Il Figlio Illegittimo Di Waylon? Sturgill Simpson – High Top Mountain

 

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Sturgill Simpson – High Top Mountain – Thirthy Tigers CD

Non credo di esagerare se dico che questo è uno dei migliori debutti in ambito country degli ultimi anni. Sturgill Simpson, nativo del Kentucky ma trapiantato a Nashville, è un esordiente assoluto, ma, all’ascolto di questo High Top Mountain (dalla copertina atipica, sembra più un disco pop alla Sufjan Stevens), devo dire che sembra un veterano alle prese con il disco della maturità. Simpson è certamente un seguace del country classico, per l’esattezza quello di fine anni sessanta e primi anni settenta, ma qui, più che dalle parti di Gram Parsons (influenza che comunque non manca) siamo in piena zona outlaw/honky tonk. Sicuramente Sturgill (bel nome, a proposito) è cresciuto a pane e Waylon Jennings, tanto in alcuni momenti il suo stile si avvicina a quello dello scomparso fuorilegge (per non parlare della voce), ma anche Willie Nelson e Merle Haggard sono influenze ben presenti.

Ma il nostro riesce comunque a non essere derivativo (beh, in un paio di momenti forse un po’ sì…) e, grazie ad un feeling in dosi massicce, ad una capacità di songwriting non comune (dieci brani su dodici sono suoi) ed all’aiuto di una super band (tra i musicisti troviamo il mitico Hargus “Pig” Robbins al piano, Bobby Emmett all’organo e Robby Turner incontenibile alla steel guitar) porta a termine un debut album veramente coi fiocchi.

Il tono del disco lo dà la canzone d’apertura, dal sintetico titolo di Life Ain’t Fair And The World Is Mean: un puro outlaw country figlio di Waylon (ma del Waylon più ispirato), ritmo alto, gran voce e begli interventi di steel. Un inizio col botto. Railroad Of Sin non abbassa la guardia, anzi: ritmo forsennato, è una via di mezzo tra uno swing ed un bluegrass elettrico, con gli strumenti suonati a velocità supersonica. Water In A Well ha i connotati di una classica country ballad, con Sturgill che canta bene e si circonda di pochi strumenti, arrangiando il brano con gusto e semplicità. Sitting Here Without You è ancora outlaw music, sembra una outtake di Waylon dei primi anni settanta (l’arrangiamento della voce è sintomatico): country che più classico non si può, ed un vero piacere per le orecchie. The Storm è una ballata saltellante, eseguita con grinta ed una bella produzione (Dave Cobb, sulla scia di un maestro come Chips Moman), mentre You Can Have The Crown è un irresistibile country’n’roll, uno dei più trascinanti da me ascoltati negli ultimi tempi.

Molto bella anche la tersa e limpida Time After All (qui siamo dalle parti di Haggard); la lenta ed epica Hero sembra di nuovo provenire da un disco di quarant’anni fa, mentre la cadenzata Some Days fa un po’ troppo il verso a Waylon: comunque godibile. Old King Coal è una perfetta cowboy ballad, Poor Rambler (di Ralph Stanley) riporta in alto il tasso ritmico del disco, mentre l’intensa I’d Have To Be Crazy (scritta da Steven Fromholz) chiude il disco in maniera crepuscolare. Senza dubbio il miglior disco di outlaw country di quest’anno, insieme all’ultimo di Shooter Jennings.
Marco Verdi

Anson Funderburgh, Finis Tasby, Zac Harmon & Co., Ovvero La Ruff Kut Blues Band – That’s Where The Blues Begins

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Ruff Kutt Blues Band – That’s When The Blues Begins – Vizztone Label

Rispetto al precedente Mill Block Blues (uscito nel 2011 e già esaurito nel formato CD, come passa il tempo) di cui vi aveva già riferito chi scrive  sara-mica-blues-ruff-kutt-blues-band-mill-block-blues.html, in questo nuovo album l’organico della Ruff Kutt Blues Band si è fatto più stabile, almeno a livello vocale, infatti a fronte dei sei diversi cantanti utilizzati in quel disco, per questo That’s When The Blues Begins, titolo programmatico di ciò che ci aspetta, i vocalists si sono ridotti a due, il grande Finis Tasby, che canta in sei dei brani presenti, e Zac Harmon, anche alla seconda chitarra, che canta nei restanti otto. Rimangono invariati alcuni altri componenti chiave della band, il bassista James Goode, che scrive praticamente la totalità delle canzoni, il tastierista Gentleman John Street che cura anche gli arrangiamenti, il batterista Wess Starr e il sassofonista Ron Jones che si occupa dei fiati.

Ma soprattutto Anson Funderburgh che è il fulcro del progetto nonché il produttore: il chitarrista texano allieta i cuori degli ascoltatori con una serie di assolo sempre vari e ficcanti come è sua consuetudine. Lo stile è un classico Blues elettrico (ma non solo) che mescola lo stile texano e quello di Chicago, ma con ampie concessioni al soul e anche al gospel, di tanto in tanto. Il sound mescola sonorità bianche e nere, ampiamente giustificato in questo dalla presenza di musicisti di entrambe le estrazioni ed il risultato è più che soddisfacente, sia nel profondo blues elettrico di Deep Elam Blues che ricorda il Bloomfield scintillante dei primi anni, con una chitarra che galleggia sul cantato ancora poderoso di Finis Tasby, che invecchiando non perde una briciola della sua classe vocale, con fiati e organo che aggiungono la giusta coloritura ai particolari del brano.

Stesso discorso per la sincopata Blues In My Blood che, per rimanere in questo parallelo con la musica di Bloomfield, può ricordare il sound degli Electric Flag, dove anche il soul e un pizzico di rock avevano un loro perché e i coretti gospel sono pertinenti al suono d’insieme, con la chitarra mai troppo sopra le righe ma sempre presente. Quando si accentua il contributo dei fiati e delle tastiere, piano e organo, come nella ottima Don’t It Make You Cry e i cori si fanno più pressanti, il deep soul e il gospel si fanno strada e anche il sax di Ron Jones ha il giusto spazio. Così pure nell’ottima Oh Woman, questo incrocio tra il Chicago blues, più il soul solito e il ciondolante stile texano, funziona alla perfezione, sotto la guida della voce pimpante di Tasby, ancora capace di acrobazie vocali di tutto rispetto. In Down So Low le 6 corde riprendono lo spazio che loro compete e anche se Zac Harmon non è un cantante della classe di Finis Tasby, compensa con il suo contributo alla chitarra, senza spostare troppo l’asse del disco, che gioca sempre molto sulla presenza del sax e delle tastiere. Certo che la voce del texano, naturalizzato californiano, Tasby ha quel quid in più, come conferma la vivace Bare Foot Blues, con Funderburgh che scalda l’attrezzo da par suo. Siamo proprio in un ambito blues, il rock è lontano anni luce dal suono di questo CD, forse non memorabile ma assolutamente solido.

