Con Un “Leggerissimo” Anticipo! Waterboys – Fisherman’s Blues Box

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Questa mattina stavo spulciando appunti e notizie per preparare i soliti Post periodici che dedico alle “uscite prossime future” (diciamo periodo aprile-giugno) e mi sono imbattuto in questa notizia sulla pubblicazione del Box da 7 CD (!!!), dedicato alle sessions di registrazione dell’album Fisherman’s Blues dei Waterboys. Il cofanetto si chiamerà “Fisherman’s Box” e conterrà 121 brani (!), tutti quelli dell’album originale e le canzoni contenute nelle varie edizioni del CD che si sono succedute nel corso degli anni, oltre a 85 tracce inedite (!!! Sto esaurendo i punti esclamativi), mai pubblicate prima. Il tutto scelto e annotato da Mike Scott, con una presentazione nel libretto della confezione curata da Colin Meloy dei Decemberists, grande fan del gruppo. L’uscita, su EMI Records (che nel frattempo sarà definitivamente acquisita dalla Universal) è prevista per il 14 ottobre: quindi siamo “in leggero anticipo”, ma nei prossimi mesi vi terrò aggiornato sugli sviluppi successivi, tipo liste dei brani, copertina, formato e quant’altro.

In questi giorni, il 17 marzo, Mike Scott e Steve Wickham hanno partecipato anche al SXSW di Austin (waterboys-mad-mist-snow-sxsw-163212571.html),  per presentare l’ultimo album, An Appointment With Mr. Yeats che esce negli Stati Uniti il 26 marzo e per il tour americano ci sarà una nuova band, con questi musicisti aggiunti: Elizabeth Ziman (vocals, from the band Elizabeth And The Catapult, molto brava lei e il suo gruppo di origine, citati in passato nel Blog), Jay Barclay (guitar), Daniel Mintseris (keyboards, a member of St Vincent), Malcolm Gold (bass), Ezra Oklan (drums) and Chris Layer (flute). Viceversa, per il tour inglese di fine anno, a dicembre, come vedete dal manifesto qui sopra, tornerà in azione la formazione originale del disco, quindi oltre a Scott e Wickham, Anto Thistlethwaite e Trevor Hutchinson più il nuovo batterista Ralph Salmins, quindi se pensate di fare un giro in Inghilterra e Irlanda a fine anno, fatevi un appunto.

Forse è esagerato, ma fans e simpatizzanti di questo grande gruppo e disco saranno più che contenti.

Ritorno alle mie liste delle anticipazioni, penso in giornata o domani di iniziare gli attentati ai vostri portafogli.

Bruno Conti

Che Spettacolo! E Tanto Peggio Per Chi Non C’era! Love For Levon

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VV.AA. – Love For Levon – Time Life 2CD+2DVD/2CD+2BlueRay/2DVD/2BlueRay/2CD

Il titolo del post non si riferisce di certo alla moltitudine di persone che non ha potuto recarsi il 3 Ottobre dello scorso anno all’Izod Center di East Rutherford, New Jersey per assistere a questa magica serata in onore dello scomparso Levon Helm, ma ai musicisti che “avrebbero dovuto esserci” e per ragioni a me sconosciute non c’erano. Principalmente due: Robbie Robertson, per anni compagno di avventure con Levon all’interno di The Band, ed autore dell’80% del materiale proposto durante questo concerto (ma tra i due da anni correva sangue pessimo, peccato che neppure la morte di Helm abbia potuto medicare le ferite) e Bob Dylan, che iniziò a collaborare con la Band quando ancora si chiamavano The Hawks, e che fu sul palco con loro fino all’ultima scena di The Last Waltz (ma Bob è un maestro a “schivare” gli appuntamenti importanti, penso al concerto per George Harrison di qualche anno fa o, tornando un po’ più indietro nel tempo, a Woodstock, per la serie “Mi si nota di più se ci vado o se non ci vado?”). Ma poi penso anche ad Eric Clapton, che ha sempre sostenuto che Music From Big Pink fosse il disco che gli aveva cambiato la vita ampliando i suoi orizzonti, o a Van Morrison, che partecipò ad un album di The Band anche in qualità di autore (Cahoots l’album, 4% Pantomime la canzone), ed il cui suono nei primi anni settanta era molto simile a quello del gruppo di Robertson.

Ma parliamo di che invece in quella serata c’era…cioè tutti gli altri!!! Scherzi a parte, la lista di artisti che non ha voluto mancare l’ultimo omaggio a Levon (batterista, mandolinista, cantante di The Band, cioè uno dei gruppi più influenti della storia della musica, nonché apprezzato solista) è impressionante, si fa davvero quasi prima a nominare chi non c’era. Innanzitutto ben due house bands: la Levon Helm Band, capitanata dall’eccellente Larry Campbell, vero è proprio maestro di cerimonie della serata, con la figlia di Levon, Amy Helm (leader degli Ollabelle) e Teresa Williams (moglie di Campbell) alle voci, ed una All Stars Band comprendente gente come Don Was, Kenny Aronoff, Greg Leisz, Jim Weider e Rami Jaffee, con interventi qua e là di Steve Jordan, Jaimoe e G.E. Smith, oltre alla partecipazione in una manciata di brani sparsi di Garth Hudson, unico superstite di The Band oltre a Robertson e vero e proprio leader silenzioso del combo canadese.

Basterebbero solo i nomi citati fin qua, ma ancora più impressionante è la lista di special guests che si sono alternati brano dopo brano, tutti a tributare nel modo migliore il loro amore per Levon (il titolo del CD/DVD/BlueRay non è casuale, l’amore qui si percepisce eccome), in un concerto splendido, suonato e cantato in maniera fantastica, una serata di grazia che è anche uno dei migliori tributi di sempre. Un omaggio all’arte di Helm, certo (presenti anche alcuni brani tratti dai suoi ultimi due lavori solisti, Dirt Farmer ed Electric Dirt), ma anche all’epopea di The Band, un gruppo che ha davvero influenzato decine di musicisti (e quindi un tributo anche agli scomparsi Richard Manuel e Rick Danko, che una serata così dedicata a loro non l’hanno mai avuta).

Si parte subito forte con una versione calda e soulful di The Shape I’m In, con Warren Haynes primo ospite della serata, che suona alla grande e tira fuori il meglio dalla sua voce (si parla sempre della sua abilità chitarristica, ma è un cantante della Madonna), ottimo inizio; Warren rimane sul palco ed introduce l’amico Gregg Allman, ed i due, con il resto della band, ci regalano una versione elettroacustica da applausi di Long Black Veil, noto traditional inciso anche dalla Band: Allman sprizza carisma da tutti i pori, ed al secondo brano abbiamo già uno dei momenti magici del concerto, da pelle d’oca. Jorma Kaukonen propone una versione country-blues di Trouble In Mind di Big Bill Broonzy (e non di Dylan come indicato nel libretto…Dylan ha scritto un brano con questo titolo, relegato poi in un lato B del 1979, ma è completamente diverso), tratta da un suo album, River Of Time, inciso nella fattoria di Levon; poi è la volta di due brani per la house band, con Campbell come leader, una bella ed elettrica This Wheel’s On Fire ed una più raccolta Little Birds, con la Helm Jr. e la Williams protagoniste. Il secondo momento saliente arriva con Marc Cohn (in ottima forma fisica e vocale) , che propone la splendida Listening To Levon, da lui scritta proprio per Helm: una canzone fantastica, tra le migliori di Cohn, resa in modo impeccabile e con un filo di commozione. (E allora, tanto per parlare ancora degli assenti, perché non coinvolgere anche Elton John? Levon è senz’altro uno dei brani più belli dell’occhialuto cantante inglese).

