di nuovo il sopravvento, però rimane un episodio minore.

Crystals con le sue chitarre vagamente country&western ma con retrogusti psichedelici e acidi e le due voci che si sovrappongono avrebbe potuto essere un brano dei Jefferson Airplane, con la Jill O’Sullivan che sfodera una grinta vocale alla Grace Slick ammirevole, sono suggestioni ma rendono la vita migliore.

Swam Like Sharks è un duetto fantastico, con la voce piana e tranquilla di Donaldson che interagisce in modo perfetto con quella, questa volta angelica, della O’Sullivan, una bella slide impreziosce il tessuto sonoro del brano, una perfetta esecuzione di cosa si intende per folk-rock, lezione numero uno. Last Chance con ritmi galoppanti vagamente messicani o anche morriconiani, ancora tocchi gotici da murder ballad e il cantato nuovamente all’unisono dei due cantanti è una piacevole variazione sul tema.

I temi western del brano precedente rimangono anzi si acuiscono nella successiva Devil Song che viaggia a ritmi forsennati e “diabolici” watch?v=ck1R5APpS0k. The Gun avrebbe potuto essere I Got You babe se Sonny & Cher avessero fatto musica folk, leggera e spensierata, ma deliziosa. Broken Heart, Broken Home altro titolo maledetto, con il violino della O’Sullivan per la prima volta in decisa evidenza è un’altra piccola perla del loro bouquet musicale watch?v=EcX7-alFpbk mentre Medal Around Your Neck torna a quelle tematiche musicali alla Jefferson o Fairport, una voce femminile in evidenza una maschile di supporto e ritmi musicali sghembi e frammentati sempre a cavallo tra rock e folk.

In A Horse’s Grin torna questo dualismo tra rallentamenti e ripartenze che costituisce l’essenza della loro musica, la batteria più che tenere il ritmo, galoppa, d’altronde di cavalli si parla. You’ve Got It All termina la procedure su una nota di delicatezza, un altro duetto tra le due voci del gruppo, ma non vi preoccupate non ce la fanno a stare tranquilli, dopo meno di un minuto, il tempo di scaldare l’ugola, la bravissima Jill O’Sullivan ci regala una ulteriore prova delle sue capacità vocali notevoli.watch?v=yjxUSz1ewQU

Solito discorso, niente di nuovo sotto il sole, tutto già sentito, quello che volete, ma fatto tutto estremamente bene. Un altro nome da tenere d’occhio. Vai col video (ma tra le righe, in tutti i sensi, ne trovate molti altri).

Bruno Conti

La Ricerca Continua. Dalla Norvegia Ingrid Olava – The Guest

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Si chiama Ingrid Olava, è norvegese, è nata nel marzo del 1981, questo The Guest è il suo secondo disco, pubblicato in Norvegia dall’etichetta Daring Viola distr. Universal ma di lassù. Perché ve ne parlo? Perché è brava!

In giro per il mondo, dal Canada all’Inghilterra, cominciano a parlarne in modo più che lusinghiero, in YouTube i suoi video, sola o in duetto con altri artisti sono numerosi e godibilissimi, quindi mi sembra proprio il caso di spendere due parole per questo disco.

Modelli di riferimento? Mmmhh, direi la prima Tori Amos, ma anche Kate Bush, quindi voce forte e sicura, con retrogusti vagamente dark e new Wave à la Siouxsie, ottima fluidità al piano e alle tastiere in generale, arrangiamenti anche complessi con archi e fiati di tanto in tanto e tante belle canzoni.

