Italiani D’America E Di Quelli Bravi! Jimmy Vivino & The Black Italians – 13 Live

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Jimmy Vivino & The Black Italians – 13 Live – Blind Pig Records

Questo disco di Jimmy Vivino si potrebbe definire un album del filone rock & soul revue, se esistesse, nel caso lo inventiamo: sapete, quei gruppi misti, di neri e bianchi, che girano per l’America portando il loro carico di canzoni più o meno celebri, originali e cover, eseguite da ensemble di musicisti piuttosto numerosi, nove complessivamente nel caso dei Black Italians, ma ce ne sono o ce ne sono stati di più numerosi, per esempio la Rock and Soul Revue di Donald Fagen (e Vivino c’era) che aveva un gruppo di musicisti fissi e guests che ruotavano a seconda delle occasioni (Libby Titus, Phoebe Snow, Eddie Brigati, Charles Brown, Michael McDonald e Boz Scaggs), questi due ultimi presenti anche nella nuova avventura  dei Dukes Of September.

Ma la formula si può applicare anche ai classici Blues Brothers o ad Al Kooper con i Rekooperators (sempre con Vivino che ha anche “ereditato” il gruppo), in Europa mi vengono in mente i Commitments, ma ce ne sono a iosa, persino le compagnie che portano in giro certi tipi di musical potrebbero rientrare nel genere, Sister Act in un ambito gospel per esempio, indovinate chi era il direttore musicale per i due film? Esatto! Sempre Vivino. Al Kooper (tra gli “inventori” della formula, rock, jazz e soul in un tutt’uno, con i suoi Blood, Sweat & Tears) è stato il suo mentore, ma Jimmy era presente anche nel live dell’89 di Laura Nyro At The Bottom Line o nel disco come Killer Joe di Max Weinberg, in cui era chitarrista e produttore.

Il sodalizio tra i due poi è proseguito negli anni, perché la vera mente musicale nella house band del Late Night With Conan O’Brien è sempre stata il buon Jimmy, che anche in questo caso ha poi ereditato il posto. Il musicista del New Jersey ha suonato tutti i generi, blues con Odetta, Louisiana Red, Shemekia Copeland,  rock con Willie Nile (in Live From The Streets Of New York) ma anche con i Gov’t Mule, con grandi cantanti come Phoebe Snow, Bette Midler, Cissy Houston, John Sebastian (non sapevo fosse italiano pure lui, John Sebastian penso Pugliese, anche se Vivino nelle note, lo storpia senza la i, ma quando racconta con orgoglio del figlio che ordina, e qui scrivo come è riportato nel libretto “ oreganatta, strachetella e veal scalloppini” ?!?, non si può dai!).

Tuttavia quando si arriva alla musica questo signore ci sa fare come pochi: la sua discografia riporta solo un altro album a suo nome, Do What Now? del 1997, proprio con i citati Rekooperators, ma questo 13 Live, registrato dal vivo nei famosi Levon Helm Studios di Woodstock, davanti ad un pubblico ad inviti, è un gioiellino! Si parte con la travolgente Fat Man, un brano di Derrick Morgan (un giamaicano che era l’anello mancante tra il soul e il reggae) che qui sembra una canzone dei Little Feat registrata in quel di New Orleans, con la slide di Vivino, l’armonica di Felix Cabrera e le tastiere di Danny Louis subito a dettare i tempi, mentre tutta la band, con il batterista James Wormworth e un terzetto di percussionisti fantastici che dà una scansione ritmica latina formidabile al sound. Poi il blues eccellente di Soulful Dress con la voce nerissima di Catherine Russell a guidare le danze e la chitarra del leader sempre tagliente (ricorda in tutto il disco il “sound” di Robbie Robertson)  a farsi largo nel denso magma sonoro dei Black Italians, con Cabrera che alterna il suo lavoro all’armonica a quello come voce solista, che divide con la Russel e Vivino.

La prima cover di Dylan è una tiratissima From A Buick 6, che in quegli studi in passato deve essere risuonata spesso! Fast Life Rider è un brano di Johnny Winter che sembra una outtake da Live At Fillmore East degli Allman, con tutti i percussionisti in overdrive e la slide che viaggia che è un piacere. Fool’s Gold porta la firma di Vivino ma potrebbe essere uno slow blues di quelli che Al Kooper scriveva ai tempi della Super Session o prima e Catherine Russell la canta con una voce che è una via di mezzo tra Etta James e Randy Crawford e anche Heaven In A Pontiac se non riportasse come autore James Vivino potrebbe essere un pezzo R&R di Chuck Berry mentre Animalism di Cabrera potrebbe essere un omaggio ai War di Eric Burdon, Light Up Or Leave Me Alone era un brano di Jim Capaldi per i Traffic e questa formazione a forte trazione ritmica gli rende piena giustizia. Ottimo anche lo scatenato funky What I Have To Do di James Brown per Marva Whitney, con la Russell e il trombone di Danny Louis sugli scudi. Il ritmo indolente di Miss Mona, di nuovo i Feat nella Crescent City e poi il trittico finale di Maggie’s Farm, ancora un Dylan assai ritmato, una Song For Levon molto sentita e la cover di Shape I’m In della Band. Un disco inaspettato ma che regala buone vibrazioni!                 

Bruno Conti   

Piovono Chitarristi, Il Ritorno 2! Simon McBride – Crossing The Line

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 *NDB. Visto che il tempo atmosferico, purtroppo, lo consente, continuiamo a farli piovere!

