“Neri Dentro”! Jesse Dee – On My Mind/In My Heart

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Jesse Dee – On My Mind/In My Heart – Alligator

Questa recensione potrebbe appartenere a due rubriche (se esistessero): “E intanto la Alligator non sbaglia un colpo” e “Neri Dentro”. Per l’etichetta di Chicago si tratta dell’ennesimo disco centrato, in una sequenza di pubblicazioni che negli ultimi anni non hanno mai mancato l’obiettivo di divertire ed emozionare. Il divertire è uno degli scopi massimi di questo CD di Jesse Dee (il suo secondo, anche se in alcune discografie gliene attribuiscono un terzo, ma è di un omonimo canadese), soulman bianco di Boston, la patria della J.Geils Band e Peter Wolf, volendo rimanere nel genere “musica nera rivisitata”. Come il suo grande amico e sodale, con cui spesso divide il palcoscenico dal vivo, e che sta dall’altra parte dell’Oceano, ovvero James Hunter, Jesse Dee è un grande appassionato e cultore del soul, ma quello vero, Al Green, Otis Redding, Etta James, soprattutto Sam Cooke, ma anche il primo Marvin Gaye, i Temptations e lo stile più leggero e pop della prima Motown e mille altri che non citiamo ma si possono immaginare.

Già il precedente Bittersweet Batch pubblicato dalla Munich Records aveva lasciato intravedere il suo talento, che ora viene confermato da On My Mind/In My Heart, non parliamo di capolavori ma di dischi piacevolissimi da gustare, centellinare, mentre ascolti questo giovane che in un mondo musicale falso e plastificato è in grado di (ri)proporre una musica fresca e frizzante come quella dei suoi predecessori, senza la stessa classe, ovviamente indirizzata ai cultori del genere, ma che può essere apprezzata da tutti senza riserve, ti consoli delle brutture di molto cosidetto “nu soul” attuale. I brani sono tutti “originali” (almeno nel nome e nel contenuto, magari le melodie un po’ meno), firmati dallo stesso Jesse Dee, che si avvale di un gruppo di musicisti, probabilmente non molto conosciuti al di fuori della’area dello stato del Massachussetts (dove è stato registrato l’album), ma assolutamente validi e pertinenti allo stile che perseguono.

Undici brani che si muovono nei meandri del soul e del R&B con leggerezza estrema: dall’apertura ricca di fiati della title-track che tra organo e chitarrine ritmiche ficcanti permette al bravo Jesse di mettere in evidenza la sua voce vellutata e senza tempo, una partenza blue-eyed soul, magari non è un testifier alla Redding o alla Pickett, ma si capisce subito che è uno bravo, come conferma il ritmo alla Marvin Gaye primo periodo della funky No matter where I Am propulsa da un basso molto marcato o le belle melodie della dolce Fussin’ and Fightin’ dove aleggia lo spettro di Sam Cooke, ma anche il miglior Robert Cray in salsa soul potrebbe essere un riferimento. I Won’t forget about you ha quella andatura alla Temptations di The Way You Do The Things I Do, divertente e spensierata, sempre con i fiati in libertà. Ottima anche Tell Me (Before It’s Too late) già nel suo repertorio live da qualche anno, con retrogusto gospel e qualche prova di falsetto sempre gradita.

E che dire del coinvolgente duetto con Rachael Price (una bravissima giovane cantante dell’area di Boston, ma nativa del Tennessee, solista nei Lake Street Dive,  gruppo che vi consiglio), ha la spensieratezza dei duetti dell’epoca d’oro del soul e tutti e due i cantanti hanno quel quid inspiegabile nella voce che distingue i cavalli di razza dai ronzini. Anche in The Only Remedy sfoggia un falsetto in alternativa alla sua voce naturale arricchita da quel tocco di raucedine che fa soul dal primo ascolto, mentre la dolce ballata What’s A Boy Like Me To Do? ci riporta al Cooke più mellifluo e anche melismatico e vi assicuro che è un bel sentire, potrebbe ricordare anche i brani più melò della scomparsa Amy Winehouse. Sweet Tooth con la sua energia sixties potrebbe far parte del repertorio più scatenato del suo omologo James Hunter. Boundary Line è un sontuoso gospel soul alla Al Green, passione e grinta convogliati in una voce in grado di emozionare. E per finire una Stay Strong di nuovo sbarazzina come i singoli più spensierati di quel Sam Cooke che è un po’ il punto di riferimento irrinunciabile della musica di Jesse Dee, bianco fuori ma nero dentro. E la ricerca continua.

Bruno Conti

Notizie Dal Pianeta “Red Dirt”. Brandon Jenkins – Through The Fire

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Brandon Jenkins – Through The Fire – Smith Entertainment CD

Brandon Jenkins, nativo dell’Oklahoma ma ormai texano d’adozione, è come ormai saprete uno dei maggiori esponenti del cosiddetto movimento Red Dirt, e con i suoi album precedenti (una decina) si è ritagliato insieme ai suoi colleghi appartenenti allo stesso filone un certo status di musicista di culto. Il suo capolavoro, nonché la sua opera più ambiziosa, rimane Brothers Of The Dirt del 2009, che come suggeriva il titolo ospitava la crema dei musicisti di questo particolare movimento (quindi Jason Boland, Cody Canada, Mike McClure, Randy Rogers e Stoney LaRue), un disco molto bello ed ispirato, e non solo grazie agli ospiti.

