Che Disco! June Tabor & Oysterband – Ragged Kingdom

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June Tabor & Oysterband – Ragged Kingdom – Topic Records

Maestoso, magnifico, meraviglioso, un disco stupendo e mi fermo perché non vorrei esagerare. Dischi così belli nell’ambito folk-rock si facevano solo negli anni ’70 (ma anche in qualsiasi altro tipo di musica è difficile trovare album così completi). Nel 1990 June Tabor e la Oysterband avevano già fatto un altro disco in coppia, Freeedom and rain, che era bello, persino molto bello ma questo nuovo Ragged Kingdom supera ogni aspettativa, un album che compete con classici come Liege and Lief dei Fairport o Below The Salt degli Steeleye Span o Sweet Child dei Pentangle per la profondità dei contenuti, la scelta del materiale, la qualità delle esecuzioni, la strepitosa bravura di June Tabor che è una cantante incredibile (sto iniziando a essere in difficoltà negli aggettivi). La Tabor che quest’anno ha già pubblicato un disco Ashore, bellissimo, che si candidava autorevolmente a disco Folk dell’anno ma questo Ragged Kingdom lo supera.

 

Una delle più riuscite fusioni tra la voce emozionante della Tabor e il sound elettrico ed elettrizzante della Oysterband, tra le migliori band di folk-rock della scena britannica in attività dalla seconda metà degli anni ’70 quando i Fiddler’s Dram che avevano come vocalist Kathy Lesurf si fusero con la Oyster Ceilidh Band che all’inizio era una dance band (nell’ambito folk ovviamente). Più o meno nello stesso periodo June Tabor esordiva con un disco Silly Sisters registrato in coppia con Maddy Prior degli Steeleye Span. Se volete investigare sulle loro carriere separate potete provare uno qualsiasi dei dischi solisti della Tabor (sono quasi tutti belli) oppure il cofanetto quadruplo pubblicato dalla Topic nel 2005, Always. Per la Oyster Band (staccato), potete provare Liberty Hall del 1985 e per la Oysterband (attaccato, ma sono sempre loro) Deserters, oltre che, per entrambi Fredom and Rain.

 

La cosa migliore, per questa unica occasione e se già non frequentate il genere e i personaggi in questione, sarebbe quella di partire dal fondo con questo Ragged Kingdom: sono dodici brani, uno più bello dell’altro, ma con delle punte di qualità che si stagliano su uno standard elevatissimo che gli ha fruttato giudizi da 5 stellette da parte di Mojo, Guardian, BBC e altri e che sono inconsueti abitualmente. 4 stellette vengono date con noncuranza e spesso a sproposito ma cinque sono l’eccellenza assoluta (e in questo caso meritata).

A partire da una rilettura gagliarda dello standard Bonny Bunch Of Roses dove l’andatura incalzante della costruzione musicale della Oysterband stimola la Tabor in una interpretazione profonda e ricca di significati di questo celebre brano che rinasce a nuova vita per l’ennesima volta. E che dire della rilettura di un brano che difficilmente si accosterebbe alla musica popolare inglese (o forse sì?)? That Was My Veil di PJ Harvey si riveste di nuovi sapori con la voce profonda ed evocativa della Tabor che è una delle migliori cantanti della musica inglese, in assoluto, generi a parte. Il primo duetto con la voce storica degli Oysterband, John Jones è un delizioso traditional chiamato Son Of David e le due voci si intrecciano e si completano in un modo quasi magico, con il violino di Ian Telfer che aggiunge ulteriore spessore all’esecuzione.

 

Che si ripete e si amplifica in una rilettura semplicemente “definitiva” di Love Will Tear Us Apart dei Joy Division (un classico dei loro concerti), che diventa un brano acustico, dove la chitarra di Alan Prosser e il cello di Ray Cooper (Chopper per gli amici) accompagnano le voci sublimi di Jones e June Tabor verso vette quasi ineguagliabili. Voci che sono nuovamente protagoniste nella versione accapella di (When I Was no but) Sweet Sixteen, anche questa superba.

Judas (Was a Red-headed Man) dall’andatura decisamente folk-rock classica e If My Love Loves Me, entrambe con il melodeon di John Jones in evidenza, sono “solamente” belle. Un brano di Shel Silverstein The Hills Of Shiloh, che è un piccolo classico delle canzoni americane dedicate alla guerra civile e contro la guerra stessa è noto, tra le tante, per la versione di Judy Collins, ma questa cantata da June Tabor accompagnata solo da una chitarra in pura tradizione folk è veramente emozionante. Fountains Flowing è un’altra canzone tradizionale che si immerge profondamente nella tradizione del miglior folk-rock inglese, sembra una di quelle magnifiche accoppiate di Sandy Denny e Richard Thompson dei tempi d’oro. E anche The Leaves of Life due o tre frecce al suo arco le ha.

Ma sono i due brani conclusivi che ritornano a livelli incredibili, prima una versione particolarissima e superba di Seven Curses di Bob Dylan con il cello di Ray Cooper che si disputa la scena con le voci duettanti di June Tabor e John Jones. E per finire un altro brano tra i più belli della storia della musica americana, The Dark End Of The Street che dalla versione originale (e inarrivabile) di uno dei maestri della musica soul, lo sfortunatissimo James Carr è passata nei decenni attraverso Aretha Franklin, Ry Cooder, Eva Cassidy, i Moving Hearts, lo stesso Springsteen per approdare alla versione di questo disco dove le voci di Jones e Tabor si intrecciano ancora una volta accompagnate da un violino e da una fisarmonica (pardon, English Concertina) che la rendono ancora una volta un classico della tradizione folk.

 

Credo che difficilmente quest’anno si siano fatti o si faranno dischi più belli, alla pari forse ma non superiori. Altamente, caldamente e “disperatamente” consigliato. Se vi piace il folk, come dicevo nel Post precedente, qui siamo su livelli stratosferici!

