Poteva Andare Anche Peggio…Re-Machined A Tribute To Deep Purple’s Machine Head

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Re-Machined A Tribute To Deep Purple’s Machine Head – Eagle Rock/Edel

Poteva andare peggio e pensavo che sarebbe stato un mezzo tonfo, ma evidentemente il disco, anche con 40 anni sul groppone, rimane uno degli album classici dell’hard rock all-time. L’originale è meglio? Probabilmente, anzi sicuramente sì. Ma per la bisogna verrà fatto un bel cofanetto quintuplo (dopo l’edizione doppia del venticinquennale): meglio esagerare, ormai se un gruppo, o un disco, non ha la sua bella edizione Deluxe commemorativa, meglio se pantagruelica, non conta nulla nella storia del rock. La storia di Machine Head e del suo brano/riff Smoke On The Water la conoscono tutti e la potremmo quindi “stenografare” così: Montreux ’71, concerto Zappa, incendio Casinò, Fumo sull’acqua, riff al n° 4, disco al n°1. Mi sembra chiarissimo. Il disco originale vede in azione i Deep Purple Mk II, quelli più classici, che l’anno dopo registreranno anche l’altro super classico, il doppio Made In Japan, con quattro brani ripresi proprio da Machine Head, e Who Do We Think We Are, sempre nel 1973, prima di partire con il valzer delle sostituzioni.

In un certo senso, a rappresentarli in questo tributo, c’è il bassista e cantante della versione Mark III, Glenn Hughes, che appare in due brani, perché nel terzo il suo pard Joe Bonamassa lo ha “tradito” con Jimmy Barnes. Per ovvi motivi, Hughes è forse quello più a suo agio con questo repertorio, visto che sono canzoni che avrà eseguito centinaia di volte nella sua militanza nel gruppo, anche se è più probabile che dal vivo le cantasse Coverdale. Diciamo subito che non capisco e non condivido la de-costruzione di Smoke On The Water da parte dei Flaming Lips (gruppo che peraltro apprezzo, e che nella loro versione di Dark Side On the Moon non hanno fatto male, pur con tutti i distinguo): se gli altri “ri-macchinano”, questa versione pedala contro, un po’ come avevano fatto ai tempi i Devo, con la loro de-evoluzione di Satisfaction (anche questa capìta poco ai tempi). Forse è la lotta al riff, che deve essere per forza scomposto. Comunque i compilatori del disco ne hanno messo una versione più tradizionale in apertura, per evitare l’ira funesta dei fans: però, casualmente, è un brano che era già apparso in Guitar Heaven, il disco di Santana dedicato ai classici della chitarra rock e, cantata dal tipo dei Papa Roach, Jacoby Shaddix, non si sembra una versione memorabile, un po’ latinizzata con le percussioni di Karl Perazzo, ma da 6- in pagella, ad essere generosi.

I Chickenfoot di Sammy Hagar e Joe Satriani mi sembrano più a loro agio con una Highway Star ripresa dal repertorio Live, con Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers, che curiosamente siede dietro ai tamburi anche in un’altra versione dello stesso brano, messa a fine CD, con l’arcirivale di Satriani, Steve Vai alla chitarra e ancora Glenn Hughes a voce e basso; forse meglio la seconda versione che mantiene la parte di organo di Jon Lord contro la doppia chitarra dei Chickenfoot, ma anche in questo caso, pur con tutte le infiorettature dei due virtuosi, rimane migliore la versione originale con Blackmore, che in quanto ad assoli non scherzava neppure lui. Glenn Hughes canta anche in Maybe I’m A Leo che “burnizza”, cioè rende un po’ più funky la versione della canzone, con lo sconosciuto, per me, chitarrista Luis Maldonado (lo so, ho visto che suona in una valanga di dischi, ma mi è più familiare il pilota di Formula Uno).

Discreta, come il brano, Pictures Of Home, eseguita dai Black Label Society di Zakk Wylde e francamente “scarsina” (per usare un vezzeggiativo) Never Bevore dei King Of Chaos, con uno spompato Joe Elliott, due Guns’n’Roses minori e uno Steve Stevens gigione, ma che tiene in piedi la baracca con il suo lavoro alla chitarra. Altro personaggio che con la chitarra ci sa fare è l’inesauribile Joe Bonamassa, che uno ne pensa e cento ne fa e che, come detto prima, con l’aiuto della sua band e di  Jimmy Barnes ci regala una più che onesta Lazy, quella dove più si sentiva l’organo di Lord, qui ottimamente “replicato” da Arlan Schierbaum. Per concludere i due “metallari” per antonomasia, Iron Maiden che rifanno alla loro maniera Space Truckin’, non male e i Metallica, alle prese con When A Blind Man Cries, che pur essendo stata registrata nelle sessions per Machine Head, era uscita ai tempi solo come singolo: devo dire bravi, forse la tra le cose migliori del disco, riescono anche a resistere per qualche minuto con una versione misurata prima di scatenarsi in un finale “metallico”. Sono quei dischi “piacevolmente inutili”, destinati agli appassionati del genere.

Bruno Conti    

Poteva Andare Anche Peggio…Re-Machined A Tribute To Deep Purple’s Machine Headultima modifica: 2012-10-03T11:30:32+02:00da bruno_conti
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