Novità Di Settembre Parte III Con Piccola Appendice. Neil Young, David Bowie, Soundgarden, Ben Folds/Nick Hornby, Ronnie Wood Eccetera

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Sono passati pochi giorni dall’ultimo aggiornamento ed eccomi qua di nuovo. Settembre mese fitto mi ci ficco (ho coniato un nuovo modo di dire) e non riesco neanche ad esaurire tutte le news perché ne ho ricevute e viste molte altre relative ad uscite interessanti, quindi ci sarà una ulteriore puntata.

Partiamo con il nuovo Neil Young Le Noise Reprise/Warner 28 settembre. Uhm, doppio uhm. Quando lo sento poi vi dico. Per il momento diciamo che è Neil Young in solitaria con le sue chitarre acustiche ed elettriche filtrato attraverso le apparecchiature di Daniel Lanois che cura anche la produzione. Otto nuovi brani, non strumentali.

Quella interessante composizione che vedete effigiata sopra è la edizione Super DeLuxe di Station To Station di David Bowie in uscita il 28 settembre (e non il 21 come si pensava) per la EMI. Visto che nuovi album non ne fa, accontentiamoci (si fa per dire visto che, come al solito chi è interessato dovrà scucire oltre 100 euro): 5 CD + DVD + 3 LP oppure 3 CD per la versione “normale”, contiene l’album originale… ma vi allego le note all’edizione internazionale che faccio prima

* Original album
* Previously unreleased ‘Live Nassau Coliseum ’76’ concert
* Station To Station – RCA CD Master
* 5-track Singles versions CD E.P. incl. previously unreleased version of Station To Station, and for first time on CD, Word On A Wing
* 3 x 12″ heavyweight vinyl
* DVD with new 5.1 mix
* 24-page booklet, including: never before seen Steve Schapiro photo, Geoff MacCormack photos, Andrew Kent live Nassau photos & extensive memorabilia from the archives
* Cameron Crowe sleevenotes
* 6 panel folded poster
* Onstage folder
* Replica Backstage pass
* Replica Biog
* Replica Ticket
* Replica band line-up
* 3 press shots
* Replica Fan club folder
* Replica Fan Club Membership card
* Fan club certificate
* 2 small Collectors cards
* 2 photo prints
* Replica 4-page biography
* 2 badges

Ma anche i Soundgarden, che si sono appena riuniti, ci deliziano con questo nuovo Telephantasm che è una bella antologia ma con alcune sorprese. Anche qui abbiamo versione standard singola con 1 brano nuovo (essendo singola), versione 2 CD + DVD, con 5 inediti audio e 13 inediti video tra live, BBC, MTV, SNL per un totale di 44 brani. Questo per il momento, poi seguiranno versione doppio vinile e SuperDeluxe con 2 CD, DVD, Triplo Vinile, poster e memorabilia vari per i soliti 100 e passa euri. Esce sempre il 28-09 per A&M/Universal

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Si parlava di una loro collaborazione da oltre un anno: il tempo di finirla ed eccola qua! Ben Folds pianista e compositore e Nick Hornby scrittore e, in questo caso, paroliere pubblicano, sempre il 28 settembre per la Nonesuch/Warner, Lonely Avenue. Oltre ai due e al gruppo di Folds c’è anche il grande Paul Buckmaster che cura gli arrangiamenti orchestrali. Il tutto masterizzato agli studi di Abbey Road. L’edizione deluxe in questo caso contiene un libro di 152 pagine con 4 racconti inediti di Hornby, presumo in inglese, ma non sono sicuro, più foto varie.

Nella pausa sabbatica degli Stones e, si spera, avendo risolto i suoi problemi di alcolismo, ritorna Ronnie Wood con un nuovo album per la Eagle Rock/Edel a 9 anni di distanza dal precedente Not For Beginners. Il disco si chiama I Feel Like Playing, solita data, vede la partecipazione di Billy Gibbons degli ZZTop, Flea dei Red Hot Chili Peppers, Slash, Kris Kristofferson, Bobby Womack, Ian McLagan (pare che alla fine la reunion dei Faces si farà, anzi c’è già stata una prima tranche con Mick Hucknall al posto di Rod Stewart, mah!, con il dovuto rispetto per il cantante dei Simply Red, ma non è proprio la stessa roba), Eddie Veder dei Pearl Jam, Bernard Fowler, Daryl Jones, Jim Keltner e Bob Rock (che dovrebbe essere il produttore, non quello di Alan Ford, scherzo, ma ormai dico sempre, non si mai che poi mi scrive qualche parente inc…to).

I Black Country Communion sono il nuovo gruppo dell’ex Deep Purple (e Trapeze) Glenn Hughes con Joe Bonamassa (come annunciato uno-ne-pensa-e-cento-ne-fa-joe-bonamassa-black-rock.html). Sono con loro Jason Bonham alla batteria e il tastierista dei Dream Theater, Derek Sherinian. Anche in questo caso, vinile e versione deluxe con Dvd, che contiene making of, interviste e brani live ma al prezzo di un singolo, é cosa buona e giusta. Sempre così! 21 settembre Usa e 28 Italia per la Mascot distribuzione Edel.

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Per la serie “I Figli di…” esce il secondo disco di Devon Allman’s Honey Tribe, Space Age Blues, titolo programmatico, dovrebbe uscire il 28-9 per la Mascot/Edel e il 12 ottobre negli States, ma mi pare strano, vedremo. Sono della partita Huey Lewis e Dizzy Gillespie!

No, non temete, non è che Clapton esce due volte, si tratta dell’appendice. Oltre ai nomi citati avevo dimenticato di ricordare Willie Weeks al basso, Trombone Shorty, Derek Trucks ospite in Rocking Chair e Allen Toussaint al piano in due brani, questo per la completezza.

