Soddisfacente! Brandi Carlile – Bear Creek

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Brandi Carlile – Bear Creek – Columbia Records

Ci sono degli artisti che si ascoltano, ed eventualmente si acquistano, a prescindere! Perché sono bravi e quindi sai già che sui loro dischi troverai buona musica e Brandi Carlile fa parte di questa categoria. Bella voce, facilità di scrivere canzoni, un genere che abbraccia il meglio di quello che la musica di qualità ha prodotto nell’era dei cosiddetti singer-songwriters, poi, volendo, uno può discutere la sua discografia disco per disco e financo canzone per canzone, ma prima si vanno a vedere e sentire i contenuti poi eventualmente li si discute e alla fine non si rimane mai completamente delusi o perché no, a seconda dei casi, soddisfatti in quanto “un comunque sì” lo meritano solo quelli di talento e in questo caso ce n’è in abbondanza!

Dopo l’inizio in sordina (ma buono, per i tipi di All Music Guide addiritttura il  suo migliore) dell’esordio omonimo Brandi Carlile del 2005, la nostra amica ha fatto il botto, a livello di critica e di successo, con il secondo album The Story, prodotto da T-Bone Burnett, che viene considerato all’unanimità il suo “capolavoro”. Poi da quel punto i pareri si dividono: la sua casa discografica ci crede e le affianca un altro pezzo da 90 come Rick Rubin (per la verità meno efficace del suo predessore), per produrre il successivo Give Up The Ghost che spacca la critica musicale. Chi lo considera una (parziale) delusione, chi lo osanna forse perfino troppo, ma il disco, sicuramente più discontinuo del precedente, ha in ogni caso alcune belle canzoni e la conferma come una della cantautrici migliori delle ultime generazioni, forse quella in grado di incarnare meglio lo spirito dei grandi del passato, eclettica e non etichettabile in un genere specifico. Anche il successivo Live At Benaroya Hall With The Seattle Symphony è stato soggetto di pareri diversi (e comunque un disco con un’orchestra sinfonica che è arrivato fino al 14° posto delle classifiche americane non deve essere proprio malvagio): chi lo ha definito “pomposo” e magniloquente, troppo ridondante nei suoi arrangiamenti orchestrali ed altri, compreso il sottoscritto, a cui è piaciuto sia per i contenuti che come una sorta di riassunto riveduto e corretto della prima parte della sua carriera from-seattle-with-love-brandi-carlile-live-at-benaroya-hall.html, che non comprende solo i tre album citati, ma nella prima parte degli anni 2000 ha prodotto una serie di EP, dal vivo e in studio, ricchi di cover e sorprese.

Anche per questo nuovo album Brandi Carlile si è ispirata, almeno per la scelta dell titolo, a uno dei suo idoli assoluti, Elton John, che quando registrò ai Chateau d’Hèrouville Studios chiamò quel disco Honky Chateau (é quello con Rocket man); Brandi si è detta, visto che è una delle poche scelte che la casa discografica mi lascia fare, scegliere il titolo, perché non chiamarlo Bear Creek, dal nome dello studio di registrazione vicino a Seattle dove è stato realizzato l’album, suona anche bene! Quindi, in compagnia della nuova produttrice (e ingegnere del suono) Trina Shoemaker (vincitrice anche di Grammy con Sheryl Crow)  e di 13 nuove canzoni, molte rodate da una lunga frequentazione dei palchi americani (nel resto del mondo purtroppo la si vede poco), dalla permanenza in quegli studi questo è il risultato che ne è scaturito.

E’ un capolavoro? Probabilmente no, a parte per i fans e le fans più accanite! Forse neppure un grandissimo disco (lo diranno il tempo e ascolti più approfonditi) ma, di primo acchito, sicuramente, nel piattume generale (illuminato più spesso di quello che si pensa da improvvisi lampi di classe, intesa come buona musica, parlo in generale) fa la sua più che onesta figura. Brandi Carlile è accompagnata come sempre dai fidati gemelli Phil & Tim Hanseroth che scrivono con e senza di lei la quasi totalità dei brani, la batterista Allison Miller (con l’aggiunta di Matt Chamberlain in alcuni brani) e il cellista Josh Neumann a cui si aggiungono per l’occasione Dave Palmer alle tastiere e Jeb Bows della band di Gregory Alan Isakov al violino e mandolino.  