Zac Harmon è in ogni caso un cantante più che adeguato, non vorrei avervi dato una impressione negativa, come dimostra nei brani da qui alla fine del CD, a partire da Blues Ain’t A Color e a seguire in tutte le altre canzoni, con testi che magnificano la storia del blues e dei suoi partecipanti, a partire dalla title-track, una ballatona di quelle intrise di profondo Sud, tra soul e gospel nuovamente, con le chitarre di Funderburgh e occasionalmente Harmon pronte a scalfire il tessuto del brano. That Woman Gives Me Fever ha una verve e una carica invidiabile mentre I’m Over You Woman è nuovamente blues classico come la successiva Going To Bluesville e Touched By Her Game risale addirittura allo stile dei gruppi doo-wop anni ’50, senza quei ricami vocali ma con una spensieratezza deliziosa. Per Let’s Dance torna Finis Tasby e anche se il brano non entrerà nella storia del blues, lascia la sua impronta, prima di lasciare lo spazio di nuovo a Harmon, che è anche il co-autore di una canzone, che in quattro minuti e poco più vuole raccontare le gesta di quelli che hanno fatto la storia del genere, When A Bluesman Goes To Heaven, con un tempo che potrebbe ricordare il suono alla Blues Brothers delle cavalcate più divertenti del duo e con le chitarre di Funderburgh e Harmon che si scambiano fendenti dai canali dello stereo, e chiude in bellezza un disco molto piacevole e forse nulla più, ma è sufficiente.

Bruno Conti  

Questi Vanno Tenuti D’Occhio: Warren Hood Band!

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The Warren Hood Band -The Warren Hood Band – Red Parlor CD

Ecco un gruppo veramente bravo.

In realtà un trio, la Warren Hood Band proviene da Austin, Texas, ed è formata appunto da Warren Hood (violino, chitarra, mandolino e voce solista), Willie Pipkin (chitarra solista) ed Emily Gimble (piano ed organo, veramente brava, e d’altronde è la nipote del leggendario Johnny Gimble, violinista dei Texas Playboys di Bob Wills).

Anche Warren è nella musica da parecchi anni: suona il violino da quando ne ha nove, e, prima di formare un suo gruppo, ha collaborato con fior di artisti, come Emmylou Harris, Lyle Lovett, Little Feat, Elvis Costello e Gillian Welch, pure lui figlio d’arte, il babbo era Champ Hood, collaboratore a lungo di Lyle Lovett (anche nella Large Band) e Toni Price, nonché nella Uncle Walt’s Band  con Walter Haytt, tra i tanti, scomparso prematuramente nel 2001.

Esperienze importanti, direi decisive per maturare un background musicale di tutto rispetto, che viene rivelato in questo album di debutto, intitolato semplicemente The Warren Hood Band, che vede, tra i vari musicisti di supporto, il grande Lloyd Maines, e per produrre il quale si è scomodato addirittura Charlie Sexton, uno che negli ultimi anni ha spesso suonato la lead guitar on the road per Bob Dylan (nuovamente dal 2009, in sostituzione di Danny Freeman) oltre che essere un bravissimo musicista di suo.

Non male per un disco di debutto.

E Warren (già con i Waybacks) che scrive nove delle undici canzoni dell’album, dimostra di avere non poco talento: possiamo dire di trovarci di fronte ad un texano atipico, in quanto non fa semplicemente del country-rock diretto ed elettrico come molti suoi colleghi, ma fonde nel suono elementi sudisti, country, folk, pop, soul, cantautorali e bluegrass, riuscendo a non risultare caotico, ma bensì fornendoci una manciata di brani davvero intriganti. I suoi compagni, Pipkin e la Gimble, sono molto bravi ad accompagnarlo (soprattutto lei), e quindi il disco che ne risulta non può che essere uno dei debutti più positivi degli ultimi tempi.

Apre Alright, che è anche il primo singolo e forse la più texana del lotto, un rock’n’roll frizzante, tra roots e country ma con un tocco di pop, ed una bella slide ad occuparsi delle parti soliste.

You’ve Got It Easy continua con il mix tra rock e pop, strumenti al posto giusto, melodia solare ed una bella personalità (ottimo anche il lavoro di Sexton alla consolle, ma questo non lo scopriamo oggi). Pear Blossom Highway, con la Gimble voce solista (il primo di tre brani con lei come lead vocalist), è una ballata d’altri tempi, sfiorata dal country e nobilitata da ottimi assoli di violino (Hood) e steel (Maines); la mossa Where Have You Gone ha un gradevole sapore white soul, come se fosse stata scritta da Dan Penn.

La corale The More I See You è puro country, semplice e vivace, con violino e piano protagonisti ed una melodia decisamente buona; Songbird è praticamente un brano folk, sempre sostenuto da un motivo di prim’ordine, mentre Take Me By The Hand è più rarefatta e forse meno immediata, ma musicalmente molto interessante, sembra quasi che nell’arrangiamento ci abbia messo le mani Van Morrison. Motor City Man, sostenuta dal piano, ha per contro un motivo molto diretto, Last One To Know è quasi una bluegrass tune, suonata in maniera volutamente sghemba.

L’album si chiude con la lenta e soulful This River, quasi una ballata alla Delaney & Bonnie, e con What Everybody Wants, saltellante e gioiosa, sempre con la Gimble sugli scudi.

Warren Hood ed i suoi compagni possiedono un sicuro talento: speriamo non lo disperdano strada facendo.

Bel disco.

Marco Verdi

Una Grande Serata Tra Folk e Rock (Ma Non Solo) Con I Lowlands A Pavia!

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Lowlands – Piazza Della Vittoria – Pavia – 08/06/2013

Nello splendido scenario di Piazza Vittoria in quel di Pavia (con sullo sfondo il magnifico palazzo del Broletto), i Lowlands di Ed Abbiati hanno concluso la prima parte della loro campagna europea che li ha visti suonare da Dublino a Londra, passando per Roma e Firenze, con l’ultima recentissima tappa di Stoccolma, in un concerto che arriva a dieci anni esatti dal rientro in Italia di Ed, non occasionalmente nel giorno del suo compleanno e, particolare importante, anche di sua moglie. L’attuale line-up della band oltre ad Ed Abbiati chitarra e voce, è composta dallo storico chitarrista Roberto Diana, Francesco Bonfiglio alle tastiere e fisarmonica, Enrico Fossati al basso e Mattia Martini alla batteria.