Dall’iniziale The Queen dove la voce della Olava si eleva su una ritmica vagamente dark con passaggi sontuosi e drammatici – un inciso,il produttore Frode Jakobsen è lo stesso dei Madrugada, una delle migliori band norvegesi- fino a sfociare in un inconsueto assolo di sax. Si passa poi alla delicata Passenger, una bellissima ballata pianistica cantata a voce spiegata dalla brava Ingrid che colora anche il background del brano con degli ipnotici vocalizzi, ottima anche Won’t Be Silenced dove la Olava alterna passaggi vocali su tonalità basse ad improvvise aperture vocali mentre la musica assume tonalità quasi jazzate e inquietanti. Warrior’s Song watch?v=FVOivKw7FqQ è il singolo per il mercato norvegese e l’intro pianistica ricorda addirittura il Billy Joel degli anni ’70 (uno dei musicisti preferiti dalla cantante), poi entra anche un organo insinuante su una ritmica vivace e molto varia, poi gli archi e i fiati che regalano una grande serenità al brano, cantato sempre con grande partecipazione emotiva dalla Olava. Anche se la voce non è simile (quella della Olava è più “bassa e scura”), You Will Moved Though The World Stays The Same ricorda la migliore Kate Bush, intro solo voce e piano, poi entrano gli archi, atmosfere suggestive e quasi classicheggianti, molto bello.

Treasure and pain, molto frammentata nella ritmica è un altro brano basato principalmente sulle atmosfere più che sulla melodia anche se il piano della brava Ingrid, lavora di fino. The sun ricorda vagamente certe cose più solari (come da titolo) della prima Tori Amos, quella che non si vergognava di regalare momenti più godibili ai suoi ascoltatori oltre a tante angosce e sofferenze. Love Oh Love con una bella sezione di archi sembra quasi un brano tratto da un musical, maestosa e serena mentre The Guest, il secondo singolo tratto dall’album è quasi (ho detto quasi!) orecchiabile e radiofonica, comunque molto ritmata. Con I Was Wrong le cose tornano serie, i ritmi sono nuovamente spezzati, anche se gli archi donano una momentanea serenità che spezza quella sensazione di claustrofobia del brano che ha le sue aperture melodiche. Conclude Poster Child il brano più intenso di questo ottimo album, dove Ingrid Olava regala, forse, la sua migliore interpretazione vocale, molto mitteleuropea e contenuta ma vocalmente difficoltosa, nuda e cruda solo voce e piano.

Un talento da scoprire e quindi, per conoscere, un paio di video dalla televisione norvegese.

In rete ce ne sono moltissimi e lei è veramente brava, quello con Damien Rice dove impara all’impronta un brano è delizioso.

Bruno Conti

“Cerchi Più Scuri” Dal Canada. The Sadies – Darker Circles

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The Sadies – Darker Circles – Yep Rock – 18-05-10

Ultimamente, ogni volta che mi siedo davanti alla tastiera del computer, fino all’ultimo momento non so quale argomento affronterò: ci sarà anche la crisi del disco ma ogni mese, ma che dico ogni settimana, escono una valanga di titoli nuovi, spesso interessanti. Considerando che cerco di parlare solo di quelli che ritengo, a mio insindacabile giudizio, i più interessanti, non sempre i migliori, la scelta rimane comunque ampia ma trovare gruppi e cantanti validi non è difficile.

I Sadies vengono dal Canada, hanno fatto sette, otto album a nome loro più svariate collaborazioni, Neko Case rimane una loro preferita e spesso l’accompagnano dal vivo, ma hanno fatto dischi anche con Jon Langford, John Doe, Andre Williams, suonato con i connazionali Blue Rodeo e Tragically Hip. Quindi si inseriscono in quel filone che di volta in volta viene etichettato come indie rock, alternative country, roots music, Americana ma che se andiamo a vedere altri non è che il buon vecchio country-rock dei tempi che furono aggiornato ai giorni nostri, ma quello è, diciamocelo! Non è una parolaccia, e negli anni ha avuto fior di rappresentanti che non vi starò a citare o forse sì, poi vediamo. Un nome però voglio farlo anche perché non ne parla quasi mai nessuno, Alpha Band, mitica band anni ’70 formata da alcuni fuoriusciti dalla leggendaria Rolling Thunder Revue di dylaniana memoria, T-Bone Burnett, Steven Soles e David Mansfield autori di tre album nel 1976, 1977 e 1978 e riuniti in uno splendido doppio CD , chiamato con poca fantasia e molto pragmatismo The Arista Albums dall’inglese Acadia/Evangeline. Soprattutto il primo rimane un piccolo capolavoro di equilibri sonori, un country-rock che in difetto di altri termini chiamerò “spaziale”, con la voce sghemba di T-Bone Burnett a cesellare melodie improbabili ma ancora memorabili sentite oggi; visto che trattiamo altro, mi limito a consigliarvelo vivamente e mi riprometto di riparlarne in futuro, catalogate in “tesori nascosti”.

