Un “Figliastro” Del Blues. Howard Glazer – Stepchild Of The Blues

howard glazer stepchild of the blues.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Howard Glazer – Stepchild Of the Blues – Lazy Brothers Records

Da Dearborn, Michigan torna il Detroit City Blues di Howard Glazer, il “figliastro” del Blues, come si definisce per questo disco. In effetti la sua versione del blues non è forse delle più canoniche, ma ci sta. Dopo Wired For Sound di cui vi avevo parlato un paio di anni fa  (detroit), Glazer, non più accompagnato dagli El 34S con cui aveva condiviso il precedente disco, ci (ri)propone il suo stile, sporcato dal rock e influenzato dalla musica della sua città di residenza. E quindi, in sequenza, ascoltiamo, il rock-blues ad alta densità di riff del brano di apertura Don’t Love You No More, il misto frutta di Shakin’ che frulla Bo Diddley e Johnny Otis (quello di Willie and The Hand Jive, con tanto di coretti femminili), con la solista di Howard che si fa largo con forza tra i disegni di quella ritmica, tipicamente sincopata.

Come nel precedente disco, il difetto (la voce di Glazer, diciamo non memorabile) rimane, ma il nostro amico cerca di rimediare con una notevole varietà di temi: ad esempio una Gas Pump Blues, solo acustica Resonator, voce e l’armonica dell’amico Harmonica Shah o il lentone Telephone Blues con la chitarra solista che vibra tra BB King e Winter, mentre l’organo di Larry Marek lavora di fino nei paraggi, quasi fosse un brano della Super Session di Bloomfield e Kooper. Honey And Spice potrebbe essere uno di quei R&B malandrini di Wilson Pickett, quando Duane Allman sedeva in session con il Wicked Pickett, purtroppo la voce non è proprio la stessa, ma la chitarra è sempre vivace e guizzante. Somewhere vorrebbe avere l’andatura di una ballata elettroacustica alla Dylan e almeno musicalmente ci prova, organo e chitarra elettrica, oltre ai cori delle due voci femminili, Maggie McCabe e Stephanie Johnson, sono in bella evidenza ma manca qualcosa (oltre alla classe sopraffina dell’autore citato) e rimpiangere la voce di Dylan vorrà pur dire qualcosa.

Cried All My Tears con il frenetico lavoro à la Winter della solista, ricorda il blues elettrico di Muddy Waters, ma senza la vigoria dei due W! Liquor Store Legend si rituffa in quel sound tra organo e chitarra, con coretti di supporto, che è tra i più proficui di questo album, ma, chi li ha, non si strapperà certo i capelli per l’entusiasmo. Hurtful Feeling, posta in conclusione, è forse la migliore del mazzo, un poderoso blues con slide, sulla falsariga di Elmore James, con Harmonica Shah che soffia con entusiasmo nel suo strumento. Il disco merita la sufficienza per l’impegno e passione del titolare, che firma tutti i 9 brani, un onesto lavoro intriso di Blues, indirizzato soprattutto a chi è in astinenza e fa ampio uso delle 12 battute, classiche e non, come in questo caso.

Bruno Conti   

Se Ne Può Fare Anche A Meno! Lissie – Back To Forever

lissie back to forever.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lissie – Back To Forever – Fat Possum Records/Sony

Volevo risparmiarvi la battuta “Torna a casa Lissie!”, ma ormai l’ho scritta, e quindi eccomi a parlarvi del secondo album di Elisabeth Maurus (ma in questi anni, prima e dopo l’album di debutto, Catching A Tiger, ha pubblicato anche quattro EP e un album dal vivo): e non ho neppure la scusante di potervi dire che il disco sia stato registrato negli stessi studi del primo, visto che era stato registrato in quel di Nashville, con la produzione di Jacquire King o che sia ritornata ad inciderlo nella sua città natale di Rock Island, nell’Illinois, proprio quella del famoso successo di Lonnie Donegan, in quanto il nuovo album è stato registrato a Los Angeles, con produttore Jacknife Lee.

Dai nomi citati si vede che la sua casa discografica (la multi nazionale Sony /BMG, anche se poi i CD escono con la “fascinosa” etichetta Fat Possum) non risparmia fondi nel fornirle alcuni dei nomi più à la page dell’attuale panorama rock. Peraltro il disco precedente è entrato nei Top 20 in Norvegia e nel Regno Unito ed ha avuto un buon successo in giro per l’Europa, meno negli States dove però ha avuto un buon ritorno di culto e molti suoi brani sono stati utilizzati anche in colonne sonore di film e serie televisive, oltre che per spot vari. La sua cover di Go Your Own Way dei Fleetwood Mac è stata uno spot di quelli a cui non potevi sfuggire anche in Italia, molto simile all’originale, per cui parecchi credevano fosse una nuova versione del gruppo di Stevie Nicks, mentre era sua. A diminuire la lista dei suoi meriti, almeno presso i nostri lettori, è stato un duetto con Robbie Williams Losers, apparso Take The Crown, l’ultimo disco del’ex Take That, ma si sa nessuno è perfetto.