Mavis Staples non la scopro certo io: tra le più grandi cantanti ancora in vita, ci delizia con una grintosa Move Along Train, scritta dal padre Roebuck “Pops” ed incisa da Levon su Electric Dirt: a quasi 74 anni Mavis è ancora una forza della natura. Life Is A Carnival, gioiosa e piena di suoni, è perfetta per Allen Toussaint, grandissimo arrangiatore, ottimo pianista ma non eccelso come cantante: comunque se la cava più che bene; When I Paint My Masterpiece è affidata al grande John Prine, che appare invecchiato piuttosto male (e nelle interviste presenti sul secondo DVD ha proprio l’aria del vecchio pugile suonato): io amo Prine, ma stasera, pur impegnandosi al massimo, fornisce un’interpretazione un po’ monocorde, anche se parzialmente riscattata dall’house band che lo supporta. Anna Lee avrebbe meritato di meglio che Bruce Horsby, emozionato e un po’ stonato, ma l’accompagnamento per dulcimer e violino (Campbell) è toccante; ecco Jakob Dylan (almeno un Dylan c’è), look alla Uomo Vogue e buona voce per una versione tutta ritmo e swing di Ain’t Got No Home di Clarence “Frogman” Henry (era sull’album di covers di The Band, Moondog Matinee), ottima versione, ma secondo me Jakob ha perso un’occasione: avrebbe potuto infatti interpretare un brano del padre (sarebbe stata la prima volta) e creare un momento di grande valore emotivo, vista anche la somiglianza fisica impressionante con il genitore (Forever Young, nella cui versione originale tra l’altro Levon suonava, sarebbe stata una scelta perfetta).

L’unico momento negativo, purtroppo, riguarda la splendida Whispering Pines, che è una delle più belle canzoni scritte da Robertson, ma che viene affidata a Lucinda Williams, fisico da menopausa e voce da ubriaca, che tenta di rovinare il brano appiattendolo con il suo solito stile soporifero (so di attirare su di me le ire funeste del 90% dei lettori del Blog, ma io la penso così). Per fortuna che arriva il grande John Hiatt: Rag Mama Rag sembra scritta apposta per lui, ma John avrebbe il carisma e la voce anche per rendere appetibile un brano dei Backstreet Boys (da notare la presenza di Mike Gordon dei Phish al basso). David Bromberg è un altro personaggio quasi leggendario (e mi sta simpatico perché mi ricorda tantissimo mio zio da poco scomparso, scusate la divagazione personale), e la sua Don’t Do It, in coppia con Joan Osborne, delizia sia il pubblico che il sottoscritto, mentre la bella Grace Potter ci offre un altro momento top della serata, una versione da brividi di I Shall Be Released, grande presenza scenica e grandissima voce, pubblico in sala letteralmente ammutolito, e la stessa Grace che alla fine non riesce a trattenere le lacrime per la commozione. Altro che Lucinda Williams… Un’altra grande voce, molto simile peraltro a quella di Richard Manuel, se la ritrova Ray LaMontagne, e Tears Of Rage (con John Mayer alla chitarra) è una scelta perfetta per lui, un’altra interpretazione da pelle d’oca; sia Dierks Bentley che Eric Church sono due tra i più interessanti esponenti del new breed del country americano, ma obiettivamente penso che due canzoni a testa siano troppe: bastavano Chest Fever (con immancabile assolo di organo iniziale di Hudson) per Bentley e Get Up Jake per Church.

Non sono mai impazzito per John Mayer, ma almeno stasera si ricorda che quando vuole ci sa fare, e la sua versione di Tennessee Jed (sì, è proprio il brano dei Grateful Dead, ma lo ha inciso anche Levon) è decisamente azzeccata; bravo anche Joe Walsh (con Robert Randolph), che nelle interviste (sempre secondo DVD) sembra perennemente strafatto, ma sul palco si trasforma: Up On Cripple Creek è un brano che farebbe tremare i polsi a chiunque, ma Joe è prima di tutto un professionista esperto e se la cava alla grande. Ci avviamo al gran finale: i My Morning Jacket sono una grande band, e Jim James un leader sufficientemente carismatico, e quindi le loro versioni di Ophelia, una gioiosa esplosione di suoni, e It Makes No Difference, grandiosa, sono tra i momenti migliori del concerto. Per l’ultraclassico The Night They Drove Old Dixie Down Jim James e compagni sono raggiunti sul palco nientemeno che da Roger Waters, che esibisce anche orgoglioso (ed un po’ emozionato) un baseball hat donatogli da Helm al termine del concerto The Wall Live In Berlin del 1990, al quale tra l’altro lo stesso Helm, con Danko, Hudson e Sinead O’Connor contribuirono con il momento più toccante, una superba versione di Mother. Rimasto solo con la house band, l’ex Pink Floyd intona poi con Amy una commovente versione di Wide River To Cross, splendido brano di Buddy e Julie Miller ed una delle ultime incisioni di Levon, una rilettura appassionata che toccherà il cuore anche di chi i Floyd non li può vedere neanche in fotografia. Waters poi chiama tutti sul palco per il prevedibile gran finale di The Weight: ok, stiamo parlando di uno dei più grandi brani rock della storia, ma questa sera il gruppo di artisti sul palco aggiunge forse qualcosa in più, e l’emozione si può quasi toccare con mano. Alla fine tutti sorridenti e commossi, sia tra il pubblico che on stage.

Grandissima serata per un grandissimo della “nostra” musica (anche dal punto di vista umano), un vero e proprio atto d’amore.

Imperdibile.

Marco Verdi

Dal Post Punk Alla “Via” Dark! Thalia Zedek Band – Via

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Thalia Zedek Band – Via – Thrill Jockey Records – 2013

Thalia Zedek ha vissuto da protagonista alcune delle vicende più interessanti del rock indipendente americano degli ultimi trent’anni, dai lontani esordi con band misconosciute come Dangerous Birds (un gruppo tutto al femminile), Uzi e Live Skull, passando per la consacrazione con i grandi Come dell’amico Chris Brokaw (ha lavorato con personaggi del calibro di Steve Wynn, Evan Dando e Willard Grant Conspiracy), fino all’esperienza solista dell’ultimo decennio. La storia musicale di Thalia, inizia nel 1982, anno di uscita di un singolo dei suoi Dangerous Birds. A seguire, come già detto, vennero gli Uzi e poi i Live Skull, ed infine quei Come (una band avant-rock bostoniana) che finalmente le dettero quel minimo di notorietà nel panorama indie-rock (per chi non li conosce Don’t Ask Don’t Tell (94) è ancora oggi un piccolo capolavoro). Dopo lo scioglimento di questi ultimi, per la Zedek è iniziata una carriera solista che conta già diversi titoli, partendo dal debutto di Been Here and Gone (2001) con l’ex Come Brokaw alle chitarre (con una bellissima cover di Cohen Dance Me To The End Of Love), cui segue l’EP You’re a Big Girl Now (2001). Nel 2004 in edizione limitata a 2000 copie, esce Hell Is In Hello una raccolta di brani eseguiti dal vivo, con alcune cover, la più suggestiva è certamente What A Wonderful World di Louis Armstrong, bissato da Trust Not Those In Whom Without Some Touch Of Madness (fare un titolo più corto non si può?) per arrivare all’ultimo disco in studio Liars And Prayers (2008).

Questo lavoro Via è stato scritto in due distinte sessioni, nel corso di ben quattro anni. La prima serie di canzoni è stata scritta durante il periodo del tour fatto da Thalia dopo l’uscita di Liars and Prayers, con il batterista storico dei Come Daniel Coughlin. Dopo la partenza di quest’ultimo la Zadek ha reclutato il batterista dei Son Volt Dave Bryson, e con David Michael Curry alla viola (collaboratore e membro di moltissime formazioni di primordine), e il bravissimo pianista Mel Lederman, sotto la produzione di Andrew Schneider, tutti si sono riuniti al New Alliance AndTranslator Audio di Brooklyn, e fra Giugno e Settembre dello scorso anno hanno elaborato questi nove pezzi sofferti, dove l’accompagnamento di una chitarra secca, e la viola di Curry (che riveste sempre maggior importanza), valorizzano il vocalismo della Zedek e il suo background urbano.

