Un Altro Graditissimo Ritorno! Michael McDermott – Hit Me Back

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Michael McDermott – Hit Me Back – Rock Ridge Music 25-09-2012

A sorpresa, torna un altro dei beniamini di questo Blog. La settimana prossima esce il nuovo album di Michael McDermott, Hit Me Back. Son tredici nuovi brani, l’ultimo dei quali Italy dimostra l’inestricabile legame che Michael ormai ha stretto con il nostro paese.

Sul suo sito trovate tutte le informazioni e una presentazione, brano per brano, fatta da lui stesso fr_hitmeback.cfm.

1. Hit Me Back
2. Let It Go (Incantation)
3. The Prettiest Girl In The World
4. Dreams About Trains
5. I Know A Place…
6. Ever After
7. Scars From Another Life
8. She’s Gonna Kill Me
9. Is There A Kiss Left On Your Lips
10. A Deal With The Devil
11. The Silent Will Soon Be Singing
12. Where The River Meets The Sea
13. Italy

E questo è il video del nuovo brano. Se il buongiorno si vede dal mattino…

Appena possibile, naturalmente, recensione!

Bruno Conti

Il 16 Ottobre In Uscita Sunken Condos Il Nuovo Album Di Donald Fagen

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Visto che nel Blog (e non solo) ci sono dei fans di Donald Fagen due parole veloci in attesa dell’uscita di Sunken Condos prevista per la Reprise/Warner il prossimo 16 ottobre. Si tratta del primo album solista di Fagen dopo la conclusione della Nightfly Trilogy con al’album Morph The Cat del 2006 e la pubblicazione l’anno successivo del bellissimo cofanetto relativo alla trilogia con sette dischetti tra CD e DVD, anche se gli audiofili, per quello che si è letto, sono rimasti parzialmente delusi (per la qualità del suono, non certo per il contenuto).

Il nuovo album viene anticipato dal singolo promozionale I’m Not The Same Without You che potete ascoltare qui sotto…

Questi sono i brani, 8 originali e una cover di Out Of The Ghetto di Isaac Hayes.

 

  1. “Slinky Thing”
  2. “I’m Not the Same Without You”
  3. “Memorabilia”
  4. “Weather in My Head”
  5. “The New Breed”
  6. “Out of the Ghetto” (Isaac Hayes)
  7. “Miss Marlene”
  8. “Good Stuff”
  9. “Planet D’Rhonda”

Donald Fagen questa estate ha girato gli Stati Uniti con i Dukes Of September, ossia Michael McDonald e Boz Scaggs, e il tour avrà un’ultima propaggine il 24 ottobre a Honolulu, se vi capita di essere da quelle parti.

Viceversa se volete sapere tutto sull’album, questo è il link per leggere un’intervista con Michael Leonart, il co-produttore dell’album http://dl.dropbox.com/u/78948039/sunken_condos_interview.pdfhttp://

Direi che è tutto.

Bruno Conti

P.S.

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In questi giorni è uscito anche il nuovo disco solista di Jon Herington, Time On My Hands. Si tratta del quinto album da solista del musicista che da parecchi anni occupa il ruolo di chitarrista negli Steely Dan e nelle band di Donald Fagen e Walter Becker.


Novità Di Settembre Parte I. Steve Forbert, Woven Hand, Patterson Hood, Ben Folds Five, Skunk Anansie, Jon Spencer Blues Explosion, Roy Storm & The Hurricanes, Coal Porters, Tributes To Nick Lowe & Jesse Winchester

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Questo mese la rubrica sulla novità discografiche ha latitato fino ad oggi, considerando che nei mesi scorsi mi ero portato abbondantemente avanti con le uscite discografiche e molte sono state recensite direttamente, ma qualcosa sfugge sempre, per cui oggi recuperiamo con gli altri dischi interessanti pubblicati in questi primi venti giorni di settembre.

Iniziamo con Steve Forbert che ritorna con un nuovo album, Over With You, circa tre anni e mezzo dopo The Place and the Time e a 34 anni dal bellissimo Alive On Arrival, il cantante di Meridian, Mississippi non ha perso un briciolo del suo fascino. La voce è un filino più vissuta, ma le canzoni sono sempre affascinanti: questa volta si parla di una relazione finita e a dargli una mano a livello musicale ci sono anche due Ben, Sollee al cello e Harper alla chitarra. Etichetta Blue Corn Music, è uscito in questi giorni sul mercato americano, se ne parla più diffusamente nei prossimi giorni.

I Woven Hand avevano pubblicato da pochissimo tempo un ottimo CD+DVD in concerto, Live at Roepan, edito dalla Glittehouse ed accolto da unanimi critiche favorevoli. A distanza di cinque mesi dal disco dal vivo esce, sempre per la Glitterhouse, questo nuovo lavoro di studio, The Laughing Stalk: David Eugene Edwards, ex leader dei non dimenticati 16 Horsepower, aggiunge un tastierista e un secondo chitarrista e il suono del disco assume una patina più rock ma sempre con le solite volute dark e gotiche.

Nuovo album solista anche per Patterson Hood, che periodicamente si prende delle vacanze dai Drive-by-Truckers per pubblicare i suoi dischi da cantautore. Questo nuovo si chiama Heat Lightning Rumbles In The Distance, è uscito per la PIAS, Play It Again Sam, e ancora una volta ci ricorda che Hood scrive delle belle canzoni anche quando le chitarre non ruggiscono a tutto spiano.

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Un altro paio di novità di gruppi incentrati intorno al nome di un leader, band che era qualche annetto che non si facevano sentire. Per i Ben Folds Five, il cui nuovo disco si chiama The Sound Of The Life Of The Mind ed esce per la Sony Music, di anni ne sono passati 13 dal precedente The Unauthorized Biography Of Reinhold Messner (i titoli sono sempre spettacolari), anche se Ben Folds nel frattempo aveva pubblicato vari CD a nome proprio.