Per il resto, sulla scia di Cuckoo, il singolo tratto dall’album, e di collaborazioni con gente come Ed Harcourt e Joshua Radin, più consone al nostro lessico, Lissie era stata chiamata allo show della televisione inglese The Great British Songbook, per eseguire una versione di Stairway To Heaven, che è stata definita “da perdere il fiato”, però a dirlo era il presentatore dello spettacolo. Comunque alla fine di tutto ciò, la “ragazza” , anche se va già per i 31 anni (lo so, non dovrei dire gli anni delle signore, ma mi scappa sempre), sarebbe pure bravina, ed il suo stile, che miscela, rock, pop (molto), folk (pochissimo, rispetto al passato) e canzone d’autore (visto che se le scrive) è solo gradevole, senza essere memorabile, anche se il sound molto europop anni ’80 o FM americana, sempre ispirato a quel periodo, che Jacknife Lee appioppa spesso e volentieri alla sua protetta, come diceva qualcuno, “fa accapponare i capelli”!.

Brani, come l’iniziale The Habit ricordano molto, anche vocalmente, il sound dei Fleetwood Mac di Tango In The Night, più che quelli di Rumours o Tusk, anche grazie alla voce somigliante in modo impressionante a quella di Stevie Nicks. In effetti Further Away (Romance Police) somiglia molto ai Quarterflash e indubbiamente ci sarà gente che li ama, ma non il sottoscritto. Quindi non fatevi ingannare dal marchio Fat Possum e andiamo a cercare i brani che sono sfuggiti agli inesorabili programming del produttore (ma ci sono?): la ballata Shameless è piacevole ma poi diventa “esagerata”, They All Want You è un discreto rockettino scritto insieme ad Angelo Petraglia, l’eminenza grigia dietro alle ultime mosse dei Kings Of Leon. Non male le atmosfere romantiche di Sleepwalking ma giusto per i primi 30 secondi, poi è davvero Lissie Torna A Casa e restaci. Forse bisognerebbe prendere i primi 30 secondi di ogni brano e fare un megamix, anche I Don’t Wanna Go To Work parte bene e resiste un po’ di più, prima di diventare bombastica. And so on and on and on, per dirla all’americana: in italiano, se ne può tranquillamente fare a meno!

Bruno Conti

P.S. Nella Deluxe Edition, che non manca neanche in questo caso, ci sono quattro brani aggiunti:un brano extra, What’s It Like e tre “stripped down” versions di brani compresi nel CD che, temo, sono più interessanti di quelle “full” apparse nel disco!

Manca Una Gamba, Ma Il “Cuore” C’è Sempre! Leslie West – Still Climbing

leslie west still climbing.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Leslie West – Still Climbing – Mascot/Provogue/Edel 29-10-2013

Come sosteneva il noto medico chirurgo e “canzonettista” milanese Enzo Jannacci –  La televisiun la g’ha na forsa de leun – anche se  poi, ironicamente, faceva rima con cuiun: anche la musica ha una forza da leone, e Leslie West, dopo l’amputazione sostenuta nel 2011, a seguito delle complicazioni di un diabete mal curato, torna, più forte che mai, con questo nuovo album, Still Climbing, il secondo del nuovo ciclo, dopo Unusual Suspects, e che cita, fin dal titolo, il primo album del gruppo che ha fatto la fortuna del newyorkese Leslie Weinstein, i Mountain. E il buon vecchio Leslie, 68 anni quest’anno, quella montagna non ha mai cessato di scalarla. La sua carriera era iniziata con il garage psichedelico dei Vagrants, celebrato anche da Lenny Kaye nel primo Nuggets, dove era contenuta una versione gagliarda di Respect del grande Otis.

