Consigli Per Gli Acquisti…Dai Counting Crows! Field Report – Field Report

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Field Report – Field Report – Partisan Records

Questo disco è uscito lo scorso anno, e forse sarebbe rimasto a noi sconosciuto se non fosse stato per Adam Duritz (che come sapete tutti è il leader dei Counting Crows), il quale durante l’intervista concessa a Paolo Carù per il Buscadero in quel di Amsterdam, ha detto meraviglie di questo sestetto di Milwaukee (che in tempi recenti ha aperto i loro concerti), tanto da solleticare la curiosità di noi umili carbonari. I Field Report sono la creatura di Christopher Porterfield (ed il geniale monicker del gruppo altro non è che l’anagramma del suo cognome), che ha creato la sua band da una costola dei DeYarmond Edison (gruppo nel quale militavaJ ustin Vernon prima di fondare i Bon Iver), insieme a Nick Berg, Ben Lester, Jeff Mitchell, Damian Strigens e Travis Whitty, i quali suonano tutti in questo disco d’esordio, anche se nel frattempo Berg, Strigens e Mitchell non fanno più parte della band, ora ridotta a quartetto con l’aggiunta del batterista Shane Leonard.

Ebbene, l’ascolto dell’album dimostra che anche questa volta Duritz ci ha visto lungo: i Field Report (anche se dovremmo dire Porterfield, tanto è determinante l’impronta del leader) suonano una miscela molto moderna di rock e folk, prediligendo brani lunghi, lenti e d’atmosfera, con melodie suggestive forse non adatte ad un ascolto distratto. La musica di Porterfield e soci va infatti ascoltata con tranquillità, magari a luci basse, e certamente più di una volta: vedrete poi che non potrete fare a meno pure voi di apprezzare le affascinanti atmosfere di cui Field Report è ricco. Porterfield è indubbiamente un personaggio creativo, e per il suo esordio non ha scelto la via semplice di fare del rock diretto ed immediatamente fruibile, bensì ha preferito meditare le canzoni, centellinare i suoni, dilatare le melodie, dando così prova di originalità: alcune atmosfere possono rimandare ai Crows, ma la band di Duritz ha una maggiore impronta rock, pur se dal punto di vista dello script molti brani potrebbero in un futuro far parte di un altro disco di covers da parte dei Crows (soprattutto dopo il successo avuto dal bellissimo Underwater Sunshine).

Piccola curiosità: dei sei membri originali del gruppo, ben tre, tra i vari strumenti, suonano anche il sintetizzatore, ma non preoccupatevi, è usato con molta parsimonia e sempre per creare l’atmosfera di sottofondo (un po’ come faceva ogni tanto Danny Federici nella E Street Band). Fergus Falls è introdotta da un bell’arpeggio acustico, poi entra la voce del leader che inizia a sviluppare una melodia limpida, e gli strumenti arrivano di soppiatto rivestendo il brano a poco a poco: una percussione leggera, una nota di piano, un violino, fino al bel finale corale. Un avvio affascinante: c’è molto dei Counting Crows nella costruzione di questo brano, ma anche di uno come Van Morrison (che comunque è una delle principali influenze di Duritz).

The Year Of The Get You Alone è un brano soffuso, con una ritmica appena accennata ed un raffinato arrangiamento dai vaghi accenni jazzati: la canzone si dipana fluida per oltre cinque minuti, anche se forse rimane un filo poco immediata. I Am Not Waiting Anymore è uno slow, ma con una base folk ed un motivo decisamente più diretto: non è musica facile, richiede attenzione e predisposizione, ma vedrete che se riuscirete ad entrare nel disco non ve ne pentirete. La delicata Taking Alcatraz ha echi del Paul Simon più classico, quello folk-rock e non contaminato dalla musica etnica: l’uso del piano è decisivo per lo sviluppo del brano, uno dei migliori di tutto il disco. Molto buona pure Incommunicado, di buovo lenta ma con una melodia toccante ed un mood struggente (e poi la batteria la movimenta un po’); Circle Drive è semplice, due chitarre, voce e piano in sottofondo, ma con un feeling grande così.

Chico The American è notturna, quasi onirica, mentre Evergreen ripropone le radici folk del gruppo (e qui forse il synth stona un po’); chiudono l’album la pianistica Captain Video, autunnale, e la spettrale Route 18, voce e chitarra nel buio, un po’ come usava fare il grande Fred Neil (verso la fine però qualche altro strumento si palesa timidamente). Duritz aveva ragione: i Field Report hanno personalità, creatività ed originalità, per il secondo album auspico soltanto un po’ di dinamismo in più. Di certo non è un disco da ascoltare quando si è depressi.

Marco Verdi

“Grandi Voci”: Dopo Beth Hart, Dana Fuchs – Bliss Avenue

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Dana Fuchs – Bliss Avenue – Ruf Records

Ho sempre avuto una predilezione per le grandi voci femminili rock, e negli ultimi anni sto avendo una serie di soddisfazioni, Beth Hart in primis (entrambe fanno I’d Rather Go Blind e Whole Lotta Love in modo incredibile) e in misura minore Grace Potter mi sembra si avvicinino al prototipo delle grandi cantanti del passato, e anche Dana Fuchs, che seguo da un po’ di anni, fa parte di questa famiglia. Passione per Janis Joplin (se ogni volta che qualcuno la nomina fosse possibile avere un soldino dal “topino dei denti”, avrei costruito un patrimonio, ma è la verità), Etta James, il rock degli anni ’70, quando era possibile fare un album libero da schemi musicali, rock, blues, soul, country, la musica dei Beatles e degli Zeppelin, tutte insieme nello stesso disco, aaahh che goduria!