Guardo la copertina e chissà perché mi viene subito in mente On The Beach di Neil Young, ascolto l’iniziale Walk Away e non siamo molto lontani da quelle ballate, mentre Winning Hand è abrasiva  e sofferta nel suo incedere, per poi passare alle impetuose sonorità di Get Away. He Said  un brano con le chitarre a dettare un ritmo acido, e poi a seguire brani “classici” come In This World e Straight and Strong, dove gli impasti di chitarra, pianoforte e sezione ritmica, costituiscono il cuore delle canzoni. Ci sono poi  aperture più melodiche nella ballata Go Home, dove la viola di Michael Curry accompagna in crescendo il canto di Thalia, mentre nella seguente Lucky One, una lunga e vibrante composizione, sembra che a suonare ci siano Neil Young e i suoi Crazy Horse. Want You To Know è la degna conclusione di un bel disco, una ballata acida con impetuosi accordi di chitarra, una batteria martellante, con assoli e accenni di psichedelia, lontana anni luce da certe zuccherose canzoni lente che invadono il mercato musicale.

Indipendentemente dal suo essere “pioniera” del rock indipendente, la Zedek, arrivata al quinto disco, ancora una volta conferma di essere una cantautrice di gran talento, con un suono tra classicismo e indie-sound, una voce profonda e sofferta (potrebbe assomigliare a una PJ Harvey più roca), sostenuta da una onesta ispirazione, sempre più viva e pulsante. Concludo, dicendo che se David Lynch (famoso regista) avesse voglia di ricostruire le atmosfere di Cuore Selvaggio (indimenticabile capolavoro della sua filmografia) e farne un seguito, ascoltando questo CD, si troverebbe tra le mani la sua perfetta colonna sonora. Bentornata sorella Thalia.

Tino Montanari

Novità Di Marzo Parte III. Billy Bragg, Black Rebel Motorcycle, Low, Jackie Oates, Suede, Phosphorescent, Thalia Zedek Band, Tift Merritt, Alan Wilson

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Eccoci al terzo appuntamento mensile con le uscite di marzo, siamo arrivati a quelle del 19 marzo. Confermo per oggi le uscite del magnifico box limitato in 7 CD di Duane Allman Skydog e quella di Love For Levon, il concerto tributo al grande Levon Helm, in varie versioni, di cui leggerete la recensione a cura di Marco, penso entro giovedì, entrambe le uscite solo per il mercato americano. Del vinile Black Crowes avete già letto, altre uscite non in lista verranno recensite a parte, per cui partiamo.

Billy Bragg, a parte la ripubblicazione lo scorso anno del box dedicato a Woody Guthrie, registrato con i Wilco, e ad una antologia Fight Songs, nel 2011, era dal 2008 del discreto Mr. Love And Justice che non pubblicava nulla di nuovo. Sempre per la solita Cooking Vinyl rompe il silenzio con questo Tooth And Nail, che è un signor disco, registrato in quel di Pasadena, California con la produzione di Joe Henry. Sono dodici brani, due scritti con Henry, una cover di Guthrie, naturalmente il tutto è registrato con i soliti musicisti del produttore californiano: Jay Bellerose, Greg Leisz, David Piltch e Patric Warren, sinonimo di qualità. E, altrettanto naturalmente, un classico ormai, c’è una versione Deluxe CD+DVD (di non facile reperibilità, in uscita qualche giorno dopo). Nel DVD ci sono 10 video tratti dal vecchio repertorio di Bragg, questi per la precisione:

1. Levi Stubbs Tears 1986 (Video)
2. Greetings To The New Brunette 1986 (Video)
3. She’s Leaving Home 1988 (Video)
4. Waiting For The Great Leap Forwards 1988 (Video)
5. Sexuality 1991 (Video)
6. You Woke Up My Neighbourhood 1991 (Video)
7. Accident Waiting To Happen 1992 (Video)
8. Upfield 1996 (Video)
9. Boy Done Good 1997 (Video)
10. Take Down The Union Jack 2002 (Video)

Anche il nuovo album dei Black Rebel Motorcycle Club, Specter At The Club, avrà una versione limitata, ma si parla semplicemente di una confezione leggermente differente. Si tratta del settimo album per i BMRC, il primo per la band californiana a non venire prodotto da Michael Been, scomparso per un infarto nel 2010, che oltre ad avere questo incarico era anche il padre del bassista Robert Levon, e, per chi li ricorda, il cantante di un ottimo gruppo rock anni ’80 e ’90, The Call.

Altro trio indie americano, i Low, pubblicano il nuovo CD, il decimo della serie, The Invisible Way, prodotto da Jeff Tweedy e registrato negli studi di Chicago dei Wilco, sull’etichetta indie per eccellenza, la Sub Pop. Se ne parla molto bene e, come al solito, le parti vocali sono divise tra il cantante e chitarrista Alan Sparhawk e la batterista e cantante Mimi Parker (più in evidenza in questo album), che come molti sanno, sono anche una coppia nella vita, con prole. Molti li hanno definiti i Gram Parsons ed Emmylou Harris dell’alternative rock morbido e un fondo di verità (anche qualcosa di più) c’è. Se non li conoscete, assolutamente da scoprire, molto bravi.

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Un terzetto di gentili donzelle, anzi quattro, perché un disco è attribuito ad una coppia.

La copertina del disco di Thalia Zedek deve essere stata realizzata sul bagnasciuga di qualche stabilimento balneare italiano, dall’inequivocabile scritta “Bagno N.13” e anche il titolo Via, non è propriamente inglese, anche se esiste pure in quella lingua. Ma lo nostra amica è originaria di Washington, DC ed è nota, oltre che per un passato punk influenzato da Patti Smith, per essere stata, con Chris Brokaw, la fondatrice dei Come, una buona band rock alternativa di Boston, in attività soprattutto tra il 1990 e il 2001, ma ancora oggi soggetta a sporadiche reunion, la prossima proprio a maggio 2013 per festeggiare il 20° anniversario dell’uscita di Eleven Eleven o 11:11 se preferite, il loro disco migliore, anche se il disco sarebbe uscito nel luglio 1992, ma sapete ormai che le date sono degli optionals per le case discografiche. Nel frattempo come Thalia Zedek Band, per la Thrill Jockey esce questo nuovo Via, di cui, a parte, leggerete la recensione di Tino (perché nel Blog si lavora e si produce indefessamente)!

La coppia è abbastanza “strana”: Tift Merritt è una ottima cantautrice americana molto apprezzata da chi scrive sul Blog, mentre Simone Dinnerstein è una pianista classica emergente, newyorkese, paragonata dalla critica addirittura a Wanda Landowska (che però il vostro fedele scrivente sapeva essere, grazie alle frequentazioni del negozio che dà il nome al Blog e quindi avendo una discreta conoscenza anche del repertorio classico, una delle massime interpreti della musica di Bach, è vero, ma come clavicembalista). Comunque al di là di presunte errate notizie, la coppia funziona: la voce chiara e cristallina della Merritt unita al fluente stile pianistico della Dinnerstein si cimenta con una serie di brani inconsueti, Bach e Chopin, ma anche un Brad Mehldau inedito e un tributo a Leonard Cohen da parte di Simone, brani di Patty Griffin e della stessa Merritt scritti per l’occasione, oltre a una bella versione del traditional Wayfaring Stranger per Tift, che canta con grande classe tanto da sembrare quasi una novella Judy Collins, nel suo periodo folk anni ’60. Etichetta Sony Masterworks Classical. Strano, ma molto piacevole, non nell’accezione negativa del termine.