I Mountain di West e del grande Felix Pappalardi  sono state una delle migliori band rock-blues, sin dal loro esordio a Woodstock nel 1969 e poi con una serie di album notevoli nella prima metà degli anni ’70, tuttora in attività sino ai giorni nostri, anche se Pappalardi non c’è più, ucciso a colpi di rivoltella, per gelosia, dalla moglie Gail. Sull’argomento, ricordando con affetto il vecchio pard, West ha detto scherzando, che, nel 2009, in occasione dei 40 anni da Woodstock, ha preferito sposare sul palco, quella era che la sua compagna, per evitare future sorprese. Tornando all’album, anche questo disco, come il precedente, si avvale della presenza di vari ospiti. In Unusual Suspects c’erano Billy Gibbons, Zakk Wylde, Slash, Steve Lukather e Joe Bonamassa, per questo Still Climbing il parterre è meno ricco ma qualche nome di prestigio c’è, li vediamo mano a mano.

Come nel precedente, molti dei testi dei brani sono firmati dalla moglie Jennifer, con l’aggiunta di una buona scelta di cover e riprese di vecchi classici: l’apertura, uno dei brani più duri della raccolta, è Dyin’ Since The Day I Was Born, che lo vede affiancato da Mark Tremonti, l’attuale chitarrista degli Alter Bridge e prima dei Creed, per una cavalcata tra hard e light metal, dove West sfoggia una voce che è di nuovo simile al ruggito (parlando di leoni) che aveva ai tempi d’oro, dopo che negli ultimi anni, per i noti problemi di salute, dovuti ad anni di bagordi, ha smesso di fumare. Il secondo brano è una delle piacevoli sorprese di questo CD, che non è sicuramente un capolavoro ma si lascia ascoltare piacevolmente senza inutili lungaggini ed eccessi chitarristici come ai tempi di Nantucket Sleighride, il brano si chiama Busted, Disgusted Or Dead, ed è una poderosa cavalcata nel blues, con un duello a colpi di slide con il vecchio compagno di avventura, Johnny Winter, poco più di 3 minuti, il minimo sindacale, ma che grinta, ragazzi. Fade Into You addirittura si apre su una serie di arpeggi di Leslie all’acustica, ma non temete è questioni di attimi, si riprende subito a picchiare a tempo di rock, in questa hard ballad dove anche le tastiere, oltre all’immancabile solista del titolare hanno il giusto spazio, insieme ad una vena melodica che è sempre stata presente nel DNA del musicista americana sin dai tempi della sublime Theme From An Imaginary Western, non siamo a quei livelli, e ci mancherebbe, ma ci si difende.

Not Over You At All è ancora classico Power trio rock, anche se bisognerebbe dire quartet, visto che c’è l’inconsueta presenza di un sax a duettare con la chitarra di West. Anche Tales Of Woe vede la presenza di una chitarra acustica che si riverbera sull’elettrica in questo brano dall’atmosfera più raccolta e ricercata, comunque nelle corde del gigante americano, mentre il rock ritorna cattivo in una cadenzata Feeling Good introdotta da piano e organo e che poi si trasforma in un duetto (non malvagio) con Dee Snider, il frontman dei Twisted Sister, che non sarebbe proprio una mia prima scelta, potendo, ma forse sono rapporti di buon vicinato tra vecchi newyorkesi. Hatfield & McCoy è un altro dei brani migliori del CD, un brano a guida slide che ricorda molto il classico southern anni ’70, un genere poco frequentato nel passato ma che in questo caso rende bene. Ancora più indietro risale la passionaccia per il classic soul, con una cover dell’immortale When A man Loves A Woman (Percy Sledge & Otis Redding), un bel duetto con un ruspante Johnny Lang, di nuovo in forma, dopo le titubanze dell’ultimo album. Anche meglio la ripresa di Long Red, un brano che si trovava nel primissimo Leslie West Mountain, e che se è stata ripresa anche da uno come Christy Moore, un fascino deve averlo avuto e risentita oggi, in un bell’arrangiamento che dà ampio spazio all’organo Hammond (come in molti brani del disco peraltro), conferma il valore del disco. Manca una gamba, ma non la classe.                     

Bruno Conti  

Dal Vermont Ad Austin, Passando Per Milano! Greg Izor & The Box Kickers – Close To Home

greg izor close to home.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Greg Izor & The Box Kickers – Close To Home – Tangle Eye Records

Spesso l’incipit, l’attacco, come diavolo volete chiamarlo, di un articolo, di una recensione, è importante, perché serve per attirare l’attenzione del potenziale lettore. E la copertina di questo Close To Home di Greg Izor me lo serve su un piatto d’argento, come si suole dire. Cosa ca…spiterina ci fa un nativo del Vermont, ma residente in quel di Austin, Texas, su un marciapiede di Via Torino a Milano, ritratto per la foto del suo secondo album, mentre, occhiale nero d’ordinanza per il musicista cool, controlla quello che ha tutto l’aria di un tablet? Ovviamente la risposta non la so (se mai mi capiterà di incontrare il buon Greg glielo chiederò!), ma il panorama sullo sfondo dell’immagine, per me che abito a Milano, pare sicuramente quello di una delle vie più famose del centro della città lombarda e non lo skyline della capitale del Texas, dove Izor abita.