Il suo nuovo lavoro, Through The Fire, segue ad un anno e mezzo di distanza l’ottimo Under The Sun, e ci conferma il buon stato di forma di Brandon. Chi lo conosce sa già cosa aspettarsi: un country-rock ruvido e poco incline ai compromessi, con massicce dosi di blues, un po’ di atmosfere southern ed un suono diretto, potente, decisamente texano. Through The Fire non ha superospiti (solo Kim Deschamps dei Blue Rodeo in un brano), né forse l’ispirazione di Brothers Of The Dirt (che rimane il punto più alto della sua discografia, un disco che qualunque appassionato di vera musica dovrebbe possedere), ma l’onestà di Jenkins non si discute, oltre alla passione che mette in ogni nota delle sue canzoni.In quest’ultimo lavoro Brandon smorza un po’ i toni, il rock è meno presente, in favore di brani dal tono più raccolto, ma sempre con una certa tensione e diversi elementi blues: un paragone calzante potrebbe essere Ray Wylie Hubbard, altro texano doc che non è mai andato oltre il culto. La title track, che apre l’album, è un uptempo alla Neil Young (con tanto di armonica younghiana), voce già perfettamente in parte ed atmosfera evocativa.

Una bella canzone per un ottimo inizio. Burn Down The Roadhouse ha una partenza un po’ sghemba, ma si raddrizza quasi subito, assumendo toni bluesati e sporchi (qui la somiglianza con lo stile di Hubbard è chiara), con un breve ma intenso assolo chitarristico verso la fine; Horsemen Are Coming, dura ed elettrica, fa uscire l’anima rock del nostro, un brano diretto e senza fronzoli. In deciso contrasto Oh What Times We Live In, soffusa e quasi raffinata (non esattamente un termine che può venire in mente guardando l’aspetto fisico di Brandon…), contraddistinta da un songwriting di qualità, mentre Going Down To New Orleans è un delizioso pastiche acustico con una suggestiva fisarmonica alle spalle. Tattoo Tears è fluida e vibrante, dalla struttura molto classica, In Time, per pianoforte, violoncello e leggera orchestrazione, è un brano atipico ma decisamente suggestivo, mentre la crepuscolare Dance With The Devil, abbellita dalla steel di Deschamps, rimanda allo stile di Ryan Adams. Leave The Lights On è roccata, ma un po’ tignosa e ripetitiva, meglio Ridgemont Street, uno strumentale chitarristico vibrante, con il blues che fa capolino ed i musicisti che suonano sciolti come nella più classica delle jam sessions. Daddy Say, una cavalcata elettrica dal deciso sapore texano, e l’intensa Mountain Top chiudono il disco in netto crescendo.Un buon dischetto, forse non il suo migliore, ma insomma avercene di musica di questo tipo!

Marco Verdi

Tutti Sulla Macchina Del Tempo! Otis Grand – Blues ’65

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Otis Grand – Blues ’65 – Maingate Records

Il titolo è di per sé già abbastanza esplicativo, se aggiungiamo il sottotitolo …For Listening Swingin’ & Dancing, e il motto riportato nel libretto del CD “Good Blues Feel Good”, la filosofia che sta alle radici di questo album è piuttosto chiara: musica, anche scritta oggi, ma con lo spirito di quegli anni, dal 1965 a ritroso, quindi niente rock-blues, che non era stato ancora inventato ma blues puro, meglio se nella migliore tradizione dei dischi che B.B. King incideva in quel periodo per la ABC-Paramount, rockabilly e rock’n’roll, country&western mascherato (ci sono un paio di brani firmati da Charlie Rich), ma anche pura musica da ballo, Rumba Conga Twist è uno strumentale firmato da Grand ma avrebbe potuto essere uno dei successi che eruttavano dai jukebox  in quel fatidico anno. Come molti sanno (in caso contrario ve lo sto dicendo) Otis Grand, come lascia intuire la carnagione, è un bluesman di scuola americana, ma nato a Beirut in Libano e residente a Croydon in Inghilterra, chitarrista sopraffino della vecchia scuola (accentuata in questo disco dall’utilizzo della Gibson Es-335 per evidenziare ulteriormente questo viaggio nel tempo, già peraltro effettuato nel suo precedente album, Hipster Blues, che celebrava la musica Mod & R&B sempre degli anni ’60).

Anni che evidentemente sono quelli della sua formazione musicale (è nato nel 1950, quindi non è più uno sbarbatello), quando il pop, il rock, il soul, il R&B, il country, il R&R e perfino il Blues convivevano nelle classifiche senza problemi, e c’è una bella paginetta nel libretto del CD che ci racconta cosa succedeva nel 1965. Per fare tutto ciò Otis si è recato in quel di Limoges in Francia, con qualche capatina nel Vermont, a conferma dello spirito internazionale del progetto, e con l’aiuto di un cospicuo manipolo di musicisti di nome (ma non di grande fama se non per gli appassionati) ha realizzato questo divertente dischetto: per citarne alcuni, il cantante ed armonicista è lo spesso sottovalutato Sugar Ray Norcia, vocalist dalla voce vellutata (sentite l’eccellente lavoro che fa nel brano d’apertura, la scatenata Pretend, che era cantata in origine da Nat King Cole e dove i fiati, oltre alla voce, sono i grandi protagonisti), al basso e contrabbasso Michael “Mudcat” Ward, Greg Piccolo con il suo sax tenore guida la numerosa pattuglia della sezione fiati, ossia Carl Querfurth, John Peter LoBello, Paul Malfi, Doug “Mr Low” James (già i nomi ti ispirano), Anthony Geraci al piano e organo e l’ex bambino prodigio Monster Mike Welch solista aggiunto in un paio di brani.