La parte iniziale del concerto vede Ed e il suo gruppo eseguire brani tratti dal loro ultimo lavoro Beyond, a partire dal rock urbano di Lovers and Thieves, Walking Down The Street, Waltz in Time, Ashes e Hail Hail e poi una versione sempre accattivante di Gypsy Child. Si riparte da una struggente Fragile Man (scritta da Ed per un suo amico recentemente scomparso), proseguendo con un set che ripropone brani pescati dall’album d’esordio The Last Call, dove spicca per bellezza la tenue That’s Me On The Page, mentre In The End fa muovere il piedino e invita a ballare, non mancano Gotta Be (brano firmato con l’amico Tim Rogers) sana e robusta baraonda rock, per poi passare alla  dolce ninna nanna Lullaby (dedicata alle figlie). La parte finale del concerto, vede salire sul palco gli amici Alex Cambise al mandolino e Jimmy Ragazzon (leader dei Mandolin’ Brothers) per una torrida versione di Everybody Knows This Is Nowhere di Neil Young, un brano dei primi anni ’60 di Bruce Channel  in cui appariva Delbert McClinton che si narra abbia dato ai tempi alcune lezioni di armonica a John Lennon, Hey Baby, per fare ballare il pubblico presente, e una Left Of The Dial dei Replacements cantata con la rabbia degna di un Paul Westerberg. Chiudono un concerto splendido Keep On Flowing con piano e fisarmonica nel più classico blue collar rock e una acustica e dolcissima Homeward Bound.

Mentre la gente a fine concerto sfollava contenta e soddisfatta della serata musicale, pensavo che noi pavesi dovremo essere grati a gruppi come i Lowlands,  i Mandolin’ Brothers e artisti minori locali, ma altrettanto bravi (come per esempio Sergio “Tamboo” Tamburelli) che portano in giro per l’Italia e in Europa, una musica fatta di sudore, cuore e di grande qualità.

Tino Montanari     

Vecchie Glorie 12. Pat Travers – Live At The Bamboo Room

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Pat Travers – Live At the Bamboo Room – CD+DVD Purple Pyramid/Cleopatra

Spesso trovare un incipit per un articolo o una recensione è impresa ardua: ti infili in citazioni colte o ti rifugi in una battuta, magari scontata. Anche per gli artisti, soprattutto nei loro dischi dal vivo, non è un’arte facile da praticare. O hai un MC (Master of Ceremonies) rodato da mille battaglie (BB King, James Brown e i grandi artisti neri in generale) o stai facendo la storia del rock e lo fa per te un Bill Graham o qualcuno di simile nei grandi Festival oppure ancora ci sono quelle introduzioni “classiche”, semplici ma indimenticabili – From Los Angeles California, The Doors! A Man And His Guitar, Jimi Hendrix – e anche quelle selvagge che caricano il pubblico come per l’apertura del formidabile Kick Out The Jams degli MC5.

Nel suo piccolo anche Pat Travers in questo Live At The Bamboo si carica e “aizza” il suo pubblico con un iniziale: “ How you doin’ everybody, my name is Pat Travers, this is my band, we’re gonna kick your ass tonight…one, two, three, four” e parte una sparatissima Life In London, due chitarre, basso, batteria, del rock-blues ad alto potenziale, come se gli anni ’70 non fossero mai passati e gente come Travers continuasse a portare la bandiera di gente come Hendrix, il suo idolo, in primis, ma anche dei vari Ted Nugent, Frank Marino, Robin Trower, più raffinato e bluesy, i Thin Lizzy o Rory Gallagher con una classe superiore, gli hard rockers della seconda e terza generazione che hanno sempre tenuto alta la bandiera del genere, con cadute di gusto e qualità, come lo stesso Travers, ma senza scadere nel metal più bieco, pur senza toccare le vette dei Led Zeppelin, Deep Purple, dei primi Black Sabbath, che so, dei Free o dei Bad Company, i primi Aerosmith e mille altri che non citiamo. Pat Travers arriva sulle scene a metà anni ’70, dal Canada, scoperto da Ronnie Hawkins e portato in Inghilterra dove viene messo sotto contratto dalla Polydor e partecipa al Rockpalast nel 1976

Già dal secondo album, Makin’ Magic del 1977, il batterista della band è Nicko McBrain, che poi troverà fama e fortuna negli Iron Maiden, nel quarto album arriva il secondo chitarrista solista Pat Thrall e nello stesso anno, 1979, esce Live, Go For What You Know, che è  forse il disco da avere della sua discografia, e che contiene una versione gagliarda di Boom Boom Out Goes The Light di John Lee Hooker che rimane tuttora una dei suoi cavalli di battaglia, presente in Bamboo Room. Questo nuovo CD con DVD allegato, o viceversa, di Pat Travers riprende i temi dei suoi album migliori, un misto di brani originali, come alcuni dei suoi più grandi successi, Snortin’ Whiskey, Drinkin’ Cocaine scritta dalla coppia Travers/Thrall, Crash And Burn, Heat In The Street e alcune delle cover più riuscite della sua carriera. I’ve Got News For You dal repertorio di Ray Charles, ma perché ce lo dice lui, dalla violenza che si sprigiona dalle chitarre non si direbbe, Black Betty, scritta da Leadbelly, ma conosciuta da tutti nella versione durissima dei Ram Jam. Riprese di classici del blues come Death Letter di Son House, If I Had Possession Over Judgment Day dal repertorio di Robert Johnson o una sudista Statesboro Blues, scritta da Blind Willie McTell, ma qui nella versione resa celebre dagli Allman Brothers, con le due soliste usate all’unisono, come avviene peraltro spesso nel corso del concerto, l’altro chitarrista Kirk McKim è pure lui un ottimo manico, e ben si amalgama con la solista e la slide di Pat Travers,

Il brano appena citato, insieme a Rock’n’Roll Susie, appare solo nella versione CD del live, mentre la versione eccellente di Travers di Red House di Jimi Hendrix appare solo nel DVD, ma questi sono i misteri imperscrutabili della discografia, visto che comunque i due supporti vengono venduti insieme. Nel finale del concerto appaiono anche alcuni dei vecchi componenti della Pat Travers Band originale e devo dire che complessivamente il concerto è molto meglio di quanto mi aspettavo, non solo vecchie glorie o meglio ci sono, ma “vivi e vegeti” e in grado, soprattutto dal vivo, di fare ancora della buona musica; registrato a dicembre del 2012 in quel di Lake Worth, Florida, del sano hard rockin’ blues di grana grossa, ma ricco anche di finezze e tanta energia, gli appassionati del genere sanno di cosa stiamo parlando ed il disco è assolutamente valido.