E tutto questo dove ci porta? A niente, ma era un modo simpatico per introdurre questo nuovo personaggio della scena blues americana, un armonicista e cantante che secondo molti è destinato a riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa del grande Gary Primich, mentre per altri, lo stile di Izor, non solo legato al blues, lo avvicina al lavoro di un personaggio come James Harman, che non è solo strumentista e cantante, ma anche ottimo autore di canzoni, particolare che lo lega a questo signore, che ha firmato tutti i dodici brani di questo Close To Home, disco che abbraccia anche le influenze maturate nella sua lunga permanenza in quel di New Orleans, quando era nella band di Jumpin’ Johnny Sansone e poi il suo girovagare in giro per il mondo che lo ha portato anche ad esibirsi in Italia (da qui, penso la foto) accompagnato dal Max Prandi Vintage Trio, debitamente ringraziato nelle note del CD.

La musica che si ascolta in questo disco spazia dal classico shuffle di apertura, Get My Money, dove Izor soffia con vigore nella sua armonica ma svela anche le sue ottime capacità vocali, un cantato degno dei suoi illustri predecessori, ottimamente illustrato anche nella misteriosa Can’t Get Right, dove accanto alla sua armonica cromatica si apprezza anche il lavoro dei due ottimi chitarristi che lo accompagnano in questo album, Mike Keller (seconda chitarra dei Thunderbirds) e Willie Pipkin, spesso impiegati nella band di un altro grande armonicista texano, quel Kim Wilson, leader anche dei Fabulous Thunderbirds, a cui sembra ispirarsi il sound decisamente più rock di un brano come Straight Time che potrebbe però venire anche da un disco vintage dei Blasters. Coinvolgente e divertente pure il breve strumentale Three-Eyed Tiger che consente alla cromatica di Greg di lanciarsi anche verso temi musicali spagnoleggianti o messicani, inconsueti per un disco blues. What It’s Going To Take devia addirittura verso sonorità tra country e R&B e ci permette di gustare ancora l’ottima vocalità del “ragazzo” e l’immancabile armonica di cui è senza dubbio un virtuoso. The Rub torna al blues più classico, un lento di quelli torridi e “cattivi”, cadenzato ancora dalla fioriture improvvise della cromatica e dalla voce evocativa dell’ottimo Izor.

Call Me Lonesome, già dal titolo, profuma di Texas country, un valzerone strappalacrime in cui ci narra le sue disavventure amorose e anche l’armonica, per rispetto, si ingentilisce, per tornare vibrante nella lunga Broadway, forse il miglior esempio di blues urbano presente in questo Close To Home, caratterizzato anche da una decisa performance vocale. L’armonica è nuovamente protagonista in Hooper Street,un brano ispirato al sound di gente come Sonny Boy Williamson ed altri maestri del Blues, mentre in From Hello, una bella ballata influenzata dal suono della Crescent City, l’armonica riposa e ci si concentra sulle sue virtù di cantante, notevoli in questo brano e sulla chitarra di Keller (o è Pipkin? Francamente non lo so, ma il risultato è ottimo!). Anche in G.I. Blues niente armonica, ma come da titolo le 12 battute classiche non mancano, ancora dominate dal lavoro preciso dei due solisti e dal “bravo cantante” Izor. Che poi si scatena all’armonica nella conclusiva title-track, Close To Home, un notevole strumentale che chiude in gloria questo ottimo lavoro. Prendete nota del nome, please!

Bruno Conti    

“Clienti Abituali”, Rivalutati! Stoney Curtis Band – Halo Of Dark Matter

stoney curtis band halo.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Stoney Curtis Band – Halo Of Dark Matter – Blues Bureau/Shrapnel

Dopo la buona prova con il Live CD+DVD dello scorso anno ( un-chitarrista-esagerato-stoney-curtis-band-live.html, la Stoney Curtis Band torna con un nuovo album di studio, registrato con una formazione completamente rivoluzionata, ovviamente leader a parte, e con l’aggiunta di un tastierista, per riproporre la consueta miscela di blues, rock, psichedelia anni ’70, omaggi a Hendrix. Il materiale è firmato da Curtis Feliszak (ovvero il nostro amico) e Mike Varney, boss e factotum della Shrapnel, nonché produttore del disco, una dozzina di brani che permettono al musicista, californiano d’adozione, di tuffarsi ancora una volta nelle sue cavalcate chitarristiche.