I tredici brani spaziano dal country-folk speziato ed intenso dell’iniziale Hard Way Home che doveva essere il primo singolo, seguita da Raise hell, un brano che la Carlile esegue da molto tempo in concerto e quindi mi era già capitato di ascoltarlo in varie esibizioni su YouTube ma la versione in studio ha quel qualcosa in più fornito dal contrasto tra il mandolino, la struttura elettrica del brano, il battito di mani e quella coloritura quasi country-gospel fornita dalla bella voce di Brandi, definita dalla rivista Paste “The Best Voice in Indie Rock”, ma io direi del rock in generale perché restringere le categorie. Save Part Of Yourself ha ancora questo spirito gospel fornito dai cori e dal ritmo marciante delle percussioni con il mandolino sempre in evidenza e qualche spruzzata di archi qui e là.

That Wasn’t Me è il primo singolo tratto dall’album: si tratta dell’unica ballata pianistica scritta dalla sola Carlile e prende lo spunto da quelle classiche di Elton John del periodo di Tumbleweed Connection ed è inteso come un complimento perché il brano ha la maestosa serenità malinconica del grande cantautore inglese all’apice della sua carriera. Anche Keep Your Heart Young già un must delle esibizioni live qui acquista quell’aria country e paesana mutuata forse dalle frequentazioni con Kris Kristofferson che appare nel video di That Wasn’t Me. 100 è un pezzo classico del suo repertorio, un brano rock dal ritmo incalzante (con echi alla U2) percorso anche dal suono del cello (e qualche violino) e dalle tastiere che coloriscono un suono più moderno e meno roots rispetto al resto dell’album. A Promise To keep con un bel fingerpicking acustico che mi ha ricordato il Paul McCartney acustico è una ballata malinconica dove piano e violoncello sono ancora in primo piano e si dividono gli spazi con la sua bella voce. I’ll still be there è un altro brano tipico del suo repertorio, con aperture melodiche caratterizzate dal falsetto in alcuni momenti e con un bel assolo di fratello Tim.

What Did I Ever Come Here For è l’altra ballata pianistica del disco (ho mentito prima) ma scritta in questo caso non da Brandi ma dall’altro gemello Phil: si sente una ulteriore voce femminile di supporto che non so se è quella doppiata della stessa Carlile (il multitracking grande invenzione) o di qualche ospite (le sue amiche Indigo Girls?) mentre il cello si ritaglia uno spazio solista nella intensa parte centrale prima del gran finale. Piano e cello rimangono anche per la dolce e orecchiabile Heart’s content forse un brano minore ma sempre piacevole, adatta ad eventuali usi per futuri spot o in serie televisive che spesso nel passato hanno utilizzato la musica della cantante americana. Rise Again è uno dei brani dalla struttura più rock, ancorché con la presenza del mandolino, già ascoltato spesso nelle esibizioni live, ricorda qualcosa degli U2 meno pomposi per il riff ricorrente e pressante della chitarra elettrica. In The Morrow ci riporta alle sonorità più rootsy dei primi brani di questo CD anche se con quel timbro antemico e corale che hanno molti brani di Brandi con il mandolino nuovamente in evidenza nella coda strumentale. Il finale è affidato a Just Kids una sorta di ghost-track esplicita, nel senso che non è una traccia nascosta ma appare dopo qualche decina di secondi di silenzio e poi si esplicita in una lunga introduzione strumentale “spettrale” tra tastiere e archi che introducono la voce “trattata” e ricca di eco e riverbero per questo omaggio alla nostalgia dei “vecchi tempi” (a 31 anni!) giovanili con un omaggio al melodramma sonoro di cantanti come Roy Orbison o Patsy Cline, qui modernizzati ma che sono nel DNA di Brandi Carlile.

Come direbbe Nero Wolfe (il ritorno televisivo mi ha stimolato vecchie ri-letture di Rex Stout): “Soddisfacente, Brandi!”.

Bruno Conti

Soddisfacente! Brandi Carlile – Bear Creekultima modifica: 2012-06-03T18:52:00+02:00da bruno_conti
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