Bruno Conti

Ci Sono Dei Burloni In America. Il “Nuovo” Album Di Bruce Springsteen –

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Bruce Springsteen – Red Dust

Il nuovo disco di Bruce Springsteen già disponibile nei migliori negozi marziani, fra poco anche sulla terra!

http://www.theonion.com/articles/bruce-springsteen-releases-new-scifi-concept-album,21358/ 

O forse è questo?

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Se lo trovate avvisatemi che lo compro anch’io.

Bruno Conti

“Semplicemente” Musica Folk! Donald And Jen MacNeill With Lowlands – Fathers And Sons

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Donald And Jen MacNeill with Lowlands – Fathers and Sons – Standing Stone Music (distribuzione italiana Route 61 di Ermanno Labianca).

Dovrebbe essere disponibile dalla settimana prossima nei negozi (una volta si diceva più forniti), ma già qualche copia circola a livello furtivo: si tratta del disco di una coppia, padre e figlia più una serie di “figliocci” e condivide il titolo con una delle pietre miliari della musica, quel Fathers and Sons registrato da Muddy Waters con una serie di musicisti bianchi tra cui Mike Bloomfield in piena epopea della rinascita del Blues presso i musicisti bianchi. Ma non condivide lo stile, questa è “pura e semplice” musica folk quella che si fa da cent’anni sulle isole britanniche ma che tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 è diventata un “genere”. Prima attraverso alcuni pionieri come Davy Graham, le sorelle Shirley & Dolly Collins, Bert Jansch e John Renbourn (pensate che li ho visti tutti, ogni tanto faccio lo “sborone” come il scior Shomaker) e poi nella parte elettrica con Fairport Convention, Sandy Denny, Richard Thompson e di nuovo acustica con Planxty, Christy Moore, Moving Hearts e cantanti come Allan Taylor, Dick Gaughan, Mick Hanly o gruppi come la Bothy Band e i Chieftains. Ma anche personaggi più mainstream come Donovan o iconoclasti come Roy Harper, Michael Chapman e la Incredible String Band fino ad arrivare alla rinascita dei giorni nostri con gente come Kate Rusby, Dolores Keane, Mary Black, June Tabor e la Oyster band (ma questi sono in pista già da un po’) e poi l’ultimo folk revival più contaminato di Mumford and Sons, Laura Marling e tanti altri.

Ma Donald “Pedie” MacNeill e la sua musica in tutto questo dove si collocano? Giusto nel mezzo, nel senso che ci stanno bene insieme a tutti questi nomi citati (anche per investigare, se volete), una musica che sin dalle prime note del primo brano Fair Tides, con le note arpeggiate della chitarra che mi hanno ricordato l’incipit di Streets of London di Ralph McTell, si ispira a sua volta alla grande tradizione della musica popolare folk, sono “arie” che si respirano nell’atmosfera e nelle strade del Regno Unito e della vicina Irlanda. Si tramandano di generazione in generazione, come racconta nelle note del CD, Edward Abbiati dei Lowlands che insieme a Roberto Diana ha curato la produzione di questo Fathers and Sons: quando da ragazzino, d’estate,  lo spedivano alle isole Ebridi a passare le vacanze e lavorare, l’alternativa (oltre alle bevute di birra nei pub) alle probabili gare di tosatura delle pecore o mungitura della mucche, probabilmente era solo la musica che poi è diventata una passione. Anche per la famiglia MacNeill è una passione tramandata dal babbo Donald alla figlia Jen (e forse dalle generazioni precedenti) che quando canta The Morning Lies Heavy convoglia nelle sua voce bella ed espressiva tutta la storia delle voci femminili di questa musica (e anche quella di Allan Taylor che l’ha cantata).

Questo album peraltro raccoglie il meglio della produzione di MacNeill con l’aggiunta di nuovi arrangiamenti e di nuove canzoni registrate nella primavera del 2010 in una “casetta rosa” nei pressi di Pavia all the way from Colonsay, Scotland e poi “lavorate” nei mesi successivi da vari componenti dei Lowlands che hanno aggiunto i loro strumenti e le loro voci ai vari brani. Dalla fisarmonica di Francesco Bonfiglio nella suggestiva The Schoolroom cantata a due voci da padre a figlia, passando per il violino di Chiara Giacobbe nelle note senza tempo di The Spencer. Ma anche le chitarre e le voci di Roberto Diana e Ed Abbiati e nuovamente la fisarmonica di Bonfiglio e il violino di Chiara nel brano che dà il titolo a questo album, una Fathers And Sons che racconta una storia vera avvenuta durante la seconda guerra mondiale lungo le coste dell’Inghilterra, quando anche alcuni italiani persero la vita nel naufragio di una nave la “Arandora Star”, avvenuto nel luglio del 1940 e che è rimasto nella storia della piccola comunità di Colonsay e tramandato alle successive generazioni. Come in tutte le “grandi storie” della canzone popolare britannica la narrazione è viva e drammatica e fa rivivere le emozioni di quei lontani eventi con una musica vivida ed evocativa nella grande tradizione del genere.