La Jon Spencer Blues Explosion invece, era solo otto anni che non pubblicava un disco nuovo in studio, anche se nel frattempo, tra una collaborazione e l’altra, è stato ristampato tutto il catalogo del gruppo in versione riveduta e potenziata. Per questo nuovo Meat And Bone, su etichetta Bronze Rat Records (!?!), Jon Spencer, Russell Simins e Judah Bauer si sono ritrovati a registrare in quelli che furono i leggendari studios di Sly Stone.

Gli Skunk Anansie da quando si sono rimessi insieme nel 2009 hanno ripreso a pubblicare dischi con cadenza regolare, questo Black Traffic, che esce in questi giorni per la loro etichetta 100% Records, nell’immancabile formato CD+DVDè il terzo dopo la reunion.

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Se il tipo seduto dietro alla batteria con un poderoso ciuffo vi dice qualcosa, non vi state sbagliando. E’ proprio Ringo Starr, nella formazione di Rory Storm & The Hurricanes prima di entrare nei Beatles, Ringo Starr ha fatto parte di questa band della preistoria musicale di Liverpool. In questo periodo è stato ritrovato un nastro inedito che documenta una performance del gruppo, Live At The Jive Hive, registrato appunto in quel di Liverpool, il 5 marzo del 1960 e viene pubblicato dalla Rockstar Records. Non vi so dire la qualità delle registrazioni (ma dal video si intuisce, pensavo peggio, precursori del beat inglese), in ogni caso questa è lista dei brani:

1. Introduction
2. “Brand New Cadillac”
3. “(You’re So Square) Baby I Don’t Care”
4. “Make Me Know You’re Mine”
5. “Bye Bye Love”
6. “Jet Black”
7. “Down The Line”
8. “C’mon Everybody”
9. “Don’t Bug Me Baby”
10. “Rip It Up”
11. “Somethin’ Else”
12. “Train To Nowhere”
13. “Since You Broke My Heart”
14. “Honey Don’t”
15. “All American Boy”
16. “Willie & The Hand Jive”
17. Closing Announcement
18. “Milk Cow Blues” (home recording)
19. “What ‘d I Say” (home recording)
20. “Cathy’s Clown” (home recording)
21. “Now Is The Hour” (home recording)

Beatlesiani, occhio alla penna!

Altra vecchia gloria del rock britannico, a Nick Lowe viene dedicata questa compilation-tributo, Lowe Country, edita dalla Fiesta Red Records. Il sottotitolo è The Songs Of Nick Lowe e in questo caso gli ho già dato una ascoltata e devo dire che è proprio bello e gli artisti partecipanti sono tutti di ottimo spessore artistico:

1. Lately I’Ve Let Things Slide – Caitlin Rose
2. Don’T Lose Your Grip On Love – The Parson Red Heads
3. All Men Are Liars – Robert Ellis
4. I Love The Sound Of Breaking Glass – Amanda Shires
5. Marie Provost – Jeff The Brotherhood
6. (I’M Gonna Start) Living Again If It Kills Me – Hayes Carll
7. Lover Don’T Go – Erin Enderlin
8. When I Write The Book – The Unsinkable Boxer
9. You Make Me – Colin Gilmore
10. Heart Of The City – Chatham County Line
11. What’S Shakin’ On The Hill – Lori Mckenna
12. Cracking Up – Griffin House
13. Where’S My Everything? – Ron Sexsmith

Sid Griffin è stato per anni il leader dei Long Ryders, oltre che scrittore e giornalista musicale per varie testate britannica. Ma già da alcuni anni il suo gruppo sono i Coal Porters con i quali ha pubblicato una decina di album, che escono per la propria etichetta, la Prima Records. Anche questo Find The One prosegue nella tradizione: in questo nuovo disco, anche se lo stile è il solito gustoso mix di folk e bluegrass, ci sono alcune novità. Una cover di Heroes di Bowie in puro stile folk-bluegrass, bellissima, la partecipazione di Richard Thompson in un brano e un’altra cover d’autore, una Paint It Black con tanto di sitar vero, non la chitarra “trattata” della versione originale degli Stones, ovviamente la battaglia a tempo di bluegrass tra violino e sitar è quantomeno inconsueta. Produce John Wood, quello dei dischi di Nick Drake e Fairport Convention, e l’ingegnere del suono è Ed Stasium (Ramones, dice qualcosa). Bella anche l’alternanza tra la voce di Sid Griffin e quella della violinista Carly Frey. Tra l’altro vedo dal dischetto che è anche un CD Enhanced e contiene un documentario di sei minuti sulla band.

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Il tributo a Jesse Winchester Quiet About It, viene pubblicato questa settimana negli Stati Uniti e la settimana prossima in Europa dalla Mailboat Records, che è l’etichetta di Jimmy Buffett. I fondi raccolti sarebbero dovuti servire per le cure inerenti al tumore all’esofago che lo aveva colpito lo scorso anno. Poi, nel frattempo, sembra che la malattia sia regredita dopo varie cure ed interventi, e la cosa ci fa piacere, ma il disco era pronto ,per cui viene pubblicato ugualmente e Jesse Winchester che è già tornato a fare concerti nel frattempo, lo considererà un omaggio da parte di alcuni suoi colleghi illustri che interpretano i suoi bellissimi brani:

1. Payday (James Taylor)
2. Biloxi (Rosanne Cash)
3. Gentleman of Leisure (Jimmy Buffett)
4. I Wave Bye Bye (Allen Toussaint)
5. Talk Memphis (Vince Gill)
6. Defying Gravity (Mac McAnally)
7. Brand New Tennessee Waltz (Lyle Lovett)
8. Mississippi You’re On My Mind (Lucinda Williams)
9. Dangerous Fun (Rodney Crowell, feat. Emmylou Harris and Vince Gill)
10. Rhumba Man (Little Feat)
11. Quiet About It (Elvis Costello)

Non si sa ancora nulla di preciso su formato e contenuti, anche se pare probabile un doppio CD più doppio DVD ma nel frattempo la reunion dei Led Zeppelin alla O2 Arena di Londra, ha un titolo Celebration Day e una copertina, che è quella che vedete sopra. Prima uscirà nei cinema e poi il 19-20 novembre dovrebbe essre nei negozi, questo è il trailer:

Alla prossima.