Appendice dell’appendice: sempre il 28 settembre per la Universal (ma in alcuni paesi è già uscito) viene pubblicato il nuovo capitolo, il terzo, della serie Rhythms del Mundo. Come al solito il packaging è realizzato con materiale riciclabile e i proventi vanno, in parte, in beneficenza.

Anche questa volta, oltre a Kt Tunstall che reinterpreta Somebody to Love dei Jefferson Airplane, il cast dei partecipanti è oltremodo vario: a partire da Bob Dylan che canta A Hard Rain’s A Gonna Fall in versione latina, e questa voglio proprio sentirla! Ma ci sono anche, Wyclef Jean, Groove Armada, Gorillaz, Dizzee Rascal, i Green Day che fanno I Fought The Law, Bebe, Afrique, Franz Ferdinand, Coldplay & Lele, Shanade, Augusto Enriquez e Zucchero. E’ per una giusta causa.

Alla prossima (Paula Cole, Box 4 CD Camel, Manhattan Transfer, Matt Costa, Nathaniel Rateliffe, Box Vinile dei Grateful Dead, Kenny Wayne Sheperd Live e tanti altri). E siamo ancora a settembre, a ottobre esce il box di John Lennon, John Mayer, KT Tunstall, Bob Dylan Bootleg Series 9….

Bruno Conti

A Volte Ritornano. E Alla Grande! – Southside Johnny And The Asbury Jukes – Pills and Ammo

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Southside Johhny And The Asbury Jukes – Pills and Ammo – LeRoy Records/Evangeline-Floating World Records/Phantom Rec.

Lo so che ho già usato quel titolo tre volte, ma quando ritornano, ritornano! E se ritornano in questo modo non si possono usare altri termini. Il disco è S.T.R.E.P.I.T.O.S.O, il migliore dai tempi di Better Days (anche se Grapefruit Moon, l’ultimo, dedicato alle canzoni di Tom Waits era ottimo, ma non era un disco con i Jukes) e compete anche con il meglio della sua produzione anni ’70. Alla faccia dei suoi 61 anni, Southside Johnny è più in forma che mai e come lui, molti altri “terribili vecchietti” che stanno pubblicando dei dischi che confutano la teoria che il meglio sia ormai alle spalle, direi che The Best Is Yet To Come!

Un breve intermezzo. Questo disco ha una storia travagliata: in pratica sarebbe (è già) uscito dal mese di luglio almeno sul sito di Southside Johnny product&product_id=138, per la sua etichetta Leroy Records in formato Cd e per il download ma solo per il mercato interno americano, mentre uscirà, credo, il 14 settembre in Usa per la Phantom e in Europa il 21 settembre per la Evangeline/Floating World, quindi Ird, come i precedenti (ma magari anche prima, qui lo dico e qui lo nego).

In questo nuovo disco ad accrescere le aspettative (ma l’ho sentito, eccome se l’ho sentito!) c’è il ritorno di Bobby Bandiera (in prestito dai Bon Jovi versione live, grandi amici) e l’arrivo, sempre in prestito, come nel calcio attuale, di Andy York il chitarrista della band di Mellencamp e quindi la creazione di un gruppo a trazione chitarristica per l’album più rock della carriera di Southside Johnny come lui stesso ha dichiarato in alcune interviste.

Ma i fiati ci sono (La Bamba e soci), c’è il suo immancabile partner, tastierista e co-autore Jeff Kazee che ha scritto con lui molti dei brani contenuti in questo Pills And Ammo, oltre a curare la produzione, c’è Shawn Pelton alla batteria (quello che si era seduto sullo sgabello della band di Springsteen nell’interregno della E Street Band ma anche titolare al Saturday Night Live). Non ci sono Springsteen e Miami Steve purtroppo, ma per mantenere un segno di continuità c’è l’immarcescibile Gary Us Bonds in Umbrella in my drink, un brano dove fiati, mandolino e le voci dei protagonisti sembrano essere stati estratti di sana pianta da un brano dell’ultimo John Hiatt tanto la voce dei due si assomiglia.

Già la voce. Vissuta e logorata da tanti anni di onorata carriera ma proprio per questo capace di mandarti ancora il classico brividino lungo la schiena. Anche lui, come molti, ha dichiarato di essere stato influenzato (oltre che dal soul e dal R&R, in tutte le loro forme) dai Rolling Stones, soprattutto quelli del periodo del suo disco preferito, Sticky Fingers (quindi il rock a due chitarre ma anche i fiati, gli accenni country e l’immancabile Blues) più che di Exile On main Street. Anch’io andrò contro corrente, ma preferisco Sticky Fingers anche se Exile On Main Street rimane un disco eccezionale, una bella lotta. Fine della digressione.

E quindi per passare dalle parole ai fatti il disco si apre con una Harder Than It Looks dove al clavinet di Kazee si aggiungono subito le chitarre di Bandiera e York, che riffano e fanno brevi assoli mentre si rispondono dai canali dello stereo gli immancabili fiati, una batteria dal ritmo implacabilmente rock presa pari pari dal canone di Charlie Watts. Sembrano gli Stones di quell’epoca d’oro.

Cross That Line rilancia, con un Southside Johnny devastante che ricorda il compianto Willy DeVille più “cattivo”, quello dei Mink De Ville più tirati degli inizi, oltre naturalmente agli Stones già citati, all’ennesima potenza, con una slide minacciosa e i fiati come aggiunta vincente, il coretto femminile fa il suo lavoro, “strepita” alla grande dietro alla voce del nostro amico.

Woke Up this Morning con armonica e slide che duellano intorno ad un’altra convincente prestazione vocale di Southside è un bluesaccio di quelli tirati e credibilissimi.