Jackie Oates è una delle tante voci femminili che stanno popolando questa sorta di rinascimento della musica folk inglese. Lullabies è il suo quinto album da solista, pubblicato dalla ECC (salute! scusate ma non ho resistito), registrato in parte anche in Islanda con musicisti locali, alterna materiale tradizionale, pezzi strumentali (la Oates è anche una ottima violinista come testimonia il suo lavoro con gli Imagined Village, il gruppo di Simon Emmerson, ex leader degli Afro Celt Sound System, citati nel Blog, in passato, per la loro partecipazione al Cambridge Folk Festival e perché sono considerati tra gli eredi di gruppi come Incredible String Band e Pentangle) e anche qualche cover inconsueta come Junk di Paul McCartney o Sleeper’s Awake di Mike Heron degli appena ricordati Incredible String Band. A ulteriore merito di Jackie Oates possiamo ricordare che faceva parte della prima versione delle Unthanks una delle migliori formazioni di questa new Wave del British Folk, Kate Rusby, Eliza Carthy, Heidi Talbot, Alasdair Roberts, Seth Lakeman, Mary & Cara Dillon, Emily Portman e tanti altri che spesso ricordo su questo Blog, aggiungere anche la Oates alla lista, molto brava! Non c’entra niente (o forse sì, sentendo questa musica), ma mi è arrivata una mail che annuncia l’uscita, per il 27 maggio, del nuovo album di Laura Marling, Once I Was An Eagle. Ma ci sarà tempo per parlarne.

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Uno strano terzetto.

Dopo il clamoroso flop, di critica e di pubblico, di A New Morning, uscito nel 2002 e costato qualcosa come un milione di sterline, senza entrare neppure nei Top 20 delle classifiche inglesi (in America neppure era uscito), gli Suede si erano sciolti. Ora, sempre con la guida di Brett Anderson (gran voce comunque, a prescindere dal genere) ma sempre senza Billy Butler che si è riciclato come autore e produttore, la sua cliente più nota è senza dubbio Duffy, tornano con questo Bloodsports, nuova casa discografica la Warner Bros. E se il ritorno di David Bowie è stato salutato con favore, anche gli Suede, eredi del glam bowiano, ora divenuto alternative, hanno avuto buone critiche, come non accadeva dai tempi di Coming Up del 1996.

Buone critiche hanno sempre ricevuto anche i Phosphorescent, che è poi il “nom de plume” di Matthew Houck, ottimo cantante ed autore, originario dell’Alabama e che ora opera a New York, ma il cui stile indie-rock, indie folk, indie country, si ispira molto anche a quello di Willie Nelson, tanto da registrare un intero album, To Willie, dedicato al grande musicista texano che, detto per inciso, alla fine di Aprile compirà 80 anni. Il nuovo album di Houck esce come al solito per la propria etichetta la Dead Oceans Records, ispirato da una trasferta messicana, si chiama Muchacho, ma è il solito piacevole ibrido di vari stili musicali, con country, rock, ballate springsteeniane, bella musica atmosferica, molto curata nei dettagli, in definitiva un nome da tenere d’occhio, tra i migliori di quelli “nuovi”.

Per finire la lista delle uscite oggi, è stato pubblicata la settimana scorsa per la Severn, ma vedrà la luce solo il 16 aprile negli Stati Uniti, questa doppia antologia dedicata a The Blind Owl, Alan Wilson, il non dimenticato leader dei Canned Heat, morto per overdose di barbiturici o droghe, o entrambi (ma per molti fu suicidio, anche perché ci aveva già provato altre due volte) il 3 settembre del 1970, quindici giorni prima di Jimi Hendrix, anche lui, per quanto meno noto, facente parte del cosidetto Club dei 27, per l’età a cui ci lasciò. Il soprannome “Gufo Cieco” era dovuto ad una fortissima miopia per cui non riconosceva nessuno, già da mezzo metro di distanza. Personaggio particolare, interessato alla ecologia e alla preservazione del verde e delle foreste, in tempi in cui nessuno se ne occupava, era anche un grande bluesman, autore e chitarrista slide di pregio, con quella voce particolare, sottile e quasi femminea che è rimasta legata a brani come On The Road Again e Going Up To The Country (che si ascoltava all’inizio di Woodstock il film) ed era in chiara contrapposizione con il vocione di Bob “The Bear” Hite, ma la somma dei due, più due chitarristi eccezionali, l’altro, a rotazione, Henry Vestine o Harvey Mandel, un bassista prodigioso come Larry Taylor (che sembrava come posseduto nei filmati sempre di Woodstock) e un batterista con un nome che lo rendeva il compagno ideale di Zagor, Adolfo Fito De La Parra, hanno reso i Canned Heat uno dei più grandi gruppi di boogie-blues-rock di tutti i tempi, compagni ideali per alcune avventure di John Lee Hooker e band formidabile dal vivo. Alan Wilson era anche un grandissimo armonicista e profondo conoscitore di Blues, come il suo collega Hite, di cui si diceva avesse una collezione di 78 giri blues tra le più ricche e complete mai esistite. Questo doppio della Severn raccoglie 20 brani, i suoi classici, molte rarità e versione inedite dal vivo e in studio, questo il contenuto:

Disc One

1. On the Road Again
2. Help Me
3. An Owl Song
4. Going Up the Country
5. My Mistake
6. Change My Ways
7. Get Off My Back
8. Time Was
9. Do Not Enter
10. Shake It and Break It
11. Nebulosity/Rollin’ & Tumblin’/Five Owls

Disc Two

1. Alan’s Intro
2. My Time Ain’t Long
3. Skat
4. London Blues
5. Poor Moon
6. Pulling Hair Blues
7. Mean Old World
8. Human Condition
9. Childhood’s End

Alla prossima!

Bruno Conti

Preparate Giradischi E Puntina! Black Crowes – Wiser For The Time

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Black Crowes – Wiser For The Time – Silver Arrow 4LP e download

Da quando mi occupo di critica musicale (espressione volutamente autoironica, diciamo da quando espongo il mio parere sulle cose che ascolto) è solo la seconda volta che mi trovo a recensire qualcosa nel vecchio e glorioso formato LP (per l’esattezza un box di 4LP), dopo il mini live di Tom Petty Kiss My Amps uscito un paio d’anni fa per il Record Store Day.

I Black Crowes, ormai fra le rock band migliori nel panorama mondiale, hanno infatti deciso di celebrare il proprio ritorno all’attività live nel 2013 con la pubblicazione di Wiser For The Time, un sontuoso box in cartone duro, con all’interno ben quattro vinili, che testimoniano il meglio dei loro concerti a New York a cavallo tra Ottobre e Novembre del 2010. Niente CD quindi (ma l’album è comunque disponibile in download), e questo mi rende la band di Chris e Rich Robinson (con Steve Gorman, Sven Pipien ed Adam MacDougall) ancora più simpatica: non che io sia contro il supporto digitale (contro la musica liquida invece un po’ sì), ma il vinile rimane sempre il vinile, ha un fascino che il dischetto di plastica non avrà mai. Il box in realtà si presenta quasi come un (costoso) bootleg: nessuna nota, solo i titoli dei brani e la data di incisione, ma per fortuna la qualità di registrazione è perfetta, i Corvi sono in stato di grazia, e ci consegnano quello che si può certamente definire il loro live definitivo.