Bruno Conti

Un “Ragazzaccio” Dal Mississippi! Magic Slim And The Teardrops – Bad Boy

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Magic Slim And The Teardrops – Bad Boy – Blind Pig Records

Morris Holt, in arte Magic Slim, viene considerato uno degli ultimi grandi vecchi del Blues elettrico classico (dal sottoscritto parzialmente). Chitarrista e cantante, in pista dalla metà degli anni ’50, come bassista di Magic Sam, che fu il suo mentore, oltre ad essere quello che gli diede il soprannome, Slim, come moltissimi altri bluesmen, non ha avuto una carriera facile, tanto da pubblicare il suo primo album, Born On A Bad Sign, solo nel 1977 (40 anni, per la media, un “giovane”) e per di più per una piccola etichetta francese, la MCM. Poi, da allora, girando più o meno molte delle etichette specializzate, Black and Blue, Alligator, Wolf Records, Rooster, fino ad arrivare alla Blind Pig, ha pubblicato più di 35 album, compresi live e antologie. Il grosso del materiale è uscito proprio per la Blind Pig, dal 1998 ai nostri giorni (ma aveva già fatto qualcosa con loro in precedenza), anche se, forse, il suo periodo migliore coincide con gli anni che vanno dal 1982 al 1995, quando John Primer era il secondo chitarrista della band.

Non a caso il gruppo ha la classica formazione a quattro, tipica di molte delle migliori band nere di blues degli anni ’60 e ’70 (e fino ai giorni nostri), con un secondo chitarrista ritmico che spesso sale anche al proscenio come solista e altrettanto di frequente è un bianco (penso a Margolin con Waters, Debbie Davis con Albert Collins, per citarne un paio), con un sound definito non a caso “houserockin’ blues”, che ha la grinta del R&R e le battute del blues, e di cui Hound Dog Taylor, anche senza bassista, era un maestro. Ma ovviamente nella musica di Magic Slim convivono anche molte altre influenze, dal blues urbano di Chicago a quello del Mississippi, zona da cui Holt proviene. Non a caso nel nuovo album, nella scelta dei brani, appaiono un po’ di tutti gli stili citati.

A scanso di equivoci, ripeto, secondo me Magic Slim non è uno dei grandi maestri della “musica del diavolo” ma sicuramente uno dei comprimari più geniali, prolifici e, allo stato attuale, ancora in gran forma. Bad Boy, un tipico Chicago Blues ruvido e chitarristico, scritto da un altro che di fortuna non ne ha avuta molta, Eddie Taylor, permette di gustare il bel vocione di Magic, ancora potente e incazzato, e il suo stile di chitarra, conciso ma efficace; gustoso il call and response nel ritornello con i componenti del gruppo. Someone Else Is Steppin’ In, in origine era un brano soul scritto da Denise Lasalle ma qui diventa un blues attizzato e cattivo, un po’ sullo stile del suo maestro Magic Sam o di Buddy Guy, anche se l’assolo non ha le note lancinanti dei due grandi chitarristi. Detroit Junior, non è uno dei primi nomi che vengono in mente quando si parla di blues chitarristico (anche perché era un pianista), ma la sua I Got Money fa un figurone nell’interpretazione serrata e con doppia chitarra di questo CD, con la sezione ritmica che pompa alla grande. Sunnrise Blues, scritta dallo stesso Holt, ha sempre quello stile pungente e saltellante tipico del blues urbano mentre Girl What You Want Me To Do, un traditional di autore ignoto, con un abbrivio che avrebbe fatto la felicità dei primi Stones, ha un ritmo incalzante.

Il libretto riporta come sesto brano una Hard Luck Blues ma sul CD parte una sparatissima Highway Is My Home, puro Chess Sound di Howlin’ Wolf che era anche il titolo di uno dei primi dischi di Magic Slim: poco male, perché il brano è uno dei più torridi del disco e si merita la citazione. Ottima anche Gambling Blues, un altro gagliardo originale di Holt, che poi ci regala la sua versione di Chanpagne And Reefer, il classico di Muddy Waters che è uno dei cavalli di battaglia di Buddy Guy, ma lì siamo su un altro pianeta. How Much More (che in questa versione guadagna un Long, ma i brani Blues hanno titoli e paternità spesso dubbie), dovrebbe essere uno standard di JB Lenoir che qui diventa appunto un houserockin’ blues. Matchbox Blues è quella di Albert King, versione grintosa ma non memorabile, anche se la chitarra viaggia, mentre Older Woman è un brano “contemporaneo” di Lil Ed Williams ma sembra autenticamente “antico” come gli altri classici che costellano questo album. Country Joyride è l’ultimo brano originale firmato da Magic Slim per questo CD, un veloce  boogie strumentale, sia per tempo che per durata, che conclude su una nota sostenuta questo disco che sicuramente appagherà gli appassionati del genere Blues. Per gli altri, forse, astenersi.

Bruno Conti 

Anche Per Lui Il Tempo Si E’ Fermato! Ian Hunter – When I’m President

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Ian Hunter – When I’m President Slimstyle/Proper CD

Per uno come me, appassionato, tra le altre cose, di rock’n’roll e di Bob Dylan, Ian Hunter ha sempre rappresentato uno dei musicisti preferiti in assoluto, e se siete frequentatori abituali di questo blog non devo certo stare qui a spiegarvi perché.