Bruno Conti     

Ce L’Hanno Fatta! Black Sabbath – 13 (With Bonus Tracks)

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Black Sabbath – 13 Universal Cd – 2CD Deluxe Edition – LP – 2CD/DVD/LP Super Deluxe Edition

Questo disco è stato da tempo presentato come l’evento musicale del 2013, e forse un po’ di verità c’è: i Black Sabbath, una delle più importanti ed innovative band di sempre (gli inglesi direbbero influential), per molti gli inventori dell’heavy metal, si riformano nella formazione originale (o quasi).

L’album è infatti il prodotto delle lunghe sessions che hanno seguito l’annuncio che Ozzy Osbourne, Tony Iommi, Geezer Butler e Bill Ward fecero l’11 Novembre del 2011, cioè che i Sabbath della prima ora si sarebbero rimessi insieme per un disco di inediti, il primo da Never Say Die! del 1978, con la produzione dello specialista Rick Rubin, e per una tournée mondiale.

Il seguito è noto: Ward si allontanò quasi subito, reclamando divergenze contrattuali, anche se più recentemente Osbourne ha dichiarato che il batterista non era nelle condizioni di poter offrire un valido supporto (e se lo dice uno come Ozzy, allora il povero Bill era proprio messo male), ed i tre Sabbath superstiti chiamarono il drummer dei Race Against The Machine, Brad Wilk, che così garantiva le stesse iniziali e lo stesso numero di lettere fra nome e cognome di Ward (coincidenza?), mossa che però fece storcere la bocca a parecchi fans, che sostenevano, a ragione, che questa reunion non poteva più essere strombazzata come quella del gruppo originale.

Che l’album non nascesse sotto i migliori auspici ci si misero pure le condizioni di salute di Iommi, al quale nel Gennaio 2012 venne riscontrato un tumore allo stato iniziale ai linfonodi: Iommi non si è però perso d’animo, e ha alternato le pesanti cure per il cancro alle registrazioni del disco, che sono inevitabilmente rallentate (per fortuna, l’organismo di Tony sembra aver assorbito bene le cure, ed i quattro si stanno già esibendo con regolarità dal vivo, segno che la malattia è sotto controllo). Con tutte queste disavventure (aggiungiamo che per qualche tempo Ozzy si era anche pericolosamente riavvicinato a quegli stravizi che lo hanno reso celebre, anche se pare che ora sia definitivamente sobrio), il titolo di 13 non sembra il più beneaugurante, dato il potere negativo che la superstizione assegna a questa cifra: accogliamo quindi quasi con un sospiro di sollievo l’uscita di questo album, anche se in realtà la data ufficiale è fra circa una settimana (l’11 giugno), con le abituali differenze tra mercato europeo ed americano.

Come già detto, 13 il primo disco della formazione originale dei Sabbath (beh, diciamo con Ozzy alla voce…) da 35 anni a questa parte (anche se i quattro, con Ward, avevano dato alle stampe nel 1998 il doppio Reunion, che però era un live con appena due brani nuovi in studio) ed il primo con canzoni nuove da Forbidden del 1995, al quale partecipava solo Iommi.

(NDM: in realtà nel 2009 è uscito un disco, The Devil You Know, della formazione dei Sabbath dei primi anni ottanta, cioè con Ronnie James Dio e Vinnie Appice al posto di Osbourne e Ward, ma per motivi di diritti si dovettero ribattezzare Heaven & Hell).

Ebbene, com’è questo tanto atteso 13? Beh, se pensate di trovarvi davanti al disco che cambierà il mondo dell’hard rock avete sbagliato tutto, ma di certo è un ottimo album di puro Sabbath sound, certamente migliore degli ultimi tre album con Ozzy negli anni settanta (Sabotage, Technical Ecstasy e Never Say Die!), e che quindi si propone come l’ideale seguito di Sabbath Bloody Sabbath. Chi temeva di trovarsi di fronte ad un normale disco solista di Ozzy Osbourne può stare tranquillo: 13 è pieno di riff che solo uno come Iommi può far uscire dalla chitarra, ed il basso inquietante e martellante di Butler lo si riconosce subito: qualcuno lo definirà un disco prevedibile, ma alzi la mano chi voleva qualcosa di diverso dai quattro (ehm…tre, scusa Brad, ottimo lavoro comunque dietro i tamburi).

Apre End Of The Beginning, e subito siamo in pieno festival doom, con il ritmo lento tipico della band di Birmingham, la voce particolare di Ozzy e Iommi che macina riff pesantissimi, con Butler che colpisce duro con il suo basso (l’inizio rimanda decisamente a Black Sabbath, la canzone, che apriva il loro primo disco e diede inizio a tutto): all’improvviso il ritmo aumenta e Ozzy inizia a seguire Tony come solo lui riesce a fare, cantando anche meglio del solito, poi arriva l’assolo di Iommi che stende tutti.

Un inizio convincente.

La lunga God Is Dead è anche il primo singolo, ma non aspettatevi nulla di radiofonico, anche se Rubin fa di tutto per rendere il suono pulito: Iommi ricama sullo sfondo, Osbourne canta bene (Ozzy sembra decisamente in palla), e non mancano, per la gioia delle orecchie dei fans, quei cambi di ritmo per il quali i Sabbath vanno giustamente famosi, con Tony che rilascia un assolo molto lirico.

La movimentata Loner è finora la più radio friendly, anche se il suono è Sabbath al 100%, e poi Iommi macina riff che è un piacere; Zeitgeist si apre con una risata satanica di Ozzy e con Tony che suona l’acustica, un inizio quasi etereo e psichedelico, poi entra una percussione leggera e la ballata si snoda fluida e piacevole, quasi rilassata, con un assolo di chitarra elettrica decisamente melodico. Con Age Of Reason torniamo in territori tipici, Butler e Iommi picchiano di brutto, Wilk non si tira indietro, ed Ozzy…fa Ozzy; Live Forever è una rock song dal ritmo sostenuto (ottima la prestazione di Wilk, uno che non fa certo rimpiangere Ward), con il solito Iommi che fa il bello ed il cattivo tempo, ben seguito da un Ozzy convinto come non lo sentivo da anni. Damaged Soul è heavy music come se i nostri fossero ancora negli anni settanta, con Osbourne che segue vocalmente gli sviluppi chitarristici del suo chitarrista mancino: otto minuti di puro rock, con un finale strabiliante da parte di Iommi.