Dana Fuchs ha seguito tutta la trafila, trasferita a New York dalla  Florida in cui viveva, negli anni ‘90, quando aveva 19 anni la tragedia di perdere per suicidio la sorella maggiore e la decisione di perseverare con la musica, i primi ingaggi Live nei locali della Grande Mela, l’incontro con Jon Diamond che era stato in precedenza il chitarrista di Joan Osborne (altra grande vocalist, l’avete vista in Love For Levon?), il primo disco in studio, Lonely For A Lifetime, uscito nel 2003 e ristampato lo scorso anno i-primi-passi-di-dana-fuchs-la-ristampa-di-lonely-for-a-life.html, la “scoperta” da parte dell’industria discografica che la sceglie per la parte di Sexy Sadie nell’immaginifico film Across The Universe della regista Julie Taymor (è la bella pennellona con i capelli ricciuti che canta con una voce della Madonna, Helter Skelter, Why Don’t We Do It In The Road, Don’t Let Me Down e altro). Ma prima ancora aveva fatto la cantante di jingle per MTV ed era stata l’interprete del musical Love, Janis (un destino in comune con Beth Hart, che l’aveva fatto prima di lei). In seguito, nel 2008, ha pubblicato un CD o DVD di difficile reperibilità, Live In NYC, che rende una idea della potenza esplosiva dei suoi concerti e finalmente viene messa sotto contratto dalla Ruf Records, che nel 2011 le pubblica il secondo disco di studio, Love To Beg. una-voce-straordinaria-il-disco-un-po-meno-dana-fuchs-love-t.html

Nel frattempo Dana Fuchs  perde anche il fratello in seguito ad un male incurabile. Alcuni di questi fatti sono l’ispirazione per i brani che compongono questo nuovo Bliss Avenue, forse il disco migliore della sua carriera: accompagnata dal fido Jon Diamond, che scrive tutte le musiche delle canzoni e con l’ottimo Glen Patscha dagli Ollabelle a organo e piano, già presente nel disco precedente, ma qui protagonista assoluto dei brani dal flavor più vicino al soul e al country e una sezione ritmica solidissima e swingante, con Shawn Pelton alla batteria e Jack Daley al basso. Dodici brani di notevole spessore che passano dal rock zeppeliniano dell’iniziale Bliss Avenue con la chitarra di Jon Diamond subito in evidenza (secondo alcuni non è un grande solista, ma per me è bravo, certo non è Bonamassa che ha fatto fare il salto di qualità a Beth Hart, ma rimane un chitarrista di tutto rispetto, anche eclettico). How Things Get That Way è un rock classico, con un bel riff anni ’70 e l’Hammond di Pascha pimpante al punto giusto. Handful Too Many è uno strano country-rock-blues in punta di piedi, con le vocalists di supporto Tabitha Fair e Nicki Richards che cominciano a farsi sentire. Fin qui, buono, lei canta benissimo ma manca quel quid, quella luce che si accende nella bellissima Livin’ On Sunday, coretti tra gospel e R&B, organo Memphis deep soul primi anni ’70, voce potente ma misurata, si comincia a godere.

Molto bella anche So Hard To Move, la canzone concepita sul letto di morte del fratello, dalla disgrazia nasce anche della grande musica, una intensa slow ballad ad alto tasso emozionale che si ispira a gente come Joplin e James ma poi si sviluppa come un brano al 100% di Dana Fuchs. Daddy’s Little Girl è un coinvolgente brano da Springsteen in gonnella, quello più spensierato e divertito mentre Rodents In The Attic è un rocker di quelli galoppanti, con ritmica e chitarra che tirano la volata ad una Dana incazzata per tutti quei “roditori” che le si agitano nel cervello dopo qualche bevuta di troppo (come espressione di gergo americana mi mancava). Baby Loves The Life è una notevole ballatona elettroacustica di quelle emozionali e anche Nothin’ In My Mind con chitarra acustica, piano e atmosfere country potrebbe uscire dalle sessions per Pearl, molto piacevole. Le chitarre tornano a fischiare e i ritmi accelerano per Keep On Walkin’ che suona come un incrocio tra Free e Creedence. Eccellente anche la ballata mid-tempo Vagabond Wind e la chiusura rock di Long Long Game che sembra uscire da Led Zeppelin III o IV. Per chi ama le belle voci e il rock, non necessariamente nell’ordine!          

Bruno Conti  

Di Nuovo Lo “Smilzo”! Too Slim & The Taildraggers – Blue Heart

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Too Slim And The Taildraggers – Blue Heart – Underworld Records

In questi ultimi anni sono diventato una sorta di “cantore” delle gesta di Tim Langford, in arte Too Slim. E se il disco acustico in solitaria dello scorso anno, Broken Halo, pur non entusiasmandomi, non era poi malvagio one-man-ban-tim-too-slim-langford-broken-halo.html, i precedenti Shiver e il disco dal vivo Time To Live, avevano confermato la bontà di un personaggio in pista da più di 25 anni e con una quindicina di album al suo attivo. Ma questo Blue Heart è uno dei migliori della sua carriera e lo rilancia ai vertici qualitativi di metà anni ’90, quando vinceva parecchi premi, nelle varie classifiche blues di fine anno. Il bassista E. Scott Esbeck (già con i Los Straitjackets) e il batterista Jeff “Shakey” Fowlkes ( con Robert Bradleys Black Water Surprise, Kid Rock, Uncle Kraker) sono i nuovi Taildraggers, ma non suonano nel disco! Ohibò, e questo cosa vuol dire? Significa, come ricordo spesso, parere personale magari non condiviso, che i nomi sono importanti e ricordarli aiuta a capire cosa si ascolta. In caso contrario come farebbe uno a ricordare quei meravigliosi musicisti che suonavano, che so,  nei dischi registrati ai Muscle Shoals Studios o in quelli della Motown o della Hi Records, per citare alcuni casi eclatanti.

Ma anche oggi i nomi di produttori e musicisti sono importanti: prendiamo questo album, il produttore è Tom Hambridge che suona anche la batteria (all’opera con profitto negli ultimi anni con Eric Burdon, Joe Louis Walker, Thorogood, James Cotton, Buddy Guy) e la differenza nel sound si sente, ogni rullata o colpo di grancassa sembra una schioppettata, e anche gli altri strumenti hanno un suono ben definito da etichetta importante, anche se il tutto poi è stato registrato in quel di Nashville negli studi di una piccola label come la Underworld. Se poi aggiungiamo che anche gli altri musicisti non scherzano un c…., a partire dal bassista Tommy McDonald che suona in tutti i dischi citati prima con Hambridge, e anche nel disco Loosen Up di tale R.B. Stone, che non ha ancora avuto il tempo di sentire ma di cui ho letto ottime case (il giorno ha solo 24 ore!), all’organo c’è Reese Wynans, alla seconda chitarra Rob McNelley, dalla band di Delbert McClinton e come ospite in un paio di brani il leggendario Jimmy Hall, dai Wet Willie e Brothers of The Soutland. E il 50 % è già fatto, se niente niente, il nostro amico riesce a scrivere anche dei buoni pezzi, portiamo a casa il risultato: e i nove pezzi a nome Tim Langford, più un paio di cover di autori pochi noti confermano l’impressione, il disco è buono, se amate quel blues, sapido e ricco di rock, southern, boogie e con coloriture soul e R&B, siete capitati nel posto giusto.