Ho seguito i passi artistici di Hunter fino dai tempi dei Mott The Hoople, sia all’inizio, quando non se li filava nessuno, sia nella loro “golden age” (ovvero da All The Young Dudes in poi), passando per i suoi primi dischi solisti, alcuni tra i più belli degli anni settanta (specialmente il debutto omonimo, il seguente All American Alien Boy ed il live Welcome To The Club), fino agli anni ottanta e novanta, il suo periodo più buio, durante il quale pubblicava dischi che compravano solo i suoi parenti stretti. Poi, nel nuovo millennio, complice anche un certo revival del rock classico dopo gli anni del grunge, il nome di Hunter torna alla ribalta, anche se in misura molto minore rispetto a prima, ed album come Rant e Shrunken Heads ricevono ancora l’attenzione di pubblico e critica, per non parlare dello splendido Man Overboard di tre anni fa, uno dei suoi dischi più belli in assoluto (io l’avevo eletto disco dell’anno 2009).

*NDB (Che sarebbe Nota del Bruno o del Blogger) Mi intrometto per dire che io avrei inserito, forse anche al primo posto, You’re Never Alone With A Schizophrenic, quello con mezza E Street band, John Cale, e Mick Ronson produttore. Ristampato tre anni fa in una versione da sballo doppia, con inediti e live a profusione, per il 30° anniversario! Mi taccio e ridò la parola a Marco).

Il bello di Hunter è proprio questo: anche nei periodi di anonimato, di dischi brutti non ne ha mai fatti (beh, forse Short Back’n’Sides del 1981 non era proprio un capolavoro…), e anche questo nuovo lavoro, When I’m President, risente positivamente della vena artistica apparentemente inesauribile dell’occhialuto Ian.

Non siamo ai livelli eccelsi di Man Overboard, ma quasi: a 72 anni suonati Ian non ha perso un’oncia della sua grinta, ed anche dal punto di vista vocale e compositivo è più in forma che mai: When I’m President è decisamente più rock del suo predecessore, che era più bilanciato tra brani elettrici e ballate, ma non c’è un solo brano sottotono, e Ian ci dà dentro come un ragazzino. Il merito è anche della produzione asciutta di Andy York (già stretto collaboratore di Willie Nile, ma soprattutto di John Mellencamp), che mette in primo piano la voce e le chitarre, e della bravura della sua Rant Band, nella quale militano elementi di grande esperienza che danno del tu agli strumenti (tra loro spiccano certamente Mark Bosch, straordinario chitarrista, il tastierista Andy Burton, già con Robert Plant, ed il batterista Steve Holley, ex membro nei seventies dei Wings di Paul McCartney).

Ian parte a tutta birra con Comfortable (Flyin’ Scotsman), un irresistibile rock’n’roll dei suoi, che richiama da vicino il periodo d’oro coi Mott: chitarre e piano in evidenza, gran ritmo e voce dylaniana in grande spolvero, un inizio migliore non poteva esserci.

Fatally Flawed parte quasi come un brano soul, poi nel ritornello le chitarre prendono il sopravvento e le tonalità diventano decisamente rock (sentite l’assolo centrale di Bosch, siamo ai limiti dell’hard rock): a più di settanta primavere Ian ha ancora la grinta di un ventenne (anzi, i ventenni di oggi mi sembrano molto più svogliati).

When I’m President ha un testo ferocemente sarcastico (nel quale Ian se la prende coi candidati di tutti i colori politici, sostenendo a ragione che i loro buoni propositi una volta eletti e dopo aver assaggiato il potere vanno a farsi fottere), mentre musicalmente è un rock lineare e fluido tipico suo, dotato di una melodia e di un refrain che si fanno apprezzare al primo ascolto: grande classe.

What For è ancora puro rock’n’roll Hunter-style, dal ritmo semplicemente travolgente, sullo stile di brani storici come The Golden Age Of Rock And Roll o All The Way From Memphis.

Black Tears è una ballata pianistica, ma sempre molto elettrica: non è tra i migliori slow di Ian, ma si fa ascoltare con piacere, e poi l’assolo chitarristico vale il prezzo.

Saint è una godibilissima rock song elettroacustica, uno di quei brani da canticchiare subito e che al nostro riescono particolarmente bene, impreziosito da un bel riff di clavinet: uno dei miei preferiti finora. Molto bella anche Just The Way You Look Tonight, una splendida ballata di matrice folk-rock, ritmo saltellante, melodia contagiosa e Ian che canta sempre meglio. Wild Bunch è ancora rock’n’roll, ed anche qui si fatica a restare fermi, con Hunter che sembra davvero divertirsi un mondo (bello l’assolo di piano di Burton ed il coro finale sul tema di Glory Glory Halleluyah); Ta Shunka Witko (Crazy Horse), introdotta da una ritmica tribale, è una canzone tesa ed affilata dedicata agli indiani d’America, musicalmente meno immediata delle precedenti.

L’album si chiude con la potente I Don’t Know What You Want, un rock-blues insolito per Ian, denso, chitarristico e cantato benissimo, e con Life, finalmente una ballata di quelle che hanno reso famoso Hunter: lunga, fluida e discorsiva, piena di pathos e con un motivo di prim’ordine, è la degna conclusione dell’ennesimo grande disco del riccioluto rocker britannico. La frase finale del brano è talmente toccante nella sua semplicità e spontaneità che sento il dovere di riportarla pari pari: “I hope you had a good time, hope your time was good as mine, my you’re such a beautiful sight. I can’t believe after all these years you’re still here and I’m still here, laugh because it’s only life”.

Che dire ancora? Che di musicisti come Ian Hunter non ne fanno più! Ripeto: grande disco…peccato per la copertina, veramente orrenda (ma lo perdono).