C’è anche spazio per il low whistle di Jen MacNeill nel malinconico strumentale Farewell to Govan dove anche il violino e il piano si dividono le trame sonore del brano e il classico fingerpickin’ di un brano come Bouncing Babies ci trasporta sull’altro lato dell’oceano dove i chitarristi e i cantautori folk americani si reimpadronivano della materia nei primi anni ’60 nel Greenwhich Village. Brani come Wear Something Simple mi ricordano vecchi dischi dimenticati di Archie Fisher (altro scozzese Doc) o Wizz Jones altri maestri della musica folk tradizionale. The last trip è una bella ballata scozzese cantata con voce limpida da Jen MacNeill (che è brava anche di suo) e contrappuntata dalla chitarra alla Ry Cooder di Roberto Diana. Forse ho citato solo di passaggio la voce e lo stile di Christy Moore che mi sembra il massimo punto di riferimento per un album come questo di “Pedie” MacNeill, un brano come Days of your lives farebbe il suo figurone in un album del grande cantante irlandese che spesso inserisce anche brani di autori “non conosciuti” nel suo repertorio, il tocco del piano e dell’organo aggiunti alle sonorità delle acustiche sono la classica ciliegina sulla torta. In What’ll We Do fa anche capolino una armonica dylaniana che si aggiunge alle “influenze nobili” che si avvertono nella musica del nostro amico.

Per completare i contenuti di questo SSMCD004 della Standing Stone Music ( e questo fa supporre che per questa minuscola etichetta scozzese sono usciti altri tre dischi) e che sarà distribuito in Italia dalla IRD, e che è un prodotto confezionato con amore con un bel libretto con i testi e tutte le informazioni importanti, dicevo che per completare manca un ultimo brano Half-Hebridean, che è sì una canzone ma anche la storia di una vita, cantata ancora una volta dalle due voci della famiglia MacNeill. Se “allargate” le immagini del manifesto posto in apertura del Post potete vedere le date del breve tour italiano e se lo leggerete quando è già avvenuto potrete sempre “consolarvi” con l’acquisto del CD.

Piccole gioie semplici della vita come l’ascolto di questo album.  

Bruno Conti

Novità Di Settembre Parte V E Ultima. Matthew Sweet, Meg Baird, Bill Frisell, Josh Rouse, Steven Wilson, Pieta Brown

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Oggi razione doppia di Post: a parte leggete dei Dead Man Winter (se qualcosa sfugge o non viene citato in questa rubrica delle anticipazioni è perché gli verrà dedicato uno spazio ad hoc). Ultima parte dedicata alle uscite di un settembre quanto mai ricco di bei dischi.

Iniziamo con Matthew Sweet orfano di Susanna Hoffs (tornata con le Bangles) con cui aveva pubblicato due deliziosi dischi sotto il titolo Under The Covers in cui rivisitava molti classici pop e rock della canzone anglo-americana torna con questo Modern Art a fare lo stesso, ma con brani scritti alla bisogna e proponendo comunque quella sua solita alchimia di power pop, rock e anni ’60 che si ispira alla musica di tutti i gruppi che iniziano con la B: Beatles, Beach Boys, Big Star, Byrds. Magari non con la classe del disco d’esordio del 1991 Girlfriend ma sempre musica di buona qualità!

Nuovo album per Meg Baird, Seasons On Earth per la Wichita Recordings. Vedo già delle faccine perplesse, chi è costei? E’ la cantante degli Espers, uno dei gruppi che per primi ha dato vita a questo nuovo revival della musica folk inglese. Per chi ama Pentangle, Sandy Denny e ovviamente gli Espers. C’è persino una cover di Friends da Mark-Almond II (quelli bravi) e anche Beatles And Stones dei non dimenticati House Of Love.

Di solito non parlo di album di jazz salvo rare eccezioni, questa è una di quelle. Il nuovo album di Bill Frisell si chiama All We Are Saying… sottotitolo Frisell plays Lennon ed è una piccola meraviglia con i brani dei Beatles e della carriera solista di John, suonati con un gruppo di musicisti dove spiccano la violinista Jenny Scheinman e la pedal steel di Greg Leisz, un uomo per tutte le stagioni. Etichetta Savoy Jazz/Universal, è uscito ieri in Inghilterra e States esce il 3 ottobre in Italia.

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Nuovo CD anche per Josh Rouse And The Long Vacations, una sorta di mini-album con nove brani e 25 minuti di musica, pubblicato dalla Bedroom Classics, sempre con quell’intreccio tra sonorità latine e musica americana che ha inaugurato da quando vive in Spagna e che non sempre convince a fondo ma si trova sempre qualche piccola gemma come Oh, Look What The Sun Did! anche in questo album.

Pieta Brown è la figlia di Greg Brown, ma è anche una bravissima cantautrice in proprio e questo Mercury pubblicato dalla etichetta di famiglia, la Red House, lo conferma ancora una volta. Il sesto della serie (EP compresi) e prodotto da Greg Brown, sembra un nuovo album di Lucinda Williams, molto bello e con un band da sogno, Richard Bennett (che co-produce), Glenn Worf, Chad Cromwell, David Mansfield e in So Many Miles c’è anche la solista di Mark Knopfler.

Steven Wilson tra una ristampa dei King Crimson (due nuove ai primi di ottobre) e una dei Jethro Tull (Aqualung a fine ottobre) e i suoi dischi con i Porcupine Tree, oltre alle produzioni per gli Opeth e Anja Garbarek trova anche il tempo per pubblicare dei dischi solisti per la Kscope come questo Grace For Drowning che esce in versione doppia, doppia limitata con libro solo sul sito e in alcuni negozi mirati e Bluray.

Direi che per oggi (e per settembre, forse) è tutto.

Bruno Conti

Progetti Collaterali. Dead Man Winter – Bright Lights

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Dead Man Winter – Bright Lights – Banjodad Records

Negli Stati Uniti si sta sviluppando una nuova scena musicale che pur rimanendo ancorata a tematiche rock, tiene in grande considerazione le radici classiche della musica americana. L’inserimento di elementi di country, di folk, di bluegrass in queste trame sonore, produce un risultato finale molto originale ed accattivante ed anche alquanto intelligente. I Dead Man Winter musicisti di Minneapolis, si inseriscono sicuramente in questo nuovo movimento, visto che la loro principale fonte d’ispirazione è rappresentata in buona parte da componenti dei Trampled By Turtles. Guidati dall’indiscusso leader Dave Simonett autore di tutti i brani, il gruppo è composto da Erik Koskinen all’organo, Tim Saxhaug al basso, Ryan Young al violino, Noah Levy alla batteria, Paul Grill alle percussioni, Sam Weyandt alle chitarre, Matt Walvatne al banjo, e Frankie Lee all’armonica, a completare un ensemble di prim’ordine.