 Simon McBride – Crossing The Line – Nugene Records

C’è tutta una NWOBBG (New Wave Of British Blues Guitarists) e anche dall’Irlanda del Nord (per il soggetto in questione): Danny Bryant, Aysnley Lister, Oli Brown, Matt Schofield, Joanne Shaw Taylor, Bex Marshall, Chantel McGregor, Virgil (McMahon) And The Accelerators, i due Ian, Parker & Siegal e ora (ma già da un po’ di tempo, come per la maggior parte di quelli citati) Simon McBride. Quest’ultimo, nativo di Belfast, e quindi tecnicamente britannico, è un ex metallaro pentito e redento: pensate che nel lontano 1994, a 15 anni, vinceva il premio come Young Guitarist Of The Year della rivista Guitarist e pochi mesi dopo veniva assoldato dalla band metal Sweet Savage, per sostituire l’ex Def Leppard Vivian Campbell, come chitarra solista e rimaneva poi con loro fino al 1998, il tempo di registrare anche un paio di albums. Nel 1998 appunto incontra Andrew Strong, il protagonista dei Commitments e torna a suonare soul, R&B, blues che erano stati i primi amori della sua gioventù musicale, quelli che lo avevano convinto a darsi alla musica non solo come professione. Dopo parecchi anni di “palestra” come accompagnatore, decide di dedicarsi ad una carriera solista e per l’etichetta specializzata Nugene (anche la casa di Matt Schofield e Ian Siegal) inizia la sua nuova vita come “bluesman”, anche se sempre con una forte propensione per il rock, come testimoniano le due cover di Free e Hendrix, presenti nel suo disco di esordio Rich Man Falling.

Dopo di quello ha pubblicato un altro album di studio, uno dal vivo, Nine Lives, e ora questo Crossing The Line (già uscito da qualche mese). Se vogliamo creare uno slogan potremmo dire “Giovani Clapton (o Rory Gallagher?) crescono: ma a 34 anni si è ancora giovani? Nella musica, e nel blues in particolare, forse sì. E quindi in questo, peraltro buono, album convivono le varie anime di McBride, un rock-blues torrido temperato da uno spirito soul, un certo “modernismo” sonoro allenato dal passato metallaro, una ulteriore componente radiofonica, se questo tipo di musica passa anche in radio, in Italia sicuramente no, ma in altri paesi sì, e penso a gente come Jonny Lang, John Mayer, Kenny Wayne Sheperd che vendono “paccate” di dischi avendo sempre tenuto ben presente una anima commerciale, che non sempre li fa amare totalmente dalla critica, ma alimenta questa loro ambizione a diventare (se mai vorrà ritirarsi) il futuro Clapton, in concorrenza magari con Bonamassa, che per il momento è decisamente il più eclettico del gruppone (con note di merito anche per Schofield, Lister e Siegal)!

Tornando a questo McBride, il primo brano, Lead us away, parte con una svisata che sembra provenire proprio da quel passato hard (in musica naturalmente) e poi si sviluppa con un groove che può ricordare sia il Bonamassa rock che i vecchi Free o meglio i loro “figliocci” Bad Company, Go Down Gamblin’ è una cover di un vecchio brano di David Clayton-Thomas, tratto da Blood, Sweat & Tears 4, per un gruppo che dopo la cover della coppia Hart/Bonamassa sembra tornato di moda, il sound è sempre hard anziché no, un po’ di maniera ma onesto. No Room To Breathe è una ballatona vagamente alla Gary Moore che si salva in virtù del buon lavoro alla solista di McBride. Anche Don’t Be A Fool  nonostante un organo di supporto, suonato sempre da Simon, coretti vari e ritmi più funky, al di là della solita chitarra non rimarrà negli annali del rock. A livello di lenti, molto meglio Starve This Fever che nel lavoro della solista ha un qualcosa di Beck, inteso come Jeff, per la sua intensità. Alcatraz, con una piccola sezione fiati, si avvale della lezione soul imparata con Strong, buona interpretazione vocale ma è sempre un soul “bianco” annacquato, né troppo nero, né troppo rock, si può fare di meglio.

One More Try può ricordare il suono dei citati Jonny Lang o John Mayer, commerciale ma con giudizio, A Rock and A Storm è un brano acustico che ci permette di apprezzare la destrezza tecnica di McBride, sicuramente un chitarrista molto dotato. Heartbreaker non è quella dei Free e neppure degli Zeppelin, ma pesca da quel bacino con qualche “impressione hendrixiana”! Home To Me è una cover scritta dal conterraneo irlandese Gareth Dunlop, un giovane moderno soul man in pectore e anche la Down to the wire (revisited) già presente nel CD precedente è un lento di buon impatto. Come per gli album passati, già al vaglio di chi scrive, piace ma senza entusiasmare!

Bruno Conti    

Capperi Che Band! The Dirty Guv’nahs – Somewhere Beneath These Southern Skies

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The Dirty Guv’NahsSomewhere Beneath These Southern Skies – Blue Rose/Dualtone CD

Devo confessare che non avevo mai sentito parlare dei Dirty Guv’Nahs, sestetto proveniente da Knoxville, Tennessee, e quando ho ascoltato per la prima volta questo loro album sono saltato sulla poltrona. Il fatto che dal 2008 vengano nominati ogni anno “la migliore band di Knoxville” può voler dire tutto e niente (Knoxville non è né Los Angeles né New York), ma vi assicuro che questi Guvs (in America li chiamano così per far prima) sono davvero bravi.

I due leader e principali autori dei brani sono il cantante James Trimble, una forza della natura, ed il chitarrista Michael Jenkins, poi ci sono i fratelli Aaron e Justin Hoskins alla sezione ritmica, Cozmo Holloway alla seconda chitarra e l’ottimo Chris Doody alle tastiere. I sei ragazzi sono una band tosta, tostissima, suonano un rock chitarristico molto classico, con spiccate influenze sudiste e massicce dosi di soul: il riferimento più vicino sono i Black Crowes, ma anche Rolling Stones e Faces (che guarda caso sono anche i principali ispiratori del gruppo dei fratelli Robinson), un tipo di musica che ormai non suona quasi più nessuno ed anche per questo risulta gradita.