Marco Verdi

Da Chicago, Mississippi Heat – Delta Bound

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Mississippi Heat – Delta Bound – Delmark 

Mi sono già occupato altre volte dei Mississippi Heat in passato, e non ovviamente con minacce mafiose come potrebbe far pensare l’incipit, ma in modo assolutamente benefico e positivo. Il gruppo ruota intorno alla figura di Pierre Lacocque, armonicista per eccellenza e giramondo per estrazione. Nato in Israele, ha vissuto anche in Belgio, poi a Chicago, in Canada e nuovamente a Chicago dove ha scoperto il Blues nella figura del grande armonicista Big Walter Horton. Come molti altri è arrivato alla musica professionale all’inizio degli anni ’90, dopo avere fatto il ricercatore in altri settori per parecchi anni: ma la passione per la musica era un istinto insopprimibile e da allora è diventata anche la sua uncia attività. Il gruppo festeggia quest’anno i venti anni di attività e questo è il loro decimo album. Quattro per la Van Der Linden Records negli anni ’90, un paio per la Crosscut e dal 2005 incidono per Delmark, una delle etichette storiche del Blues di Chicago.

Nel corso degli anni la formazione ha avuto vari cambiamenti prima di stabilizzarsi in quella attuale, ma proprio per questo Delta Bound che è una sorta di celebrazione del gruppo, sono tornati molti dei musicisti che si sono avvicendati lungo il percorso. E quindi abbiamo la possibilità di ri-ascoltare Deitra Farr, la cantante originale dei primi 3 CD e presente in tre brani in questo dischetto, in alternanza con l’attuale vocalist, Inetta Visor, entrambe sono in possesso di una voce potente ed espressiva, più matura, forse, quella della Farr, ma comunque tra il meglio che sia possibile ascoltare oggi come voci femminili nell’ambito Blues. Tornano anche Billy Flynn che era il primissimo chitarrista della formazione e Carl Weathersby, che ufficialmente non ha mai fatto parte del gruppo ma è presente come ospite in molti dischi. A proposito di ospiti, non si può fare a meno di notare anche la presenza di Chubby Carrier, grande fisarmonicista Zydeco che infiamma con la sua presenza, un tuffo nella Lousiana con una sgargiante e carnale New Orleans Man che permette di gustarne i pirotecnici virtuosismi, che si affiancano alla voce calda ed avvolgente della Visor. Voce che caratterizza il sound della band forse ancora più  dell’armonica di Lacocque, peraltro sempre presente e incisiva, come nell’iniziale Granny Mae dove duetta con la pungente chitarra di uno dei due solisti del gruppo, Billy Satterfield. Quando canta Deitra Farr, come nell’ottima Look-a-Here, Baby, forse aumenta ulteriormente la quota blues più tradizonale della formazione e c’è spazio anche per il pianino di Johnny Iguana (i nomi sono un programma), che si alterna alle tastiere con l’ottimo Chris “Hambone” Cameron.

Quando è il turno della chitarra di Billy Flynn di affiancare l’armonica di Pierre nel classico slow blues di My Mother’s Plea non si può non notare la coesione e la potenza del gruppo, uno dei migliori combo attualmente in attività nella Windy City. L’unica cover del disco è una grintosa versione del super classico Don’t Let Me Misunderstood, dove Inetta Visor rivaleggia con la potenza vocale di Eric Burdon e Carl Weathersby è ovunque con la sua solista tiratissima, senza dimenticare gli interventi misurati dell’armonica. Ma sono tutti molto bravi, anche la sezione ritmica di Joseph Velez al basso e Kenny Smith (l’altro componente “anziano” della band) ha un tiro poderoso. E sono anche in grado di essere felpati e misurati come nel blues after hours di Padlock Blues o nel train classico di What’s Happenin’ To Me, cantato ancora dalla Farr, con il pianino scatenato di Cameron in primo piano. In Goin’ To St. Louis, con il vibrafono dell’ospite Kenneth Hall in evidenza, si toccano anche sognanti atmosfere tra jazz e soul. Ma fondamentalmente, come dicono le parole di Sweet Ol’ Blues cantata dalla Farr, “Sono felice che tu sia mia amico. Sei il mio fidato compagno, ora – si, amico mio, e per sempre nel mio cuore”. E se non è una dichiarazione d’amore questa?  

Un album di Blues come ormai se ne fanno pochi, caldo, vibrante e ben suonato, tra i migliori della loro carriera.

Bruno Conti  

Non Sparate Sulla Pianista! Deanna Bogart – Pianoland

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Deanna Bogart – Pianoland – Blind Pig 2012

L’etichetta dalla quale viene pubblicato il CD, la Blind Pig, potrebbe fare erroneamente ritenere che questo sia un CD solo di Blues ed in effetti ce n’è, anche se non moltissimo. Ma troviamo anche e soprattutto, jazz, pop, boogie woogie e altri generi. Potremmo dire “non sparate sulla pianista”, perché lo strumento principale è proprio il pianoforte, ma Deanna Bogart è anche una ottima cantante, nella equazione voce-strumento il suo virtuosismo potrebbe essere equivalente a quello di una Bonnie Raitt o di una Susan Tedeschi alla chitarra. Questo è già il suo nono disco, escludendo un CD natalizio, e per la prima volta non si cimenta anche al sax, che è il suo secondo strumento.