Lo stile dell’Alpha Band, per certi versi e non totalmente mi sembra che si ricolleghi a quello dei Sadies, tra psichedelia morbida, surf music, country-rock classico alla Jayhawks (produce Gary Louris) o alla Blue Rodeo ma anche certo rock’n’roll revivalista ma di qualità anni ’80, tipo Green On Red e altri fautori del cosiddetto Paisley Underground che era a sua volta influenzato da Byrds, Quicksilver e Big Star: alla fine i nomi si sono fatti.

Questo Darker Circles non sarà un capolavoro ma al sottoscritto piace: i fratelli Good, Dallas e Travis, sono i due leader, cantanti e chitarristi e provengono da una famiglia di musicisti, i Good Brothers, gli zii, che facevano (e fanno tuttora, perché ci sono ancora) country-rock sin dagli anni ’70, quindi è un vizio di famiglia. Il brano iniziale Another Year Again parte country-rock, con armonie vocali perfette e chitarre accarezzate e si tramuta in una cavalcata psichedelica degna dei Quicklsilver dei tempi d’oro con chitarre fiammeggianti e ritmica folleggiante. La successiva Cut Corners ancora con un bel sound chitarristico, da western spaziale e desertico alla Calexico o alla Giant Sand è un altro esempio della scrittura mai banale dei Sadies, già sentita sicuramente ma non banale. Another Day Again. da non confondere con il quasi omonimo brano iniziale, mischia armonie vocali alla Moody Blues e chitarre quasi punk, tipo i Blue Rodeo quando ci danno dentro.

Tell Her What I Said tra Pink Floyd e Neil Young è un sontuoso brano molto evocativo, dalle atmosfere spaziose e spaziali, con le belle voci dei fratelli Good a cesellare armonie vocali su una ritmica molto variegata e un inatteso assolo di mandolino che si scioglie su un muro di chitarre acustiche ed elettriche molto discrete. The Quiet One sarà ispirata da John Ford o John Entwistle? In ogni caso mi ha ricordato ancora i Pink Floyd più bucolici, quelli di Atom heart mother o Meddle negli episodi più tranquilli miscelati ad un country & western dark, come da titolo.

Postcards è puro Byrds epoca Sweetheart of rodeo, mentre Whispering Circles con le sue chitarre vagamente jingle-jangle ricorda certe atmosfere di Blue Rodeo o Jayhawks, atmosfere reiterate nel sound eaglesiano e weastcoastiano della bella Idle Tomorrows dove fa capolino  anche la voce di Gary Louris. Choosing To Fly con banjo e violino in evidenza ricorda certe atmosfere del folk-rock britannico dei primi anni ’70 a sua volta influenzato dal country e bluegrass americano. Violet and Jeffrey Lee cantata deliziosamente all’unisono dai fratelli Good ha dalla sua delle belle sonorità elettroacustiche mentre la conclusiva Ten More Songs, come da titolo, è una sorta di enciclopedia sonora in poco più di quattro minuti, echi morriconiani, chitarre distorte, surf music frenetica, atmosfere di pura serenità, una sorta di riassunto del disco prima di concludere e lasciarci su una epica cavalcata chitarristica nella tradizione del miglior rock di frontiera, canadese.