Sì, perché Wiser For The Time è forse ancora meglio dei seppur ottimi Freak’n’Roll Into The Fog e Warpaint Live (del deludente Live del 2002 non voglio neanche parlare, mentre lo stupendo Live At The Greek con Jimmy Page non fa testo, in quanto composto soltanto di covers dei Led Zeppelin), è più completo, ci presenta le due facce del gruppo, quella acustica (i primi due LP, quindici canzoni) e quella elettrica (il terzo e quarto, altri undici brani), per quasi due ore e mezza complessive di grandissima musica. Chi li ha visti dal vivo sa cosa intendo: i Corvi Neri sono una vera forza della natura, di gran lunga la migliore band venuta fuori dagli anni novanta in poi, ma se questo era risaputo per quanto riguarda la parte elettrica dei loro concerti, il lato acustico era meno noto. Ebbene, Wiser For The Time ci dimostra che i fratelli Robinson ci sanno fare (eccome) anche quando abbassano il volume (ma Rich un aiutino con la chitarra elettrica se lo dà), e quando accade questo significa che hai sia i musicisti che le canzoni, oltre al feeling che è il loro valore aggiunto. Una band abbastanza unica nel panorama mondiale: tra rock, blues, southern, Zeppelin, Rolling Stones e Faces, un cocktail ad alto tasso adrenalinico che mi lascia a bocca aperta ogni volta.

Il primo disco si apre con Cursed Diamond, per sola voce e chitarra, una versione lunga e fluida, con Chris che gorgheggia da par suo con il suo timbro vocale caldo e soulful. Con Sister Luck entra la band, e cominciamo a ritrovare il tipico sound del gruppo di Atlanta, una ballata liquida (grande MacDougall al piano) con Rich che comincia a fare i numeri con la solista (l’unico strumento elettrico on stage, per ora) e Chris che si conferma ottimo vocalist. Anche Smile è un brano di grande impatto, melodia classica e Corvi in gran spolvero; la vivace Downtown Money Waster, tra blues e soul, precede due superbe versioni di Hot Burrito # 1 e Hot Burrito # 2, due classici dei Flying Burrito Brothers, dove i nostri fanno rivivere lo spirito di Gram Parsons. Non vorrei citare tutti i brani (non ce n’è uno sottotono neanche per sbaglio), ma mi preme evidenziare Garden Gate, in una scintillante versione tra folk appalachiano e bluegrass, la bucolica Better When You’re Not Alone, con Rich che suona alla grande, la nota Hotel Illness, a cui la veste acustica dona particolarmente, la splendida Oh, The Rain (un classico di Blind Willie Johnson), tra folk, blues e gospel, e la bella resa di Tonight I’ll Be Staying Here With You, uno dei capolavori minori di Bob Dylan, che rientra perfettamente nelle corde dei Crowes.

La parte elettrica inizia con la dura e potente Exit, molto influenzata dal Dirigibile di Page e Plant, per proseguire con il rock’n’roll ad alto tasso energetico No Speak No Slave, e con la lunga Only Halfway To Everywhere, una southern jam di undici minuti con le contropalle, dove ognuno tira fuori il meglio dal suo strumento. Senza dimenticare la possente A Conspiracy, chitarristica fino al midollo, e la splendida Title Song, ballatona sudista di grande impatto sonoro. Il quarto ed ultimo LP prosegue con la cavalcata elettrica, un vero e proprio muro del suono di decibel da parte di una band che ha pochi eguali sulla Terra: segnalerei senz’altro il medley My Morning Song/Stare It Cold, altri undici minuti di libidine, uno spettacolo che da solo vale il prezzo richiesto per il box, oltre a She Talks To Angels, una ballata piena di anima, uno slow degno degli Allman Brothers dei bei tempi. Il quadruplo è quasi alla fine, ma c’è il tempo per un’ultima sorpresa: una versione fantastica del superclassico dei Little Feat Willin’, forse una delle più belle versioni da me mai ascoltate di questo brano senza tempo, nella quale la turgida melodia di Lowell George viene valorizzata in maniera incredibile.

Che altro dire? Vale la pena togliere dalla soffitta il vostro vecchio giradischi e fare vostro questo Wiser For The Time: musica così fa bene alla salute.

God bless the Black Crowes.

Marco Verdi

Un “Narratore” Di Blues. Doug Macleod – There’s A Time

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Doug MacLeod – There’s a Time – Reference Recordings

Doug MacLeod è un distinto signore che ad aprile compirà 67 primavere, capello e pelle bianchi, espressione seria e dignitosa, uno degli ultimi storytellers del Blues, diretto discendente dei bluesmen classici ma anche dei cantautori folk, quelli che hanno una storia da raccontare nelle proprie canzoni, basata su fatti di vita vissuta, esperienze quotidiane ma anche pescate dalle storie sentite in giro e riadattate secondo la sua sensibilità. Con una lunga gavetta alle spalle, raccontata anche nelle ricchissime note del libretto allegato a questo There’s A Time, il primo (secondo quello che dice lui stesso, ma poi nella discografia ne viene riportato un secondo, sia pure di una etichetta collegata) per la Reference Recordings, una storica etichetta di San Francisco, specializzata in classica e jazz, ma soprattutto di musica per audiofili (24-bit HCD recordings).

Tornando alla sua carriera, MacLeod si è fatto le ossa collaborando con gente come George ‘Harmonica” Smith, Eddie ‘Cleanhead’ Vinson, Lowell Fulson, Big Mama Thornton, veri monumenti del Blues, ma anche Albert King, Little Milton e Ike & Tina Turner, poi dal 1984 ha iniziato una trentennale carriera da solista, pubblicando da allora ben più di 20 album tra studio e live, un DVD didattico per chitarristi, visto che insegna anche e ha scritto oltre 300 canzoni che sono state interpretate da molti grandi musicisti, Dave Alvin, Albert Collins, Eva Cassidy, Son Seals, Joe Louis Walker, Chris Thomas King, Coco Montoya e moltissimi altri sono stati tra i suoi “clienti. Ha tenuto pure una rubrica sulla rivista Blues Revue e ha avuto anche un programma radiofonico. Un artista a tutto tondo, come si suole dire, ma soprattutto un bluesman puro e duro. A questo punto della recensione dovrebbero rimanere solo i veri appassionati di blues, perché soprattutto a loro è destinato questo disco: se in una classificazione generalista al CD dovremmo dare tre stellette (e quindi un onorevole 6, anche 6 e ½) in un ambito più specializzato, ovvero Blues, il disco si merita anche un bel 7. Non dico questo per precludere l’ascolto ai non appassionati, ma il disco per costoro potrebbe, come diceva il “finto” Sacchi a Mai Dire Gol, essere “un po’ ostico e persino agnostico”.

Registrato in trio, con la sua bella sezione ritmica, costituita da due veterani del genere come Jimi Bott alla batteria e Dennis Croy al contrabbasso (entrambi con una bella biografia riportata in quel corposo libretto di cui vi dicevo in precedenza), il disco ha comunque un approccio chiaramente acustico, Doug MacLeod si divide tra le sue tre chitarre, che hanno tutte un nomignolo, “Owl” la National semplice, “Moon” la National Reso-phonic e “Little Bit”, perché perde i pezzi, uno alla volta, la Gibson. Ce n’è anche una quarta, una National El Trovador a 12 corde, prestata per l’occasione e utilizzata in uno dei 13 brani dell’album, una complessa The Up Song, dove MacLeod si lancia anche in alcuni arditi falsetti oltre alle consuete linee intricate di chitarra che sfociano in un assolo breve (come di consueto) ma ricco di classe e ben supportato dalla notevole sezione ritmica. L’iniziale Rosa Lee, suonata sulla Reso-phonic ha quello stile strascicato tipico dell’approccio slide e, come tutte le altre, questo suono fantastico e ben definito, ottenuto negli studi di registrazione SkyWalker Sound di Marin County, Ca, dove l’album è stato registrato in presa diretta, live, con i tre musicisti schierati uno di fronte all’altro e con chitarra, basso e batteria che suonano con una precisione quasi chirurgica. Se vogliamo paragonarlo ad un bianco che fa questo genere (perché i neri costituiscono il cuore della musica), il primo che mi viene in mente, sia per l’approccio rigoroso che per il tipo di voce è il buon David Bromberg, che però si muove anche in altri stili e generi, o il John Hammond dei dischi dalle sonorità più acustiche.