Il sound è chitarristico, ma pianoforte ed organo sono spesso protagonisti, ed i fratelli Hoskins picchiano duro con basso e batteria: il tutto condito dalla notevole voce di Trimble, un timbro simile a quello di Steven Tyler, ma meno sguaiato. Somewhere Beneath These Southern Skies (uscito già da un annetto circa in America, ora in Europa per la Blue Rose) è il loro terzo album, ma il primo con una distribuzione decente (i primi due erano indipendenti) e sicuramente quello che li farà conoscere ad un pubblico più vasto: in America sono già una piccola realtà, avendo di recente aperto i concerti della Zac Brown Band e di Grace Potter & The Nocturnals.

Quattordici brani, cinquanta minuti di musica che oscilla tra il buono e l’ottimo, con solo un paio di episodi leggermente meno riusciti: produce il tutto Ross Copperman (molto noto a Nashville come songwriter), una produzione asciutta, classica ed essenziale, senza fronzoli. L’album inizia ottimamente con la splendida Can You Feel It, rock song di stampo classico, chitarre possenti, un bel refrain e la vocalità potente di Trimble: un avvio degno di una band di veterani.

Anche Don’t Give Up On Me offre un sound forte e vibrante, una ballata rock pura ed incontaminata, come oggi purtroppo in pochi sanno (o vogliono) fare. Good Look Charm ha un attacco (e pure il seguito) figlio degli Stones, con i fiati che danno un sapore più soul e James che canta benissimo, la fluida Temptation è southern rock deluxe, con chitarre e piano protagonisti, mentre Honey You è puro rock’n’roll, coinvolgente e contagioso, perfetta da suonare dal vivo. Un inizio al fulmicotone, e non siamo neppure a metà disco.

Live Forever, che non è quella di Billy Joe Shaver, inizia come una ballata (il suono è splendido), poi si elettrifica e diventa una rock song fatta e finita; 3000 Miles è più distesa e rilassata, anche se le chitarre restano in primo piano. E’ difficile trovare un momento di stanca: la bellissima e soulful This Is My Heart ricorda molto i Corvi Neri, ed è una goduria per le orecchie, Fairlane ha una melodia diretta e gradevole, mentre Lead Kindly Light è forse un po’ troppo prodotta, ma è un peccato veniale.

Dear Alice, guidata dal piano, sembra uscita da un vinile degli anni settanta, Child è dura e spigolosa, forse la meno brillante, ma nel finale i Guvs piazzano un uno-due da KO con la deliziosa soul ballad Goodnight Chicago e la sudista al 100% One Dance Left, guidata da una bella slide.

Saranno anche sporchi questi Governatori, ma come suonano!

Marco Verdi

Piovono Chitarristi, Il Ritorno! Jason Elmore & Hoodoo Witch – Tell You What

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Jason Elmore & Hoodoo Witch – Tell You What – Underworld Records

Non posso che confermare quanto detto di buono in relazione alla precedente uscita di Jason Elmore, Upside Your Head (forse ai tempi sul Busca avevo anche “ciccato” il titolo), dischetto del 2010 che ci aveva presentato questa nuova realtà del rock, intriso di blues, texano. Anzi, se possibile, questo nuovo Tell You What è ancora più soddisfacente, nella sua corposa e sanguigna varietà che ruota intorno a questo sound molto anni ’70 (anche più indietro) ma che tiene conto dei vari chitarristi che si sono susseguiti nelle decadi successive, Stevie Ray Vaughan e Joe Bonamassa i primi che mi vengono in mente, ma ce ne sono molti altri.

Quindi, come al solito, niente di nuovo, ma per chi ama il genere rock, nelle sue varie declinazioni e i chitarristi in particolare, qui c’è di che gioire: le influenze vanno dagli Zeppelin di Page, sentire per credere la potente Botton Feeder al Rory Gallagher degli inizi, citato in prima persona con una grandiosa cover di Country Mile che ha stampato nel proprio DNA l’indimenticabile forsennato drive dei migliori brani dell’irlandese, e per riprodurlo al meglio si sono dovuti mettere in due, con l’amico e consulente (?!?) Jim Suhler che aggiunge la sua slide alla feroce solista di Jason Elmore (sembra uno pseudonimo ma è più un caso di “nomen omen”, un destino), per una cavalcata selvaggia e senza freni nel miglior rock-blues d’annata. Ma anche il southern-rock blues “cattivo” di Southbound, che non è quella degli Allman ma ha quei profumi e ritmi boogie, addizionati con la verve di certe jam band anni ’90 come i Blues Traveler o i Gov’t Mule, chitarre fumanti e voci distorte ma anche assolo di assoluta precisione chirurgica e tecnica sopraffina. O ancora lo slow blues Cold Lonely Dawn, con l’organo B3 di Tommy Young e la screziatura di fiati di Ron Jones (una novità di questo album) che aggiungono una patina di deep soul al suono vibrante del pezzo e la chitarra disegna linee soliste assolutamente degne di nota, fluide e ricche di inventiva, insomma in soldoni, questo è uno buono, forse i suoi sono avanzi della cucina del giorno prima, ma presa da un ristorante a cinque stelle, si chiama arte del riciclo!