Ogni cosa funziona alla grande, Who Will The Next Fool Be, una delle canzoni scritte da Rich, potrebbe provenire da uno dei dischi di B.B. King di quell’annata, chitarra pimpante, una voce che ti mette allegria (e non rimpiangere quella di Bobby Blue Bland che la cantava ai tempi), piano saltellante e atmosfera vintage, ma che classe ragazzi. Proseguendo nell’ascolto di Live At The Regal (ah non è quello, mi sembrava di non avere sbagliato a infilare il dischetto nel lettore), parte uno strepitoso blues con fiati come Bad News Blues On TV, a firma dello stesso Grand che rilascia anche un assolo strepitoso con la sua Gibson d’annata, che se fossi BB King gli farei una telefonata per complimentarmi, ma purtroppo non lo sono. Già detto della coinvolgente Rumba Conga Twist dove la ficcante solista di Grand è di nuovo protagonista, ma tutto il gruppo si diverte, citerei anche un super slow come Do You Remember (When) addirittura pennellato e la divertente e nuovamente scatenata I Washed My Hands In Muddy Water, un successo appunto del 1965 di Stonewall Jackson ma che tutti ricordano (tutti?) nella versione di Elvis Presley del ’71, questa di Grand è decisamente più swingata e blues con Sugar Ray Norcia che soffia alla grande nella sua armonica.

Midnight Blues, l’altro pezzo di Charlie Rich ha un suo perché come l’eccellente escursione nel New Orleans soul rappresentata da Please Don’t Leave, cantata con passione da Brother Roy Oakley, che era il vecchio cantante della band di Grand, ora ritirato dalle scene ma sempre tosto. In molti brani, anche quelli già citati, sembra di ascoltare la vecchia Butterfield Blues Band che nasceva proprio in quel periodo, il suono di Grand è molto Bloomfield, per esempio in In Your Backyard o in Shag Shuffle dove si scambia “fendenti” con Monster Mike Welch, come facevano appunto Bloomfield e Bishop. Warning Blues è un bel duetto tra Norcia e Grand, un blues intenso e gagliardo, come si conviene e la conclusiva Baby Please (Don’t Tease) è un boogie swingato con i due chitarristi e i fiati ancora sugli scudi. Questo è un “passato” che ci piace, divertente e coinvolgente come usava in quel fatidico 1965!

Bruno Conti    

Qui Si Va Sul Sicuro! Dale Watson And His Lonestars – El Rancho Azul

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Dale Watson & His Lonestars – El Rancho Azul – Red House CD

Se uno come Willie Nelson dice di essere il tuo più grande fan, puoi cominciare a pensare che un tantino bravo tu lo sia. Il soggetto in questione è Dale Watson, texano di Austin (anche se nativo dell’Alabama), un countryman molto noto agli appassionati del vero country, un cult artist per antonomasia, che oltre che dal vecchio Willie ha avuto parole di elogio anche da Hank III (che lo ha definito, forse esagerando un pochino, il salvatore della musica country).

Dale è uno decisamente prolifico: il suo debutto, Cheatin’ Heart Attack, è del 1995, ed in meno di vent’anni ha dato alle stampe (live compresi), più di venti album, quasi tutti di livello tra il discreto, buono, ed in alcuni casi ottimo. Watson è uno che in tutto questo tempo non ha cambiato di una virgola il proprio sound: la sua è una miscela vincente di country, honky-tonk, swing, boogie, rock’n’roll, suonati con grande grinta, ritmo e feeling da Dale con i fidi Lonestars, ed anche questo nuovo lavoro, intitolato El Rancho Azul, rimane fedele alla linea. Chi conosce Dale sa esattamente cosa aspettarsi, è un po’ come George Thorogood per il rock-boogie-blues o Delbert McClinton per il soul-errebi (e, spostandoci in territori più estremi, gli AC/DC per l’hard rock): tutta gente che si è creata un proprio pubblico, lo conosce bene, e sa che un cambio di stile alienerebbe loro buona parte dei fans senza necessariamente portarne di nuovi.

Registrato agli studi Pedernales di proprietà proprio di Willie Nelson, El Rancho Azul è quindi un perfetto concentrato dell’arte di Dale Watson, e certamente si può affiancare ai suoi dischi più riusciti. Quattordici brani, quaranta minuti di country ad alto tasso ritmico: Dale ama particolarmente le drinkin’ songs, ed anche in questo album circa la metà dei brani parla di bevute, da solo o in compagnia.

Si va dalla swingata (e ritmata) I Lie When I Drink, che apre l’album con il piede giusto, al country-rock per camionisti Where Do You Want It (un piacere per le orecchie), al boogie I Drink To Remember, al tipico honky-tonk elettrico Cowboy Boots, un brano di quelli che Dale canta anche sotto la doccia. Citerei anche la velocissima We’re Gonna Get Married, irresistibile miscela di bluegrass e rock’n’roll, la languida cowboy ballad (anche Dale si deve riposare ogni tanto) Daughter’s Wedding Song, i due godibilissimi honky-tonk dal titolo quasi uguale Quick Quick Slow Slow e Slow Quick Quick, messi uno di seguito all’altro, il ritmatissimo rockabilly Give Me More Kisses (provate a tenere fermo il piede o la testa se vi riesce).

Per non stare a nominarle tutte (ma lo meriterebbero), mi limito ancora a I Can’t Be Satisfied, un rockin’ country decisamente gustoso, la classica che più classica non si può I Hate To Drink Alone e la conclusiva Thanks To Tequila, puro Texas country. Sarà anche musica just for fun, farà anche dischi tutti uguali tra loro, ma a me Dale Watson piace.