Ok, anche la produzione di Hambridge non può migliorare più di tanto la voce di Langford, ma la inserisce in un ambito più adatto e la valorizza (in fondo non è che Billy Gibbons abbia una voce straordinaria) , non puoi creare un Jimmy Hall, e quando quest’ultimo canta in Good To See You Smile Again, la differenza si sente, ma la voce è un dono di natura, puoi migliorarla come hanno fatto Clapton ed altri nel corso degli anni, ma non si diventa Solomon Burke o Eric Burdon dalla mattina alla sera. Per cui accontentiamoci e godiamoci il boogie  rock “cattivo” di Wash My Hands che riffa alla ZZ Top, con la chitarra anche slide di Too Slim che comincia a fare i numeri. O l’ottimo hard slow blues di Minutes Seem Like Hours, ricco di atmosfere e di chitarre, ma anche il blues più tradizionale della title-track Blue Heart, con l’armonica di Jimmy Hall a dividersi il proscenio con la chitarra di Langford, Hambridge oltre ad essere indaffarato in fase di produzione, aggiungi un filtro alla voce qui, alza il basso di là, picchia di gusto sulla sua batteria e ottiene il risultato del titolo di una canzone, Make It Sound Happy, con il basso pompatissimo di McDonald in soccorso della solista indurita del buon Tim.

Il brano cantato da Jimmy Hall è uno slow blues di quelli Doc, con l’organo di Wynans che soffia in sottofondo. Organo che rimane protagonista anche nelle atmosfere sudiste di When Whiskey Was My Friend per lasciare spazio alla chitarra indiavolata di Langford nella hendrixiana If You Broke My Heart. Ma i blues lenti esaltano le virtù chitarristiche del nostro amico come nell’ottima New Years Blues, mentre il funky di Shape Of Blues To Come di tale David Duncan, al di là dei virtuosismi di chitarra e organo, entusiasma meno. Viceversa Preacher, di uno che si chiama Ross Sermons, è una vera “predica” su come si usa la slide e Tim Langford nel campo non ha bisogno di lezioni. Per la conclusiva Angels Are Back si torna alle atmosfere acustiche del precedente Broken Hall, piacevole e ben suonata, ma elettrico Too Slim è un’altra cosa, se avesse una bella voce, mezzo punto in più!

Bruno Conti  

Vai Col “Vocione”! Omar Dykes – Runnin’ With The Wolf

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Omar Dykes – Runnin’ with the Wolf – Mascot/Provogue

Dopo la reunion di Omar & The Howlers dello scorso anno con I’m Gone  un-bluesman-texano-del-mississippi-omar-and-the-howlers-i-m.html, che a sua volta era stata preceduta dal tributo a Jimmy Reed in coppia con Jimmie Vaughan e un seguito che sempre intorno all’argomento verteva, come Big Town Playboy, il nostro amico ritorna al suo nome originale e, come, Omar Dykes (senza Kent), si lancia in un tributo ad un altro dei musicisti che hanno segnato la sua carriera (e ai quali spesso è stato accostato), Chester Burnett a.k.a. Howlin’ Wolf, al quale è dedicato ed intorno alla musica del quale ruota questo Runnin’ With The Wolf, senza dimenticarsi  di un altro dei grandi del blues, che tanti brani firmati ha firmato del “Lupo”, come Willie Dixon. Come ricorda lo stesso Omar nelle note del libretto allegato al CD, spesso è stato comparato a Howlin’ Wolf per quel vocione profondo e per lo stile grintoso, feroce e muscolare, ma onestamente riconosce che il paragone non regge: Howlin’ Wolf è una delle leggende del Blues, uno dei più grandi cantanti, autori ed interpreti della scuola di Chicago, mentre lui forse non vale nemmeno un quarto del grandissimo vocalist.

Nonostante ciò ci prova e accanto ad alcuni brani “oscuri” del repertorio di Burnett, ha scelto di interpretare proprio i grandi classici. Se lo dobbiamo fare, facciamolo bene e anche tra i musicisti utilizzati ci sono Howlers nuovi e vecchi: la sezione ritmica con i bassisti Ronnie James e Bruce Jones e i batteristi Wess Starr e Mike Buck che si alternano, l’organo di Nick Connolly usato con parsimonia in alcuni brani, come pure una sezione fiati a due, solo in tre canzoni, senza dimenticare i chitarristi aggiunti Derek O’Brien, Casper Rawls e Eve Monsees, una giovane promessa di Austin, Texas (come Gary Clark Jr), protetta di Omar  e l’armonica di Ted Roddy solo in due pezzi, nel super classico Smokestack Lightning e nell’iniziale Runnin’ With The Wolf l’unico brano non firmato Burnett o Dixon, ma che in quello spirito si crogiola. Ovviamente ascoltando questi brani non si può fare a meno di pensare a tutte quelle band e solisti, che, nella British Invasion, Stones per primi, e poi nell’epopea del British Blues, dagli antesignani Cream di Clapton a tutti gli altri che non citiamo per brevità, ma a cui aggiungiamo almeno Jeff Beck e Hendrix, si sono “ispirati” alla musica di questo omone di quasi 2 metri per 140 chili di peso, una stazza che incuteva rispetto in tutti i suoi interlocutori a fronte di un carisma sconfinato.

Naturalmente sono le ennesime variazioni sul tema, ma fatte molte bene e, nonostante si schermisca, Omar Dykes (con e senza “ululatori”) è in possesso di un vocione in grado di rendere giustizia al repertorio che affronta, come è subito chiaro sin dal tributo iniziale che è una sorta di bigino di tutto quello che verrà dopo nel disco. Siano le evoluzioni in trio di una Hendrixiana Killin’ Floor con il suo riff ripetuto ed insistito e l’assolo tipicamente texano di Omar o l’incedere inconfondibile di uno degli slow per eccellenza come Little Red Rooster, si annusa profumo di buona musica e Dykes ha voglia di strapazzare la sua chitarra come nei giorni migliori della sua carriera. Ma lascia spazio anche alla brava Monsees in una canonica Howlin’ For My Baby e duetta con Derek O’Brien in uno dei classici tra i Classici, una Spoonful che riprende il suo sound elettrico originale lontano dagli eccessi hard che sarebbero venuti negli anni a seguire. Ooh Baby Hold Me, uno dei brani “oscuri” citati, tramite l’utilizzo di un inconsueto wah-wah che duetta con un sax non accreditato nelle note ha un che di hendrixiano nel suo incedere, tipo le jam strumentali della terza facciata di Electric Ladyland, in bilico tra passato e futuro.