Il repertorio è molto eclettico, si passa dal pop molto jazzato dell’iniziale In The Rain che potrebbe ricordare il Billy Joel delle origini, quello di Piano Man per intenderci, con le mani che volano sulla tastiera, contrabbasso e batteria che agilmente la seguono e un continuo susseguirsi di assolo che sottolineano le brevi parti cantate, ma On And On And con il suo groove funky potrebbe essere uno swamp di Tony Joe White o dei Creedence in trasferta a New Orleans e con il piano che sostituisce la chitarra come strumento dominante, il tutto cantato con una voce sicura e ispirata. Boogie Woogie Boogie come il titolo lascia intuire è un boogie strumentale, anzi “il boogie”, proprio quello celeberrimo di Errol Garner e permette di gustare la sua assoluta padronanza allo strumento. Couldn’t Love You More è una deliziosa ballata quasi westcoastiana, melodica e delicata, solo voce e piano nello stile della Carole King più intimista. Where The Well Runs Dry è una altra bella ballata, con un ritmo più robusto, un po’ country got soul, come usavano quelle belle voci femminili anni ’70, con in più ottimi florilegi pianistici di grande spessore qualitativo.

I Love The Life I Live molti la associano a Mose Allison, del quale era uno dei cavalli di battaglia, ma è stata scritta dall’autore Blues per antonomasia, Willie Dixon, anche se la versione della Bogart è più vicina allo spirito jazzy di Allison. Death Ray Boogie è di Pete Johnson, uno dei maestri del boogie woogie ed è un altro strumentale dai ritmi vorticosi mentre Over The Rainbow è proprio il classico di Harold Arlen reso celebre nel Mago di Oz da Judy Garland, che qui perde il Somewhere per strada, ma non il fascino del brano, in una versione solo voce e piano cantata benissimo da Deanna Bogart. Pianoland, è una canzone originale firmata dalla stessa Deanna, oltre sette minuti epici, tra rock pianistico e virtuosismo complesso, cantata con raffinata bravura da una musicista di gran classe che si muove tra vari stili con assoluta padronanza delle proprie qualità vocali e strumentali, anche questo brano, per certi versi, mi ha ricordato il Billy Joel dei tempi migliori. L’unica concessione al blues puro è un’altra composizione della Bogart, il terzo brano strumentale del disco, Blues At 11.  Conclude Close Your Eyes che, anche in questo caso, curiosamente, è il celebre brano di James Taylor che si è perso il You Can che appariva nella versione originale di Mud Slide Slim, solo voce e piano nuovamente, per una versione che rivaleggia con il repertorio di Carole King e Laura Nyro. Disco raffinato, difficile da etichettare, che salta da un genere all’altro e quindi, forse, non riesce a trovare un pubblico ben definito, però la signora è molto brava e chi ama la buona musica avrà motivo di essere soddisfatto!

La ricerca continua, sempre!

Bruno Conti  

Ecco Un Altro Che Non Sbaglia Un Colpo! Chris Knight – Little Victories

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Chris Knight – Little Victories – Drifter’s Church CD

Tra tutti i nuovi musicisti del panorama rock Americano, Chris Knight (che nuovo non è, essendo nato nel 1960) è certamente uno dei più dotati di talentoOriginario del Kentucky, ma texano d’adozione (è stato addirittura nominato texano onorario dal governatore dello stato Rick Perry, evidentemente un suo fan), Knight si è fatto conoscere a piccoli passi, senza mai svendere la sua musica o flirtando con una major (solo il suo esordio, Chris Knight, uscì nel 1998 per la Decca, che siccome ci vide lungo lo lasciò subito a casa…): oltre a scrivere brani di successo per artisti in ambito country (tra cui Montgomery Gentry, Randy Travis e John Anderson), ha pubblicato diversi album a suo nome, tutti di livello tra il buono e l’ottimo, conquistandosi una bella fetta di pubblico anche fuori dal Texas.

Erroneamente giudicato anch’egli un cantante country, Chris è in realtà un rocker dal pelo duro, figlio (musicalmente parlando) di gente come John Mellencamp (il più vicino, anche per il timbro vocale), Steve Earle, Bruce Springsteen e John Fogerty(al quale invece assomiglia fisicamente): la sua musica è tesa, chitarristica e vibrante, senza spazio per sdolcinature di sorta, ed anche i testi parlano di piccole storie quotidiane, di amori finiti male, di gente con mille problemi. Chris è un vero rocker, e se a tratti sembra assomigliare un po’ troppo ai suoi modelli di riferimento (specialmente a Mellencamp) si eleva dalla massa per la bellezza delle canzoni, oltre che per la forza e convinzione con le quali le propone.

In più, sa cercare anche i produttori giusti per la sua musica: Heart Of Stone, uno dei suoi dischi migliori, vedeva la presenza alla consolle di Dan Baird, mentre questo Little Victories (il suo ottavo album in totale), che è ancora meglio, è prodotto da Ray Kennedy, già stretto collaboratore di Steve Earle e perfettamente a suo agio con queste sonorità; come ciliegina, il disco vede anche diversi ospiti di nome (che vi citerò man mano), anche se talvolta utilizzati in maniera bizzarra (e vedremo perché). Si inizia alla grande con In The Mean Time, che ricorda subito il Mellencamp più rocker: inizio acustico (voce, chitarra e mandolino), poi entrata micidiale di batteria e chitarre elettriche (Mike McAdam, un nome da tenere d’occhio); un brano duro, teso, diretto come un pugno nello stomaco, puro rock’n’roll, altro che country. Missing You non abbassa i toni (anzi), ritmica alla Rolling Stones, chitarra alla Fogerty e voce in stile Cougar: detto così sembra la fiera del già sentito, ed invece Chris riesce a far convivere tutte le sue influenze ed a creare qualcosa di personale.

In questi due brani vediamo come primo ospite anche Buddy Miller, ma solo come backing vocalist, e quindi poco riconoscibile. You Lie When You Call My Name è ancora puro Cougar (qui più che mai, provate a chiudere gli occhi e non noterete differenze), un altro brano teso ed affilato come una lama, dove il violino (suonato da Tammy Rogers) viene usato come lo usava Lisa Germano su The Lonesome Jubilee. Loydown Ramblin’ Blues è il tipico brano che si potrebbe ascoltare in una stazione di servizio americana, di quelle in mezzo al nulla: elettrica, tirata allo spasimo, ricorda certe cose di Tom Petty, con un assolo centrale di chitarra che è una goduria. Nothing On Me è invece una grande ballata elettroacustica, dalla splendida melodia, cantata con il cuore, un brano che ci mostra di che pasta è fatto Knight: una delle migliori del disco.