Undici brani, un’ora di musica generosa a cominciare dal brano d’apertura Nicotine, voci ben assemblate e una deliziosa melodia scandita da chitarre e violino, come la successiva Wasteland dall’incedere country che rimanda ai mai dimenticati Creedence Clearwater Revival. Con A long cold night in Minneapolis si passa alla ballata d’atmosfera con in rilievo l’armonica, e si cambia nuovamente ritmo con una Get Low dove pare di ascoltare i Beatles più scanzonati.

Golden sembra uscita da una session country rurale con il violino a disegnare paesaggi campestri, mentre Where in the world have you been? altro brano dal titolo lunghissimo si concede ad un clima più raccolto e soffuso dietro i rintocchi acustici dell’arrangiamento. Le seguenti Cry for help e House of Glory  non sono certamente brani memorabili, mentre New Orleans riporta tutto in ordine con una fusione di suoni country e hillbilly. Industrial Daybreak è un brano rock punteggiato da un bell’accompagnamento d’organo, per finire con una Bright Lights che da il titolo al lavoro cantata da Dave Simonett in versione quasi acustica, con un suono di chitarra delicato e sommesso.

Un debutto decisamente interessante, che rinnova in un certo senso il suono Americana che,ultimamente, non aveva prodotto CD particolarmente validi (a parte il bellissimo Elsie degli ottimi Horrible Crowes di Brian Fallon, in “vacanza” dai Gaslight Anthem). Infatti la varietà dei suoni, ma anche la freschezza e la spontaneità delle canzoni, fanno sì che questo lavoro sia particolarmente intrigante. Una piccola grande band che merita di essere assolutamente conosciuta, attendiamo presto altri segnali. E incoraggiamo il fenomeno dei side-projects se produce risultati di questa bellezza.

 Tino Montanari

Novità Di Settembre Parte IV. Nirvana, Sting, Chickenfoot, Elvis Presley, Daryl Hall, Bangles, Steve Hackett, Johnny Winter, Eccetera

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Ultima serie di novità relativa al mese di settembre, queste in uscita il 27 settembre, cioè oggi. Cominciamo con i morti: so di essere irreverente, ma il mercato discografico si occupa con frequenza di ristampe di gruppi o artisti che non esistono più. Prima di tutto la ristampa di Nevermind dei Nirvana che esce in molte versioni, ve ne segnalo un paio. Il solito Mega boxone da 5 dischetti, che contiene l’album originale rimasterizzato, due CD con rarità e demo, e il CD e il DVD di Live At the Paramount Theatre che esce anche a parte come BluRay. C’è la versione doppia Deluxe che comprende i 12 brani del disco orginale più i 28 brani inediti, rari e live, praticamente mancano solo i cosiddetti “Devonshire Mixes”, 11 brano che si trovano nel 3° CD. Il quadruplo vinile ha l’album originale e 27 inediti.

Per la serie Legacy della Sony/Bmg esce questo doppio CD che raccoglie i primi due album di Elvis Presley al completo, più una serie di rarità, per un totale di 35 brani. Non credo ci siano inediti, o comunque versioni inedite, ma la confezione è la solita Deluxe e ha un prezzo speciale, la stessa serie dove quest’anno era uscito anche Elvis Is Back! Oltre al doppio esce anche il quintuplo Young Man With The Big Beat che vedete nel video qui sotto e costa una novantina di euro.

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Per la serie gruppi “defunti”, inattivi o che si riformano, questa settimana abbiamo: The Smiths Complete, ovvero, per chi non ha quei 300 euro per la serie Super Deluxe che vi ho già illustrato su questo Blog, la Rhino pubblica anche un cofanetto per “poveri Cristi” da 8 CD con gli album originali rimasterizzati e contenuti in bustine sottili che riproducono la grafica dei vecchi album ad un prezzo che dovrebbe essere tra i 35 e i 40 euro. Esce anche la versione in vinile.

Quel triplo CD dei Little Feat, 40 Feat The Hot Tomato Anthology, pubblicato dalla Proper, contiene il meglio di tutti i vari album, prevalentemente dal vivo, pubblicati dalla loro etichetta Hot Tomato, come “Bootleg ufficiali” nel corso degli anni. Sono 40 brani per 40 anni e per chi ha tutti i dischi pubblicati nelle serie Ripe & Raw Tomatoes più Kickin’ It At The Barn e altre delizie, non ci sono inediti, per gli altri amanti dei Little Feat c’è molto materiale anche dell’epoca Lowell George a partire da alcuni brani registrati a Houston nel 1971 dal quartetto originale passando per una versione del 1973 di Sailin’ Shoes con Bonnie Raitt nonché il demo originale di Trouble di Lowell George. Il prezzo dovrebbe essere contenuto, intorno ai 20 euro o poco più.

Pensavate non ci fossero più e invece a 8 anni da Doll Revolution tornano le Bangles con questo Sweetheart Of The Sun su Waterfront Records. E volete sapere una cosa, Susanna Hoffs e le sorelle Peterson hanno fatto un bel dischetto, da quello che ho sentito, molto fresco e piacevole, a livello delle loro cose migliori.