Black Nights è un slow blues intensissimo suonato sulla Gibson Little Bit, con una tecnica e un feeling eccezionali e cantato con passione ed una voce rodata da migliaia di ore di concerti dal vivo, calda e di grande spessore tecnico, come l’eccellente I’ll Be Walking On che ha anche un sapore gospel. My Inlaws Are Outlaws, come dice lo stesso Doug nelle ricchissime note, è l’unico brano non basato su una storia vera ma la qualità della musica non ne risente. The Entitled Few, di nuovo alla National e in solitaria, il ritmo tenuto con il piede, racconta la storia di un finto handicappato che usava la sua tessera per trovare un parcheggio riservato (chissà perché mi ricorda qualcosa!) e da lì si dipana per un mezzo talking blues con “aiutino” di Memphis Slim per il verso finale. MacLeod non fa mistero che la sua musica utilizza anche pezzettini di altri, ma poi l’esecuzione è assolutamente personale. L’intricato fraseggio di A Ticket Out, con il basso di supporto, ci permette di gustare la sua tecnica sopraffina e quella voce notevole. Mi dilungo un po’ perche il disco merita, nella seconda parte un paio di brani, The Night Of The Devil’s Road, con una chitarra atmosferica e delle atmosfere rarefatte e maestose e Ghost, anche questa intensa ed arcana, sono quasi magiche mentre Dubb’s Tallkin’ Religion Blues, come da titolo, è parlata, ma spezza il ritmo e viene tirata troppo per le lunghe, probabilmente dal vivo ha un suo perché, ma su disco annoia un poco. Detto che Run With The Devil racconta la sua particolare versione dell’incontro con il diavolo all’incrocio fatidico ed è suonata nuovamente con la sua National dal suono incredibile, consiglio il disco soprattutto agli appassionati del Blues, che peraltro già conoscono ed apprezzano questo artigiano di gran classe, per “specialisti” e per “apprendisti”.

Bruno Conti

Manolenta Va Ai Caraibi! Eric Clapton – Old Sock

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Eric Clapton – Old Sock – Bushbranch/Surfdog/Polydor CD

So che il titolo del post potrebbe anche sembrare quello di un’avventura di un personaggio dei fumetti, ma è in realtà il modo più sintetico per riassumere i contenuti di Old Sock (vecchio calzino, titolo indubbiamente autoironico), il nuovissimo album di studio di Eric “Manolenta” Clapton. A giusto tre anni da Clapton, che era il suo miglior disco di studio da secoli a questa parte (quelli di covers di blues esclusi), Old Sock migliora addirittura il livello, diventando forse il lavoro più bello addirittura da Money And Cigarettes (il disco con Ry Cooder, e stiamo parlando di trent’anni fa), ma operando delle scelte stilistiche diverse in materia di sound. Non è che Eric sia andato fisicamente ai Caraibi ad incidere, ma l’atmosfera all’interno del CD è quella, non tanto per i suoni (non somiglia, per dire, ad un disco di Jimmy Buffett), quanto per l’atmosfera solare e rilassata che si percepisce in tutti i brani.

Clapton ormai ha la sua età, è in pace con sé stesso e non deve dimostrare più nulla da tempo, e può fare ciò che gli pare, quando gli pare e con chi gli pare: a conferma di questo, l’album è il primo ad uscire per la sua etichetta personale, la Bushbranch. Eric riscopre il reggae (se ne era innamorato già negli anni settanta, ricordate I Shot The Sheriff e Knockin’On Heaven’s Door?), usandolo però non in dosi massicce, così da non scontentare chi non ama il genere alla follia (tipo il sottoscritto), fa qualche brano in perfetto stile anni 30-40, addirittura del country, un paio di pezzi tipici suoi, ma tutto in modo assolutamente rilassato. Attenzione, questo non va a discapito del feeling e dalla qualità: Old Sock è un gran bel disco, in cui Eric coniuga abilmente classe, mestiere e voglia di suonare e sperimentare anche sonorità insolite per lui, lasciando talvolta addirittura in secondo piano la sua chitarra (pochi sono infatti i suoi tipici assoli poderosi).

Clapton sceglie di fare perlopiù covers di varia estrazione, i brani originali (tra l’altro neppure scritti da lui, ma da Doyle Bramhall II con…Nikka Costa!!!) sono solo due su dodici, ma, come ho detto prima, Eric è arrivato ad un punto in cui sceglie le canzoni che vuole. Se aggiungiamo a tutto ciò una lista di musicisti impressionante (oltre a Bramhall abbiamo Steve Gadd, Greg Leisz, Jim Keltner, Matt Rollings, Willie Weeks, Henry Spinetti ed altri) ed alcuni special guests davvero special (li nominerò man mano) non ci vuole molto a fare un grande disco. Altro particolare degno di nota, il CD esce in una versione sola, ed oggi è una rarità (a dire il vero una versione deluxe ci sarebbe anche, ma è venduta solo sul suo sito, è limitata a mille copie, costa circa il triplo e l’unica bonus track, No Sympathy, non è sul CD ma su una chiavetta USB allegata. Complimenti…).

L’album si apre con Further On Down The Road, da non conforndersi con il quasi omonimo classico di Bobby “Blue” Bland: questo è un brano scritto da Taj Mahal, che appare al banjo ed armonica, proposto con un arrangiamento solare e delicatamente reggae, molto piacevole, subito una bella canzone. Angel (di e con J.J. Cale) è una ballata laidback tipica del suo autore, raffinata e godibilissima, cantata quasi sottovoce e strumentalmente ineccepibile; The Folks Who Live On The Hill (un brano anni trenta portato al successo da Peggy Lee) ha un arrangiamento di gran classe, tra jazz e musica hawaiana d’altri tempi. Gotta Get Over è un brano nuovo ed è anche il primo singolo, ed il suono qui è più vicino allo stile tipico di Eric, un rock classico ma molto ben fatto, vibrante, orecchiabile, diretto, con Chaka Khan alle armonie (ma non si nota…), ma soprattutto con il nostro che si lascia finalmente andare alla Stratocaster. Till Your Well Runs Dry (Peter Tosh) è molto bella nonostante sia un reggae (anche se solo nel ritornello); in All Of Me Clapton duetta addirittura con Sir Paul McCartney, regalandoci un irresistibile brano jazzato vivace e solare, anni quaranta, dove l’unico tributo alla modernità è il suono della chitarra di Eric (in origine era una canzone interpretata sia da Billie Holiday che da Sarah Vaughan). Born To Lose è stato un successo di Ted Daffan, un pioniere del country oggi dimenticato: l’arrangiamento di Eric è fedele allo stile dell’autore, e sembra che il nostro non abbia mai fatto altro che suonare musica country. Uno dei brani migliori, senza dubbio, una cover scintillante.

E il blues? Eccovi servita una sontuosa interpretazione di Still Got The Blues, un omaggio di Clapton a Gary Moore, con l’amico Steve Winwood a fare i numeri all’organo: versione manco a dirlo da applausi, lunga, profonda e sentita. Grandissima classe. Old Sock cresce brano dopo brano: è la volta della celeberrima Goodnight Irene (di Leadbelly, ma che ve lo dico a fa?), solare, fluida, caraibica, ispiratissima, in breve una delle più riuscite. La migliore del disco? Decisamente sì. Un capolavoro assoluto nella discografia di Clapton, sentire per credere. L’album si chiude con Your One And Only Man di Otis Redding, ancora reggae, Every Little Thing, il secondo brano originale del disco, molto bella anche questa, una ballata anni settanta cantata benissimo da Eric (ma il coro di bambini finale ce lo poteva risparmiare), e Our Love Is Here To Stay, dei fratelli Gershwin, jazzata e raffinata come da copione.