Lead Me On è uno di quei classici brani che hanno costruito il repertorio e la reputazione di Southside Johnny, cantato con superba nonchalance e facilità, in un modo che ad altri richiederebbe settimane di studio per cercare di creare una “spontaneità fasulla”, ma d’altronde con quel contorno di pianoforte, voci femminili, la solita slide è perfino facile creare della musica così bella, potremmo definirla una ballata mid-tempo?

Heartbreak City è un’altra sparatissima variazione sul tema Riff and Roll dell’album, con l’aggiunta di una voce femminile che supporta alla grande quella del “titolare” mentre tutti, chitarre, fiati e tutto il cucuzzaro sono impegnatissimi. Strange Strange Feeling è un altro esempio di quella felice fusione tra R&B, Soul e Rock che è sempre stata la musica degli Asbury Jukes.

Di Umbrella In My Drink abbiamo già detto, One More Night To Rock potrebbe aggiornare i vecchi adagi sul “Play All Night Long” con un ritmo travolgente, l’armonica in evidenza, una voce femminile in pieno trip alla Gimme Shelter (e trattandosi di Lisa Fischer,anche lei in prestito, ma dagli Stones stessi, si capisce perché), i fiati impazziti e un grintoso assolo di chitarra e la voce di Southside Johnny agli splendori dei Better Days watch?v=2YReDFe5GOc

Una pausa dal piedino impazzito è offerta dalla blues ballad con licenza soul di Place Where I Can’t Found con un basso pulsante (John Conte) e retrogusti gospel, praticamente uno scherzo per questo signore cresciuto a “Pane e RB”.  Ma è subito tempo di Rock and roll con una vorticoso omaggio alla musica di Jerry Lee Lewis e Little Richard, Keep On Moving, un titolo, un programma, con chitarra e piano che fanno la gara a chi va più veloce assisti dalla solita impeccabile sezione fiati.

Southside Johnny è rimasto uno degli ultimi grandi cantanti bianchi capaci di cantare il soul e il blues come un nero e lo dimostra alla grande anche nella travolgente cavalcata che risponde al nome di You can’t Bury me altra perla di questo sorprendente album (un altro era il già citato gitano Willy Deville ma anche il recente disco di Peter Wolf si muoveva su queste coordinate, soul e Stones d’annata).

In Thank You volutamente lascia trasparire nella voce lo scorrere del tempo, una ballata “strappata” e malinconica che chiude alla grande questo grande ritorno ai fasti del passato. Ora sta a voi non farvelo scappare!

Bruno Conti

Niente Unanimità Di Giudizi! Ryan Bingham & The Dead Horses – Junky Star

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Ryan Bingham & The Dead Horses – Junky Star – Lost Highway/Universal

Volevo parlarne prima ma poi, come al solito, il tempo vola, per cui arrivo tardi (si fa per dire, visto che è nei negozi italiani da oggi anche se in America è uscito la settimana scorsa) ma ne approfitto per constatare questo improvviso snobismo che si è coagulato intorno allla persona di Ryan Bingham: basta vincere un Oscar e un Golden Globe e, improvvisamente, un cantante non è più “nostro” (degli addetti ai lavori e degli appassionati) ma essendo di tutti bisogna, almeno un poco, scaricarlo.

Infatti ho notato per questo disco un improvviso “tenere le distanze”, niente unanimità di giudizi, favorevoli ci mancherebbe, ma con molti distinguo.

Il Buscadero (qui c’è un piccolo conflitto di interessi, ma piccoolo) lo difende a spada tratta e gli assegna le canoniche 4 stellette dell’album “importante”, Rispetto a Roadhouse sun Junky Star è decisamente meno rock, meno elettrico ma, a mio modesto parere, molto più bello. E’ un lavoro più interiore, con più ballate, ma è fresco e pieno di idee… (se volete leggere il resto vi comprate il giornale), Jam (per il Bastian contrarismo ormai innestato) ne parla bene ma gli assegna solo 3 stellette, T-Bone Burnett riesce a creare l’ambientazione sonora più adatta a valorizzare le riflessioni contenute in questo lavoro, Junky Star è il ritratto di un di un songwriter di talento alla ricerca della propria identità sonora e stilistica. Difetto: la tendenza di Bingham a fare il verso al Dylan Contemporaneo… (anche qui, vi comprate il giornale e leggete il resto. Su Mojo non l’ho ancora visto (ma danno 4 stellette all’ottimo Jon Langford una-piacevole-sorpresa-jon-langford-skull-orchard-old-devils.html) mentre anche Uncut gli assegna 3 stellette e dice (in inglese, traduco) Ryan Bingham ha scelto di optare per un disco decisamente semplice, solo lui e la sua band rombando attraverso una serie di canzoni che vanno dal Dylan “piovoso” a Steve Earle al Terry Allen con il suo blues di confine, La produzione di T-Bone Burnett pone la voce rugginosa di Bingham al centro del palcoscenico…(idem, comprare e leggere il resto).

Mentre Rootshighway.it gli dà “solo” 7 e propone una “recensione” calcistica, citando il grande Gianni Brera e paragonando Junky Star a un sofferto 1-0 d’inizio stagione, strappato con i denti da una squadra portentosa, con una punta come Bingham che dimostra anche in questo caso di essere l’unico nome credibile e riproponibile ad alti livelli (la stessa Junky Star lo ribadisce subito, certi tiri riescono solo ai grandi talenti) e un Burnett che fa sentire il suo peso come al solito (anche qui il resto ve lo potete leggere da voi, ma in questo caso gratis).