Bruno Conti

Uno Dei Dischi Dell’Anno! Mary Gauthier – The Foundling

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Mary Gauthier – The Foundling – Razor & Tie/Proper Records/Ird

E’ da alcune settimane che sto ascoltando questo disco, più e più volte e non mi capita spesso, anche perché per lavoro e per piacere devo ascoltare tantissimi dischi e sono sempre in arretrato negli ascolti. Per questo disco ho fatto un’eccezione perché, come dice il titolo del post, siamo di fronte ad uno dei dischi più belli dell’anno, niente punti di domanda è un’affermazione!

La storia narra la vicenda di “Una Trovatella”, The Foundling abbandonata dalla madre a pochi giorni dalla nascita, che passa il primo anno della sua vita in un orfanotrofio, viene adottata da una coppia e poi scappa dalla casa dei genitori adottivi. La storia di Mary Gauthier!

Per elaborare ulteriormente, Mary Gauthier nasce nella primavera del 1962 a New Orleans, Louisiana: a pochi giorni dalla nascita viene abbandonata dalla madre in un orfanotrofio. All’età di un anno viene adottata da una coppia cattolica che la porta a vivere a Thibodaux, sempre in Louisiana. Evidentemente la vita nella nuova famiglia non è felice, a quindici anni scappa di casa con l’automobile dei genitori e per un po’ di tempo vive di espedienti e intraprende un percorso di droghe ed alcolismo. Il giorno del suo diciottesimo compleanno è in prigione. Dopo questo percorso evidentemente scatta qualcosa e Mary si iscrive alla facoltà di Filosofia alla Louisiana State University dove si laurea. Sempre irrequieta decide di aprire un ristorante cajun, Dixie Chicken, che sarà anche il titolo del suo primo album pubblicato nel 1997 alla non più verde età di 35 anni. Segue il mitico Drag Queens in Limousines, pubblicato nel 1999, che contiene il brano I Drink, uno dei preferiti da Bob Dylan che lo ha inserito anche in una delle sue trasmissioni radiofoniche. In questi tredici anni ha pubblicato sette album, compresa un’antologia Genesis, dedicata al primo periodo, con un paio di inediti. E’ stata prodotta tra gli altri, da Gurf Morlix e Joe Henry, realizzando dei dischi spesso splendidi ma sempre di livello qualitativo superiore alla media, ma con questo The Foundling ha realizzato il suo capolavoro

. Già ci vuole un fegato incredibile per raccontare una storia così difficile ma farlo con la dignità, il misurato dolore e la capacità di coinvolgere il lettore (in questo caso l’ascoltatore) nelle vicende narrate è sinonimo di grandezza. Se a tutto questo aggiungiamo che per questo esordio su una nuova etichetta Mary Gauthier si è regalata un nuovo produttore nella figura di Michael Timmins dei Cowboy Junkies (e qui devo fare l’unico appunto, ma minimo, nel suo sito, per motivi ignoti, lo chiama Mike Timmons, chi è costui?). In ogni caso, Timmins si è immerso a fondo nel mondo musicale della Gauthier e le ha creato attorno una costruzione sonora perfetta. Ma veniamo al disco.

Il disco si apre con The Foundling, le prime impressioni di una trovatella abbandonata al suo destino: su una musica che profuma di valse musette da un bistrot parigino o di New Orleans, con una fisarmonica che evoca anche atmosfere musicali da pub irlandesi e mi ha ricordato certe cose di un’altra cantante dalla vita non facile, la rossa e straordinaria Mary Coughlan. Il secondo brano Mama Here, Mama Gone racconta i primi mesi all’orfanotrofio con la voce dolente e partecipe della Gauthier che viene affiancata dalla voce “angelica” di Margo Timmins che su uno sfondo di chitarre acustiche e tastiere, cerca di consolare quel terribile “La mamma è qui, la mamma se n’è andata” scandito ripetutamente e che ti colpisce al cuore, bellissimo brano e grande musica.