Little Victories, ancora lenta (ma la batteria picchia sempre duro) è un’altra sublime prova di cantautorato, con il suo ritornello di grande impatto emotivo: più va avanti e più il disco cresce. La saltellante You Can’t Trust No One è finora la più country, ed è l’ennesimo brano di prima scelta: il mandolino guida, l’elettrica risponde e Chris ci accompagna lungo tutta la canzone con una melodia solare che ha molti punti di contatto con la musica dei Creedence. Out Of This Hole, acustica, è un altro mezzo capolavoro, e dimostra che il nostro, pur essendo un rocker, è in grado di fare grande musica anche con solo una chitarra acustica; Jack Loved Jesse (scritta e suonata con Dan Baird) ci riporta in ambito rock, con la chiara influenza ancora di Fogerty (sembra uno dei suoi brani swamp).

Hard Edges, guidata dal banjo, è una tenue ballata rurale, con la presenza del grande John Prine alla seconda voce, e qui c’è la bizzarria di cui parlavo prima (già sperimentata con Miller): hai Prine che canta su un tuo disco e lo seppellisci nei backing vocals, rendendolo praticamente irriconoscibile, senza fargli cantare neppure una strofa da solo? Questa è l’unica cosa discutibile, a mio parere, di un disco pressoché perfetto. Chiude l’album The Lonesome Way, ennesimo pezzo roccato e solido come una roccia. Chris Knight è ormai una bella realtà del panorama musicale americano, e solo la miopia delle majors fa sì che debba rimanere un musicista di culto.

Marco Verdi

Un Ulteriore Virtuoso Della 6 Corde! Albert Cummings – No Regrets

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Albert Cummings – No Regrets – Ivy Music Company 

Albert Cummings da Williamstown, Massachussetts, è uno di quelli che si è soliti definire un “bel manico”, chitarrista dal suono poderoso ed in possesso di una tecnica notevole, è uno dei discepoli postumi (se si può usare questa definizione) di Stevie Ray Vaughan. Cummings è tra coloro che sono rimasti folgorati e si sono convertiti sulla strada non di Damasco ma di Houston: da giovane era un ascoltatore e fan della musica country e bluegrass e suonava il banjo, poi la scoperta della musica di SRV (come ho già detto in passate recensioni) gli ha cambiato la vita. Il nostro amico è arrivato alla musica professionale abbastanza tardi, quasi intorno ai 30 anni, perché prima si era dedicato al business di famiglia, quello delle costruzioni, di lusso, fatte su misura e quindi penso che non abbia particolari problemi finanziari (lo so, ho già detto anche questo, ma un ripassino non fa male).

 

Dopo un primo disco del 1999 autogestito, con gli Swamp Yankee, di cui non deve essere particolarmente orgoglioso perché non viene riportato nelle discografie ufficiali, nei suoi primi album, From The Heart del 2003 e True To Yourself dell’anno successivo, suonano, in toto o in parte proprio i Double Trouble, a loro volta “folgorati” dalla bravura di questo ragazzone. Ottimi anche Working Man del 2006 e Feels So Good un gagliardo live del 2008 che tiene fede al famoso detto “ma dovresti sentirlo dal vivo!”. Entrambi questi dischi erano editi dalla Blind Pig e prodotti da Jim Gaines. Il famoso producer di rock-blues è rimasto anche per questo No regrets che viene distribuito a livello autogestito (probabilmente si è finanziato da solo) e conferma tutto quello di buono che si era detto su di lui, inserendo anche elementi country-rock e southern in alcuni brani, a dimostrazione della varietà delle proposte di Cummings.

Se vi piacciono, oltre a Stevie Ray, musicisti come Clapton, Bonamassa, Tommy Castro, Tinsley Ellis, qui c’è pane per i vostri denti: dal funky-rock blues vaughaniano e tiratissimo dell’iniziale Glass House, dove c’è modo per apprezzare anche le ottime qualità vocali di Albert, passando per l’eccellente 500 Miles, dove cominciano ad emergere elementi “sudisti”, con il sound insinuante dell’organo di Rick Steff che aggiunge ulteriore varietà al notevole lavoro della solista, sempre variegata ed inventiva con continui rilanci dei temi sonori. Organo sempre protagonista nella successiva Eye To Eye, arricchita anche da sapori soul sottolineati dal trio dei background vocalists di supporto. Checkered Blues è uno di quei blues’n’roll che non ti danno tregua, ritmo serrato ed energia per una canzone dai sapori antichi, e poi la prima ballata, stupenda, She’s So Tired, con piano, organo e chitarre acustiche che sottolineano il cantato quasi Allmaniano di Cummings e le continue punteggiature liriche della sua solista che alzano il tasso emozionale di questo brano, veramente notevole. Your Day Will Come è un rock-blues serrato che potrebbe ricordare il Clapton primi anni ’70 quando la sua musica si intrecciava con quella di Duane Allman. Cry Me A River è un altro mid tempo che sottolinea questi nuovi elementi sudisti inseriti nel suono, con la presenza dell’organo e delle vocalist sempre pronte a “colorare” il dipanarsi della canzone.