In definitiva bello ma c’è di meglio? Per me, e l’ho sentito bene e ripropongo il conflitto di interessi, rimane un grande disco con due o tre brani da Oscar e un insieme molto omogeneo, forse l’inizio con The Poet, uno dei brani più meditativi del disco rende meno immediato il godimento, ma poi c’è grande qualità. Eccolo da Letterman con Depression, uno dei brani più belli del disco.

Ringrazio i “compagni” franco e ciccio (non è male!) per il commento che potete leggere a lato, non pensavo di scatenare un tale putiferio parlando di Drake: anche in Inghilterra, (al di là della Cortina di ferro, ah, non c’è più!) l’estrema sinistra deve essere salita al potere della rivista Mojo che ha dato due misere stellette al suo esordio nel numero di settembre.

Infine, sempre qui a fianco nei Commenti, ringrazio wwwoland per la breve recensione sul box di Delaney & Bonnie, (che, pur avendolo prenotato alla Rhino Handmade in giugno, non ho ancora avuto il piacere di ricevere) e alle riflessioni aggiungo che non solo Joe Cocker e Clapton (prima da solo e poi nei Derek & The Dominos) si sono arraffati i musicisti e il genere musicale della coppia americana per i loro dischi e spettacoli ma pure George Harrison li ha usati alla grande per All Things Must Pass e il concerto del Bangla Desh. Forse Delaney & Bonnie Bramlett allora non lo sapevano (o forse sì?) ma la loro influenza sul rock dei primi anni ’70 è stata fondamentale, contribuendo a creare alcuni dei dischi più belli di quel periodo.

Bruno Conti

Sembrano Uguali! Matthew Ryan – Dear Lover

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Matthew Ryan – Dear Lover & Dear Lover (the Acoustic Version) – Plastic Violin/Dear Future Collective

Tra i cosiddetti cantautori “minori” sicuramente Matthew Ryan è uno dei “Maggiori”!. E dopo questa perla potrei concludere qui, ma svisceriamo il tema.

La partenza fu di quelle brucianti con il primo bellissimo May Day che nel 1997 lo fece conoscere agli appassionati del cantautorato (l’ho detto ancora, ebbene sì, poi un giorno vi spiego), ma di quello di qualità sopraffina con echi di Springsteen, dei primi Waterboys, di Tom Waits, per la voce roca e sussurrata ma con una sua scrittura già ben definita e un sound molto personale, Guilty era un brano rock di eccellente qualità ma tutto quel disco brillava di luce propria, se lo trovate non fatevelo scappare, ieri…

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Naturalmente visto il successo (di critica ma non di pubblico) è stato subito scaricato dalla major di turno, A&M/Universal, iniziando a peregrinare disco dopo disco da una etichetta indipendente all’altra (alcuni pubblicati anche a livello autogestito) ma sempre mantenendo una qualità notevole nei contenuti, dischi come Concussion (che contiene un duetto con Lucinda Williams), Happiness (che contiene una cover di Springsteen, Something in The Night e un brano scritto con David Ricketts, quello di David and David), Regret Over The Wires (con Doug Lancio, l’ottimo chitarrista che suona anche nell’ultimo di John Hiatt) e From A Late Night High-Rise, sono solo alcuni esempi della sua cospicua discografia e dischi che si elevano abbondantemente sopra la media delle produzioni passate e presenti di chicchessia!

Gli ultimi anni sono stati un po’ travagliati, diventa sempre più difficile e faticoso trovare i suoi dischi per chi non si fida troppo degli acquisti in rete (come il sottoscritto, se non in casi indispensabili): questo nuovo disco che vedete nella sua duplice veste, prima elettrico (o meglio quasi “elettronico”, e questo mi ha fatto tentennare nella mia decisione di parlarne) uscito negli ultimi mesi del 2009 e poi in versione acustica, uscita questa estate conferma quanto di positivo si è sempre detto su di lui, ma dispiace che per questioni di budget non possa più pubblicare quei gagliardi dischi che hanno contrassegnato la sua carriera ma debba limitarsi a questa situazione più intimista ancorché sempre valida.

La prima versione del disco con Matthew Ryan che oltre delle chitarre si è occupato anche dei synth e della programmazione (che brutte parole per un cantautore, anche se poi i risultati, non solo nel suo caso, non devono necessariamente essere negativi), del basso e della fisarmonica, come nella iniziale City Life e nella conclusiva The End Of A Ghost Story (mai titolo più profetico), passando per la collaborazione con la coppia Rod Picott (voce) e Amanda Shires (violino) nell’ottima PS (Protest Song) che unisce sonorità moderne con il consueto spirito Springsteeniano. Ma Spark con DJ Preach ce la poteva risparmiare, tanto in discoteca non lo mettono e poi il pezzo è veramente brutto. The World Is… anticipa la dimensione acustica ed intimista della versione acustica di Dear Lover che ci presenta un Matthew Ryan scarno e minimale molto vicino allo stile dello Springsteen di Nebraska o The Ghost of Tom Joad.

Comunque entrambi i dischi hanno i loro pregi e sono complementari fra loro, si integrano alla perfezione, io preferisco la versione acustica ma anche quella elettrica risentita oggi ha un suo perché e non mi dispiace per nulla, oltre a tutto la seconda versione ha anche un brano nuovo Beauty Has A Name come bonus.

Per chi lo conosce e lo ama una ulteriore prova della sua bravura per tutti gli altri l’occasione di essere introdotti ad un “talento vero” tra i migliori in circolazione.