Goodbye, un leggiadro brano country-folk con un delizioso violino che imprezisce il suono della canzone, racconta gli anni dell’adolescenza, dei primi vagabondaggi ed è uno dei pochi brani dall’andatura vivace, quasi felice (ma l’ottimismo non abbandona mai la filosofia di vita della Gauthier che dichiara di essere passata attraverso tutto questo “credendo ancora nell’amore). O meglio, non è esatto, anche Sideshow è una deliziosa immersione nelle musiche della Lousiana, su uno sfondo musicale che ricorda tantissimo Midnight Special, uno dei classici di New Orleans, con piano, violino, fisa e organo a duettare con una serie di fiati, immancabili, Mary Gauthier imbastisce un omaggio sonoro alla sua città, con tanto amore. Un primo breve interludio di fisarmonica ci introduce alla parte centrale del disco, veramente straordinaria.

Un suono di organo in sottofondo, due chitarre acustiche accarezzate e si entra nel mondo di Blood is Blood: la ricerca della madre è iniziata, il Sangue è Sangue e non si può lavare via. Un violino lancinante si lancia in un assolo straziante e allo stesso tempo stupendo che illustra lo stato d’animo della protagonista. Il brano è bellissimo, con continue ripartenze, la seconda voce lontana della Timmins, una batteria incalzante e tante richieste non esaudite. March 11, 1962 è la sua data di nascita: la ricerca è finita “Hello This Is Mary”, la voce parlata della Gauthier ci racconta dell’incontro telefonico con la madre che le chiede “perché, dopo tanti anni?” Ancora una negazione, quaranta anni dopo e 500 dollari spesi, un piccolo particolare ma significativo. La musica costruita da Timmins per questo brano è stupenda, chitarre elettriche vagamente distorte, l’immancabile violino, tastiere in excelsis, la batteria indolente che al sottoscritto tanto hanno ricordato le atmosfere del Dylan di Pat Garrett & Billy The Kid, un piccolo “Paradiso sonoro”. L’ultimo brano di questa incredibile trilogia centrale è Walk In The Water, un’amara ballata country con la voce di Margo Timmins che ancora una volta si erge consolatoria a fianco di quella della Gauthier mentre l’ormai immancabile violino tesse le sue trame sonore con grande melanconia.

Il secondo interludio ci introduce alla parte conclusiva. Sweet Words è un’altra dolce ballata, ma questa volta l’atmosfera, anche se si narra di una relazione finita, è più serena, più consapevole e ti avvolge nei suoi umori, con il violino onnipresente, la fisarmonica e le atmosfere narcotiche che molto ricordano il sound dei Cowboy Junkies. The Orphan King è la storia di un pellegrinaggio verso New Orleans e l’orfanotrofio di St. Vincent ed è quella che contiene il verso, ottimistico, “But I Still Believe In Love”, ci sono anche altre voci di supporto che non avendo il libretto, sinceramente non ho riconosciuto, comunque altro brano struggente dal suono minimale ma molto efficace. Another Day Borrowed dall’andamento ritmato e con una complessa strumentazione che reintroduce organo e violino, tra gli strumenti principi di questo disco, ci porta alla conclusione di questo disco, che potremmo definire un concept album o, come ha detto la stessa Mary Gauthier sul suo sito, una collezione di canzoni che raccontano una storia, dicendo di essersi ispirata a The Redheaded Stranger un vecchio disco di Willie Nelson che raccontava la storia di un predicatore che uccise con un colpo di pistola la moglie che lo tradiva. Sempre storie allegre!

In tutti i negozi dal 18 maggio e, subito dopo, spero nelle vostre case. Quattro stellette sono perfino poche. Un piccolo anticipo!