La versione “normale” dell’album si chiude con la potente Dear Father, che mette il sigillo su un ottimo ritorno, da parte di quattro musicisti in forma smagliante: la versione deluxe offre tre canzoni in più (Methademic, Piece Of Mind e Pariah), che non ho ascoltato, canzoni che diventano quattro (Naiveté En Black) nella versione esclusiva in vendita solo nella catena americana Best Buy (ma scommetto che questo brano spunterà come bonus in qualche special tour edition futura).

Iniziate a tremare: i Principi dell’Oscurità sono tornati (e qui ci vorrebbe una bella risata demoniaca di Ozzy).

Marco Verdi

 

Post Scriptum! Black Sabbath – 13 – Bonus Tracks

Come avevo scritto parlando in anteprima del nuovo album dei Black Sabbath, 13, la Deluxe Edition esce con tre brani in più, e siccome ne sono finalmente venuto in possesso, ho ritenuto doveroso aggiungere un breve post scriptum.

Methademic è un brano di sei minuti che parte con delicati arpeggi di chitarra acustica, ma dopo una breve pausa avviene un’esplosione elettrica che fa quasi sobbalzare sulla poltrona, con Ozzy che canta comunque in maniera abbastanza pacata, mentre Iommi, Butler e Wilk scatenano l’inferno.

Piece Of Mind è più breve e diretta, ma anche con meno guizzi, anche se i quattro si difendono con il mestiere, mentre Pariah chiude il lotto delle bonus tracks con la consueta dimostrazione di potenza e tecnica, con Iommi grande protagonista (come tra l’altro nel resto del disco), un cantato incredibilmente pulito e rigoroso di Osbourne ed un ritornello immediato.

Un bel trittico di canzoni, non degli scarti ma, almeno nel primo e terzo caso, di pari valore di quelle dell’album principale (e, come al solito, vorrei proprio sapere chi comprerà la versione “monca”).

Marco Verdi

La Più “Americana” Folk Singer Inglese! Thea Gilmore – Regardless

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Thea Gilmore – Regardless – Fullfill Records – 2013

Oggi vi parlo, con estremo piacere, di una cantautrice che nel cuor mi sta. Thea Gilmore è una cantante anglosassone, nata nell’Oxfordshire da genitori irlandesi, alla ribalta dal lontano ‘98 , giunta con questo lavoro Regardless al quattordicesimo album (se non ho sbagliato i conti). Thea ha iniziato la sua carriera lavorando in uno studio di registrazione, dove è stata scoperta da Nigel Stonier, collaboratore di lunga data prima, e dal 2005 anche produttore, nonché co-autore e, last but not least, suo marito. Dopo l’esordio con Burning Dorothy (98), sforna con “certosina” regolarità The Lipstick Conspiracies (2000), Rules For Jokers (2001), Songs From The Gutter (2002), Avalanche (2003), Loft Music (2004), Harpo’s Ghost (2006), Liejacker (2008), lo splendido live in parte acustico ed in parte elettrico, Recorded Delivery (2009), Strange Communion (2010), Murphy’s Heart (2011), raggiungendo la piena maturità con gli omaggi a Bob Dylan John Wesley Harding, e alla grande Sandy Denny con Don’t Stop Singing (2011). forse-non-come-l-originale-ma-sempre-un-ottima-cantautrice-m.html

Le tracce registrate in questo Regardless sono tutte sue, con l’eccezione di tre brani firmati con il marito Nigel: a partire dallo scorrevole pop di  Start As We Mean To Go On, sorretto da brillanti chitarre e con un ritornello piuttosto orecchiabile, proseguendo con una romantica slow ballad dalla buona melodia come Punctuation, e finendo il trittico con l’ariosa Love Came Looking For Me dal seducente riff orchestrale.

Aiutano la Gilmore  in questo nuovo album (oltre al suddetto marito polistrumentista), un manipolo di valenti musicisti, tra cui è giusto menzionare Paul Beavis alla batteria e percussioni, Robbie McIntosh alle chitarre (non dimenticato componente dei Pretenders e della band di paul McCartney) e le violiniste Sarah Spencer e Susannah Simmons. Il disco è molto godibile, alterna momenti rock, come la veloce Something To Sing About, a deliziose ballate di stampo cantautorale come la title-track Regardless e I Will Not Disappoint You, per poi passare alle percussioni latine di This Road, e finire con il lato più intimo di Thea con Let It Be Known e My Friend Goodbye, che colpiscono per la delicata interpretazione.

Regardless è un lavoro davvero buono (forse non un capolavoro), un CD dagli arrangiamenti vari e ricchi (una sorta di piccola orchestra diretta dal marito Nigel Stonier) e Thea Gilmore è un’artista di vaglia, possiede una bella voce (per chi scrive ricorda un po’ quella di Sheryl Crow) *, depositaria di un suono diretto e senza fronzoli, che colpisce per freschezza e personalità. Da ascoltare più volte, con la certezza, che se avete dubbi al riguardo, per il sottoscritto basta ascoltarla anche una volta sola.

Tino Montanari

*NDB E perché non Sandy Denny!?

Sempre Le Stesse Canzoni…Ma Che Belle! – John Fogerty – Wrote A Song For Everyone

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John Fogerty – Wrote A Song For Everyone – Vanguard Records

Recentemente, parlando delle ultime ristampe di Jeff Lynne, ho coniato il termine “barrel bottom scratching” (letteralmente: grattare il fondo del barile), espressione che si potrebbe applicare anche per l’ultima parte della carriera di John Cameron Fogerty. L’ex Creedence infatti negli ultimi dieci anni ha pubblicato solo due dischi di canzoni nuove (Deja Vu (All Over Again), 2004, ottimo, e Revival, 2007, buono ma meno riuscito), un’antologia, due DVD dal vivo ed un disco di covers (lo splendido The Blue Ridge Rangers Rides Again).