Marco Verdi

Buon Sangue Non Mente! Holly Williams – The Highway

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Holly Williams – The Highway – Georgiana Records

Holly Williams, come già saprete, è la figlia di Hank Williams Jr., sorella di Hank III, e quindi nipote del monumentale Hank Williams (anche se il nonno lo ha conosciuto solo dai dischi), cioè di colui che per la musica country è l’equivalente di Robert Johnson per il blues e di Woody Guthrie per il folk. Appartenere alla più grande famiglia della storia della musica (insieme a quella composta dai Carter ed i Cash) è un grande onore, ma anche (come direbbe un ex candidato premier del centrosinistra) un onere, ma Holly non ha paura dei paragoni e dimostra di valere.

Che fosse brava lo aveva già fatto intravedere con i suoi due lavori precedenti (The Ones We Never Knew e Here With Me), ma sinceramente non pensavo che fosse così brava: The Highway è un disco splendido, una collezione di ballate una più bella dell’altra, suonate in punta di dita da un manipolo di fuoriclasse (tra cui uno dei vari chitarristi utilizzati in carriera da John Hiatt, cioè Doug Lancio, poi Glenn Worf, Dan Dugmore e Charlie Peacock, che è anche il produttore del disco) e cantato con grande passione e pathos da Holly, che oltre ad essere una valida songwriter ha anche una voce notevole. The Highway è quindi un disco da assaporare nota dopo nota: Holly non è una ribelle come il fratello, non è geniale come il nonno (ci mancherebbe…) ma musicalmente è superiore al padre, non è propriamente country (anche se il country fa senz’altro parte del suo background), ma ha uno stile folk-cantautorale tipico di colleghe quali Mary Chapin Carpenter, Rosanne Cash, Nanci Griffith o l’ultima Emmylou Harris. 

Undici brani intensi e profondi, suonati alla grande e prodotti benissimo: come ciliegina, abbiamo anche alcuni ospiti molto noti, tutti alle armonie vocali, che vi citerò man mano che andrò avanti con la disamina del disco. Apre il disco Drinkin’, un delizioso folk tune che inizia acustico, con gli strumenti che entrano a poco a poco con discrezione e Holly che intona una squisita melodia, semplice ma di grande impatto emotivo. Sarà anche per la presenza di Lancio, ma a me ricorda lo Hiatt più songwriter che rocker.; Gone Away From Me vede Jackson Browne alle harmony, un altro brano delicato ma dal grande pathos, specie nel refrain quando entra la voce di Jackson: la giovane Williams è in grado di emozionare con poco, e non è da tutti. Railroads è più mossa ed elettrica e ha un motivo decisamente coinvolgente, di quelli che piacciono al primo ascolto: grande classe e splendido brano.

Happy è ancora lenta, ma con un feeling da brividi lungo la schiena (l’uso del violoncello fa la differenza), The Highway, che parte con il solito passo tenue, ha una melodia ben costruita e non banale, strumentazione classica, con grande uso di pianoforte (Peacock) e steel guitar (Dugmore): un brano che cresce nota dopo nota. Without You, ancora pianistica, vede Holly duettare con Jakob Dylan: solito motivo impeccabile e gran crescendo finale; Let You Go, per pochi e dosati strumenti, sembra quasi un traditional folk, con i cromosomi del nonno ben radicati, mentre Giving Up è l’ennesima ballata lenta, cantata da Holly con il cuore in mano.

Raramente un disco composto quasi esclusivamente da pezzi lenti riesce a tener desta l’attenzione dall’inizio alla fine, di solito (anche nei bei dischi) qualche sbadiglio scappa sempre, ma qui no. Bellissime anche A Good Man, sempre lenta ma dalla struttura sublime, ‘Til It Runs Dry, con Dierks Bentley alla doppia voce, cha ha qualche elemento rock, e la conclusiva Waiting On June (cantata con…Gwyneth Paltrow!), commiato in tono intimo, due chitarre e steel in sottofondo.Gran bel disco, ancora di più di quanto uno potrebbe immaginare. Come ho scritto nel titolo: buon sangue non mente.

Marco Verdi

Un Gregario Alla Ribalta. Sax Gordon – Showtime!

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Oggi doppia razione, nel Blog ne trovate anche una scritta da Marco, ma per iniziare…

Sax Gordon – Showtime! – Continental Record Services

Certo che quando ti rivolgi ai siti degli artisti per trovare delle informazioni sui loro dischi, il più delle volte sei andato nel posto al mondo dove sono meno aggiornati. Spesso e volentieri l’ultima uscita non è ancora segnalata (come nel caso di questo Showtime di Sax Gordon, ma c’è sul suo Facebook)e le notizie e le recensioni sono spesso fuorvianti e antiche, nonché prive di qualsiasi data. Per esempio l’attestato di stima della rivista Blues Revue che appare sul sito lo possiamo sottoscrivere in toto, o quasi “ One of the best and most vibrant young sax players in the business”! Direi perfetto, ma quando è stato detto? Il nostro amico, Gordon Beadle all’anagrafe e nelle note di innumerevoli dischi di blues, soul, R&B, jazz, ai quali ha partecipato, risulta nato nel 1965 e quindi oggi ha circa 48 anni, un giovane?!? Forse quando muoveva i primi passi nei dischi di Johnny Heartsman nel 1989 o suonava in alcuni dischi di Champion Jack Dupree di inizio anni ’90. Ma al di là dell’età, Sax Gordon si è costruito una notevole reputazione suonando nel corso degli anni con Duke Robillard e dal vivo con i Roomful Of Blues, in coppia con Doug James e nei dischi di Otis Grand, con la Michelle Willson (un paio di dischi molti belli negli anni ’90, recensiti da chi scrive) e con Pinetop Perkins, anche nella sezione fiati della formazione dei Blues Brothers con Matt “Guitar” Murphy, persino con Bryan Lee e Kim Wilson e in decine di altri dischi.