Bruno Conti

Potenzialmente Un Grande Quartetto. Michael Landau, Robben Ford, Jimmy Haslip, Gary Novak – Renegade Creation

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Michael Landau, Robben Ford, Jimmy Haslip, Gary Novak – Renegade Creation – Provogue/Shrapnel/Mascot/Edel

Al solito saranno un po’ di più di dieci parole! In America è uscito in questi giorni, sul mercato italiano dovrebbe uscire il 18 maggio. La formazione è “notevole” per usare un eufemismo. l’ho sentito velocemente oggi. poi ci torno con calma nei prossimi giorni. Dopo un primo ascolto devo dire che mi aspettavo di più, comunque averne…

Bruno Conti

Mary Chapin Carpenter – The Age Of Miracles

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Mary Chapin Carpenter – The Age Of Miracles – Zoe/Rounder/Universal

Esce domani sul mercato italiano (è uscito la settimana scorsa negli States) il nuovo album di Mary Chapin Carpenter, il dodicesimo, raccolte escluse e disco natalizio e Party Doll inclusi. Non molti, considerando che l’esordio era avvenuto con Hometown Girl nel lontano 1987 alla non più tenera età di 29 anni. Gli anni dei grandi successi e della “cosiddetta country music” sono lontani: Come On Come On, il suo disco di maggior successo negli anni ’90 ha venduto oltre quattro milioni di copie senza arrivare più in là del 31° posto nelle classifiche americane. Pensate come è cambiato il mercato discografico (e il mondo) in poco più di quindici anni, e dicendo questo so di intristire più di un discografico, il disco precedente della Chapin Carpenter, The Calling, del 2007, pur giungendo ad un rispettabile 59esimo posto nelle charts americane ha venduto poco più di centomila copie.

Ma bando alle tristezze, veniamo a questo nuovo The Age Of Miracles, il terzo per la nuova etichetta Zoe/Rounder, dopo il citato The Calling e il cosiddetto “disco stagionale”, Come Darkness, Come Light: questo album ha avuto una lunga gestazione causata dalla grave malattia contratta dalla Mary Chapin Carpenter nel corso del tour promozionale di The Calling, una embolia polmonare che ha rischiato di ucciderla e che, forse, tra le altre cose, ha generato il titolo di questo nuovo album.

Comunque niente paura per i fans della bionda cantautrice americana, questo nuovo album non ha spostato di una virgola la sua musica, lo stile è rimasto quel country-folk-rock di impianto “tranquillo”, preferibilmente ballate, raramente si avventura in qualche midtempo e quei brani vagamente Country-rock che apparivano nei dischi degli anni ’90 sono un lontano ricordo. La qualità di musica e testi è sempre molto elevata, la voce è rimasta bellissima, calda ed espressiva, dolce, senza voler essere offensivo, anzi, i dischi della Carpenter sono come un vecchio paio di ciabatte, sapete quelle vecchie, le preferite, che vi calzano alla perfezione e vi tengono i piedi comodi e al calduccio.

Contribuisce alla riuscita del tutto l’elevata qualità dei collaboratori, il meglio che la Nashvile meno commerciale può offrire: il tastierista (soprattutto piano, ma ottimoanche all’organo) e co-produttore Matt Rollings, reduce da anni di collaborazioni con Lyle Lovett, il chitarrista Duke Levine, fine cesellatore della 6 corde (non c’è più John Jennings) e la sezione ritmica composta dal bassista Glen Worf e dal batterista Russ Kunkel, leggendario musicista che ha suonato con chiunque vi possa venire in mente sulla scena musicale americana e contende a Jim Keltner il titolo di Batterista. Con tutto sto po’ po’ di roba a disposizione, naturalmente, se hai un filo di talento è difficile fare un disco brutto, se di talento ne hai parecchio è probabile che il disco sia sopra la media, come in questo caso. Avviso per rocker impenitenti e amanti di blues e generi alternativi: astenersi!