C’è anche quell’aria country got soul, passavo per caso da Memphis, di When The Sun Goes Down o le brillanti evoluzioni strumentali dell’iniziale, frenetica Sharecropper Shuffle che qualche grado di parentela con la musica di SRV sicuramente le ha, ma cita pure la Hideaway di Freddie King e il blues tutto nel suo crescendo, breve ma inarrestabile. Dirt Ain’t Enough è un altro slow blues atmosferico, questa volta tra Jimi e Stevie Ray, d’altronde quelli sono alcuni dei punti di riferimento di Elmore, poi lui ci mette del suo con una cascata di note, nell’assolo nella parte centrale e finale del brano, che ha quell’effetto devastante sul gatto nero disegnato in copertina. Buckaroo è un breve omaggio all’inventore del Bakersfield Sound, Buck Owens, puro country picking strumentale, mentre Don’t Pass Me By vuole ricordare un altro giovane talento, scomparso troppo presto, come Sean Costello, un ulteriore pezzo bluesato ma marinato nel soul, come usava fare il chitarrista, anche lui “sudista” come il nostro Jason.

Non male anche la quasi jazzata, ma a tempo di boogie rallentato, Good Foot (non ci sono brani scarsi e anche questo è un merito) e, l’unica non memorabile, a onore del vero, la swingata She Fine, che ha qualche attinenza con lo stile di Robillard e si riscatta per il lavoro di fino alla solista di Elmore. Si conclude in gloria con una sontuosa You Don’t Miss Your Water, scritta e cantata da William Bell, ma che molti ricordano perché concludeva quell’indimenticato capolavoro che è Otis Blue: Otis Redding Sings Soul. Non potendo competere nel campo vocale, anche se la parte cantata è più che rispettabile, Elmore James si affida alla sua solista per un lirico contributo alla soul music più “profonda”, ben coadiuvato dal solito organo Hammond di Young e alla lap steel, aggiunta per l’occasione, di Kirby Kelley. Bella musica, questo brano, ma il disco tutto, come si suole dire in questi casi, caldamente consigliato!

Bruno Conti

“Americana” = Rock Di Qualità? Falling Martins – Highway 61 Northbound Blues

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Falling Martins – Highway 61 Northbound Blues – Self Released 2013 – 2 CD

Qualcuno si domanderà: ma chi sono questi Falling Martins? Un quintetto che nasce, vive e comincia a suonare nei bar di St.Louis, all’inizio del nuovo millennio, influenzati dai vari Allman Brothers, Wilco, Uncle Tupelo. Quella dei Falling Martins è la storia moderna di una band nata sulle strade del Missouri e (come detto) nei locali di St.Louis, ma arrivata alla mia conoscenza per le nuove possibilità di ricerca nella rete. Il loro debutto discografico si manifesta con l’omonimo Falling Martins (2004), seguito da Newest Ghost in Town (2005), Nostalgia Train (2006), Falling Martins I (2007) (una antologia che raccoglie il meglio dei tre dischi), il doppio dal vivo Live At The Old Rock House (2008), che rende alla perfezione la bravura e la preparazione del gruppo, e l’ultimo lavoro in studio Shining Bright (2010). L’attuale “line-up” del combo è composta dai due leader storici Pierce Crask, chitarrista, cantante solista e compositore di gran parte delle canzoni, e da Paul Tervydis, voce, tastiere e sublime pianista, Il resto della band è formato da Rich Wooten al basso (e secondo compositore), Ron Vogt alla batteria e Mike Martin, aggiunto alle chitarre.

Highway 61 Northbound Blues, questo il titolo del nuovo lavoro, prosegue il discorso: venti brani distribuiti su due CD (in altri tempi sarebbe bastato un CD singolo), di puro e classico rock a stelle e strisce, con qualche elemento folk e blues tra le righe. E’ quasi superfluo fare una disamina brano per brano, quindi vi segnalo che il disc One apre con Illegal In China e una Cadillac Jack’s nella quale la band lascia viaggiare libere le chitarre ed il piano di Tervydis che ricama in sottofondo, si prosegue con una brano elettro-acustico psichedelico Surfers Unite To The Sound Of Sonic Youth, passando per una cover pescata dall’ultimo lavoro di Freedy Johnston It’s Gonna Come Back To You, revisionata in una perfetta country-song, mentre Long Hot Summer e Right Trough Me sono pop-rock di gran classe. Il secondo CD continua a correre a mille con lo scatenato swamp-rock di Highway 61 Northbound Blues (dove Tervydis si esalta, ricordando il miglior Bruce Hornsby), The Fight che inizia discreta, per poi assumere i toni di una solida ballata rock, chitarristica e potente. Con Are You Ready For The Country di Neil Young, arriva la seconda cover del lavoro, cui fa seguito la splendida Fading Fast, una ballata elettrica dall’incedere epico, che inizia con armonica e chitarra acustica, ma poi si sente la band entrare all’unisono, con Crask che intona una melodia di quelle che si ricordano. Meravigliosa. Arriva il momento di due brani acustici in forma blues come All The Things e Wait And See , dove la bravura dei due leader si evidenzia in un suono preciso e mai invadente, mentre la chiusura in versione bar-band è tutta nella trascinante Crush My Soul.

I Falling Martins sono una band pressoché sconosciuta, difficile comprenderne il motivo in quanto il gruppo ha una fluidità d’esecuzione impressionante, il piano di Tervydis evidenzia la melodia e Crask ha una bella voce (con influenze che vanno da Dylan a Townes Van Zandt per arrivare a Warren Haynes), con canzoni che scorrono veloci e lasciano il segno. E’ sorprendente che un gruppo di questa qualità sia senza contratto, ma di questi tempi (purtroppo) nulla riesce più a sorprendermi nella musica, anche se i Falling Martins sono ormai una solida realtà (per chi scrive) e dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, che il rock non è morto, solo malato!