Anche Riding In The Moonlight non è notissima ma fa la sua bella figura nella versione in power trio, mentre Who’s Been Talking un altro dei super classici, si avvale di una formazione allargata a sette, con fiato, organo e la chitarra della Monsees ad accompagnare un gigioneggiante Omar. Back Door Man è semplicemente la quintessenza della musica di Howlin’ Wolf, bella versione chitarristica, Worried All Time ha un retrogusto quasi R&R e Smokestack Lighting è …Smokestack Lighting, urlo primevo incluso, con la voce di Dykes che ricorda anche quella del vecchio Capitano (Beefheart), un altro che conosceva bene l’argomento. Do the do, di nuovo fiati e versione allargata, non la ricordavo, ma il riff ha un che di Bo Diddley (altro grande amore di Omar), I’m Leavin’ you ci riporta alle 12 battute classiche e Tell Me What I’ve Done è un altro dei rari slow presenti ma ricco di grinta, prima della conclusione con un altro dei classici firmati da Willie Dixon, quella Wang Dang Doodle ripresa mille volte nella storia del blues, facciamo 1001, vai col “vocione” e non se ne parla più. Bel disco!                   

Bruno Conti

Ray Manzarek (& Roy Rogers), Atto Finale! Twisted Tales

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Ray Manzarek & Roy Rogers – Twisted Tales –  CNC (Chops Not Chaps) Records

Dai tempi in cui non era più il tastierista di quella promettente formazione fondata a Venice Beach con l’amico Jim Morrison, in California, nell’estate del 1965, The Doors, Raymond Daniel Manzarek non era stato più in grado di accedere a quei livelli di ispirazione che avevano caratterizzato i primi sei anni della sua carriera, fino al fatidico 1971 dell’uscita di La Woman. Ma ha caparbiamente e testardamente portato avanti la leggenda del gruppo (che si apprende in questi giorni avrà scampoli di nuova vita con la ennesima reunion di John Densmore e Robbie Krieger che sembrano avere appianato le loro diatribe legali), in qualche caso anche oltre i limiti dell’umana decenza musicale, ma sempre con una certa dignità e nel contempo ha firmato anche un consistente numero di progetti solisti e collaborazioni, soprattutto nell’ultima decade, che si sono protratti sino a pochi mesi prima della sua morte, avvenuta il 20 maggio di quest’anno, che possa riposare in pace.

Nessuno dei dischi che si sono succeduti negli oltre 40 anni passati da allora può essere definito memorabile, ma le collaborazioni con Roy Rogers, cantante e chitarrista slide, avvenute all’ombra della comune passione per il Blues (musica molto amata anche da Morrison e dagli altri Doors), sono sicuramente da ritenersi tra le più riuscite,  più di quella improbabile, ma non terribile, con Skrillex o la sua affermazione che i Chemical Brothers erano gli eredi dei Doors, opinione rispettabile ma difficilmente condivisibile, che però consentiva di “rimanere sempre alla moda”! Nei due precedenti dischi con Rogers, lo strumentale Ballads Before The Rain del 2008, dove venivano ripresi pezzi di musica classica, un paio di brani dei Doors e alcune nuove composizioni e il successivo Translucent Blues, decisamente più orientato verso le classiche 12 battute, con entrambi che si dividevano le parti vocali e i testi che venivano ripresi anche del repertorio di due grandi poeti americani, vicini al rock, come Michael McClure e Jim Carroll, soprattutto nel secondo c’era già in nuce questa collaborazione tra poesia, rock e blues, che in questo Twisted Tales raggiunge il suo completamento, completando il cerchio iniziato proprio 40 anni fa circa e che lo scorso anno, in modo più dimesso e meno eclatante, aveva visto la luce nell’album Piano Poems: Live In San Francisco che però in pratica erano dei readings dei poemi di McClure accompagnato dal piano di Manzarek e dal flauto di Larry Kassin.

Questa volta il progetto è più organico, quattro testi di Jim Carroll (poeta, ma anche grande rocker) e tre di McClure, messi in musica da Manzarek e Roy Rogers, oltre a tre canzoni scritte da Rogers, che con la sua formidabile slide si divide gli spazi con la tastiere di Ray in tutto l’album. Che, diciamolo subito, per sgombrare lo spazio da eventuali equivoci, è, ancora una volta, un onesto disco di blues-rock, ma niente di trascendentale, nella media di moltissimi altri album simili che escono quasi giornalmente, con Rogers che è cantante discreto, meglio Manzarek,  ma nessuno dei due un fulmine di guerra, però ai rispettivi strumenti si fanno valere, e il rock e il boogie di brani come le iniziali Just Like Sherlock Holmes e Eagle In The Whirlpool  si ascolta con piacere e fa muover il piedino. Quando l’organo di Manzarek sale in primo piano come nella doorsiana Cops Talk, un po’ di nostalgia ti attanaglia ma la consistenza vocale non incanta particolarmente anche se l’assolo di sax di George Brooks ha un suo fascino.

Ma la produzione di Manzarek non ha più quell’aria tagliente dei primi dischi degli X. Nel flamenco-rock di Street Of Crocodiles Ray sfoggia delle sfumature vocali alla Morrison che vivacizzano l’ascolto. Ma quando ci si allontana troppo dal blues come in American Woman, sembra di ascoltare una parodia dei Tubes o dei Cars, mentre Shoulder Ghosts di Roy Rogers tenta anche la strada della musica d’atmosfera, senza particolare successo, al di là della slide del titolare. In The Will Of Survive, ancora di Rogers, torna un po’ della grinta dei brani iniziali, ma nulla di cui entusiasmarsi. Meglio il lungo slow blues cadenzato, con uso di slide, di Black Wine/Spank Me With A Rose, reso vivace dall’organo di Manzarek che non ha perso il tocco e se la cava egregiamente alla voce. State Of the world e Numbers concludono, senza infamia e senza lode, un disco discreto che vive più sulla fama dei suoi protagonisti che sull’effettivo valore dei contenuti, arrivando alla sufficienza, sei di stima.