Bruno Conti

Tanto Rumore Per Nulla. Griffin House – The Learner

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Griffin House – The Learner – Nettwerk/self

Griffin House ha un cognome che evoca antiche magioni in un racconto di Edgar Allan Poe o Alfred Van Vogt ma in effetti è un ragazzone americano di trent’anni col passato universitario da sportivo che ha avuto il torto, senza colpa, di piacere a Bill Flanagan (il grande giornalista musicale americano che ha fondato la rivista Musician, l’emittente televisiva VH1 e scritto il bellissimo libro di interviste Scritto Nell’Anima, quindi uno che se ne intende): Flanagan si è recato ad un concerto di Griffin House a New York e intrigato da quanto ascoltato ha acquistato il suo CD e ha dichiarato, che dopo averlo portato a casa, lo ha ascoltato almeno 20 volte di seguito nel weekend successivo. Ma questo accadeva nel 2004 in occasione dell’uscita del disco Lost And Found (il suo terzo disco) e come tutte le leggende metropolitane gli è rimasta attaccata addosso. Ad ogni nuova uscita ( e siamo al settimo album più un paio di EP e una raccolta di B-Sides simpaticamente intitolata 42 minuti e mezzo con Griffin House, a dimostrazione del fatto che il nostro amico ha il senso dell’umorismo sviluppato), nel comunicato stampa che segue questo fatto di Bill Flanagan viene sempre citato anche se probabilmente sia il giornalista che House se ne sono dimenticati e come una iattura pesa sul disco in questione, tutti pronti a giudicarlo come se si trattasse del Nuovo Salvatore della musica rock.

In effetti Griffin House continua a proporre la sua musica, piacevole e solare, con echi del rock californiano degli anni ’70 (e in particolare il Jackson Browne più disincantato è una fonte di ispirazione) ma anche Tom Petty dal cui gruppo aveva preso in prestito Mike Campbell e Benmont Tench per il precedente Flying Upside Down e che cita anche all’interno di un brano “Se fossi abbastanza Tom Petty ti scriverei una canzone”, evidentemente si cucca di più! Amenità a parte questo nuovo The Learner, come al solito pubblicato dalla sua etichetta Evening Records tramite la Nettwerk, alterna ballate meditate a briosi brani country e rock come nell’iniziale If You Want To (quella che cita Petty) e che ricorda nella sua melodia ariosa il citato Browne ma anche gli Eagles degli inizi.

Anche River City Lights con le deliziose armonie vocali di Alison Krauss va catalogata nel reparto belle canzoni, ancora profumata di country e canzone d’autore.

Bella anche la versione “solo” sul bus. watch?v=EbvR2WDHdPo

Non male anche Standing At The Station con il suo incipit trés chic cantato in francese che poi diventa una galoppante rock song ancora molto anni ’70, Fleetwood Mac /Lindsay Buckingham le coordinate sonore.

Just Another Guy anche a livello vocale mi ricorda i Blue Rodeo più easy ed immediati, mentre She Likes Girls (ma lo dichiara già dal titolo) gli ha attirato gli strali dei critici seriosi che non sanno dove sta di casa l’ironia: “I’ve got a girlfriend and she does too” in inglese è più sfumato dell’italiano “mi piacciono le ragazze e piacciono anche a lei”, ma è in effetti una piccola furbata per un brano che ha velleità radiofoniche con il suo ritmo forsennato molto pop & beat anni ’60, divertente e trascinante con le chitarre che ci danno dentro alla grande. Quando i tempi rallentano come nella delicata Never Hide potrebbe essere una sorta di “fratello perduto” dell’altro Jacksoniano (nel senso di Browne) Ron Sexsmith, ma anche Chris Isaak viene in mente, con quell’arrangiamento di archi e la chitarra con riverbero.

Rule The World è una variazione sul tema del brano precedente, delicata e soffusa con un raffinato sottofondo di percussioni e un cantato molto sentito di Griffin House. Gotta get out dalle sonorità più pop si avvicina al sound, che so dei Crowded House (o i già citati Blue Rodeo), con quel coretto femminile vagamente soul, una elettrica appena sfiorata e un’aria leggerina che non dispiace. watch?v=gFCC5wDen4Q

Feels So Right, molto tompettyana, ha un drive irresistible, con il falsetto di House, una spruzzatina di fiati e la band che estrae un bel intermezzo strumentale nella parte centrale che ti fa muovere il piedino con gusto, power pop rules.

Let My People Go è bellissima, un evocativo brano in crescendo che narra il viaggio dei primi coloni verso il Nord America, cantato con grande trasporto e musicalmente molto raffinata e coinvolgente, una piccola gemma di delicati equlibri sonori.

In Native lascia libero ancora una volta il Jackson Browne che è in lui con lusinghieri risultati mentre nella conclusiva Coming Down The Road con il suo attacco alla U2 degli anni d’oro quando facevano musica che valeva la pena di ascoltare (non mandatemi insulti nei commenti ma, è un parere personale, a me piacevano di più quelli di una volta, sbaglierò), crea un’altra bella costruzione sonora che non avrebbe sfigurato su Joshua Tree, altro brano sopra la media.

Sapete una cosa, non sarà un genio, sarà derivativo nella sua musica, ma a me, questo Griffin House, mi piace.

Bruno Conti

Novità Di Settembre Parte II. Eric Clapton, Santana, Brandon Flowers, Zac Brown Band, Doobie Brothers, Bachman & Turner

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Secondo giro novità del mese, visto che alcune importanti erano rimaste indietro.