Tino Montanari

Era L’Ora! Savoy Brown – Songs From The Road

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Savoy Brown –  Songs From The Road – Ruf CD/DVD

Era l’ora. Lo so, si dice spesso, ma in questo caso è più vero che mai. Dopo i chiari segnali di ripresa con un buon disco come Voodoo Moon, uscito nel 2011 e di cui vi aveva parlato positivamente sempre chi scrive  e-alla-fine-ne-rimase-uno-il-chitarrista-savoy-brown-voodoo.html, il passo successivo poteva, e doveva, essere un bel CD dal vivo (magari con DVD aggiunto): e così è stato, e anche se non sempre l’assioma, “ah, ma dovrebbero fare un disco Live” viene poi confortato dai risultati sperati, per i Savoy Brown, in questo caso, vale! La serie Songs From The Road della Ruf ha peraltro illustri predecessori: i doppi di Jeff Healey e Luther Allison, e in misura minore quello di Erja Lyytinen, sono ottimi esempi di come usufruire di questi cosiddetti combo, CD+DVD, ottima qualità del suono, immagini ben realizzate e, soprattutto, concerti che soddisfano anche per i contenuti musicali.

Questo dei Savoy Brown in particolare mi sembra il più riuscito in assoluto della serie e tra i migliori dischi dal vivo mai realizzati dalla storica band blues(rock) inglese, che non sempre in passato è stata pari alla sua fama, anche in questo ambito. Ok, della formazione originale c’è solo Kim Simmonds, il biondo chitarrista e leader, ma basta e avanza, se i comprimari (leggi nuovi componenti del gruppo) sono all’altezza della situazione. E questo mi pare proprio il caso: come dicevo per il disco in studio, e confermo per questo live, Joe Whiting è un ottimo cantante, ugola potente e padronanza della scena, l’unica pecca, piccola, è questa sua fissa per il sax inserito in un ambito blues-rock (lascia perdere Joe, che ogni tanto rompi le balle!), soprattutto in considerazione dello stato di grazia di Simmonds, che è veramente magistrale in questo concerto, occhi chiusi, grande concentrazione e una serie di assolo veramente notevole, a conferma della sua reputazione di guitar hero, che se non raggiunge quella dei più grandi, in una ipotetica Top 30 dei migliori nel genere, secondo me, ci entra alla grande. Ben coadiuvato dalla sezione ritmica composta dai “nuovi” Pat De Salvo al basso e Garnett Grimm alla batteria, e con una scelta azzeccata del repertorio i Savoy Brown, o quel che resta di loro, dimostrano che non tutti i “dinosauri”  del rock sono estinti, qualcuno, in area protetta, nelle riserve concertistiche, resiste!

Il pubblico dei fortunati “crucchi” invitati al Musiktheater Piano di Dortmund nel maggio del 2012, non è numeroso, ma caldo ed entusiasta e viene subito investito dal poderoso treno sonoro del brano strumentale 24/7, tratto dall’ultimo Voodoo Man, Joe Whiting è al sax, in questo caso anche con un assolo efficace, ma il protagonista è subito Kim Simmonds, a occhi chiusi comincia a strapazzare con gran classe la sua Gibson d’annata (normale o Flying V). Un attimo e cominciamo a tuffarci nel passato, Looking In è la title-track del sesto album del gruppo, 1970, quando in formazione c’era ancora Lonesome Dave (Peverett) poi nei Foghat, che ha scritto il brano con Simmonds ai tempi, e la chitarra del leader in questo brano, ben sostenuta da un basso pulsante e da una agile batteria, traccia una serie di evoluzioni tra rock, blues e quel tocco raffinato di jazz che lo ha fatto spesso paragonare al suo contemporaneo Alvin Lee, il cantato da blues-rocker americano di Whiting è parimenti efficace. A riprova che il repertorio proveniente da Voodoo Man è di ottima fattura, il loro migliore da lungo tempo a questa parte, anche Natural Man, sempre tirata ma sinuosa nelle linee chitarristiche, non sfigura con i vecchi brani.

Anche il riff di Street Corner Talking è uno di quelli classici del rock-blues, imparentato con alcuni simili che uscivano dai dischi dei Free dell’epoca, e pure il cantato e le linee di chitarra ricordano la coppia Rodgers-Kossoff. She’s Got The Heat, sempre da Voodoo, è una scarica di potente boogie a tempo di slide (o viceversa) con un assatanato Kim Simmonds al “collo di bottiglia”! Time Does Tell era sempre su Street Corner Talking e questa versione non ha nulla da invidiare all’originale cantato da Dave Walker, anzi, il sax rompe un po’ i maroni (come detto in apertura) ma la parte vocale e soprattutto la lunga improvvisazione chitarristica di Kim sono da manuale del perfetto rocker, se non della giovane marmotta. Dalle paludi della Louisiana l’insinuante Voodoo man conferma la ritrovata vena creativa del quartetto (inglese?) e fa il paio con la tirata Meet The Blues Head On sempre dall’ultimo CD e sempre ottima, nella versione live ancora migliore che in studio. Poi siamo invitati tutti sul “treno diretto verso l’inferno”, da Robert Johnson agli Ac/Dc l’argomento ha sempre stimolato la creatività e questa versione monstre di quasi 14 minuti di Hellbound Train, con i suoi picchi e vallate, fermate e ripartenze è una conferma della potenza del rock quando è maneggiato da chi conosce la materia, Simmonds è magistrale in questo brano. Ancora una potente Shockwaves e un altro classico come Tell Mama di nuovo con slide in evidenza prima della conclusione con il super classico Wang Dang Doodle sempre da Street Corner Talking, il disco più saccheggiato insieme all’ultimo.

Nel DVD un’intervista di undici minuti ma anche due ulteriori e micidiali brani, un medley costruito intorno a Litte red rooster e una selvaggia e lunghissima Louisiana Blues, altri 25 minuti di musica in totale che varrebbero il prezzo di ingresso, se già il resto non fosse gustoso oltre modo. Come direbbe Nero Wolfe: “Soddisfacente Kim”! Un’ottima occasione per conoscere i Savoy Brown oppure “un ripasso” proficuo della materia per i ripetenti.