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Cofanetto quadruplo anche per Sting, si chiama 25 Years, esce per la Universal, 3 CD con 45 brani con il meglio della sua produzione, di cui 9 “remixate” per l’occasione. E un DVD con un concerto inedito a New York del 2005, Rough, Raw & Unreleased: Live At Irving Plaza. Con un librone di lusso che fa schizzare il prezzo intorno ai 100 euro. Per non farsi mancare nulla (e, credo, anche per rompere le balle ai fans) usciranno a ottobre due versioni di Best Of 25 Years, una singola con 12 brani e una doppia con 31 che comprendono anche versioni “inedite” dal vivo di Message In A Bottle, Demolition Man e Heavy Cloud No Rain credo tratte dal DVD.

Ed ecco anche Daryl Hall con un nuovo disco Laughing Down Crying per la Verve Forecast a distanza di parecchi anni dal precedente Can’t Stop Dreaming, uscito in America ed Europa nel 2003 ma in Giappone era stato pubblicato nel 1996. Pochi giorni fa si poteva ascoltare in streaming e i primi due brani mi piacevano parecchio, poi il resto si afflosciava un poco. Ma l’ho sentito solo una volta velocemente, magari mi sbaglio, anche se non credo.

Johnny Winter, forse a causa anche delle sue condizioni di salute non perfette, in questo nuovo Roots si è fatto aiutare da parecchi ospiti che rendono questo album uno dei suoi migliori in studio da parecchi anni a questa parte. Esce su etichetta Megaforce e a duettare con Winter troviamo: Sonny Landreth, Jimmy Vivino, Warren Haynes, John Popper, Vince Gill, Susan Tedeschi, Edgar e Derek Trucks tra gli altri e da quello che ho sentito il disco è bello e pimpante e il protagonista è proprio un Johnny Winter in grande spolvero vocale e con la slide che viaggia alla grande. Una bella sorpresa!

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Visto che ormai le edizioni “particolari” dei dischi sono all’ordine del giorno, il nuovo disco del supergruppo Chickenfoot III, oltre alla versione normale e limitata con DVD esce anche in quella versione definita collector’s editiom, curata dalla rivista Classic Rock, che oltre ad avere un numero speciale della rivista di 132 pagine dedicato a Sammy Hagar, Joe Satriani e soci, nel CD contiene anche due pezzi dal vivo esclusivi a questa edizione che esce solo per il mercato inglese. Ci sono anche occhialini 3D, plettri e altre sorprese.

Sempre per le “sorprese” anche il nuovo album di studio di Steve Hackett, Beyond The Shrouded Horizon, pubblicato dalla Century Media, oltre alla versione singola con 13 brani è disponibile anche in una versione limitata doppia con ulteriori nove brani che vedete effigiata qui sopra. Secondo alcuni è il suo album migliore di sempre.

Ci sarebbero ancora alcune uscite di questo settembre ricco di pubblicazioni discografiche, magari nei prossimi giorni farò una appendice dedicata a quello che è rimasto indietro e in attesa delle prime uscite di ottobre, per oggi è tutto!

Bruno Conti

Dall’Irlanda Con Passione! Eleanor McEvoy – Alone

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Eleanor McEvoy – Alone – Moscodisc Records

Sono sempre stato rapito dalle “Ladies” della musica d’autore anglosassone e soprattutto Irlandesi, e se queste hanno un buon impatto vocale come la bella e brava Eleanor McEvoy nota in patria per aver portato ad un incredibile successo il brano Only a woman’s heart, da lei scritto e apparso nel suo disco d’esordio omonimo del 1993, (è stato al primo posto delle classifiche per lungo tempo), tanto da divenire l’album più venduto sul suolo irlandese.

Eleanor nata a Dublino si dimostra subito una bambina precoce, iniziando a suonare il piano all’età di quattro anni , ad otto si dedica al violino e dopo aver finito la scuola ha frequentato il famoso Trinity College di Dublino dove ottiene una laurea in musica che indirizza il suo futuro percorso professionale. Inizia così la storia di Eleanor McEvoy nel mondo discografico, che nell’arco di una ventennale carriera senza cadute di tono, l’ha vista protagonista di molti lavori, dopo il succitato debutto, What’s following me?, Snapshot, Yola, Early hours, Out there, Love must be tough, Singled Out, I’d rather go blonde.

Questo Alone co-prodotto con Mick O’Gorman e registrato al The Grange Studios a Norfolk, con l’apporto di fidati musicisti come Peter Beckett al piano, Gavin Fox al basso, Ross Turner batteria e percussioni e Gerry O’Connor e Ciaran Byrne alle chitarre, propone un suono con lampi di rock ma anche brani di struggente bellezza acustica. Ciò premesso vi consiglio di ascoltare con il cuore l’iniziale Did I hurt you? un’ottima ballata, molto raffinata con i suoi inserti di chitarra e pianoforte, oppure la seguente Harbour dolce ed elegante soft song di preziosa atmosfera. Un inizio a cappella di I’ll be willing  introduce una ballata acustica che ricorda una Tracy Chapman d’annata, cui fa seguito una What’s her name? un po’ insipida.

Ci si riscatta subito con una suadente You’ll hear better songs e una pianistica Sophie che rende merito al talento di Eleanor e mi fa ricordare una mia beniamina, Chi Coltrane. Just for the Tourists ricorda brani dolcissimi con il solo accompagnamento di una chitarra pizzicata. Si prosegue con un altro brano chitarra e voce Days roll by, e un brano come For avoidance of any doubt in stile “swing”, che dimostra la duttilità della McEvoy. Per la gioia degli appassionati non poteva mancare una ennesima versione di Only A Woman’s Heart, qui riproposta in modo più maturo rispetto agli esordi, che rivaleggia per bellezza con una versione cantata in coppia con la grande Mary Black.

