Fleet Foxes – Helplessness Blues – Bella Union/Coop/Universal – Sub Pop
Esce oggi in tutto il mondo questo Helplessness Blues dei Fleet Foxes: disco del mese per Mojo e Uncut (dove erano in copertina il mese scorso), ma pure per Uncut e il Buscadero (dove sono in copertina questo mese). Quindi giudizi unanimi? Sembrerebbe di no, c’è anche parecchia gente che non lo apprezza o non del tutto. Al sottoscritto sembra che Robin Pecknold e soci (tra cui l’ottimo J Tillman, anche solista in proprio, qui impegnato alla batteria e ai cori) abbiamo centrato l’obiettivo. Non saranno originalissimi (ma chi lo è), forse non sono trascinanti ma sicuramente quel trademark degli arrangiamenti curatissimi e i cori sempre superbi e sopraffini sono un loro atout.
L’album è il famoso sophomore (che nella “iconografia” inglese precede il “difficult album”, che è il terzo), ovvero il secondo disco del gruppo originario di Seattle ma idealmente figlio della West Coast californiana e del folk-rock britannico (e quindi Fairport Convention e dintorni). Loro ci aggiungono, almeno a livello di approccio musicale, la musica di Van Morrison e mille altre influenze, come ammettono candidamente in molte interviste. Sono dodici brani per una cinquantina di minuti di musica ed avendolo ascoltato a lungo visto che il promo circola da parecchi mesi (ma come dicono le case discografiche quando ti affidano un promo o un link per lo streaming, usando una frase alla Giucas Casella, recensione “solo quando lo dirò io!).
Per cui, alla fine, mi sono ridotto all’ultimo minuto ma due parole sui brani le voglio dire anch’io. Il famoso altro punto di riferimento non citato, ma che aleggia nell’aria, sono C,S,N (& Y) e le loro morbide acrobazie vocali (ma io, in alcuni momenti e senza offesa, ho riscontrato anche qualche similitudine con i primi America, che in quanto a cori e bravura, almeno gli inizi, non erano secondi a nessuno, nel genere specifico). Se esaminiamo da vicino la voce del leader Robin Pecknold si tratta di uno strumento piacevole ancorché non memorabile, ma la somma delle parti vocali dei vari componenti del gruppo è nettamente superiore alle voci prese singolarmente e si unisce a quella cura nei particolari che li ha indiziati tre anni fa tra gli iniziatori di questo filone neo-folk che, in varie forme, impazza piacevolmente nell’etere e sulle pagine dei giornali specializzati.
Si diceva dei brani: The Shrine/An Argument è un ottimo esempio di quanto detto finora. Divisa in tre movimenti, parte con la sola voce di Pecknold e un leggero picking di chitarra per poi trasformarsi in una seconda parte più complessa, quasi solenne dove entrano la batteria e i soliti cori celestiali e si conclude con un’ultima parte che mi ha ricordato, stranamente ma non troppo, gruppi come i Van Der Graaf Generator o i King Crimson meno estremi, con i suoi fiati e archi quasi jazzati, con quel finale quasi free-progressive. Un altro medley The Plains/Bitter Dance segnala questo incrocio tra psych-prog morbido e folk, vagamente nello stile dei citati Fairport, con queste melodie che profumano anche di celtic rock. E che dire di Bedouin Dress che al tempo da giga aggiunge anche influenze orientali? Ne diciamo bene. Anche il crescendo glorioso di Grown Ocean ha molte frecce al suo arco.
Per il resto prevale la consueta miscela di West Coast, country e folk con ampie spruzzate del pop più raffinato con una preferenza per le dolci atmosfere di Sim Sala Bim (vedete che i “maghi”, o presunti tali, ritornano) o per il country-rock ricercato di Montezuma, o le derive dylaniane in trasferta a San Francisco di Lorelai, ma anche l’ovvio riferimento alla Crosby, Stills, Nash & Young di Someone You’d admire.
Una ultima citazione va alla title-track, quella Helplessness Blues che già da qualche mese delizia le orecchie degli appassionati di buona musica. Ma in definitiva, con qualche lungaggine qui e là, e un filo di noia per chi non l’apprezza, il disco piace nella sua interezza, almeno a chi scrive.
Se vi chiedete perché l’ho inserito nella rubrica “in breve”, con indulgenza pensate alla lunghezza abituale delle altre recensioni. In questa occasione, si fa per dire, mi sono parzialmente trattenuto da attacchi di verbosità che torneranno prossimamente, potete esserne sicuri, non è una minaccia ma una promessa. Quando inizio a scrivere un post sono sempre un po’ riluttante poi mi prende la mano e vado a ruota libera. Spero di non rompere troppo le scatole ma come detto più volte il Blog è mio e me lo gestisco io (questa frase mi dice qualcosa) per cui se non vi piace potete cambiare canale o esprimere, con educazione, il vostro dissenso o la vostra approvazione. Fine della concione e alla prossima.
Comunque il disco è bello e consigliato, non credete troppo alle iperboli di molte recensioni ma neppure a chi fa lo snob per partito preso salvo poi appiopparvi e consigliarvi dischi “improbabili”, qui andate sul sicuro. Vediamo se faranno anche loro il “botto” nelle classifiche come Arcade Fire e Decemberists, non sarebbe male!
Bruno Conti