Bruno Conti

A Volte “Non” Ritornano: Come Volevasi Dimostrare! C S N & Y Live 1974 Rinviato.

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 “Cosa dite, ragazzi lo facciamo o aspettiamo altri 40 anni?”

*NDB Dal nostro inviato tra il gruppo più puntuale e preciso del mondo. Il loro motto è formato da una sola parola: “Forse”!

 

Un paio di settimane fa circa ho scritto un breve post su una ghiotta anticipazione: l’uscita, il 27 Agosto, di un CD dal vivo di Crosby, Stills, Nash & Young che avrebbe dovuto documentare il meglio dei concerti della mitica tournée del 1974, un progetto di cui si vociferava da anni.

Ho usato il condizionale perché, giusto un paio di giorni fa, è uscita la notizia, neanche troppo inattesa se vogliamo, di un ulteriore rinvio alla primavera del 2014.

Graham Nash, curatore del progetto ed anche degli archivi del supergruppo (con o senza Neil Young) ha affermato di aver deciso di posporre la messa in commercio del CD in quanto l’anno prossimo cade il quarantesimo anniversario del tour, e poi sta ancora lavorando a diverso materiale che vorrebbe includere (tra cui un brano inedito di Young dedicato all’allora presidente americano Richard Nixon).

Quindi sembrerebbe che, una volta tanto, non ci sia lo zampino di Young nel ritardo: alcune malelingue (ma come diceva Giulio Andreotti, pace all’anima sua, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca) sostengono che i quattro, che l’anno prossimo sarebbero liberi da impegni, vorrebbero far coincidere l’uscita del disco con un nuovo tour insieme.

Staremo a vedere: per ora è certo che, quando Nash annuncia un progetto (tra cui anche il famigerato disco di cover ad opera di CSN prodotto da Rick Rubin) comincia ad avere la stessa credibilità di un politico italiano che dice di voler fare le riforme.

Marco Verdi

P.s Marco, ma avevi specificato l’anno di uscita (nel post non lo dici)? E in ogni caso, come da video, con questa canzone avevano già anticipato la situazione da quel bel dì (ricordate il testo?)!

Bruno Conti

Novità Di Maggio Parte IV. Valerie June, Deerhunter, Sallie Ford, Ruth Moody, Turchi, Amy Speace

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Proseguiamo con le liste delle uscite di maggio (che in una settimana hanno già superato quelle di tutto Aprile) e esaminiamo un bel terzetto di voci femminili.

La prima si chiama Valerie June, viene da Memphis, Tennesse. Non è del tutto nuova alle scene musicali, anzi, ha già pubblicato due album e un EP nel 2010 in collaborazione con gli Old Crow Medicine Show. Già, perché nonostante le apparenze esteriori, non fa jazz, blues, soul o hip-hop, anche se qualche piccolo elemento di questi generi appare. Si potrebbe definire folk-blues-gospel con elementi rock, co-produce, con Kevin Augunas, Dan Auerbach dei Black Keys, che ha firmato anche parecchi dei brani con la stessa Valerie, il disco si chiama Pushin’ Against A Stone (in ricordo delle difficoltà incontrate nella vita e nella carriera), esce per la Sunday Best Recordings in Europa e verrà pubblicato ad agosto dalla Concord negli States (pur essendo lei americana). Il suono e la voce hanno un che di old fashioned ed affascinante mescolato a sonorità più moderne, il tutto sembra assai interessante, una cantante e chitarrista da tenere d’occhio. Tra i musicisti che suonano nell’album si segnala anche la presenza di Booker T. Jones.

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Anche Sallie Ford con i suoi Sound Outside è da tenere d’occhio (e a portata d’orecchio). Il disco si chiama Untamed Beast esce in questi giorni per la Fargo inglese (anche se per la verità era già stato pubblicato a febbraio negli Stati Uniti con copertina differente, dalla Partisan, processo inverso rispetto a quello per Valerie June) si tratta del secondo CD per il gruppo e si vi sono piaciuti gli Alabama Shakes qui c’è trippa per gatti, voce della madonna, rock, blues, anni ’60, soul, surf, R&R senti che roba… poco “originale”, dirà qualcuno a cui non piacciono, pazienza, non salveranno il mondo della musica neppure loro ma ci mettono almeno una grande energia!

Ruth Moody, nata in Australia, ma da anni residente in Canada, è una signora cantautrice, ma è anche un terzo delle Wailin’ Jennys, ha cantato nell’ultimo Privateering di Mark Knopfler, che ora ricambia il favore apparendo in These Wilder Things il nuovo ottimo album solista della Moody, credo il secondo a nome proprio ma ha partecipato a una valanga di progetti musicali. Il CD esce in Canada per la True North e in America per la Red House, entrambe sinonimo di buona musica.

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Nuovo disco per una delle istituzioni dell’indie-rock americano, da Atlanta, Georgia i Deerhunter, che con Monomania, pubblicato in questi giorni dalla 4 AD, toccano il sesto album in una decina di anni di attività.

Mamma li Turchi, questa ve la dovevate aspettare! Lo so non si fa, torno serio, questo Live In Lafayette è già il secondo Cd che pubblicano, etichetta Devil Down Records, quella del giro North Mississippi All-Stars, nel primo disco di studio infatti c’era come ospite anche Luther Dickinson oltre al trio classico con Reed Turchi, solista, slide micidiale e voce, Andrew Hamlet basso e Cameron Weeks batteria. Il sottotitolo del nuovo abum recita “Kudzu Boogie From Swamplandia” e ci sarebbe poco da aggiungere, John Troutman alla pedal steel e Brian Martin completano la formazione per questo disco dal vivo, date una ascoltatina…

Nel primo brano a duettare con Amy Speace appare Mary Gauthier, nel quarto brano The Sea And The Shore il bravo John Fullbright, ma questo How To Sleep In A Stormy Boat pubblicato dalla Thirty Tigers, dopo una Kickstarter Campaign che ha finanziato il disco, è il quinto album pubblicato dalla cantautrice di Baltimora che ha una fan speciale in Judy Collins. Il CD è molto bello, una voce che si colloca a metà tra Lucinda Williams, Mary Chapin Carpente e le cantanti folk-rock classiche (molto della Collins anche), una manciata di belle canzoni, ancora buona musica in definitiva.