Pochi brani nuovi dunque e, nell’antologia e nei due album live, un po’ sempre le stesse vecchie canzoni: in più, ora esce finalmente questo Wrote A Song For Everyone (finalmente perché era già dato in uscita lo scorso ottobre, con una copertina diversa da quella attuale, poi John ha pensato bene di lavorarci ancora un po’ e di aggiungere delle canzoni), un album auto celebrativo nel quale il nostro ripercorre alcune tappe fondamentali della sua carriera insieme ad una lunga lista di ospiti. Ancora le stesse canzoni dunque? Beh…sì, ed in più proposte in duetto con altri cantanti (raramente ho vibrato per un disco di duetti, di solito c’è sempre qualche episodio che abbassa il valore complessivo dell’opera), quindi un alto rischio per John di esporsi a critiche non proprio benevole.

Ebbene, Wrote A Song For Everyone si rivela invece essere un grandissimo disco: pochi al mondo possono vantare un songbook come quello di Fogerty, ed in più la scelta di riarrangiare alcuni brani su misura per l’ospite di turno si rivela vincente, dando nuova linfa a canzoni ormai ben fisse nella storia della musica (ci sono però anche due brani nuovi di zecca). Non dico che queste versioni siano superiori agli originali, ma (quasi) tutte le collaborazioni danno nuova vitalità ai brani, e John si trova particolarmente a suo agio, con in più l’ottimo stato della sua voce, ancora limpida e forte a dispetto dell’età.

La house band è formata da Bob Malone al piano, David Santos al basso, il grandissimo Kenny Aronoff alla batteria, oltre naturalmente a Fogerty alla chitarra.

Apre il disco la vigorosa Fortunate Son, nella quale John si fa accompagnare dai Foo Fighters di Dave Grohl: versione tosta, potente, quasi hard, perfetta per la band dell’ex Nirvana, ma nella quale anche Fogerty ci sguazza che è un piacere (e poi dal punto di vista della voce tra i due non c’è proprio paragone…meglio Grohl!…scherzo…).

La gioiosa Almost Saturday Night (con Keith Urban) è meno rock e più country dell’originale, ma mantiene intatta la sua melodia solare, ed Urban, oltre ad avere la fortuna di trovare tutte le volte che rientra a casa Nicole Kidman ad aspettarlo, ha anche una gran bella voce.

Lodi vede John cantare da solo, in quanto qui gli ospiti sono i figli Shane e Tyler, che suonano la chitarra ma non cantano: una versione più rock’n’roll dell’originale, che però non riserva grandi sorprese.

Mystic Highway è uno dei due brani nuovi presenti, con John che canta ancora in perfetta solitudine: una canzone tipica, con quell’andamento tra rock e country presente in molti suoi pezzi, una melodia solare e coinvolgente ed un bell’intermezzo sul finale per sole voci.

La title track è uno dei pezzi forti del disco: già l’originale era uno dei miei cinque brani preferiti dei Creedence, e qui la scelta della brava Miranda Lambert è più che azzeccata, il contrasto tra le due voci è perfetto, e poi c’è anche un assolo davvero strepitoso di Tom Morello che fa salire decisamente la temperatura. L’originale dei Creedence era forse più drammatica, ma qui siamo davvero solo un gradino sotto.

Bad Moon Rising ha il suono della Zac Brown Band, e indovinate chi è l’ospite? Esatto: la Zac Brown Band! Grande canzone e grande versione, tra country e southern.

Long As I Can See The Light è un’altra grande ballata di John, qui accompagnato dai My Morning Jacket: Jim James e soci se la cavano benissimo in queste situazioni (il tributo a Levon Helm lo dimostra), e John lascia loro quasi la piena luce dei riflettori, intervenendo solo alla terza strofa.

Kid Rock non è certo un fenomeno, e quasi ce la fa a rovinare la splendida Born On The Bayou: per fortuna c’è John che riesce a limitare i danni (ma invitare un altro, che so, John Hiatt, no?).

Train Of Fools è il secondo brano nuovo: un rock blues annerito, con Fogerty che lavora di slide, una canzone forse non memorabile ma che non sfigura affatto.

La bella Someday Never Comes (il singolo finale dei Creedence) vede John accompagnato dai Dawes, buona versione, molto aderente all’originale, mentre con Who’ll Stop The Rain, che vede la partecipazione di Bob Seger, abbiamo il capolavoro dell’album.

Già il brano è uno dei migliori dei Creedence (forse IL migliore), e poi Seger è uno dei grandissimi: la canzone viene arrangiata alla maniera di Bob (ricorda quasi Against The Wind), ed il barbuto rocker di Detroit giganteggia a tal punto da mettere in ombra anche Fogerty, il che è tutto dire.

(NDM: non mi dispiacerebbe un disco simile anche da parte di Seger, con Bob che rilegge i suoi brani storici accompagnato da una serie di ospiti, e John che gli rende il favore, magari proprio con Against The Wind).

Hot Rod Heart è il brano più recente di quelli riletti nel disco, un rock’n’roll irresistibile con Brad Paisley che duetta sia alla voce che alla chitarra con John, mentre Have You Ever Seen The Rain? è un’altra delle grandi canzoni di Fogerty, che qui coinvolge Alan Jackson e la sua band: versione rilassata, molto più country dell’originale, ma sempre bellissima.

Chiude l’album, e non poteva essere altrimenti, la celeberrima Proud Mary, con Allen Toussaint & Rebirth Brass Band e soprattutto la grande voce di Jennifer Hudson: arrangiamento metà gospel e metà cajun, dal ritmo irresisitibile, con John che si mantiene quasi nelle retrovie per lasciare spazio alla strepitosa ugola della Hudson, una vera forza della natura.

Fine di un grande disco: se vogliamo trovare il pelo nell’uovo, ho notato l’assenza di Bruce Springsteen, che in passato ha duettato più di una volta con Fogerty (Rockin’ All Over The World sarebbe stata una scelta perfetta).

Ma sono quisquilie: Wrote A Song For Everyone è un album imperdibile.

Adesso però voglio un disco di canzoni nuove.

Marco Verdi

Ma Allora E’ Un Vizio! Johnny Winter – Live Bootleg Series Volume 9

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Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.9 –Friday Music

Ormai le uscite discografiche relative a Johnny Winter sono inarrestabili, praticamente non passa mese che non esca qualcosa di nuovo. In particolare le Bootleg Series di Winter hanno raggiunto, con questo titolo, il nono volume, pareggiando il numero di quelle di Bob Dylan (di cui è peraltro atteso, a breve, il decimo titolo), ma in un arco di tempo molto più ristretto. Il grande Bob ha ottenuto questo risultato in 22 anni, considerando che i primi tre dischi erano raccolti in unico cofanetto, mentre quelli di Johnny sono usciti in soli 6 anni, dal 2007 al 2013, attingendo unicamente da materiale dal vivo, da qui il titolo Live Bootleg Series.