Ne ha fatti anche tre a nome proprio, l’ultimo Live At The Sax Blast nel 2004 e un paio precedenti per la Bullseye. Nativo di Detroit, ha suonato per molti anni nella Bay Area ma da un po’ fa parte della scena musicale di Boston e continua ad alternare il suo ruolo di sessionman, in anni recenti nuovamente con Duke Robillard, di cui è un habitué e Kenny Wayne, con il suo lavoro di solista, ossia questo nuovo Showtime. E per la serie nomen omen non occorre neppure dire quale strumento suona, possiamo solo aggiungere che è quello tenore e si diletta anche nel canto e come autore. Si è scelto anche degli ottimi chitarristi per questo CD, Jr. Watson, Matt Stubbs e il già citato Matt “Guitar”Murphy, oltre ad una sezione ritmica molto precisa e pimpante e, in alcuni brani, anche una sezione fiati numerosa, tre o quattro oltre a lui. Ovviamente in questo tipo di dischi ci “si diverte”, dalla ritmata title-track strumentale che ci porta subito in un vortice da R&B/blues-soul revue con fiati e chitarra che si scambiano assolo con abbandono impeccabile alla cover di Coldest Cat In Town di Sonny Knight, uno dei primi cantanti di rhythm and blues degli anni ’50, cantata con nonchalance anche se non in modo memorabile: tradotto, non ha una gran voce ma molto mestiere. Get Into It ci scaraventa nel sound dei Blues Brothers o dei loro antesignani, Sam & Dave, Otis Redding e la Stax tutta, con fiati all’unisono e spazio per il sax solista di Gordon e il basso di Jesse Williams che pompa, pompa, pompa!

The Way It Is è uno slow blues, nuovamente strumentale, che permette di gustare la bravura di Beadle prima e di Matt Guitar Murphy poi, mentre Big And Hot è un brano di Ed Scheer dei Love Dogs che avrebbe fatto un figurone cantato da Willy Deville ma è più che piacevole anche in questa versione. Per I Got It si riaprono le piste da ballo, honkin’ rock’n’roll molto divertente, non male anche il ballatone mid-tempo romantico Be Careful What You Wish For con Sax Gordon che gigioneggia da consumato performer qual è. La lunga Don’t mess with me torna in territori errebì divertenti e scanzonati con i fiati in grande spolvero mentre That Girl è uno strumentale grintoso e scandito, quasi rock. La conclusione è affidata a una versione dalle atmosfere notturne di Nobody’s Fault But Mine, jazzata e in formazione a quartetto con il sax e la chitarra di Guitar Murphy in evidenza.

Bruno Conti

Le “Nuove” Confessioni Di Un Grande Cantautore. Jeff Black – B-Sides & Confessions Volume Two

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Jeff Black – B-Sides And Confessions Vol.Two – Lotos Nile Music 2013

Il mestiere dell’autore non è certo facile. Scrivere testi, essere al passo coi tempi, fare musica, creare melodie, unire il tutto in qualcosa che abbia un suono, una sua personalità, non è cosa da tutti. Ma ci sono autori che amano il proprio lavoro, che trasmettono sensazioni e sentimenti nella propria musica, che vivono e suonano stando completamente al di fuori da quello che il mercato discografico richiede. Uno di questi è senza ombra di dubbio Jeff Black (se volete approfondire, ne avevo già parlato per la recensione di Plow Throught The Mystic (2011 un-cantautore-dai-molti-fans-e-molti-sono-nel-disco-jeff-bla.html), che esce quasi a sorpresa con il secondo capitolo della serie B-Sides and Confessions Vol. Two, che viene autodistibuito tramite il suo sito, quindi non è di facile reperibilità (purtroppo). Il primo B-Sides and Confessions (2003) essendo uscito per la Dualtone Records lo si trova ancora (con un po’ di fortuna), ed era un disco splendido, una collezione unica di brani, grandi canzoni introspettive e sofferte, scandite dalla sua voce e dal suono spettacolare del pianoforte.

In questo lavoro B-Sides and Confessions Vol. Two, prodotto dai coniugi Black (Jeff e Kissy), vengono reclutati illustri ospiti quali Sam Bush al mandolino e violino, Jerry Douglas alla lap steel, Scot Evans al basso, Kenny Wright alla batteria, le bravissime cantautrici Matraca Berg e Gretchen Peters per le armonie vocali, mentre il buon Jeff (polistrumentista) lo troviamo oltre che al suo amato piano, alle tastiere, chitarra, armonica e banjo, il tutto è stato registrato agli Arcana Studios di Nashville, con una giusta alternanza di brani acustici ed elettrici.