 

Drink Party And Dance ci riporta al più Blues più classico con i pungenti interventi della solista che ci permettono di apprezzare la grande tecnica di Cummings, chitarrista che nel corso degli anni è diventato uno dei migliori in circolazione delle nuove leve, fluente e ricco di inventiva. Foolin’  Me è uno di quei funky-blues che stanno a metà tra Vaughan e Hendrix con wah-wah innestato e ritmi in libertà mentre Where You Belong è un’altra ballata avvolgente di gran classe, quasi Claptoniana ma con elementi country in grande evidenza, cantata con passione e coinvolgimento. Poi c’è l’unica cover del disco, una versione di Early Roman Kings di Dylan dall’ultimo Tempest. No? Mi dicono che si tratta di Mannish Boy di Bo Diddley (ma non l’aveva fatta Muddy Waters e quella di Bo Diddley era I’m A man? Che casino!). Comunque sia il brano è poderoso, con Cummings che strapazza la sua chitarra per estrarne fino all’ultima stilla di Blues, aiutato dall’armonica di Jimmy D. Taylor, il risultato finale rivaleggia con le migliori cose del Bonamassa più Blues e si avvicina all’intensità delle sue esibizioni live. La conclusione, sempre per confermare questo nuovo corso più variegato, è affidata ad una ulteriore ballata, questa volta addirittura solo chitarra acustica e piano e l’ottima voce di Cummings, la delicata Home Town. Per chi ama chitarre ruggenti ma anche buoni sentimenti!

Bruno Conti      

Due Grandi Chitarristi Al Prezzo Di Uno! Gary Moore – Blues For Jimi

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Gary Moore – Blues For Jimi – CD DVD o Blu-Ray – Eagle Rock 25-09-2012

E’ passato circa un anno e mezzo dalla scomparsa di Gary Moore, avvenuta nel febbraio 2011, e proseguono le pubblicazioni di materiale inedito dal vivo da parte della Eagle Rock (in attesa di un eventuale album di studio postumo che pare fosse quasi pronto al momento della morte). Dopo il Live At Montreux 2010 esce ora questo Blues For Jimi che è la registrazione di un concerto tenuto al London Hippodrome (che è un famoso locale e non l’ippodromo di Londra, come mi è capitato di leggere) il 25 ottobre del 2007 in occasione delle manifestazioni per la ripubblicazione di Live At Monterey di Jimi Hendrix nel quarantennale della nascita degli Experience. In quella serata Gary Moore e il suo gruppo, con Darrin Mooney (ex Primal Scream) alla batteria e Dave Bronze al basso (già con Robin Trower, Procol Harum, Dr.Feelgood e il Clapton anni ’90 di From The Cradle) eseguono solo materiale hendrixiano e per tre brani, nella fase finale del concerto, si riunisce per l’ultima volta, la seconda versione degli Experience, quella con Billy Cox al basso e Mitch Mitchell alla batteria, che morirà poi nel 2008 proprio alla fine dell’Experience Hendrix Tour di quell’anno.

 

Gary Moore non è abitualmente considerato un epigono di Hendrix quanto piuttosto di Albert King per il Blues (ma ha suonato anche con l’altro King, B.B.) e soprattutto di Peter Green, il suo grande mentore, oltre naturalmente al suo lungo sodalizio con il grande amico Phil Lynott, leader dei Thin Lizzy dei quali ha fatto periodicamente parte. Ma nella sua carriera, iniziata nell’Irlanda di fine anni ’60, con il blues-rock psichedelico degli Skid Row e poi proseguita con il proto hard-rock di Grinding Stone, primo album solista del 1973, dove alla seconda chitarra c’era anche Philip Donnelly, grande chitarrista che ha suonato con Donovan, Townes Van Zandt e soprattutto nei bellissimi dischi di Lee Clayton, dove, se siete amanti della chitarra potreste avere delle belle sorprese, fine della digressione, dicevo che dopo Grinding Stone ha suonato del jazz-rock con i Colosseum II e poi si è dato ad un rock “duretto” che gli ha dato la fama ma non lo soddisfaceva completamente, tanto da tornare al Blues negli anni ’90 soprattutto nella formula del power-rock trio. Questa serata è l’occasione per tornare a Hendrix, musicista visto nella Belfast della sua adolescenza e che evidentemente deve avere lasciato delle tracce indelebili nella formazione musicale del giovane Gary, che una quarantina di anni dopo ha l’occasione per rendere omaggio al grande chitarrista di Seattle.

 

 

Premetto che sto recensendo Blues For Jimi qualche settimana prima dell’uscita e quindi non ho avuto l’occasione di vedere la versione video ma il CD audio basta e avanza e molti lettori so che sono ancora fedeli a questo formato e non amano DVD e Blu-Ray per ascoltare la musica. La qualità del suono è eccellente e la scelta del repertorio ha privilegiato i brani più celebri del repertorio di Jimi, come è giusto che sia per una serata celebrativa, i brani più “oscuri” si possono riservare per altri occasioni: e quindi, con il pedale del wah-wah quasi sempre innestato, si parte con una tripletta da sogno, Purple Haze, Manic Depression e Foxy Lady. Per una volta non è necessario illustrare la eccelsa qualità di queste canzoni, Gary Moore è in ottima serata a livello vocale e non sarò certo io a dovervi magnificare le sua qualità di chitarrista, assolutamente in grado di rendere onore a colui che tuttora viene considerato, a ragione, il più grande chitarrista della storia della musica rock, un uomo venuto da un altro universo. La serata scorre con The Wind Cries Mary, I Don’t Live Today, una non meglio identificata My Angel, Angel, una tiratissima Fire introdotta brevemente da Moore con i suoi modi spicci da irlandese e poi il trio di brani registrati con Cox e Mitchell, una lunga versione di Red House, dove il blues hendrixiano raggiunge il suo apice, Stone Free e Hey Joe, da dove tutto cominciò. Per il gran finale il gruppo ritorna per l’immancabile Voodoo Chile (Slight return). Tutto molto bello, solo un piccolo appunto, niente Little Wing?

Bruno Conti

P.s. Il video di YouTube viene dal Giappone perché laggiù Blues For Jimi esce una settimana prima per la Watd Records e anche in versioni CD+DVD e CD+ Blu-Ray, son forti ‘sti giapponesi!