Che altro dire…uscite e compratelo!!!

Marco Verdi

Dalla Norvegia Con Passione! Paal Flaata – Wait By The Fire. Songs Of Chip Taylor.

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Paal Flaata – Wait By The Fire: Songs Of Chip Taylor – Rootsy 2012/2013

Scovati grazie all’infallibile fiuto della tedesca Glitterhouse, sempre attenta alla scena pop-rock indipendente, i norvegesi Midnight Choir furono considerati una delle realtà più intriganti della scena rock europea, fin dall’esordio con l’album omonimo Midnight Choir (94), cui faranno seguito Olsen’s Lot (96), Amsterdam Stranded (vincitore per il miglior album rock norvegese del  ‘98), Unsung Heroine (2000), Waiting For The Bricks To Fall (2003), tutti prodotti da Chris Eckman dei grandissimi (per chi scrive) Walkabouts, prima di sciogliersi nel 2004. La band era composta da Ron Olsen, Al DeLoner (autore di tutte le musiche e testi) e dal cantante e leader indiscusso Paal Flaata, dotato di una voce sinuosa e profonda, che dava intensità ad una musica che richiamava alla mente importanti figure che hanno scritto pagine significative nella storia del rock d’autore (a partire da Leonard Cohen, da un verso del quale prendeva il nome il gruppo).

Dopo l’abbandono dal gruppo, Paal Flaata inizia una pregevole carriera solista partendo da In Demand (2002), l’ottimo Rein (2005), una raccolta di canzoni natalizie Christmas Island (2006), Old Angel Midnight (2008), sino ad arrivare a questo Wait By The Fire, che propone, curiosamente, un intero lavoro di rivisitazioni di “classici” del cantautore americano Chip Taylor (fratello dell’attore Jon Voight, padre di Angelina Jolie, moglie di Brad Pitt, e qui mi fermo per il gossip, ma aggiungerei  giocatore di poker professionista). Come spesso accade nella vita, i due si sono conosciuti incidentalmente, in occasione della vicenda della strage sull’isola Utoya, avvenuta nel Luglio del 2011, e da quel momento si è consolidata una stima reciproca, che ha portato a queste dieci canzoni, che sono state estratte dal corposo songbook di Chip (con brani che vanno dal 1960 al 2011).

Prodotto dal collaboratore e polistrumentista Goran Grini, Wait By The Fire, nei suoi cinquanta minuti, si avvale di bravi musicisti locali (per questa volta vi risparmio, per ovvi motivi, i loro nomi), che accompagnano l’ex cantante dei Midnight Choir in questa riuscita reinterpretazione di brani di un autore come Chip Taylor, conosciuto in tutto il mondo per aver scritto successi negli anni ’60 come Wild Thing (Troggs, ma anche Hendrix al Festival di Monterey) e I Can’t Let Go (Hollies), stranamente escluse da questa selezione, ma sinceramente era talmente vasto il serbatoio da cui pescare, che non era certamente facile fare delle scelte. L’iniziale Wait By The Fire, introdotta da arpeggi di chitarra, è un brano splendido, che rispetta in modo evocativo lo spirito delle canzoni dell’autore, mentre la seguente He Sits At My Table è una dolcissima ballata (il primo successo di Willie Nelson nel 1960) con una “performance” di grande livello da parte di Paal Flaata.

Arriva il momento di Angel Of The Morning uno dei classici di Taylor , si tratta di un motivo impossibile da dimenticare, che è stato interpretato da una schiera di cantanti tra cui Juice Newton (la versione più famosa pubblicata nel 1981), Evie Sands (l’originale), Merrilee Rush, Nina Simone, Dusty Springfield (dalle nostre parti è stata fatta una versione dai Profeti con il titolo Gli occhi verdi dell’amore), a cui fa seguito l’accattivante I Can Make It With You, altro brano portato al successo nel lontano 1966 da Jackie De Shannon. Si prosegue con una meraviglia, una versione di If I Stop Loving You, una ballata di sei minuti cantata in stile Leonard Cohen, dove la bravura vocale di Paal viene messa in evidenza, mentre Sleepy Eyes è una dolce filastrocca pop. Con Graceland Souvenirs  (dove il titolo di una canzone di Elvis I Forgot To Remember To Forget è una parte del testo) si viaggia ancora verso le ballate d’atmosfera, mentre Weaker Moments è il momento più intimo del disco, un pianoforte ed un violino ci trasportano con la mente in un lussuoso piano-bar di Oslo. You Didn’t Get Here Last Night è una grande brano pianistico, con un ritornello in stile “ragtime”  che fa da preludio a This Darkest Day, una ballata struggente (che Chip Taylor scrisse il giorno dopo la strage, in ricordo delle vittime) e Flaata l’ha cantata nel corso di un bel concerto gratuito al Farm Festival di Halden.

Paal Flaata (per chi scrive) è senza ombra di dubbio una delle voci più belle della scena norvegese, e per chi conosce il cammino fatto con il suo gruppo, questo Wait By The Fire  non può altro che certificarlo, a dimostrazione che in questo genere di contesto, le canzoni pur belle, possono essere ulteriormente valorizzate con una prestazione vocale fantastica, che viene dal profondo dell’anima.

Alla fine dell’ascolto del CD, ho avuto la netta sensazione che queste canzoni fossero state scritte appositamente per Paal Flaata, in quanto anche se Chip Taylor è un grande cantante e autore, le sue migliori canzoni sono diventate più grandi di lui, e la dimostrazione è stata data da tutti i grandi artisti che hanno portato la sua musica in giro per il mondo.

Tino Montanari

Finalmente Degno Di Tanto Padre! Shooter Jennings – The Other Life

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Shooter Jennings – The Other Life – Black Country Rock/Entertainment One/Blue Rose

Come disse un tempo Jannacci Enzo da Milano, ogni tanto, “l’importante è esagerare”, e in questo caso mi sentirei di dire, finalmente Shooter è degno di tanto padre (e pure la mamma, Jessi Colter, sarà orgogliosa),  anche se, ad essere sinceri, Shooter Jennings di dischi belli ne ha già fatti parecchi, con Black Ribbons aveva messo a dura prova la pazienza dei suoi fans, con un disco che era un incrocio tra i Nine Inch Nails, detto da lui (e fin lì nulla di male) e il country-southern-rock, due mondi che difficilmente coincidono, più che altro collidono. Ma già il precedente Family Man, per dirla con il titolo del suo primo disco, aveva Put The O Back In Country, ed ora questo The Other Life completa l’opera, rivelandosi forse il suo migliore in assoluto. Il nostro amico Shooter, vero nome Waylon Albright Jennings, in onore del babbo, il fisico dell’outlaw ce l’ha, e anche la classe del musicista e la voce non si discutono, probabilmente non sarà mai un n.1 come il padre Waylon, che già alla fine degli anni ’50 era nella band di Buddy Holly e schivò l’incidente aereo del “The Day The Music Died” (dove oltre a Holly persero la vita anche Ritchie “Bamba”Valens e Big Bopper) per un pelo, diventando poi uno fondatori del movimento outlaw che ha rivoluzionato la musica country fino alle sue fondamenta. Il figlio ha il DNA dell’augusto genitore nelle sue cellule e questo nuovo album lo testimonia.