Le “confessioni” iniziano con un blues acustico, All Right Now, cui fa seguito una dolce Molly Rose ricamata dal mandolino di Sam Bush, mentre Avalon è splendida, un brano lento, basato più che altro sulle chitarre e sulle voci melodiose di Matraca e Gretchen. Si riparte con i toni lamentosi di Impala, con il pianoforte ad assecondare la voce di Jeff, seguita da Alice Carry , brano che rimane sempre in un ambito acustico, mentre Days On End (forse il brano migliore del disco) è una ballata sontuosa, dove il piano parte in sottofondo, ma poi diventa quasi protagonista e la melodia cresce, e Miss Me è uno dei momenti più tranquilli dell’album, dove anima e cuore vanno a braccetto, e la voce alla Tom Waits dell’autore e il violino in sottofondo, fanno sognare. Il country si affaccia in An Evil Lesson Is Soon Learned, un brano campestre, dove Sam Bush, Jerry Douglas e il resto del gruppo sembrano divertirsi a suonare, mentre Good Old Days è una canzone di saggezza, che si ascolta con piacere, mentre True Love Never Let Me Down inizia con il solo piano in sottofondo, ma poi entra la ritmica e il brano cresce. Le “confessioni” finiscono con le intense, profonde e malinconiche  Remain e Sunday Falling, che fanno da cornice allo splendido uso del piano (che è un po’ la costante in tutto il disco), dove la voce diventa protagonista e dialoga con la melodia.

Jeff Black (per chi scrive) è uno dei grandi cantautori americani in attività, pianista, cantante e autore di vaglia, che non ha mai sfondato (o non ha mai voluto?), ma conferma tutto il suo valore in questo B-Sides and Confessions Vol. Two, costruito su canzoni profonde (sono tutte di suo pugno, come pure l’arrangiamento e la produzione), dotate di un’anima in cui passione, cuore e melodia sono tutt’uno e dispensano grande musica. Alla prossima, caro Jeff, che Dio ti abbia in gloria.

Tino Montanari  

Da Toronto Con Amore. Concert For St. Stephens

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Various Artists – Concert For St. Stephens – True North

Ci sono molti modi di raccogliere fondi per opere meritorie e cause degne di nota, uno dei più comuni (ma non per questo banale, anzi) è sicuramente quello di organizzare un evento, meglio se un concerto dal vivo, se poi si riuscisse anche a pubblicare il tutto su disco (o su DVD) sarebbe l’ideale. Questo è un caso di “operazione” in due tempi, anche piuttosto distanti nel tempo tra loro. Quando nell’estate del 2005, il curato (il parroco, come vogliamo chiamarlo) della chiesa di St. Stephens in The Fields, situata a Kensington Market, in quel di Toronto di Canada, si accorse che  la parrocchia stava per attraversare la più grave crisi finanziaria dai tempi della sua fondazione avvenuta 147 anni fa e quindi di non poter essere più in grado di fornire i servizi di assistenza, tipo pasti caldi ai poveri, aiuto ai malati di Aids, a chi subisce atti di violenza, a chi ha problemi di disoccupazione e tutte le cose meritorie che queste associazioni e istituzioni religiose sono solite fare, decise di rivolgersi ai suoi parrocchiani e agli abitanti del quartiere per raccogliere fondi per aiutare la chiesa a sopravvivere. Uno degli ex parrocchiani più famosi, quando viveva in quel quartiere di Toronto, era sicuramente Bruce Cockburn, ma nell’evento vennero coinvolti anche molti altri musicisti famosi e non, per un concerto che si tenne il 18 settembre del 2005, assolvendo egregiamente a quanto si erano prefissi. Ora, a sette anni di distanza, la meritoria etichetta canadese True North pubblica questo CD che è un sunto di quanto avvenuto in quella serata.

Diciamo che di solito questi dischetti si comprano per varie ragioni: per aiutare la causa che propugnano (e questa è sicuramente degna di rispetto, ma a qualche migliaio di chilometri da noi, e probabilmente ce ne sono di altrettanto meritorie a due passi da casa di nostra), per la straordinaria qualità musicale dell’evento, perché sono coinvolti alcuni dei nostri beniamini. Direi che in questo caso siamo nella terza categoria. Facciamo un resoconto del contenuto del CD per vedere se può essere interessante. La prima cosa che balza all’occhio (meglio all’orecchio) è che ci sono anche delle sezioni parlate del concerto: si parte con l’introduzione di Sook-Yn–Lee che nonostante il nome esotico non è una musicista di world music ma un’abitante del quartiere che illustra gli scopi della serata. La prima musicista a salire sul palco è Molly Johnson, una eccellente cantante jazz di colore che solo con il supporto di un piano elettrico regala una bella versione di God Bless The Child di Billie Holiday. Una delle sorprese della serata è una delle rare apparizioni dal vivo della grande Jane Siberry, poco prima di quella sbandata mistica che la porterà a trasformarsi in Issa (ma ora è “tornata”): la Siberry, con Mary Margaret O’Hara il più grande talento espresso dal Canada dopo Joni Mitchell, parere personale di chi scrive, esegue quattro brani, due sono le sue tipiche poesie mistiche, ma Walk On Water e Anytime, solo voce e chitarra acustica, molto mitchelliane, valgono il prezzo di ingresso, una voce straordinaria.