Dopo la  soavità di questo brano, mi è difficile  catalogare Did you tell him?, ma subito ci viene in soccorso l’unica “cover” del lavoro una Eve of Destruction del grande P.F. Sloan, resa famosa da Barry McGuire, con un accompagnamento di chitarra che ricorda il miglior Tom Morello. Si finisce con una “bonus track”  in versione acoustic version di You’ll hear better songs, che chiude un cd di buon livello.

Se si vuole trovare qualche termine di paragone si potrebbe citare Mary Coughlan, anche se Eleanor mi sembra più raffinata con qualche assonanza pure con Dolores Keane, più tradizionale quest’ultima  e certamente come punto di riferimento Mary Black altra grande interprete della storia musicale irlandese. Se ci fosse un solo CD di questo genere per il quale decidere di spendere i miei (pochi) soldi, non avrei dubbi.

Da ascoltare dopo la mezzanotte (possibilmente non da soli). Consigliato !!!

 Tino Montanari

Nuovamente Waterboys! An Appointment With Mr. Yeats

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Waterboys – An Appointment with Mr. Yeats – Puck Records/Proper

Dopo il disco d’archivio pubblicato ad aprile Mike Scott rispolvera ancora una volta i suoi “ragazzi d’acqua” e bisogna ammettere che questa volta il risultato è molto convincente, uno dei migliori della loro carriera. Ricordo ancora i tempi del mio primo incontro ravvicinato con i Waterboys: e qui rispolvero la mia personalità da Numero Uno, correva l’anno 1983 (credo, ma poteva essere anche fine 1984, non sono sicuro), località sicuramente Castello Sforzesco, Milano, come gruppo di supporto dei Pretenders, me lo ricordo perché, poco dopo l’inizio del concerto, sento un “toc-toc” sulla spalla, mi giro e vedo un giornalista di uno scomparso quotidiano, La Notte (noto nell’ambiente perché si dice portasse sfiga, lui, non il giornale) che con fare terrorizzato mi chiede chi fossero costoro? Non vorrei prendermi meriti che non ho, anche se il primo disco della band, quello con A Girl called Johnny già lo avevo scoperto, ma il nome del gruppo era scritto ovunque sui manifesti, “gruppo di supporto i Waterboys”, ma si sa che i giornalisti musicali dei quotidiani italiani non erano (e non sono) il massimo. Comunque avvenuto il primo felice contatto, il gruppo di Mike Scott è rimasto tra i miei preferiti nel corso degli anni, con le punte di eccellenza di This Is The Sea, Fisherman’s Blues e Room To Roam e altri dischi solisti o con il gruppo meno soddisfacenti ma sempre con momenti di grande musica, la famosa “Big Music”!

Ebbene, questa volta il disco è decisamente bello, forse, ma forse, non “molto” bello (e poi vi dico perché). Intanto l’assunto di partenza è sicuramente affascinante, musicare alcune poesie di William Butler Yeats, il grande poeta irlandese non è opera da poco e le quattordici canzoni contenute in questo CD (dalle iniziali venti registrate per il progetto) rendono pieno giustizia all’autore (per la smania di recensirlo prima sul Buscadero si parla di dieci brani e della lunghezza contenuta dell’album, che invece alla fine dura quasi 57 minuti). Naturalmente non è la prima volta che l’opera di Yeats viene avvicinata da musicisti rock: gli stessi Waterboys incisero una superba versione di The Stolen Child per Fisherman’s Blues (ma anche in Dream harder ce n’è un’altra), e il grande “Van The man” Morrison ha trattato l’argomento in più occasioni nonostante i problemi con gli eredi di Yeats, ma nessuno aveva mai registrato un intero album (in inglese) dedicato ai suoi poemi e Scott stesso ricorda che ha preferito aspettare lo scadere dei diritti d’autore dell’opera di Yeats, morto nel 1939, piuttosto che affrontare gli stessi problemi, anche economici con gli eredi. Tra gli altri che hanno ripreso il grande irlandese vorrei ricordare Donovan in H.M.S. nel lontano 1971, Angelo Branduardi che ha registrato un intero album nel 1986 che comprendeva anche il brano di Donovan (ma allora Scott mente e i diritti erano già scaduti? O forse tradotti in italiano non conta?). Anche Loreena McKennitt ne ha incise un paio e pure i Cranberries e gli Smiths lo citano nei loro testi.

In ogni caso questo An Appointment With Mr. Yeats piace: non mi entusiasma ogni tanto il tipo di suono della batteria suonata da Ralph Salmins, troppo meccanico e marziale, quasi fosse una batteria elettronica, soprattutto nell’iniziale The Hosting Of The Shee, brano epico e cadenzato nel loro stile tipico, ma forse troppo caricato di effetti e strumenti che distolgono dall’andamento della musica, chitarre, fiati, violino, tastiere si perdono in un marasma sonoro esagerato ma già da Song Of Wandering Aengus (proprio quella di Donovan e Branduardi) le cose si aggiustano, introdotto da una doppia tastiera, piano elettrico e organo, il brano si distende con la grande partecipazione tipica delle migliori canzoni di Mike Scott, con gli strumenti che entrano ad uno ad uno, in una sequenza continua che sparge semi di serenità e con il flauto di Sarah Allen che regala momenti di grande musica nella lunga coda strumentale, veramente bellissimo. Anche News For The Delphic Oracle è un bel brano: dopo una breve introduzione quasi folk-cameristica che mi ha ricordato l’Incredible String Band il brano assume quelle cadenze celtiche tanto visitate nella lunga permanenza irlandese con il violino di Steve Wickham che assurge a grande protagonista nel cambio di tempo della parte centrale e poi la musica ritorna a cadenze quasi da cabaret mitteleuropeo nella parte finale. A Full Moon March è semplicemente una bellissima canzone dalla struttura rock con chitarre distese e l’organo di supporto con vaghe riminescenze Beatlesiane stampate nel DNA.