Bruno Conti  

Sembra Quasi Un Disco Di Delbert McClinton! Delbert And Glen – Blind, Crippled And Crazy

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Delbert And Glen – Blind, Crippled & Crazy – New West

Sembra quasi un disco (di quelli belli) di Delbert McClinton, ma forse perché Glen Clark di dischi a nome proprio ne ha registrati ben pochi (anzi direi uno solo nel 1994), dai tempi in cui si esibivano come coppia ad inizio anni ’70 e hanno lasciato un paio di testimonianze a nome Delbert & Glen, una omonima e Subject To Change, pubblicate  tra il 1972 e il 1973, ma lo stile, già allora, era quello che poi il Texano di Lubbock, Delbert, avrebbe abbracciato nel corso della sua lunga carriera, un misto di blues, Soul, swamp rock, country e varie altre influenze che di solito si catalogano tra roots rock e Americana, ma che si può tranquillamente definire come country got soul, termine che riassume bene questa mescolanza di musica nera e bianca.

I due non sono più dei giovanotti, McClinton in particolare, nato nel 1940, appariva già come armonicista, nel lontano 1962, in Hey Baby, un brano di Bruce Channel che forse molti non ricordano come titolo, ma fa parte di quelle irresistibili canzoncine dal ritornello additivo che un altro Bruce sa maneggiare con cura di fronte a folle oceaniche, e proprio in virtù di quella partecipazione, Delbert, leggenda vuole, nel successivo tour europeo insegnò i primi rudimenti dell’armonica a John Lennon. Si diceva dell’età anagrafica che è quella che è, ma le voci e la grinta sono sempre quelle dei tempi d’oro, per questo Blind, Crippled & Crazy, registrato lo scorso anno in quel di Nashville (ma scordatevi il country più bieco), la coppia si è affidata alla co-produzione di Gary Nicholson, che a rotazione con i due, firma anche gran parte del materiale, a parte un canzone firmata dal figlio di McClinton, Clay, Oughta Know, che è la più bluesata del lotto e consente ad Anson Fundenburgh di scaldare le corde della sua solista con un intervento unico ma molto efficace.

Per il resto è difficile distinguere i due a livello strumentale, suonano entrambi l’armonica, e gli interventi allo strumento, in alcune recensioni, Clark in World Of Hurt e McClinton in un paio di altri sono stati invertiti, tanto sono indistinguibili i due. Per le voci il problema non si pone: quello più “Bravo”, dalla voce ancora potente e pimpante è decisamente Delbert McClinton, ma anche Glen Clark si difende con classe, specie in una ballata country come Just When I Need You The Most, che ricorda quelle più belle di Don Henley nei primi Eagles. D’altronde i due armonizzano alla perfezione, come se non fossero passati più di 40 anni dai tempi delle prime collaborazioni, ma quando c’è da guidare le danze è McClinton che incanta con la sua voce “nera”, come nel country-blues-rock con uso di slide (Bob Britt) di Good As I Feel Today o nelle derive country-soul alla Little Feat dell’iniziale Been Around A Long Time, dove il violino di James Pennebaker (anche alla chitarra nel resto del disco con il bravo Britt), la batteria dell’ottimo Tom Hambridge e le tastiere di Bruce Katz che sostituiscono il “solito” Kevin McKendree in quasi tutto l’album, sono un buon viatico per chi ama nella propria musica la giusta quota di funky.

E l’incipit del brano fotografa alla perfezione quello di cui stiamo parlando: “I Ain’t Old But I Been Around A Long Time/ Long Enough To Know Age Is Just A State Of Mind”, non credo che occorra traduzione e lo dimostrano nel vigoroso Rock’n’Roll che risponde al nome di Whoever Said It Was Easy, nel Texas Blues della fumante Oughta Know, già citata o nel soul vecchio stile di World Of Hurt, che potrebbe venire dalle strade della vicina Memphis, Tennessee. E ancora nel sound elettroacustico del mid-tempo More And More, Less And Less dove la voce di McClinton assume tonalità non dissimili da quelle di un altro veterano tornato in gran forma ultimamente, il gallese Tom Jones. Somebody To Love You, cantata a due voci alternate, è un altro bel blues, con Britt, Katz e Hambridge di nuovo sugli scudi e Sure Feels Good è un ottimo esempio di un Delbert McClinton d’annata con steel e armonica a colorare il suono. Tell My Mama di Clark è country got soul, pianino honk tonk e ritmi neri mentre Peace In the Valley potrebbe venire dal repertorio dei Blasters o dei Rockpile o addirittura di Chuck Berry, come la giri buona musica, d’altronde come quella che si sprigiona da tutto questo dischetto assolutamente godibile, niente di nuovo, ma che classe ragazzi!

Bruno Conti

Lloyd Cole – Standards? Buoni, Decisamente Buoni!

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Lloyd Cole – Standards – Tapete Records

Quella che sta vivendo da alcuni anni Lloyd Cole è una sorta di terza giovinezza o di “third coming” se vogliamo dirla all’inglese, iniziata con l’eccellente Broken Records nel 2010 com-e-diventato-vecchio-ma-bravo-lloyd-cole-broken-record.html, e ora proseguita con questo Standards che conferma il nuovo stato di grazia che sta vivendo la musica di Lloyd. Intendiamoci, non siamo, forse, di fronte al capolavoro assoluto, come potrebbe sembrare leggendo le recensioni di Uncut che gli ha dato 8/10 o le quattro stellette di Mojo, ma neppure a quel lavoro di copia e incolla, e di seconda mano, della musica che ha sempre amato, che si potrebbe ricavare leggendo alcune recensioni italiane.

Ad essere sinceri, questo gusto per la citazione della musica altrui, Lloyd Cole l’ha avuto sempre presente, ma quando è sorretto da buone canzoni, come in questo caso, o, in passato, nel primo Rattlesnakes con i Commotions (ma anche Easy Pieces non era per niente male) e poi ancora nel suo primo album omonimo da solista nel 1990,  le stesse canzoni sono in grado di regalare all’ascoltatore il piacere della musica semplice ma fedele agli stilemi del rock (e del pop) più classico. Come ricordo spesso e voglio farlo anche in questa occasione, sono le canzoni che contano e poi se i riff e i ritornelli ricordano qualcuno o qualcosa, pazienza, le note e gli accordi sono quelli, l’importante, se citi o ti ispiri alla musica d’altri, è farlo con classe e nel rispetto della musica, senza volerlo fare di nascosto come è usanza per molti musicisti, anche di categoria superiore.