Non so nulla di Daniel & Valentin Saavedra che eseguono in lingua spagnola Generacions. Theatre Gargantua è una delle più grandi compagnie teatrali di Toronto, una istituzione in Canada, ma confesso la mia ignoranza, non conoscevo, comunque eseguono un medley vocale dai loro spettacoli. Kurt Swinghammer invece mi dice, cantautore, musicista e produttore, ha suonato con Ani DiFranco, Great Big Sea e ha prodotto le prime registrazioni di Ron Sexsmith, canta due brani, uno con Lori Cullen The Rose Of Montrose e l’altro Kensington Market, dedicato al quartiere che li ospita, bravo folk singer e chitarrista. Lori Anna Reid è una incredibile vocalist che abitualmente fa dischi per sola voce e in effetti I Come To Garden appartiene alla categoria, ma poi con Russ Wilson, canta anche nei tre brani proposti da Daniel Lanois, Thank You, The maker e The Messenger, il tutto accompagnato dalla steel e dall’acustica del grande musicista canadese. Per il gran finale tre ottimi brani del beniamino del pubblico e tra i migliori musicisti canadesi di sempre, Bruce Cockburn, Going To The Country, King Kong Goes To Tallahassee e Tried And Tested, fantastiche anche nella loro veste prettamente acustica. Se vi piace la musica canadese tre Cockburn, tre Lanois e due Siberry e anche i due di Swinghammer e Molly Johnson, potrebbero anche bastare, senza considerare i meriti extra musicali del concerto, a voi l’ardua scelta.

Bruno Conti       

Un “Oscuro” Storyteller Americano Da Scoprire! Mark Lucas – Uncle Bones

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Mark Lucas – Uncle Bones – Skillet Dog Records

Nativo del Kentucky (da non confondere con l’omonimo australiano), tra Sud e Midwest, confinante con Missouri e Tennessee, uno non penserebbe che la musica di questo signore, dall’età indefinita ma apparentemente sulla quarantina, possa essere influenzata dalla musica degli Appalachi, dalle string bands e da bluegrass e country, oltre ad un pizzico di blues, anche se Nashville è a due passi, ma questo è quello che si ricava dall’ascolto di Uncle Bones, secondo capitolo (dopo Dust) della saga musicale di uno “storyteller” che risponde al nome di Mark Lucas. Non sono tra coloro che vorrebbero tenere stretti per sé nomi nuovi che, di volta in volta, si affacciano sulla scena americana, anzi più si sparge la buona novella meglio è, se ne vale la pena naturalmente, senza tanti diritti di primogenitura o jus primae noctis, tipo questo l’ho scoperto io prima di te! E nel caso di Lucas vale la pena.

Paragonato a Ray Wylie Hubbard o a Malcolm Holcombe per il tipo di voce vissuta, ma forse più vicino a Guy Clark o al primo Lyle Lovett (con cui condivide un suonatore di dobro e pedal steel sopraffino come Tom “Bleu” Mortensen), Mark Lucas sembra uno di quei tipici “raccontatori di storie” che ogni tanto appaiono come dal nulla nel panorama musicale americano. E oltre allo stile musicale, in questo Uncle Bones, sono molto importanti i testi (che purtroppo non sono inclusi nella confezione del CD ma si trovano integralmente sul suo sito brothermarkmusic.com): anzi direi fondamentali. Dall’iniziale Uncle Bones una sorta di storia di Orfeo ed Euridice rivisitata nella campagna americana, con “Dicey” che muore per il morso di un serpente e viene cercata fino agli inferi dal suo “Orphie”, disposto a suonare laggiù con il suo violino per Uncle Bones in cambio del ritorno della sua amata, ma anche lui commette l’errore di guardarsi indietro e lì suonerà il suo fiddle per l’eternità (in questo caso la bravissima Jeneé Fleenor si limita a fare guizzare il suo violino per i 3:36 della canzone, ben coadiuvata dal dobro di Mortensen, che ha suonato anche con Mickey Newbury, un altro che di belle canzoni se ne intendeva), il banjo di Wanda Vick e la chitarra dello stesso Lucas aggiungono spessore “rurale” a questa bella favola.

La delicata e deliziosa Take Me Back, Water, cantata con dolcezza e partecipazione genuina dal bravo Mark, racconta la storia della ragazza che “piangeva perle”, su un tappeto di violino e dobro si dipana questa piccola delizia sonora. Dragon Reel con delle piccole percussioni aggiunte e il solito violino indiavolato della Fleenor (che abitualmente suona con Martina McBride) è un’altra storia peculiare a tempo di giga country-irish, quella di un assassino che “parlava” per enigmi, mentre Every Day I Have The Greens potrebbe essere uno di quei brani acustici ed ironici che ci deliziavano nei primi dischi di Lyle Lovett (ma anche Guy Clark, potrebbe essere un riferimento) e anche la voce è impostata in modo simile. Altro giro, altro racconto, Carrying Fire narra di un padre che porta le braci di un fuoco fino alla “fine del mondo”, questa volta sono il mandolino della Vick e il solito violino della Fleenor, unite al dobro di Mortensen, ad accompagnarci in questo viaggio epico, con il ritmo sottolineato dal contrabbasso di Matt McKenzie. Grits And Redeye Gravy con il basso elettrico di Lucas a segnare il tempo, se esiste questo formato musicale, è una sorta di boogie-bluegrass-country.

Hezekiah è il classico valzerone country, sempre uguale ma sempre diverso, se ben suonato, e come al solito violino, dobro e chitarra acustica dominano. Improvvisamente in Big Bad Love le sonorità diventano più elettriche, basso, una batteria sintetica, chitarre elettriche e un suono bluesato che ci porta dalle parti di Hubbard e Holcombe, un’altra faccia della musica di Lucas che introduce anche il suono di quella che potrebbe una chitarra con il wah-wah ma probabilmente è il violino elettrificato della Fleenor, proprio brava la ragazza. Per sottrazione, nella successiva The Price, l’ottimo Mark si presenta in solitaria solo voce e acustica, per un brano che potrebbe essere anche dello Springsteen più intimista, tanto è bella. Pick Up è un altro blues elettrico mid-tempo caratterizzato dalle svisate della pedal steel di Blue Mortensen e con un’altra storia surreale inventata dalla mente geniale di Lucas, una vedova che manda un messaggio al cellulare nella bara del marito infedele! Trouble è un country-blues,ancora con il violino che guida le danze, anche se in tono minore rispetto ad altri episodi del disco. Per dirla in due parole, anzi tre: uno bravo, consigliato!