Dalla prima pennata di chitarra acustica del primo brano We Traveled So far, come dicevo prima, sapete già cosa aspettarvi, ma il viaggio è comunque piacevole e proficuo, con quella voce malinconica ma confortante, calda senza essere troppo espansiva o sofferta (non è Lucinda Williams o Mary Gauthier), i musicisti con l’aggiunta di Dan Dugmore alla 12 corde e steel guitar e di Mac McAnally alle armonie vocali cominciano a macinare ottima musica. Il successivo Zephyr reitera questa formula vincente e la bella voce della Carpenter comunque ti acchiappa. Put My Ring Back On è uno di quei rari brani mediamente movimentati a cui accennavo prima, non parliamo di rock ma le chitarre di Levine e l’organo di Rollings provano a dettare il tempo, l’ottimo Vince Gill duetta da par suo con Mary e il risultato è molto piacevole. Holding Up The Sky, in punta di strumenti e con una voce quasi sussurrata fa parte di questo nuovo filone più folkeggiante inaugurato nell’ultimo decennio.

Mary Chapin Carpenter non è certo il primo nome che vi viene in mente quando pensate ad una cantante di protesta o dedita a temi sociali ma le sue canzoni hanno sempre testi di ottimo livello letterario e nascosti tra le righe questi temi ricorrono; di tanto in tanto si palesano in modo evidente, è il caso di 4 June 1989 dedicata alla storia di piazza Tienammen vista attraverso gli occhi di uno dei protagonisti, un brano malinconico e compassionevole caratterizzato anche dalla presenza di un cello. Una delle più belle voci della canzone americana, Alison Krauss aggiunge le sue armonie alla evocativa I was A Bird e devo dire che le due voci si fondono alla perfezione. Mrs. Hemingway, una bellissima ballata pianistica con Matt Rollings che regala emozioni con il suo strumento, racconta la storia della prima moglie di Ernest Hemingway e gli anni di Parigi.

I have a need for solitude con la National di Levine in evidenza è piacevole ma non memorabile mentre per What You Look For Kunkel rispolvera quel sound di batteria che ha graziato decine di dischi negli anni ’70, da Linda Ronstadt a Neil Young, da Joni Mitchell a Carole King (sempre lui era) e la chitarra di Duke Levine abbandona l’incessante coloritura dei brani e si avventura in uno dei rari assoli del disco, tutto molto bello, chi conosce la Carpenter avrà modo di apprezzare, gli altri pure. Iceland è un brano lento e riflessivo (strano!) di impostazione quasi new age, con una strumentazione quasi accarezzata. The Age of Miracles con una chitarra vagamente jingle-jangle è un’altra bella ballata molto romantica di ampio respiro di quelle che la Carpenter sforna quasi a comando. La conclusione è affidata al country-rock di The Way I Feel e capisci che Mary Chapin Carpenter è una dei nostri quando nel testo ti dice “quando sono tutta sola su un’autostrada di notte, non c’è niente come due mani sul volante e la radio che suona I Want Back Down” e la chitarra di Levine che viaggia con te. Certo lì sono avvantaggiati, non fa lo stesso effetto su una tangenziale ascoltando Tiziano Ferro.

Bruno Conti

 

Un Disco Di Transizione? Hold Steady – Heaven Is Whenever

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Hold Steady – Heaven Is Whenever – Vagrant Usa 04-05-10 – Rough Trade UK 03-05-10 & Ita 07-05-10 Rough Trade/Self

Così sono tranquillo, vi ho dato le date esatte paese per paese, da noi esce a fine settimana prossima, ma, ovviamente, come al solito import circolerà con qualche giorno di anticipo.

Perché disco di transizione con il punto di domanda? Non perché non sia la verità ma a causa del fatto che, di solito, quando si dice di un disco di qualsivoglia artista, che si tratta di un lavoro di transizione di solito si intende che ha fatto una tavanata galattica o giù di lì! Visto che non è questo il caso vado ad elaborare il concetto.