Per il momento è tutto, alla prossima settimana per la rubrica (mentre già nel corso di questa vi “toccheranno” un po’ di recensioni sui dischi che non sono rientrati nelle anticipazioni, Savoy Brown Live, Jason Elmore Hoodoo Witch, Cassie Taylor, Johnny Winter Live In Spain, Simon McBride, Johnny Vivino Live, insomma la solita razione mensile di blues e rock), ma anche altro, vado all’ascolto e al lavoro!

Bruno Conti

L’ultimo Viaggio Di Una “Leggenda Australiana”, Forse! Archie Roach – Into The Bloodstream

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Archie Roach – Into The Bloodstream – Liberation Music 2012/2013

Con particolare e personale piacere oggi vi parlo di Archibald William Roach (all’anagrafe), alias Archie Roach, leggendario cantautore “aborigeno” australiano. Archie nasce a Mooroopna nel centro dello stato di Victoria, e quando era ancora molto piccolo, insieme alla sorella ed altri bambini australiani indigeni della “Stolen Generation”, furono allontanati con la forza dalle loro famiglie, da agenzie governative australiane, e collocati in un orfanotrofio. In seguito allevato da una famiglia scozzese di immigrati a Melbourne, ha trascorso poi la sua intera vita adulta nel tentativo di ritrovare il contatto con il suo popolo di appartenenza, e di tornare a quelle che erano le sue origini in quel contesto. Alla fine degli anni ’80 (diventato un musicista di strada), riuscì a fondare un gruppo chiamato Altogether (formato esclusivamente da musicisti aborigeni), che si esibiva nei festival dell’area di Melbourne, dove furono sentiti occasionalmente da Paul Kelly, che intuito il grande talento, lo selezionò come “opening act” ai suoi concerti.

Quello fra Roach e Kelly è un rapporto professionale e personale che risale allo splendido debutto (prodotto dallo stesso Kelly) con Charcoal Lane (92), album che contiene il più famoso brano di Archie, la struggente Took The Children Away (un dolente atto d’accusa sul trattamento dei bambini indigeni), diventato successivamente una specie di inno del mondo di quelle popolazioni.  Il successivo Jamu Dreaming (93) conferma la sua identità culturale, che, coerentemente, si manifesta anche nei lavori Looking For Butter Boy (97), Sensual Being (2002), nella splendida colonna sonora del film The Tracker, Ruby (2005) dedicato e registrato con la moglie Ruby Hunter, in Journey (2007) e dopo anni travagliati, ritorna con questo stimolante Into The Bloodstream, che mette insieme una band di supporto con musicisti di vaglia come il fido Craig Pilkington alle chitarre e percussioni, Steve Hadley alla basso, Dave Folley alla batteria, Tim Neal alle tastiere, Bruce Haymes alla fisarmonica e la brava cantante di colore Emma Donovan alle armonie vocali, il tutto prodotto dallo stesso Pilkington.

Il viaggio inizia con la “title track” Into The Bloodstream, una maestosa ballata atta a creare subito l’atmosfera del disco, cui fanno seguito il gospel di Song To Sing e Big Black Train un brano che ripercorre un’epopea, cantato meravigliosamente in uno stile à la Johnny Cash. Heal The People è una preghiera gioiosa di speranza per la popolazione indigena dell’Australia, mentre la straziante Mulyawongh (un toccante omaggio a sua moglie Ruby) è una delle più belle ballate della carriera di Roach. Si prosegue con un brano We Won’t Cry, composto e cantato in duetto con Paul Kelly, che vede come vocalist aggiunte le brave Vika e Linda Bull, mentre Wash My Soul In The River’s Flow è un altro gospel profano , suonato in un sorprendente arrangiamento “dixie”. I’m On Your Side esce ancora dalle penna di Paul Kelly aiutato dal nipote Dan, mentre la seguente Little By Little con una chitarra ritmica sincopata, vede come ospiti al controcanto i cantautori Dan Sulton e Emma Donovan. Con Hush Now Babies cantata in duetto con la Donovan, Archie mi ha fatto ricordare il compianto Ted Hawkins, mentre Top Of The Hill è una sorta di romanza, con il crescendo vocale degli Indigenous Choir, e la conclusiva Old Mission Road è un’altra ballata toccante, una storia di speranza in tempi di dolore.

Archie Roach vive le sue canzoni e la sua musica con il linguaggio del cantautorato americano, con atmosfere alla Gordon Lightfoot o Paul Simon, producendo un suono perfettamente in equilibrio tra chitarre acustiche ed elettriche, con arrangiamenti di una precisione e bellezza esemplare, come in questo magnifico lavoro. A questo signore, negli ultimi tre anni è successo di tutto, nel Febbraio del 2010 ha perso la moglie e collaboratrice musicale Ruby Hunter per un attacco di cuore, pochi mesi dopo Archie  stesso fu colpito da un ictus che lo lasciò incapace di parlare e di muovere le mani e nel 2011, nel bel mezzo della rieducazione, gli è stato diagnosticato anche un cancro ai polmoni, curato (per ora) con un intervento chirurgico. Roach attualmente vive con i suoi figli in una fattoria nei pressi di Berri, nel sud dell’Australia e la sua reputazione ormai travalica i confini della sua terra, così come la sua musica che è stata ed è molto importante per la comunità aborigena, che in lui vede la riprova che finalmente l’Australia tutta comincia a capire che non sono più un problema da risolvere, ma invece una cultura antica da rispettare. Come si fa a non voler bene a un artista e a una persona di tale levatura, uno che con le sue storie ci porta in Australia senza prendere l’aereo. Lunga vita fratello Archibald

NDT: Come al solito i suoi dischi sono costosi e di difficile reperibilità, ma se come penso, i lettori di questo blog hanno un’anima per la buona musica, fate il possibile per averli sul vostro scaffale.