Bruno Conti    

Pianoforte E Vecchi Falsetti. Seth Glier – Things I Should Let You Know

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Seth Glier – Things I Should Let You Know – Mpress Records

Come sempre, in un disco, uno ci può leggere o sentire quello che vuole, i gusti ed i punti di vista sono molteplici. Per Seth Glier, in America, non dico si siano sprecati fiumi di inchiostro ma se ne  è parlato diffusamente. Paragonato, di volta in volta, a Springsteen (?!?) e Billy Joel da Usa Today, per il suo squisito timbro tenorile (ma l’hanno sentito?), altri l’hanno accostato al nuovo filone di Decemberists, Lumineers e perfino Civil Wars, e ancora Lyle Lovett e Randy Newman, fino ad arrivare a Elton John, qualcuno, più onestamente, ha avanzato paragoni con tale Paul McDonald, finalista di American Idol. E’ stato ricordato, correttamente (ma dalla sua etichetta), che lo scorso anno era candidato ai Grammy con il precedente album The Next Right Thing, sì ma come “Best Engineered Album, Non Classical”, non proprio per i contenuti. Quindi, parafrasando il titolo dell’album Things I Should Let You Know, anch’io vorrei farvi sapere alcune cose.

Primo, il tipo di voce: al sottoscritto ricorda moltissimo quella di James Blunt o Brett Dennen, sorta di gemelli separati alla nascita, in differenti anni e continenti, ma molto vicini come timbrica, di testa, quasi femminea ma con una piacevole raucedine vagamente alla Forbert (prendiamo anche i lati positivi) e una tendenza al falsetto quando serve, però con un suo vigore e capacità di passare dal rock alla ballata: Tra i pregi anche una buona capacità di scrittura, testi interessanti, una produzione molto curata, da major e qualche canzone sopra la media, oltre alla sua innegabile bravura al pianoforte, ma se la cava anche all’acustica. Tra i difetti una tendenza a lasciarsi andare in brani un poco risaputi e commerciali (e lì nulla di male, non tutti hanno una “missione” nella musica).

Prendete per esempio la title-track iniziale, affogata in un mare di tastiere anche elettroniche (harmonium e synth, una strana accoppiata) forse un tantinello epica e pomposa, con le sue cascate di voci sovrincise e nessuna direzione musicale precisa o la successiva Man I Used To Be, pianistica e ritmata, molto radiofonica e piacevole, ma poco sostanziosa e vicina a quei Blunt e Dennen citati prima, più che ai migliori John e Joel. Con New World I See si comincia a ragionare, i paragoni con Newman e Lovett hanno un senso, un groove dalle parti dalla Louisiana, un bel pianoforte, dei fiati che aggiungono un feel quasi jazzy, non da crooner ma da “bravo cantante” (che è una variazione del “bravo presentatore dei tempi di Frassica). Plastic Soldiers è una riflessione sui danni delle guerre, dal ragazzino che gioca con i soldatini al giovane spedito a Kabul, solo voce, due chitarre acustiche e un duduk (un flautino armeno) per un brano che illustra i suoi collegamenti con certa scena cantautorale americana acustica, ad esempio Ellis Paul che firma il brano con lui o Livingston Taylor che è un altro degli autori coinvolti in questo disco. E qui una certa affinità elettiva con Steve Forbert la sento. Ma The Stars & The Glitter è un altro di quei brani strani, forse adatti per dei singalongs dal vivo ma abbastanza incompiuta, più un intermezzo di un brano che una canzone compiuta, ritmo di marcia, harmonium e voce di gola ed è già finita. Non male Down The Wire con piano e tastiere in evidenza e qui ci siamo, qualcuno ha detto Billy Joel, esatto! Ma quello rocker, buono; breve interludio strumentale e siamo a Good Man, finalmente una bella ballata, con chitarra acustica, piano verticale, pedal steel d’ordinanza, cello e violino per colorare il suono, una intensità non fasulla e pomposa.

Avery è un altro di quei brani pop leggerini che gli vengono facili facili, per la gioia della sua casa discografica e delle fans di Blunt (che scrive anche lui dei brani non male, ogni tanto). Too Hard To Hold The Moon, nuovamente una bella ballata, questa volta pianistica, con crescendo finale alla Elton John, così completiamo le citazioni. Poppies On The Table è l’altro brano firmato con Ellis Paul, anche questa pianistica ma più mossa, con echi di entrambi i J più volte ricordati, e conferma che il ragazzo ha talento, magari non è originalissimo, ma chi lo è? Everything Beautiful è il brano scritto con il rappresentante della famiglia Taylor, quello meno conosciuto, Livingston, che è una buona penna, solo piano, voce e un tocco suggestivo di trombone e fiati nella seconda parte, a conferma che una certa classe c’è. I Am Only As Loved As I Am Open sempre con quell’harmonium che usa spesso non mi convince di nuovo, più che malinconica o evocativa è solo un po’ moscia. Più pregi che difetti comunque e un nuovo nome da tenere d’occhio e a portata di orecchio.

Bruno Conti