Il nostro amico ha sempre avuto un buon seguito di pubblico e di critica, soprattutto nel Regno Unito e in alcuni paesi europei (compresa la Germania, dove ha sede la sua etichetta e dove è uscito, recentemente, un disco di musica elettronica registrato in coppia con Hans-Joachim Rodelius dei Cluster, che una collaborazione non la nega a nessuno), ma non ha mai sfondato negli USA, dove vive, nel Massachusetts, con la famiglia, dal lontano 1989 e dove è stato registrato il disco, tra Los Angeles, New York e Easthampton. Eppure la sua musica è sempre stata influenzata da quella americana, Lou Reed, Dylan, Leonard Cohen, l’amato Tom Verlaine e i suoi Television, sono sempre stati punti di riferimento nella musica di Cole, insieme al pop dei Beatles e dei Kinks, per citare alcuni capisaldi della sua musica, che ancora una volta ritornano in questo disco.

Lloyd ha anche una passione, neppure troppo nascosta, per i nomi oscuri di certo country alternativo americano, come dimostra la energica cover rock di California Earthquakes del grande John Hartford che apre l’album: il sound, curato dal veterano collaboratore di Cole, nonché batterista, Fred Maher, si avvale di altri vecchi pards, come Matthew Sweet, qui al basso e alle armonie vocali, ma ottimo cantautore anche in proprio, Blair Cowan alle tastiere, fin dai tempi dei Commotions, e anche Joan Wasser (in arte Joan As A Policewoman) a violino, tastiere e background vocals, forse i chitarristi, lo stesso Lloyd, Matt Cullen, Mark Schwaber e il figlio Will Cole, non sono all’altezza del grande Robert Quine, ma la grinta e l’energia del rock’n’roll non mancano, come dimostra Women’s Studies che un riff o due e l’inlessione vocale “forse” la prendono da Lou Reed, ma con ottimi risultati, non è l’opera di un mero imitatore, e poi si è ispirato anche al miglior sé stesso del passato, con tutte le influenze citate poc’anzi bene in evidenza.

Il riff iniziale di basso di Period Piece è preso da “Un Cuore Matto” (scherzo!) ma il brano, ricco di simbolismi e di colte citazioni alla Dylan, è una piccola delizia “Coliana” e che dire di quella stupenda ballata che risponde al nome di Myrtle and Rose, con il lato malinconico e aulico di Cole che ancora una volta sale al proscenio: gente che scrive canzoni così belle in giro ce n’è poca, e chissenefrega se ricorda altri, è anche bravo di suo e quella voce è inconfondibile e regala emozioni all’ascoltatore, anche dopo ripetuti ascolti non stanca. Delicata e dolce anche la breve No Truck conferma il ritorno della migliore ispirazione anche in età matura ( i 50 ormai sono un ricordo pure per Cole)! Molto belle le atmosfere raffinate di Blue Like Mars, che il recensore di Mojo paragona ad un Chris Isaak fantascientico, con le chitarre e le tastiere che si intrecciano alla perfezione negli intermezzi strumentali, senza mai prevaricarsi ma interagendo in modo quasi chirurgico.

Lo hanno citato tutti, posso non farlo io? L’attacco di Opposites Day è proprio preso, pari pari, dal riff iniziale delle due chitarre di Marquee Moon dei Television, e più che una citazione è proprio un omaggio ad un autore, Tom Verlaine, che Cole, aveva già rivisitato ad inizio carriera con una bellissima cover di Glory. Se dovesse servire “solo” a ricordare l’opera di questo musicista geniale e uno degli album minori della storia del rock più belli di sempre, il suo compito l’avrebbe svolto egregiamente, ma poi il brano si sviluppa comunque in un rocker grintoso dove l’incedere circolare delle chitarre è stimolante di suo. Silver Lake è un’altra ballatona stupenda con il violino della Wasser in bella evidenza, le belle canzoni non mancano proprio in questo disco, sembra una di quelle che George Harrison sfornava a raffica ai tempi di All Things Must Pass. Non bastasse, c’è pure l’omaggio anche ai Beatles tutti in It’s Late, che sembra una You Won’t See Me rallentata o comunque un brano dei primi album, quelli più pop, ma già perfetti fin dalle armonie vocali inarrivabili qui duplicate con rispetto. Profumi dal passato ancora una volta nel reportage dei tempi che passano di Kids Today, sempre con quella malinconia immancabile che però non piange su sè stessa, ma cerca di trasporre i lati positivi del passato nel presente. L’ultimo “Standard” del disco è una ulteriore perla del tipo Pop Music, si chiama Diminished Ex e conclude degnamente un album che non posso non consigliarvi caldamente. Modelli come questo se ne fanno pochi, citano il passato ma lo fanno con gran classe!

Bruno Conti

James Maddock Tour Italiano E Nuovo Disco E Un Bel Quesito Per I “Nordisti”!

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Annunciato praticamente da dicembre dello scorso anno esce il nuovo album di James Maddock Another Life su Julian Records. Qualcuno in rete, approfittando del fatto che era disponibile in streaming da lunga pezza, lo ha già recensito in anteprima, però sette o o otto mesi prima, mi pare eccessivo, anch’io faccio delle anticipazioni sul Blog, di tanto in tanto, (e un paio le leggerete nei prossimi giorni) mai così a lunga gittata e su uscite certe e ben definite. In ogni caso la lunga attesa è (quasi) finita, il CD sarà disponibile dal 23 luglio, anche se spero che verrà già venduto ai suoi concerti nell’imminente tour italiano. Grande cantautore, uno dei migliori delle ultime generazioni, tra quelli che “ricordano” di più i grandi del passato, appena ho il CD definitivo naturalmente recensione, e dal vivo assolutamente da non perdere, soprattutto in questo tour con la band!