Essendo un figlio degli anni ’70 (1979 per la precisione) e quindi cresciuto negli anni ’90, Jennings jr. è stato influenzato anche da altri tipi di musica e questo ogni tanto traspare nelle sue canzoni, finché si tratta di rock e ancora meglio di southern rock, nulla di male, ma quando si lancia nell’alternative o nel pseudo psichedelico lo si capisce meno. Prendete ad esempio una canzone come l’iniziale Flying Saucer Song,che era uno dei brani che appariva in Pussy Cats (come bonus), il disco di Harry Nilsson prodotto da John Lennon, ma qui, in apertura di CD, sembra una outtake da qualche disco di Mike Oldfield, tastiere ovunque, suonate dallo stesso Shooter e da Erik Deutsche, piano, organo, wurlitzer, synth vari, voci trattate, vuoi vedere che ci è ricascato? Anche se poi un certo fascino si percepisce comunque, molto meglio il rock deciso e chitarristico di A Hard Lesson To Learn dove la pedal steel di Jon Graboff, co-autore del brano, comincia a spargere buona musica nei solchi digitali del disco, le tastiere ci sono, rappresentate da un gagliardo organo Hammond.

Quando però si decide di entrare a piedi uniti nel country di famiglia le cose si fanno serie: il galletto e gli uccellini che ci accolgono all’inizio di The White Trash Song (scritta da Steve Young) fanno da preludio ad un tripudio di pedal steel, violini, piano e alla follia sonora del “fuori di testa” di Austin, Texas, Scott H. Biram, che mette la testa a posto per un travolgente duetto con Jennings che più outlaw non si può. Il duetto con Patty Griffin in Wild and Lonesome è una ballata country di quelle che ormai si ascoltano raramente, del tutto degna delle migliori collaborazioni tra Gram Parsons ed Emmylou dei tempi che furono, ma anche di Waylon & Jessi, una piccola perla. Outlaw You che già dal titolo, e poi nel testo, cita e ricorda personaggi come Johnny Cash e babbo Waylon, si regge su un violino insinuante (suonato nel disco, di volta in volta, da Eleanor Whitmore, Stephanie Coleman e dal veterano Kenny Kosek), sul banjo di Bailey Cook e sulle chitarre del già citato Graboff e dei due chitarristi solisti , Jeff Hill e Steve Elliot, Steve Earle non gli fa un baffo, grande brano! La title-track, The Other Life, è un’altra ballatona di quelle struggenti, sorretta nuovamente da piano, pedal steel e chitarre, presenta i “soliti ingredienti”, ma se sono usati bene la loro porca figura la fanno sempre, soprattutto se chi canta ci mette il giusto impegno.

The Low Road è nuovamente del sano outlaw country-rock, che mescola banjo e steel con il suono rock delle chitarre, l’andamento pigro ma deciso della ritmica e la grinta del cantato, che è lontana anni luce dalla melassa di Nashville. Mama, It’s Just My Medicine è un country & roll di quelli ruspanti, con un assolo di synth che, stranamente, si inserisce perfettamente nel tessuto più moderno del brano, forse destinato alle radio, commerciale, ma averne di brani così sulle onde radio. The Outsider è un altro perfetto esempio di country song pura e dura, con l’aggiunta dell’armonica di Mickey Raphael che potrebbe proporla al suo datore di lavore Willie Nelson. 15 Million Light-Years Away presenta una accoppiata inconsueta, Jim Dandy (il cantante dei Black Oak Arkansas) con il suo vocione inconfondibile si adatta “come un pisello nel suo baccello” al mood della canzone e questo mid-tempo elettrico è un altro highlight del CD, permettendo ai due chitarristi di dare libero sfogo al loro solismo, poi reiterato nella lunga e tiratissima ode di progressive southern rock, The Gunslinger, dove chitarre, tastiere e un sax inconsueto si fanno largo tra i “motherf**ers” che nel testo si sprecano, inizio misurato e crescendo micidiale. Ben fatto, Shooter Jennings!                                        

Bruno Conti

Vi Mancano Gli Stones? Beccatevi Questi! Deadstring Brothers – Cannery Row

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Deadstring Brothers – Cannery Row – Bloodshot CD 02-04-2013

Se avessero dovuto bendarmi e farmi ascoltare questo disco senza dirmi nulla, avrei pensato ad una oscura session dei primi anni settanta dei Rolling Stones, rimasta poi nei cassetti. I Deadstring Brothers sono un gruppo di Detroit cresciuto veramente a pane e Stones, ma non gli Stones classici (quelli più rock’n’roll per intenderci), ma quelli appunto del periodo 70/72, che flirtavano con la California e con il cosmic country di Gram Parsons e dei suoi Flying Burrito Brothers. Cannery Row è già il loro quinto album (non conosco i precedenti, tutti usciti per la Bloodshot), ed è un godibilissimo excursus in un sound d’altri tempi, ma sempre attuale (basti pensare all’ultimo album di Ryan Adams, Ashes & Fire) ed affascinante: il leader e deus ex machina del gruppo è Kurt Marschke, che in effetti tratta la band come una sua creatura, cambiando spesso i componenti (la versione attuale comprende JD Mack al basso, Brad Pemberton alla batteria, Mike Webb al piano ed organo, tra l’altro bravissimo, e Pete Finney a steel e dobro, molto valido anche lui, mentre Kurt si occupa delle chitarre).

Una band di elementi esperti, gente che ha suonato con Poco, Dixie Chicks, Hank Williams Jr. e lo stesso Ryan Adams, ai quali si aggiunge come special guest Mickey Raphael, armonicista storico della Willie Nelson Family Band. Gente che sa il fatto suo, e pure Marshke, cognome impronunciabile a parte, non è certo un pivello: il suo suono dipende sì dalle Pietre Rotolanti, ma in alcuni casi riesce a smarcarsi brillantemente da questa dipendenza e dimostra di saper camminare anche con le sue gambe. Cannery Row è, considerazioni a parte, un signor disco, e nei suoi quaranta minuti non c’è un solo secondo da buttare. Si parte davvero alla grande con Like A California Wildfire, classica ballata alla Jagger & Co., sembra una outtake incisa il giorno dopo la registrazione di Wild Horses, molto bella anche se derivativa. It’s Morning Irene inizia come una ballata folk, poi entra la band ed il brano si tramuta in un gustoso cocktail di country e cajun, con un’atmosfera nostalgica di fondo: un brano più personale questo. Oh Me, Oh My palesa altre influenze, come il periodo bucolico di Van Morrison (Tupelo Honey e dintorni, sempre di early seventies parliamo), ma anche The Band per l’uso dell’organo. The Lonely Ride è puro Stones sound, tra country e rock’n’roll (splendido l’uso del piano), grandissima canzone, molto coinvolgente: ricorda molto (ma molto) Dead Flowers e quindi sono di parte, perché lo considero il brano più bello di sempre dei Rolling. 

Cannery Row è un’intensa ballata, fluida e distesa, con un bel solo di organo, mentre Lucille’s Honky Tonk è un country-blues acustico, che si stacca un po’ dall’ombra degli Stones ma rimane ben dentro la grande musica (ottimi piano, slide e steel): musica suonata col cuore, e si sente. The Mansion, ancora acustica, è emozionante e ricca di pathos: quasi quasi mi viene da scomodare gli ultimi Black Crowes (*NDB Tra qualche giorno a proposito dei fratelli Robinso, bella sorpresa sul Blog, così costringo Marco a lavorare) quelli che alternano le loro classiche jam elettriche a splendide digressioni acustiche. Just A Deck Of Cards è guidata da un’ottima slide e dalla voce alla Jagger di Kurt; Talkin’ With A Man In Montana è un’altra grande canzone, una slow ballad pianistica e scintillante, un pezzo così Jagger e Richards non lo scrivono da una vita.  L’album si chiude, come era iniziato, cioè con una languida ballad figlia del binomio Stones/Parsons (Song For Bobbie Jo). Davvero un’ottima band questi Deadstring Brothers (o dovrei dire Kurt Marschke & The Deadstring Brothers), un po’ derivativa ma non sempre: se vi mancano gli Stones più roots e bucolici, questo dischetto fa al caso vostro.

Marco Verdi