Prima di tutto, pare e ribadisco pare che il nuovo disco di Eric Clapton Clapton sia il suo migliore da un fantastiliardo di anni (almeno in studio, dal vivo ci dà dentro sempre alla grande, a novembre uscirà anche il nuovo doppio DVD Crossroads 2010): esce il 28 settembre per la Warner Music e viene annunciato un ritorno a sonorità più consone alla sua fama di grande rocker e bluesman (anche se i dischi con B.B. King e JJ Cale, oltre al tributo a Robert Johnson non erano affatto male, quindi diminuiamo drasticamemte il numero degli anni che non ci soddisfano). Oltre a tutto JJ Cale è presente anche in 4 pezzi in questo disco, insieme a Sheryl Crow che duetta con lui in Made From The Rain scritta dall’immancabile Doyle Bramhall II che ha anche co-prodotto il disco con Clapton e suonato la seconda chitarra solista. Ma per confermare il cambio di rotta si segnalano la presenza di Jim Keltner alla batteria, Kim Wilson all’armonica, Wynton Marsalis alla tromba con London Session Orchestra al seguito per una cover di How Deep Is The Ocean, un classico del 1932 di Irving Berlin. Ma ci sono anche cover di bluesman noti, Little Walter, ed ignoti, Lane Hardin di cui non esiste neppure una foto, altro che Robert Johnson. Suona molto promettente ma vale il sistema San Tommaso, “provare per credere”, per cui prima ascolterò poi vi dirò.

Santana pubblica questo nuovo album dal titolo immaginifico Guitar Heaven: The Greatest Guitar Classics of All Time, in uscita per la Sony/Bmg il 21 settembre. Titolo fantastico ma contenuti discutibili: Whole Lotta Love con Chris Cornell, OK, Can’t You Hear Me Knocking con Scott Weiland, boh, Sunshine Of Your Love con Rob Thomas, benone, While My Guitar Gently Weeps con India Arie e Yo-Yo Ma mi incuriosisce, ma Photograph con Chris Daughtry?!? E Back in black con Nas e Janelle Monae? Non per la canzone ovviamente. Riders on the storm, bellissimo brano dei Doors, ma non sapevo fosse una guitar song, comunque c’è anche Ray Manzarek. Smoke on the water non poteva mancare ma Jacoby Shaddix chi cacchio è? (Adesso non ditemi che è il cantante dei Papa Roach perché lo so. Ogni tanto faccio delle domande retoriche di cui conosco perfettamente la risposta, ma sono solo ironiche o per introdurre altri argomenti per cui non rispondete nei commenti perorando le cause dei vostri preferiti). Dance The Night Away con Pat Monahan e Bang a Gong con Gavin Rossdale, mah! Little Wing con Joe Cocker per fortuna c’è e I Ain’t Superstitious con Jonny Lang gliela concedo. Me ne verrebbero in mente almeno un centinaio in alternativa ma taccio per pudore. Venderà a tonnellate visto il furbo accostamento di nuovo e vecchio, o meglio “nuovi e vecchi”, speriamo sia anche bello. Giudizio sospeso. Naturalmente non mancherà la versione Deluxe CD+DVD con annesso Making of e intervista a Santana e Clive Davis. Per Clapton si erano astenuti, solo versione liscia!

Zac Brown Band è il nuovo gruppo rock che sta spopolando negli States con la loro miscela di country e southern-rock ad alto contenuto di ottani musicali. Dopo l’ottimo Live Pass The Jar 2CD+DVD battono il ferro finché è caldo con il nuovo disco di studio You Get What You Give in uscita il 21 settembre per la Atlantic. La versione Deluxe, che non manca, è tale per il packaging e per 2 bonus tracks.

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Per concludere, un paio di “a volte ritornano” e un “chi è costui”. I Doobie Brothers che sono previsti in concerto tra breve anche da noi (a Milano il 14 ottobre all’Alcatraz), escono con il nuovo album annunciato da più di anno. E’ l’attesa? reunion della prima formazione, quella con Pat Simmons e Tom Johston, ma anche John McFee e Mike Hosack. Produce il veterano Ted Templeman e tra gli ospiti, in un brano ciascuno, Michael McDonald e Willie Nelson. La versione Deluxe ha due bonus tracks e un DVD con il making of e un video clip. Dovrebbe uscire il 28 settembre.

Chi va e chi viene: Randy Bachman, che ultimamente aveva riunito i Guess Who, passa abilmente nei Bachman & Turner (Overdrive non si sa che fine abbia fatto?) per l’omonimo album della reunion, in uscita negli States il 7 settembre per la RBE Records. Purtroppo niente Deluxe!

Brandon Flowers (lo so che lo sapete!) è il cantante dei Killers, questo Flamingo, in uscita il 7 settembre, è il suo debutto come solista. C’è un duetto con Jenny Lewis dei Rilo Kiley e il disco è prodotto da un team che comprende Brendan O’Brien, Daniel Lanois e Stuart Price che tra tutti hanno prodotto, U2, Gabriel, Springsteen, Madonna, Aerosmith, Bob Dylan, Pearl Jam e chi più ne ha più ne metta. Il primo singolo Crossfire è accompagnato da un video con Charlize Theron!!

Infine, in risposta all’ultimo commento a lato, non sapevo di essere filocomunista, forse “filomusicisti” come testimoniano alcuni come JD Foster, Antonio Gramentieri e Jon Tiven, che hanno ringraziato nei commenti e che sono musicisti!

Bruno Conti

Una Piacevole Sorpresa! Jon Langford & Skull Orchard – Old Devils

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Jon Langford & Skull Orchard – Old Devils – Bloodshot Records/Ird

E’ da un po’ che ci giro intorno, lo sento e lo risento, ogni mi volta mi piace di più ma non mi decido mai, quando me l’hanno dato da recensire era un Advance CD, nel frattempo è uscito, quindi direi che il “momento è giunto”.

Jon Langford percorre le strade del rock da una vita, prima nel natio Galles, poi a Leeds dove nel 1977 dà vita ai Mekons, uno dei primi gruppi punk a fondere l’energia del genere con una passione insana per il folk. Il nostro amico all’inizio era il batterista, poi ha imbracciato la chitarra e si è assunto la guida del gruppo come vocalist chiamando accanto a sé la bravissima Sally Timms come sua contraparte vocale femminile e realizzando una lunghissima serie di album (l’ultimo Natural nel 2007).