Qui sul sito della sua etichetta trovate alcuni brani in streaming e molte notizie http://jullianrecords.com/artists/james-maddock/

Le date sono le seguenti:

Sunday, July 7, 2013

James Maddock and Band @ Monterocktondo

Monterotondo Marittimo, (Italy)

 

Monday, July 8, 2013

James Maddock And Band @ Chiesa di Sant’Anna Clavesana CN, (Italy)

 

Tuesday, July 9, 2013

James Maddock And Band @ La Fonte

Monasterolo di Savigliano, BG (Italy)

 

Wednesday, July 10, 2013

James Maddock and Band @ Piazza Della Vittoria

Pavia, (Italy)

 

Thursday, July 11, 2013

James Maddock and Band @ TBA

Abruzzo, (Italy)

 

Friday, July 12, 2013

James Maddock and Band @ TBA

Abruzzo, (Italy)

 

Saturday, July 13, 2013

James Maddock and Band @ Buscadero Day @ Town Plaza

Pusiano, CO (Italy)

Sunday, July 14, 2013

James Maddock and Band @ Buscadero Day @ Town Plaza

Pusiano, CO (Italy)

Le date sono prese dal suo sito e sono un po’ criptiche, anche se ho eliminato orari e altri dati che sicuramente non erano esatti e aggiungo che sicuramente il 10 Luglio in piazza Vittoria a Pavia e il Buscadero Day a Pusiano sono gratuiti! Si pone un bel dilemma per noi “nordisti” perché il 10 luglio all’Area Agorà delle ex Officine Ansaldo a Milano ci sono i Gov’t Mule,  che però costano un bel 38.50 euro! Quindi meditate gente, meditate.

Già che ci sono pubblico anche il programma completo della due giorni del Buscadero Day (giornale che mi sembra di conoscere), da cui si desume che Maddock dovrebbe suonare solo il 13 luglio anche se il suo sito riporta pure il 14 luglio, forse un concerto aggiunto in seguito (in effetti leggendo bene c’è un “Hootenanny” collettivo finale nel secondo giorno e qui sul sito potete leggere comunque il programma definitivo http://www.buscaderoday.it/programma/:

BUSCADERO DAY 2013
Pusiano (Co) – Parco Di Palazzo Beauharnais
13 e14 Luglio 2013

– Sabato 13 Luglio
19.30 W.I.N.D
20.10 Daniele Ronda & Folklub
21.00 Bocephus King
22.30 James Maddock

Dalle 17: Fabio Gualerzi, The Lonesome Pines, Giancarlo Frigieri, Nima Marie, Stefano Barotti, Paolo Saporiti, Marcello Milanese, Luca Rovini

– Domenica 14 Luglio
15.50 I Luf
16.30 Mandolin Brothers
17.10 Andrea Parodi
17.50 Sacri Cuori
18.30 Hugo Race Fatalists
19.30 Garland Jeffreys

Dalle ore 10: Ameritalian, Spring Street Band, Hernandez & Sampedro, Oli Rockberger, Max De Bernardi, Manuele Zamboni, Luca Milani, The Travellers, Elsa Martin, Max Larocca, Erica Opizzi, Claudio Ruggiu, July Snow Club, Milena Piazzoli, Matt Waldon, Cesare Carugi, Paolo Pieretto, Giulia Millanta, Davide Buffoli, Carlo Pestelli, Francesco Piu, Federico Sirianni, Charlie Cinelli, Tiziano Cantatore, Sugar Ray Blues, Mamabluegrass Band, Settegrani, Jc Cinel, Evasio Muraro, Orchestra Del Rumore Ordinato, Mojo Filters, Nerves & Muscles, Daniele Tenca, John Strada

Ciumbia! Buon Divertimento!

Bruno Conti

P.s E’ un po conflitto di interessi ma per la buona musica (gratuita) questo e altro.

Gli Ultimi “Grandi” Del Southern Rock Ristampati! Blackfoot – Strikes, Tomcattin’, Marauder, Highway Song Live

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Il 6 agosto la piccola etichetta inglese Rock Candy ristamperà, rimasterizzati 24 Bit con librettino di 12 pagine, ma senza bonus, gli album dal n° 3 al n° 6 dei Blackfoot di Rickey Medlocke, quelli usciti in origine per la Atco tra il 1979 e il 1982, gli ultimi fuochi del miglior southern rock americano (quello delle “origini” per intenderci, buoni gruppi sudisti sono in circolazione ancora) per la band di colui che era stato uno dei membri fondatori dei Lynyrd Skynyrd (come batterista appare, insieme al bassista Greg T. Walker, nel disco Skynyrd’s First…and Last, pubblicato postumo dalla MCA nel 1978, ma registrato tra il 1971 e il 1972 e poi edito di nuovo nel 1998 come Skynyrd’s First The Complete Muscle Shoals con 17 brani e, stranamente tuttora in produzione). E, altrettanto stranamente, Medlocke è rientrato nella formazione degli Skynyrds di cui è, ancora oggi, una delle chitarre soliste con l’altro membro fondatore Gary Rossington.

Ma qui parliamo dei Blackfoot e in questi quattro dischi, insieme a Medlocke e Walker, appaiono il secondo chitarrista Charlie Hagrett e il batterista Jackson Spires. Come curiosità, nella formazione, tra il 1982 e il 1984 anche Ken Hensley, il vecchio organista degli Uriah Heep.

Ma torniamo ai quattro album, si tratta di:

Strikes 1979, con i seguenti brani Road Fever; I Got A Line On You; Left Turn On A Red Light; Pay My Dues; Baby Blue; Wishing Well; Run And Hide; Train, Train (Prelude); Train, Train; Highway Song

Tomcattin’ 1980 Warped; On The Run; Dream On; Street Fighter; Gimme, Gimme, Gimme; Every Man Should Know (Queenie); In The Night; Reckless Abandoner; Spendin Cabbage; Fox Chase

Marauder 1981 Good Morning; Payin For It; Diary Of A Working Man; Too Hard To Handle; Fly Away; Dry County; Fire Of The Dragon; Rattlesnake Rock n Roller; Searchin

Highway Song Live 1982 Gimme, Gimme, Gimme; Every Man Should Know (Queenie); Good Morning; Dry County; Rollin & Tumblin ; Fly Away; Road Fever; Trouble In Mind; Train Train; Highway Song; Howay The Lads

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Per essere onesti erano già usciti in CD, nell’era pre-remasterizzaione, tra gli anni ’80 e ’90 e il live nel 2002 per la Wounded Bird e, in tempi recenti, a febbraio, la Rhino UK ha pubblicato un Box da 5 CD nella loro Original Album Series, senza il live ma con Siogo e Vertical Smiles aggiunti, anche se le nuove versioni della Rock Candy dovrebbero essere le prime ad utilizzare una masterizzazione recente e “definitiva”, come si usa dire.

Per la legge del taglione c’è in giro una nuova versione dei Blackfoot, senza nessuno dei membri originali, ma scelti personalmente da Medlocke che li produce anche, mentre gli altri si esibiscono come Fired Guns. Strane cose!

Fate vobis, il sottoscritto vi informa poi sta a voi scegliere: se guardate anche il prezzo, i nuovi sono a prezzo pieno mentre il mini box set a prezzo speciale.