Prima di tutto, e non è secondario anzi, gli Hold Steady sono diventati un quartetto a causa della dipartita del tastierista e unica potenziale “rock-star” a livello visivo del guppo Franz Nicolay (i sintomi erano già nell’aria, visto che Nicolay aveva già iniziato una carriera parallela come solista): questo ha causato un “impoverimento” del sound del gruppo, non ci sono più quelle fioriture tastieristiche che tanto avevano avvicinato gli Hold Steady di Boys And Girls In America e Stay Positive alla E Street Band degli anni ’70, ma il nocciolo del suono è rimasto quello solito, si tratterà solo di completare la trasformazione e decidere quale nuova strada intraprendere.

The Sweet party of the city con la sua slide e le sue chitarre acustiche, un sound quasi roots, dal profondo Sud degli States, potrebbe essere una delle possibiltà. La lunga, conclusiva, A Slight Discomfort dall’inizio “strano”, con ritmi inconsueti e sonorità quasi dub (ho detto quasi) che poi si apre a sonorità più “spaziali” e ad una lunga coda strumentale quasi orchestrale (e questi potrebbero i paesaggi cinematografici e musica da colonne sonore citate dal chitarrista Tad Kubler come possibile svolta influenzata dal lavoro di Terence Blanchard e Jon Brion).

In mezzo ci sono i “soliti” Hold Steady: da Soft In The Center che non è per niente soffice, ma vibra del solito rock urbano dal piglio chitarristico anche se un timido plink plink pianistico si insinua nel sottofondo, passando per The Weekenders, a cavallo tra Springsteen e U2 dei bei tempi che furono con più di un accenno al sound dei mai troppo celebrati Thin Lizzy di Phil Lynott con cui Craig Finn condivide più di un timbro vocale, Tad Kubler ci regala un bel solo di chitarra in questo brano.

Il suono del disco è affidato nuovamente al produttore Dean Baltolunis che aveva prodotto i primi due dischi della band, privilegiando un suono più scarno rispetto a quello più epico degli ultimi due, ma senza voler ritornare per forza alle origini “punk” del gruppo.

Qualche momento di stanca non manca: The Smidge, al sottoscritto non piace per nulla, solo riff messi a caso senza costrutto, Rock Problems è meglio ma non entusiasma, forse potrebbe crescere col tempo e con gli ascolti, intendiamoci è sempre meglio del novanta per cento di quello che si ascolta in giro, ma gli Hold Steady ci avevano abituato al meglio. Viceversa We can get together, anche senza le tastiere di Nicolay è una stupenda ballata ambientata in quel di New York, dove si aggirano i “classici personaggi” delle storie in musica di Finn ed il brano che contiene il verso che intitola questo disco Heaven is Whenever We can Get Together. Il brano è dedicato alla memoria del batterista Matthew Fletcher degli Heavenly e contiene un verso che vale cento canzoni: “Non era solo il batterista, era anche il fratello minore di qualcuno”. Hurricane J, il singolo, è il classico brano alla Hold Steady riffato il giusto, antemico quel che basta, con un ritornello che ti rimane uin testa, rock classico e senza tempo. Barely Breathing dai ritmi vagamente reggae mi ha ricordato moltissimo il Graham Parker del primo periodo, un altro con cui Craig Finn condivide timbro di voce ed attitudini musicali, in mancanza delle tastiere c’è uno strano assolo di clarinetto. Our Whole Lives è un altro pezzo rock intemerato in puro stile Hold Steady, tirato e chitarristico e con una bella sezione fiati che aggiunge pepe al sound del brano, molto bello.

Craig Finn in un’intervista ha detto che con Nicolay si sono lasciati in amicizia; Nicolay in un’altra ha detto che aveva registrato con loro alcuni brani prima di andarsene ma che il gruppo ha preferito reinciderli. Comunque sia, transizione o no, sempre un sano disco di rock come Dio comanda.

Bruno Conti