Ma essendo Langford un irrequieto o meglio un “artista inquieto ed eclettico”, “The Renaissance man” viene chiamato, la sua attività si svolge anche in altri campi, come pittore e disegnatore ad esempio (le copertine dei suoi dischi e di molti altri artisti sono sue). Ma rimanendo nell’ambito musicale che è quello che ci interessa, Langford ha fondato e porta avanti anche molti altri gruppi: i Waco Brothers, una ottima country-punk band con sede a Chicago, che è anche la città dove è andato a vivere agli inizi degli anni ’90, ma anche i Pine Valley Cosmonauts, un gruppo di musicisti con l’ottima Kelly Hogan alla voce, dediti alla rivisitazione di classici del country e del rock; nel passato c’erano anche i Three Johns oggi i Wee Hairy Beasties ma fermiamoci se no non ne usciamo più.

Oltre a tutto ciò, naturalmente, Jon Langford coltiva anche una carriera solista, e ci mancherebbe, di cui questo Old Devils mi sembra l’esempio più fulgido. Il gruppo, Skull Orchard, prende il nome dal primo disco da solista del 1998.

Questa volta, a 53 anni, ha deciso di fare un disco, sempre rock, ma più classico, con ampie escursioni nello stile da cantatutore ma anche nella musica roots, nel vecchio R&R e nell’amato pop di ottima qualità della sua terra d’origine, il risultato, come da titolo, è una piacevole sorpresa!

L’album è pervaso da una sottile vena di nostalgia e malinconia ma anche dal vigore del rock: un ottimo esempio è l’iniziale 1 2 3 4 Ever che unisce un vigoroso drumming da parte di Joe Camarillo (che ricorda quello del compianto Keith Moon negli Who circa 1968), a delle vigorose pennate di chitarra da parte di Langford e la chitarra Blasteriana (si potrà dire? Non credo ma chi se ne frega!) di Jim Elkington che evoca atmosfere fifties and sixties, Langford canta con verve e convinzione come sempre, ma anche con una nuova consapevolezza nella sua voce.

Book Of your life introduce elementi country-rock, sarà il violino dell’ottima Jean Cook (che si occupa delle armonie vocali e della seconda voce in tutto il disco con ottimi risultati), sarà l’atmosfera generale del brano, molto rilassata, laid-back direi quasi, comunque una canzone piacevole e godibile.

Getting used To Uselessness col testo che non manca mai della consueta ironia ed amarezza verso i tempi che viviamo ma li affronta non dico con rassegnazione ma, come si diceva, con la consapevolezza degli anni che passano: sembra dire, non si può fare il punk tutta la vita, ma quasi quasi ci provo. La voce e l’atmosfera musicale del brano ricorda gli episodi migliori della carriera di Billy Bragg accompagnata da una vena melodica e da un ritornello gustosamente orecchiabile oltre che da un assolo di chitarra semplice ed immediato, come diceva il buon Nick Lowe (un altro che, attraverso i suoi Rockpile, rieccheggia nella musica di questo CD) Pure Pop For Now People, proprio una bella canzone!

Self Portrait con i suoi coretti vecchio stile, il suo pianino insinuante e la chitarra rockabilly unsice il vigore del punk con quello del R&R come i vecchi Blasters e i già citati Rockpile. Luxury è una delicata ballata piena di melodia degna del John Lennon nostalgico degli anni ’70, gli archi, i cori e un arrangiamento “lussurioso” aggiungono spessore ad un brano molto semplice nelle sue intenzioni iniziali.

La voce minacciosa dell’icona soul André Williams (che recita solo) ci introduce a Pieces Of The Past, una storia di pirati, sangue e oro, ambientata nel porto e nelle strade di Bristol, un brano “strano”, molto cinematografico, dalle atmosfere complesse e con continui cambi di tempo, tra armoniche, tastiere e chitarre vintage con la voce guida di Langford che racconta seria ma divertita al tempo stesso.

Haunted introduce nel menu anche una sezione fiati e ci trasporta verso lidi soul e citazioni di New Orleans music da parte dell’enciclopedico Jon Langford, grande esperto di musica oltre che ottimo cantante e bandleader. Flag of Triumph è un bell’esempio di rock classico, semplice e diretto con chitarra e batteria sugli scudi, mentre la successiva Death Valley Days è un’altra ballatona di quelle lussureggianti, romantica ed “esagerata” con Jean Cook a fare il controcanto a Langford, ancora pop music di quella eccellente.

Ancora punte di eccellenza nella raffinata Old Devils, lui canta veramente bene, in ogni brano meglio che nel precedente pur non essendo in possesso di una voce memorabile in questo disco la utilizza con una efficacia raramente raggiunta nel suo passato più “urlato”, la parte centrale con chitarra e violino che duettano deliziosamente è da antologia della roots music come pure il resto del brano.

River Of Ice ancora con i fiati in evidenza è un ulteriore divertito tuffo nel passato, ma meno riuscito degli altri brani. La conclusione è affidata alla bellissima Strange Way To Win Wars, ancora cantata a due voci con la bella voce di Jean Cook che ci delizia anche con un ulteriore delicato assolo del suo violino e che mi ha ricordato, come in altri brani, il Dave Alvin degli ultimi dischi, quello maturo e pensieroso del post Blasters.

E bravo Jon Langford, da aggiungere alla lista dei Beautiful Losers.