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Ormai è difficile dire qualcosa di nuovo su Johnny Winter, potrei dirvi alcune cose “vecchie”: l’ultima volta che ho controllato stazionava al numero 63 nella classifica di Rolling Stone dei 100 Più Grandi Chitarristi Di Tutti I Tempi, posizione più che meritata, magari anche qualche posizione più in alto e potrei aggiungere che oltre alla miriade di uscite più o meno ufficiali, ristampe delle ristampe e quant’altro, di recente la Sony nella sua benemerita serie The Essential, gli ha dedicato il solito doppio CD che raccoglie il meglio della sua produzione nel periodo 1969-1980, imperdibile per chi non ha nulla e che va ad aggiungersi all’altra raccolta Setlist: The Very Best Of Johnny Winter Live, uscita lo scorso anno e ai vari boxettini della serie Original Album Classics, per chi vuole esplorare il suo repertorio su Columbia/Blue Sky/Epic. Non sono mancate ristampe, più o meno potenziate, dei suoi album classici, ma manca un cofanetto “definitivo” dedicato all’albino di Beaumont, Texas. Speriamo che si possa rimediare al più presto e non ridurci all’omaggio postumo, viste le condizioni diciamo non floride della sua salute.

Ma veniamo a questo nuovo capitolo estratto dai suoi archivi personali: Paul Nelson è come al solito il produttore esecutivo, mentre nei credits, come d’uso ricchissimi (c’è dell’ironia!), del CD, è riportato Johnny Winter, Vocals, Guitars, e arrivederci e grazie. Niente nomi degli altri musicisti utilizzati, date di registrazione, è già tanto se appaiono i titoli dei brani, va bene che si parla di Bootleg, ma non prendiamo il termine troppo alla lettera. Anche se nel libretto le note sono curate da un altro che se ne intende di chitarre, slide in particolare, l’ottimo Sonny Landreth.

Rimane la musica, e non è poco. Sono sette brani, compresa una breve introduzione: si parte con una lunga, una decina di minuti, versione alternativa di Hideaway, il classico di Freddie King, torrenziale e di grande impatto, anche se la qualità, uhm, è da bootleg discreto. Segue un altro classico, suo, Mean Town Blues, a velocità da boogie supersonico e con una qualità sonora decisamente superiore, anche se la voce è un po’ in cantina, però l’esecuzione, specie nell’assolo centrale, è di quelle da manuale. 44 Blues, di Roosevelt Sykes, è di uno dei suoi preferiti, sia l’autore che il brano, breve e raccolta nell’esecuzione ma assai sentita, con un sound quasi alla Canned Heat, altri bianchi che hanno saputo sviscerare il blues come pochi, sembrerebbe essere una registrazione più vecchia ma è difficile capire.

You Done Lost Your Good Thing Now è di un altro dei suoi autori preferiti, B.B King, e si tratta di un classico slow blues che Johnny Winter eseguiva sin dai tempi di Woodstock, ottima versione, anche la voce è in grande spolvero. It’s My Life Now, inconsueta nel repertorio di Winter, viene dal sodale di BB King, Bobby “Blue” Bland, peccato per la qualità, nuovamente da bootleg, e neanche di quelli eccelsi. La conclusione è dedicata all’amatissimo Jimi Hendrix di cui Johnny riprende una tiratissima Manic Depression, versione lunga e ricca di fuochi di artificio chitarristico, audio accettabile.

Quindi le solite luci e ombre di questa “serie”, qualità ballerina dell’audio, con alti e bassi, ma ottima consistenza della musica, speriamo non diventi un vizio. Come al solito, “trippa per gatti” per gli appassionati!

Bruno Conti

Cofanetti e Cofanettini, Presenti e Imminenti! Ghost Brothers Of Darkland Country/Stephen King/John Mellencamp/T-Bone Burnett – ZZ Top The Complete Studio Album 1970-1990 – Woody Guthrie At 100 – Live At The Kennedy Center

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Tre uscite interessanti, in formati multipli, box sets o CD+DVD e notizie collegate.

Ghost Brothers Of Darkland Country – CD+DVD Hear Music/Concord/Universal 04-06-2013 USA – 11-06-2013 EU – 25-06-2013 ITA

In Italia esce tre settimane in ritardo rispetto al mercato americano ma non ci meravigliamo, d’altronde il progetto è in gestazione da parecchi anni e sarebbe dovuto uscire, secondo gli ultimi avvistamenti, il 19 marzo di quest’anno. Si tratta di un musical “gotico-sudista”, la parte letteraria è affidata a Stephen King, e pare non fosse eccelsa, da qui il ritardo, ma essendo lo scrittore americano un grande appassionato di musica ha coinvolto nella lavorazione anche John Mellencamp, che ha scritto musica e testi e T-Bone Burnett, che ha curato la direzione musicale e ha prodotto il disco, perchè, volendo, ne esiste anche una versione singola, solo con le canzoni e degli estratti del recitato che è a cura di Kris Kristofferson, Meg Ryan, Matthew McConaughey, Samantha Mathis, Elvis Costello, che sono il cast del musical o della mini-opera, come volete chiamarla.

Nella parte cantata invece abbiamo, come da lista dei brani completa, intermezzi parlati compresi:

Disc: 1
1. Introduction By The Zydeco Cowboy
2. That s Me (Performed by Elvis Costello)
3. Anna and Frank Badmouthing Drake
4. That s Who I Am (Performed by Neko Case)
5. The Ghosts Argue and Fight
6. So Goddam Smart (Performed by Dave Alvin, Phil Alvin, Sheryl Crow)
7. Monique and Anna Meet
8. Wrong, Wrong, Wrong About Me (Performed by Elvis Costello)
9. Frank and Drake Argue
10. Brotherly Love (Performed by Ryan Bingham, Will Dailey)
11. Monique, Frank, Drake, and Anna Argue
12. How Many Days (Performed by Kris Kristofferson)
13. The Ghosts Talk (Dialog Underscoring: Patrick Fleming)
14. Home Again (Performed by Sheryl Crow, Dave Alvin, Phil Alvin, Taj Mahal)
15. Monique Comforts Drake
16. You Are Blind (Performed by Ryan Bingham)
17. Joe Begins To Tell His Story
18. Tear This Cabin Down (Performed by Taj Mahal)
19. Joe Continues His Story
20. My Name Is Joe (Performed by Clyde Mulroney)
21. Jenna Expresses Her Feelings
22. Away From This World (Performed by Sheryl Crow)
23. Monique Frustrated With The Boys
24. You Don t Know Me (Performed by Rosanne Cash)
25. Joe Continues As The Ghosts Observe (Dialog Underscoring: Patrick Fleming)
26. And Your Days Are Gone (Performed by Sheryl Crow, Dave Alvin, Phil Alvin)
27. Jack And Andy Fight Over Jenna
28. Jukin (Performed by Sheryl Crow)
29. Jack And Andy Argue And Fight
30. So Goddam Good (Performed by Phil Alvin, Dave Alvin, Sheryl Crow)
31. Joe Talks With His Younger Self
32. What Kind Of Man Am I (Performed by Kris Kristofferson, Phil Alvin, Sheryl Crow, Dave Alvin, Taj Mahal)
33. The Shape Sums Things Up
34. Truth (Performed by John Mellencamp with Lily and Madeleine Jurkiewicz)
35. Joe Talks With The Bartender 