Sweet dancer è una piccola gemma, una di quelle ballate mid-tempo alla Van Morrison, con Mike Scott che canta meravigliosamente ben supportato dalla voce della giovane irlandese Katie Kim che in questo brano si amalgama alla perfezione con quella di Scott (mentre in altri brani mi sembra troppo sottile e acerba, simile a quella di Kylie Minogue nelle sue collaborazioni con Nick Cave), il violino di Steve Wickham (anche all’armonica) presiede sugli avvenimenti con grande nonchalance sostenuto dal flauto e dal sax di Kate St.John (già con Eno, Roger e Morrison, Van). Molto bella anche White Birds altro avvolgente e sereno brano in mid-tempo e in leggero crescendo con quella tipica cantabilità delle canzoni più belle del nostro amico, con le tastiere, in particolare un organo maestoso, suonate da Mike Scott, un trombone insinuante e l’effetto “gabbiani” o “white birds” nella parte finale affidata a Steve Wickham. The Lake Isle Of Innisfree è uno dei poemi più famosi di Yeats, ma forse questa versione breve e sussurrata, troppo sussurrata dalla Katie Kim si apprezza soprattutto per il violino di Wickham, ancora una volta protagonista.  

Mad As The Mist And Snow ci fa, gioiosamente e magicamente, ripiombare nelle atmosfere celtiche ed irlandesi di Fisherman’s Blues, e lo fa con una energia e una grinta incredibili e con il violino che sale fino a vette incredibili come se il tempo non fosse passato. Molto piacevole anche la brevissima Before The World was Made con la vocina della Kim che affianca quella di Mike per questo piacevole intermezzo che ci introduce alla lunga September 1913 (oltre 7 minuti), vero centrepiece dell’album che ci riporta questa volta alla Big Music di This Is The Sea con il piano di James Hallawell a disegnare arabeschi sonori mentre Mike Scott canta con una passione rinnovata che sembrava scomparsa dalla sua musica, inutile dire che il violino di Wickham è ancora una volta decisivo mentre la chitarra elettrica di Scott mena fendenti rock in sottofondo e la vocina della Kim accarezza dolcemente il finale!

Uno si potrebbe anche accontentare e invece il finale è ancora da applausi: la breve, marziale An Irish Airman Foresees His Death con il corno inglese di Kate St.John in evidenza è, come dire, “poetica”. Politics riprende i temi musicali epici del brano iniziale ma lo fa con un controllo del suono molto migliore e più definito e l’interscambio tra le voci di Scott e della Kim (che comincia a piacermi) è molto più riuscito e ben integrato con i fiati. Let The Earth Bear Witness è una di quelle ballate meravigliose che avevano fatto considerare Mike un potenziale erede per Van Morrison quando mai vorrà ritirarsi (a proposito che fine ha fatto? Tutto tace), si chiama Celtic Soul, cari miei! E anche il significato sociale non è secondario.

E per una conclusione degna ci si affida a The Faery’s Last Song un’altra notevole costruzione musicale di Scott e dei suoi ottimi musicisti, con Mike che si cimenta (come in altri brani) al mellotron, che conferisce un’aura quasi fiabesca e un po’ progressiva (alla Caravan) alla canzone.

Adesso, caro Mike Scott, non vorremmo aspettare venti anni per un nuovo grande album!

Bruno Conti

Un Altro Bel Cofanetto Di Leonard Cohen E Altre Notizie Dalla Famiglia! The Complete Columbia Albums Collection

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Leonard Cohen – The Complete Columbia Albums Collection – Sony/Columbia 18 CD – 11/10/2011

Qualche giorno fa, il 5 settembre, vi avevo annunciato l’uscita di un cofanetto da 11 CD con l’integrale degli album di studio, un-bel-box-set-di-leonard-cohen-ci-mancava-the-complete-stud.html. Mi distraggo un attimo e mi ritrovo con quest’altro che riporta l’opera omnia, con quelle belle confezioni a libretto che vedete nell’immagine e tutti rimasterizzati, quindi anche i sei album dal vivo, di cui uno è doppio, per un totale di 18 dischetti, venduto in esclusiva tramite il sito del cantante canadese music.php?album_id=28. Prezzo interessante, 80 euro!

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Spero non ci siano ulteriori sviluppi sull’argomento, anche se, già che ci sono, vi rendo edotti del fatto che dopo 11 anni dal disco di esordio omonimo del 1998 e dopo l’avventura con i Low Millions del 2004 (e un disco nello stesso anno, in francese, Melancolista, pubblicato dalla Capitol canadese), Adam Cohen pubblica il suo nuovo album da solista Like A Man, in uscita per la Cooking Vinyl/Edel il 4 ottobre (e in Italia sarà a prezzo speciale). In questo album, Cohen Jr. decide di tentare il tutto per tutto e di lasciare uscire il Leonard che c’è in lui, con un notevole cambio di stile che lo porta vicino alle sonorità del padre. Almeno a giudicare da questo video…

La somiglianza è impressionante e il disco si annuncia assai promettente, vedremo (e sentiremo)!

Bruno Conti

Novità Di Settembre Parte III E 1/2. Jackie Leven, Sandy Denny, Maria Muldaur, Kasabian, Wilco, Eccetera

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Dopo l’ottimo (almeno, a me era piaciuto) Gothic Road dello scorso anno ritorna Jackie Leven con un nuovo album, questa volta in coppia con Michael Cosgrave, che si intitola Wayside Shrines and The Code Of The Traveling Man, come al solito su Cooking Vinyl. Della stessa accoppiata qualche mese fa era uscito per la MIG un DVD dal vivo al Rockpalast del 2004. E’ uscito il 20, almeno in Inghilterra.