Bruno Conti

Solo Del Sano Buon Vecchio Rock! Black Mountain – Wilderness Heart

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Black Mountain – Wilderness Heart – Jagjaguwar Records – 14-09-10

La copertina qualche inquietudine la risveglia, ma in fondo fa parte dell’iconografia del rock, in un mondo spietato ed affollato devi colpire la fantasia del potenziale acquirente già dall’esterno, se poi ci sono anche i contenuti, meglio.

In questo terzo capitolo dell’opera dei Black Mountain, gruppo canadese che gravita intorno ad una sorta di collettivo “comune” denominato Black Mountain Army, che opera in quel di Vancouver, British Columbia, quei contenuti direi che ci sono.

Stephen McBean, il leader del gruppo, milita (come pure gli altri componenti del gruppo) in molti gruppi collaterali, dai Pink Mountaintops ai Blood Meridian, passando per i Lightning Dust e molti altri che è difficile non solo seguire ma anche enumerare.

Ma il progetto principale resta questo dei Black Mountain: un gruppo che divide molto la critica in Italia (come sempre), c’è che li adora e chi pensa siano un bluff colossale mentre all’estero direi che i giudizi sono più unitari e decisamente posititivi.

Qual’è l’oggetto del contendere? Il fatto che facciano un genere che pesca a piene mani dall’hard rock, dalla psichedelia e perfino da certo heavy metal di qualità (ma esiste? Direi di sì) e quindi i nomi di riferimento sono Led Zeppelin, Black Sabbath, Deep Purple, qualcuno cita i Blue Oyster Cult e tra i contemporanei Black Crowes e Mudhoney, fa sì che siamo in piena orgia anni ’70 e questo per i “modernisti” a tutti i costi non va bene. E invece, se tra una ristampa e l’altra vi lasciate attirare dai loro dischi non c’è nulla di male. Sarà pure revival e musica citazionistica ma citano bene!

A partire dall’iniziale The Hair Song, che nel suo alternarsi di chitarre acustiche ed elettriche (tante ma tante), tastiere vintage, e le voci di McBean e Amber Webber, sembra provenire dritto filato da Led Zeppelin 3, ma con una sua dignità, arrangiamenti complessi e voglia di stupire. D’altronde siamo in un mondo dove sta per uscire Lez Zeppelin 1 (è giusto con la Z, è un gruppo tutto al femminile che ripropone il primo disco degli Zeppelin al completo sotto la guida di Eddie Kramer ed è già il secondo disco che fanno!) Quindi…non c’è niente male.

Oltre a tutto rispetto al precedente In The Future dove i brani erano molto più lunghi e dilatati fino ad arrivare agli oltre 16 minuti della epica Bright Lights qui i nostri amici canadesi (in trasferta a Los Angeles e Seattle per registrare questo Wilderness Heart) si sono trattenuti, hanno scelto un approccio più sobrio, quasi acustico e folk in alcuni brani, e raramente la durata supera i 5 minuti, pur mantenendo inalterate molto delle caratteristiche del sound del gruppo. Addirittura hanno parlato del loro disco più “pop”.

Old Fangs ricorda molto i Black Sabbath, ma se avessero avuto Jon Lord alle tastiere, con la brava Amber Webber che affianca al solito organo con leslie una batteria di vecchi sintetizzatori che duettano con la chitarra di Mc Bean come fanno le voci dei due cantanti e il tutto ricorda anche i vecchi Blue Oyster Cult delle origini, non so chi l’ha detto ma concordo, l’effetto è quello: Sabbath + BOC + Purple= Blue Mountain.

Radiant Hearts (sempre con le voci all’unisono) ci riporta agli amici del Dirigibile, quelli più folk ma anche a certa psichedelia più morbida.

Rollercoaster è vecchio sano hard rock con tutti i suoi piacevoli cliché mentre Let Spirits Ride pure ma qui siamo in puri territori alla Black Sabbath e se McBean e Webber non possono rievocare la vocalità del vecchio Ozzy, dal lato strumentale ci danno dentro alla grande per non fare rimpiangere Iommi & Co.

Buried By The Blues è una bella ballata di stampo folk-rock che ricorda certi luminari dei primi anni ’70 con ottimi risultati, le due voci si completano a vicenda e Amber Webber conferma la sua crescita esponenziale nell’ambito degli equilibri del gruppo.

The way to gone è più psichedelica, con le sue chitarre acide e taglienti mentre in Wilderness Heart la voce della Webber assume tonalità alla PJ Harvey miste al classic rock della “vecchia” Sonja Kristina dei Curved Air (la signora Stewart Copeland!), la musica sta a cavallo tra il vecchio rock e qualche “tentazione” alla White Stripes.

The Space on Your Mind è un’altra piacevole ballata tra pop e folk molto sognante (con un ritornello che mi ha ricordato vagamente Wonderful Life di Black, giuro) mentre la conclusione è affidata alla cupa atmosfera folk epica di Sadie.

In definitiva un bel dischetto, non mi dispiace per niente.

Bruno Conti

Peccato Averlo Già! Una Fantastica Ristampa! The Dream Syndicate – Medicine Show

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The Dream Syndicate – Medicine Show – Water 2010

Per chi non lo possedesse già (io sono fortunato possessore del CD originale A&M uscito nel 1984, autografato da Steve Wynn) questo è uno dei dischi imprescindibili degli anni ’80.

Rock chitarristico tra psichedelia “vecchia e nuova” e una manciata di canzoni scritte col vetriolo. Con l’aggiunta di 5 tracce dal vivo che facevano parte di This Is Not The New Dream Syndicate Album…Live! Non dovrebbe mancare in nessuna discoteca che si rispetti.

Un breve reminder ma, per chi vuole approfondire, giustamente, ne hanno parlato tutte le riviste specializzate.

Bruno Conti