Della parte musicale si parla molto bene, anche se Mellencamp canta solo in un brano, il progetto letterario ha entusiasmato meno, ma sentirò bene per giudicare.

ZZ Top – The Complete Studio Albums 1970-1990 – Box 10 CD Rhino/Warner – 11-06-2013

Questo esce in contemporanea all over the world, a prezzo speciale, la settimana prossima e sono i dieci album pubblicati dalla band texana nel periodo del loro contratto con la Warner, e quindi, senza bonus o extra, comprende i seguenti dischi:

ZZ Top’s First Album (1971)
Rio Grande Mud (1972)
Tres Hombres (1973)
Fandango! (1975)
Tejas (1976)
Degüello (1979)
El Loco (1981)
Eliminator (1983)
Afterburner (1985)
Recycler (1990)

Woody Guthrie at 100! Live At The Kennedy Center – CD+DVD Sony Legacy 11-06-2013 UK 18-06-2013 USA – ??? ITA

Questa è la uscita più sorprendente, perché inattesa. Si tratta del concerto registrato il 14 ottobre dello scorso anno al Kennedy Center di Washington, DC per festeggiare il centenario della nascita di Woody Guthrie, a tre mesi dalla data di nascita, che era il 14 luglio. Lo spettacolo verrà trasmesso, in contemporanea all’uscita discografica dalla PBS Television, con otto brani in meno. Ovviamente anche le date di uscite discografiche e spettacoli vari non c’entrano nulla con il compleanno di Guthrie, ma è proprio lì il bello, sarebbe troppo semplice uscire alle date giuste. In ogni caso, questa è la lista completa:

CD:

  1. Howdi Do – Old Crow Medicine Show
  2. Union Maid – Old Crow Medicine Show
  3. Ramblin’ Reckless Hobo – Joel Rafael
  4. Hard Travelin’ – Jimmy LaFave
  5. Riding In My Car – Donovan
  6. I Ain’t Got No Home – Rosanne Cash with John Leventhal
  7. Pretty Boy Floyd – Rosanne Cash with John Leventhal
  8. I’ve Got To Know – Sweet Honey In The Rock
  9. House Of Earth – Lucinda Williams
  10. Pastures Of Plenty – Judy Collins
  11. Ease My Revolutionary Mind – Tom Morello
  12. Deportee – Ani DiFranco with Ry Cooder and Dan Gellert
  13. You Know The Night – Jackson Browne
  14. So Long, It’s Been Good To Know Yuh – Del McCoury Band with Tim O’Brien
  15. Woody’s Rag – Del McCoury Band with Tim O’Brien and Tony Trischka
  16. Do Re Mi – John Mellencamp
  17. 1913 Massacre – Ramblin’ Jack Elliott
  18. This Train Is Bound For Glory – All Performers
  19. This Land Is Your Land – All Performers

 

DVD:

 

  1. Howdi Do – Old Crow Medicine Show *
  2. Union Maid – Old Crow Medicine Show
  3. This Is Our Country Here – Jeff Daniels *
  4. Ramblin’ Reckless Hobo – Joel Rafael
  5. Hard Travelin’ – Jimmy LaFave *
  6. Riding In My Car – Donovan
  7. I Ain’t Got No Home – Rosanne Cash with John Leventhal *
  8. Pretty Boy Floyd – Rosanne Cash with John Leventhal
  9. I’ve Got To Know – Sweet Honey In The Rock
  10. House Of Earth – Lucinda Williams
  11. Pastures Of Plenty – Judy Collins *
  12. Ease My Revolutionary Mind – Tom Morello
  13. Deportee – Ani DiFranco with Ry Cooder and Dan Gellert
  14. I Hate A Song (spoken word) – Jeff Daniels *
  15. You Know The Night – Jackson Browne
  16. So Long, It’s Been Good To Know Yuh – Del McCoury Band with Tim O’Brien
  17. Woody’s Rag – Del McCoury Band with Tim O’Brien and Tony Trischka *
  18. Do Re Mi – John Mellencamp
  19. 1913 Massacre – Ramblin’ Jack Elliott *
  20. Nora Guthrie (spoken word)
  21. This Train Is Bound For Glory – All Performers
  22. This Land Is Your Land – All Performers

* Bonus track does not appear in televised PBS special

Il DVD contiene anche materiale raro relativo a performances dello stesso Guthrie, un documentario e interviste varie.

Sembra più che intereressante, peccato che non sia mai uscito a livello ufficiale il concerto che era stato fatto per festeggiare il 90° compleanno di Pete Seeger al Madison Square Garden di New York: per l’occasione c’erano Bruce Springsteen, John Mellencamp, Ani DiFranco, Emmylou Harris, Joan Baez, Dave Matthews, Tom Morello, Arlo Guthrie, Bruce Cockburn, Taj Mahal, McGarrigle Sisters, Steve Earle, Billy Bragg e tantissimi altri. Il tutto è durato più di quattro ore e mezza. Sono passati 4 anni, era il 2009, ma speriamo ci ripensino, come diceva il maestro Manzi “Non è mai troppo tardi!”, anche se alcuni, Kate McGarrigle e Richie Havens, non ci sono più. Per la serie le notizie collegate, nei prossimi giorni, mi devo ricordare di parlare giustappunto del doppio tributo a Kate McGarrigle, intitolato Sings Me The Songs: Celebrating The Works of Kate McGarrigle, curato con amore da Joe Boyd  e con la partecipazione di parenti ed amici, un cast fantastico, ma ne parliamo prossimamente.

Alla prossima.

Bruno Conti