Bruno Conti

100 Anni + Uno! Woody Guthrie At 100! Live At The Kennedy Center

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Woody Guthrie At 100! Live At The Kennedy Center – CD+DVD – Sony Legacy

Lo scorso anno, il 14 luglio, si festeggiavano 100 anni dalla nascita di Woody Guthrie e il 14 ottobre al Kennedy Center di Washington, DC, si è tenuto un concerto per ricordare l’Anniversario. Hanno partecipato alcuni dei nomi più importanti della musica americana (ed uno scozzese in trasferta), folk, country, blues e bluegrass, di qualità in generale. Questo è il resoconto, track-by-track, del DVD che è stato ricavato dall’avvenimento, il CD dura 77 minuti, il DVD, una ventina di di più, ma visto che vengono venduti insieme, al prezzo di poco più di uno, vale lo sforzo dell’acquisto anche per coloro che sono contrari per principio all’acquisto dei DVD musicali, in fondo qui c’è anche il CD.

1. Howdi Do — Old Crow Medicine Show Vestiti come dei sopravvissuti al periodo della depressione i primi a presentarsi sul palco sono gli Old Crow Medicine Show di Ketch Secor, il sestetto procede a dimostrare perchè sono una delle migliori string bands in circolazione, in bilico tra country e bluegrass, come nella indiavolata 2. Union Maid — Old Crow Medicine Show

3. This Is Our Country Here — Jeff Daniels Il primo intermezzo parlato da parte di uno degli ospiti della serata viene seguito da quello che viene indicato come uno degli eredi migliori di Woody Guthrie (e di Bob Dylan), 4. Ramblin’ Reckless Hobo — Joel Rafael è un bellissimo bravo, reso in modo dylaniano come pochi altri sapranno fare nel corso della serata.

5. Hard Travelin’ – Jimmy LaFave Questo signore texano, in trio, con mandolino e fisarmonica si conferma uno dei migliori cantautori del panorama americana.

6. Riding In My Car — Donovan Visto che il bardo di Duluth non era disponibile per la serata la cosa più vicina era il menestrello scozzese, Donovan Leitch si conferma ancora una volta animale da palcoscenico facendo cantare il pubblico con la sua disincantata simpatia e una canzone presa dal repertorio di Woody per bambini, incisa per la prima volta nel 1965.

7. I Ain’t Got No Home — Rosanne Cash with John Leventhal In rappresentanza della famiglia Cash, Rosanne, accompagnata dal marito John Leventhal e dalla sua bellissima voce regala una dei momenti salienti della serata con una canzone che lei stessa definisce perfetta, e quella che segue 8. Pretty Boy Floyd — Rosanne Cash with John Leventhal non è da meno, uno dei capolavori assoluti di Guthrie, con un po’ del boom chicka boom di babbo John nella chitarra di Leventhal

9. I’ve Got To Know — Sweet Honey In The Rock In rappresentanza del gospel e della città di Washington, con i loro intrecci vocali ancora integri dopo una lunghissima carriera.

10. House Of Earth — Lucinda Williams Alle prese con un inedito consegnatole da Nora Guthrie pochi mesi prima e completato per l’occasione, il brano viene eseguito dal vivo per l’occasione e per la prima volta dalla Williams, bella versione, anche se molti non amano Lucinda!

11. Pastures Of Plenty — Judy Collins Un altro dei brani folk più celebri di Woody Guthrie eseguito da una delle leggende di questa musica e da una delle voci più incredibili mai espresse dal genere ancora stupenda dopo tutti questi anni, solo piano, chitarra acustica e voce, grande versione.

12. Ease My Revolutionary Mind — Tom Morello Ovviamente il chitarrista dei Rage Against The Machine, grande amico e collaboratore di Springsteen e cantante folk, non necessariamente nell’ordine, sceglie uno dei brani più politici e di “battaglia politica” del cantante di Okemah e si presenta sul palco con una band “springsteeniana” composta da molti dei protagonisti della serata, in particolare molti Old Crow Medicine Show e Jackson Browne che tornerà più tardi, un altro dei momenti migliori della serata. 

13. Deportee — Ani DiFranco with Ry Cooder and Dan Gellert Altro grandissimo chitarrista al servizio di una delle cantautrici più valide delle ultime generazioni alle prese con un’altra canzone bellissima (ma ce ne sono di brutte) e forse la preferita in assoluto di chi scrive del repertorio di Guthrie. Il violino di Gellert e la chitarra “discreata” di Cooder aggiungono magia ad una canzone che Ani DiFranco canta benissimo, con rispetto e partecipazione, come è giusto che sua.  

14. I Hate A Song (spoken word) — Jeff Daniels Secondo ed ultimo intervento parlato da parte del noto attore americano

15. You Know The Night — Jackson Browne Un altro degli highlights della serata, Jackson è già apparso in altri tributi alla musica di Woody Guthrie e anche in questa serata conferma la sua classe, un altro brano “inedito” completato da Browne, con il grande Rob Wasserman al contrabbasso, che per ragioni televisive non appare nella versione monstre da 20 minuti che era stata pubblicata su Note Of Hope, bellissima comunque!

16. So Long, It’s Been Good To Know Yuh — Del McCoury Band with Tim O’Brien Di nuovo country e bluegrass per una delle migliori formazione nel genere, aumentata per l’occasione da Tim O’Brien nel primo brano e da Tony Trischka per lo strumentale 17. Woody’s Rag.

18. Do Re Mi — John Mellencamp C’era già 25 anni in A Vision Shared e canta di nuovo lo stesso brano, ma è uno dei più celebri e coinvolgenti del repertorio di Guthrie, chi meglio dell’ex “Coguaro” Mellencamp per eseguirlo?

19. 1913 Massacre — Ramblin’ Jack Elliott Altro pezzo da 90 sul palco per un altro dei cavalli di battaglia del repertorio di entrambi, la cui melodia venne usata da Dylan per scrivere la prima canzone da lui incisa, Song For Woody. Ramblin’ Jack Elliott gli 80 li ha passati da un pezzo e non si direbbe (o forse sì?) ma rimane un grande e merita rispetto.

20. Nora Guthrie (spoken word) Un breve saluto dalla figlia e poi tutti insieme appassionatamente sul palco per il gran finale con i due brani più celebri, tra cui il secondo inno americano.

21. This Train Is Bound For Glory — All Performers

22. This Land Is Your Land — All Performers

Bella serata, da avere!

Bruno Conti