Tino Montanari    

Novità Di Maggio Parte III. Cheap Trick, David Bowie, Thea Gilmore, Joe Satriani, Peter Rowan, Noah And The Whale

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Proseguiamo la disamina delle novità in uscita il 7 maggio (e non solo) con un paio di cofanetti e un “vecchio amico”.

L’uscita dei titoli in cofanetto della Sony dal catalogo Columbia, Epic, RCA, Arista prosegue inarrestabile. Mentre tornano disponibili per l’Europa il box dedicato alla Mahavishnu Orchestra e quello mega, da 25 CD, The Complete Rca Albums, dedicato alla discografia di John Denver e rilanciato dal recente ottimo tributo Music Is You, come novità esce questo The Complete Epic Albums Collection, che in 14 CD raccoglie tutta la produzione dei Cheap Trick tra il 1977 e il 1990:

  • 1. Cheap Trick (Expanded)
  • 2. In Color (Expanded)
  • 3. Heaven Tonight (Expanded)
  • 4. At Budokan: The Complete Concert (2 CDs)
  • 5. Dream Police (Expanded)
  • 6. Found All the Parts
  • 7. All Shook Up
  • 8. One on One (newly remastered for this box)
  • 9. Next Position Please (Authorized Version)
  • 10. Standing on the Edge (newly remastered for this box)
  • 11. The Doctor (newly remastered for this box)
  • 12. Lap of Luxury  (newly remastered for this box)
  • 13. Busted (newly remastered for this box)

Più modesto, ma sempre a prezzo “cheap”, esce anche un cofanetto da 5 CD di David Bowie, si chiama Zeit 77-79, con la trilogia berlinese, Low (1977), Heroes (1977), Lodger (1979), più il doppio dal vivo Stage (1978) nel remaster del 2005 fatto da Tony Visconti con Stand e Be My Wife aggiunte. La differenza, oltre al prezzo assai contenuto, è che escono su etichetta EMI dopo essere stati su RCA e Rykodisc.

Quest’anno a luglio compie 71 anni anche lui, ma Peter Rowan non dà segnali di volersi ritirare, questo The Old School esce a tre anni dal precedente Legacy, pubblicato come Peter Rowan Bluegrass Band e si aggiunge alla ventina di album pubblicati come solista, oltre ad innumerevoli collaborazioni ed ai dischi pubblicati con gli Earth Opera, i Seatrain, gli Old & In The Way (con Jerry Garcia) e i Rowans (con i fratelli). La musica, a parte gli inizi, tra rock, psychedelia e country, ha sempre ruotato attorno al bluegrass, la old time music, il folk e anche questo nuovo The Old School, edito a fine aprile dalla Compass, gravita sempre intorno a questi stili. Il sound del disco richiama alla mente i suoi inizi quando era uno dei componenti della band di Bill Monroe (peraltro solo per un anno tra il ’66 e il ’67): musica suonata con strumentazione acustica, molti ospiti “famosi”, Del McCoury e altri componenti della famiglia, i violinisti Buddy Spicher e Stuart Duncan, uno degli iniziatori del new grass, JD Crowe, l’ottantenne mandolinista Bobby Osborne e altri “giovanotti”, tra i quali spicca il bassista Dennis Crouch, l’unico, penso, sotto i 50 anni. Ma l’album ha una freschezza ed un vigore che lo colloca tra i migliori album in assoluto tra quelli realizzati da Rowan. Ovviamente solo per chi ama il genere.

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Altro terzetto eterogeneo.

Avevamo lasciato Thea Gilmore nel 2011 con due album “nuovi”: John Wesley Harding dove riproponeva nella sua versione tutto il classico disco di Bob Dylan e poi Don’t Stop Singing il CD con brani creati dalla stessa Thea a partire da testi inediti ritrovati di Sandy Denny (disco che era entrato anche, miracolosamente nella top 100 inglese). Entrambi i dischi molti belli per chi scrive, che ama particolarmente questa cantautrice di Oxford. Ora, dopo la pausa per maternità. esce Regardless, il nuovo album di studio distribuito come di consueto dalla Fullfill e prodotto dal collaboratore abituale Nigel Stonier. Gli arrangiamenti di archi di Pete Wingfield non hanno incontrato il favore di tutti ma da quello che ho potuto ascoltare la voce (il suo “strumento” migliore”) è sempre in bella evidenza.

Nuovo album anche per Joe Satriani, il 14° in studio, si chiama Unstoppable Momentum ed esce, come al solito, per la Epic. Tutto strumentale, e anche questa non è una novita, nel disco suonano, Vinnie Colaiuta alla batteria, Chris Chaney dei Jane’s Addiction al basso e Mike Keneally, alle tastiere, vecchio collaboratore di Zappa e Stevie Vai, che passa al “nemico”.

Quarto album di studio per Noah And The Whale, titolo Heart Of Nowhere, etichetta Mercury, as usual, nella title-track appare come ospite Anna Calvi. Le recensioni delle riviste inglesi sono state abbastanza positive, non ho avuto tempo di sentirlo per cui non vi so dire. La canzone del video è molto piacevole.

Anche per oggi, per le novità, è tutto. A domani per il resto.

A parte potete leggere la recensione del nuovo Archie Roach, Tino “dall’Australia”, ma in quali altri Blog musicali? La ricerca continua.

Bruno Conti