Quando sembrava che non ci fosse più nulla di inedito di Sandy Denny (ma questo album ve lo avevo anticipato già da un po’), dagli archivi personali di Dave Cousins degli Strawbs appare questo 19 Rupert Street, con registrazioni “casalinghe” fatte in un appartamento di Glasgow (la qualità sonora è all’incirca quella dei nastri inediti di Nick Drake) di molti classici mai sentiti (nella versione di Sandy Denny) della tradizione folk britannica e una ulteriore versione del suo classico Who Knows Where The Time Goes che non ci si stanca mai di ascoltare. Le registrazioni sono del 1967 poco più di un mese dopo quelle effettuate per All Our Own Work il disco pubblicato a nome Sandy Denny with the Strawbs. Anche questo è stato pubblicato il 20 settembre dalla Witchwood Media, l’etichetta indipendente della Strawbs, quindi la reperibilità non è facilissima. Tra un mesetto esce anche il disco di Thea Gilmore che ha musicato alcuni testi inediti di Sandy.

Un’altra che prosegue imperterrita a pubblicare album è Maria Muldaur, questo Steady Love, sempre per la Stony Plain, la riporta verso territori gospel, blues e soul, dopo le escursioni in stile jug band di Garden Of Joy (c’è anche un gruppo italiano, i Red Wine Serenaders che si muovono in questi territori e hanno appena pubblicato un album che si chiama D.O.C. Totally, molto buono, anche se non mi sembra raggiunga i livelli di quello della Muldaur con David Grisman, John Sebastian e Taj Mahal, verifica nel Blog o sul Buscadero, muldaur).  Questo nuovo è registrato in quel di New Orleans con la co-produzione di John Porter e belle cover di brani di Bobby Charles, Stephen Bruton, Rick Vito, Eric Bibb e Sugar Pie Desanto, la classica Soulful Dress). Anche questo è uscito questa settimana il 20 settembre.

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Quella che vedete è la copertina della versione Deluxe (quella con DVD) del nuovo album dei Kasabian, l’altra è uguale ma bianca e nera, il titolo sempre impronunciabile è Velociraptor, l’etichetta è la Columbia, registrato a San Francisco e le recensioni per questo nuovo disco di Steve Pizzorno& Co., pubblicato sempre il 20, sono state piuttosto controverse. Il DVD, questa volta interessante, ha 21 tracce registrate dal vivo in quel di Dublino il 27-11-2009. Value for money dicono gli inglesi.

I Blind Pilot sono uno dei gruppi più interessandi del filone indie americano con un sound “strano” tra folk, pop e rock e con una strumentazione che prevede accanto alle solite chitarre e tastiere,banjo. ukulele, vibrafono, tromba, violino, pedal steel, harmonium. Questo è il loro secondo album pubblicato dalla Ato Records, si chiama We Are The Tide e se vi piacciono i Decemberists, Fleet Foxes e i Low Anthem qui potreste trovare pane per i vostri denti. Negli Stati Uniti è uscito il 13 settembre.

Catie Curtis è una delle mie cantanti preferite e non sbaglia un disco. Questo Stretch Limousine On Fire come al solito è bellissimo. La data di uscita ufficiale per la Compass Records è il 3 ottobre ma pare sia già in circolazione. Nel disco, tra gli altri, appaiono Mary Chapin Carpenter, Lisa Loeb, Glenn Patcha, Jay Bellerose, Jennifer Condos, e altri musicisti e collaboratori del giro di Ray Lamontagne.

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Visto che la settimana prossima, il 27 settembre, uscirà una tonnellata di novità, tra cui i cofanetti dei Pink Floyd, Nirvana e Sting, ve ne anticipo un paio.

Prima di tutto il nuovo Wilco The Whole Love, il primo pubblicato per la loro etichetta personale, la dBpm distribuita dalla Anti, e per le solite misteriose ragioni esce in due versioni. Una singola con dodici brani e una doppia con 16 canzoni. Voi quale comprereste considerando che i 4 brani in più non sono remix, stranezze o cose particolari, ma quattro canzoni fatte e finite. Già ci si mettono di mezzo le major a fare queste “puttanate”, se le fanno anchi gli artisti indipendenti non ci salviamo più. Già mi immagino una persona che entra in un negozio e chiede il nuovo album dei Wilco, “però mi raccomando vorrei quello con 4 canzoni in meno!”. Mah, chissà perché li fanno e chi li compra (chi non sa che c’è la versione deluxe!), se non sono convinti di quello che fanno non li pubblichino. Comunque il disco è bello, anche se la chitarra di Nels Cline si sente un po’ meno del solito (ma appena un poco).

And Last but not least esce questo Note Of Hope A Celebration Of Woody Guthrie. Partono un po’ in anticipo le celebrazioni per il Centenario della nascita di Woody Guthrie che si terranno nel luglio del 2012 con questo tributo dove partecipa un notevole gruppo di musicisti:

  1. The Note of Hope – Van Dyke Parks
  2. Wild Card in the Hole – Madeleine Peyroux
  3. Ease My Revolutionary Mind – Tom Morello
  4. The Debt I Owe – Lou Reed
  5. Union Love Juice – Michael Franti
  6. Peace Pin Boogie – Kurt Elling
  7. Voice – Ani Di Franco
  8. I Heard A Man Talking – Studs Terkel
  9. Old Folks – Nellie McKay
  10. On The High Lonesome – Chris Whitley
  11. There’s a Feeling in the Music – Pete Seeger & Tony Trischka
  12. You Know the Night – Jackson Browne           

Etichetta 429 Records/Universal, in Italia esce il 4 ottobre.

Bruno Conti

P.s. Anche i migliori (cioè immodestamente io) rincoglioniscono. Mi sono accorto che avevo già inserito nelle liste di agosto il disco di Catie Curtis, ma visto che la nuova data è ottobre, repetita iuvant.