I nomi di riferimento sono i soliti, vi andate a rileggere le vecchie recensioni e li trovate, comunque per i neofiti, a parte il vate Jimi Hendrix,  il Bonamassa più hard, Blindside Blues Band, Indigenous e Chris Duarte tra i contemporanei, Frank Marino, Ted Nugent, i Mountain tra i vecchi, senza tralasciare Grand Funk e Deep Purple, in questa versione con organo (ma potete aggiungere nomi a piacer vostro), Cream, Bad Company, Free, chi più ne ha più ne metta.

Dalle prime note dell’iniziale Pure Greed all’ultimo secondo di In The Shadows sappiamo cosa aspettarci, chitarre, chitarre e ancora chitarre, con qualche tocco di organo in questa nuova puntata. Il riff è hard, la batteria, tale Jeff Tortora, picchia duro, gli assolo sono all’ordine del giorno e con il classico sound del power rock trio, note lunghe e tirate e pedalare, ogni tanto un wah-wah per gradire, come in Grifter, tra Sabbath, Purple e l’Hendrix meno fine.

Quando i tempi si fanno meno frenetici e più dark, tipo in Life In Odd Times, si affacciano anche elementi psichedelici. Non manca il lungo hard slow blues, con i dieci minuti di Déjà Vu che permettono di apprezzare la buona tecnica chitarristica di Stoney Curtis o il funky-rock vagamente hendrixiano (di nuovo, sì) Drivin’ All Night. Mentre la title-track Halo Of Dark Matter inserisce anche elementi “misteriosi” che spingono verso un rock più progressivo e ricercato, per quanto sempre bello duro, da lì non si scappa. Un po’ di southern boogie à la ZZ Top in Ice Cold Beer con una slide ficcante ed insinuante, a conferma di un certo eclettismo del buon Stoney che poi torna al blues-rock classico della tirata Hard Livin’ o di I Can’t Live This Way, grana grossa ma buone esecuzioni per gli amanti del genere. Una viratina elettro-acustica con la più orecchiabile 7 Wonders Of My World e si conclude quietamente con una bella ballata come In The Shadows, un oasi di tranquillità e melodia, nei vorticosi ritmi ascoltati fin qui. In conclusione e tutto sommato, un buon album di hard rock classico con tutti i requisiti per piacere anche a chi non è un patito del genere.

Bruno Conti

Californiani Di Edimburgo! The Wynntown Marshals – The Long Haul

wynntown marshals the long haul.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

The Wynntown Marshals – The Long Haul – Blue Rose CD

Se fate ascoltare a qualcuno questo disco e poi gli dite che chi canta e suona non è americano, questo qualcuno penserà che lo stiate prendendo in giro.

I Wynntown Marshals sono infatti un quartetto proveniente dalla Scozia (da Edimburgo per la precisione), ma che suona americano al 100%, al punto che l’autorevole magazine No Depression aveva messo il loro album di esordio The Westerner tra i candidati al titolo di miglior debutto del 2010 nel genere Americana.

Il leader della band è Keith Benzie, voce solista e chitarra acustica, coadiuvato da Iain Sloan alla solista e steel, Murdoch MacLeod al basso e chitarra e Kenny McCabe alla batteria, con il supporto di pochi amici, tra cui spicca Andrew Taylor, che produce il disco e suona vari strumenti, tra cui organo, banjo e mandolino.

The Long Haul prosegue il discorso cominciato con The Westerner, migliorandolo ulteriormente: i Marshals sono bravi, e molto, sembrano come già detto americani purosangue, californiani per l’esattezza, e hanno nel loro dna influenze molto chiare, come Byrds, Neil Young e Tom Petty. Ma non sono per nulla derivativi, anche se alcune armonie vocali o stacchi chitarristici si ispirano chiaramente ai modelli citati poc’anzi: Benzie e soci sanno scrivere canzoni che stanno in piedi da sole, suonano con una fluidità invidiabile e ci consegnano un secondo album che si rivela come uno dei migliori dischi di Americana usciti ultimamente.

Ho iniziato l’ascolto di questo CD con curiosità ma senza aspettarmi più di tanto, ma al terzo brano mi avevano già catturato. Driveaway è un bell’inizio, un brano chitarristico pieno di stacchi e riff, con un organo insinuante ed un bell’assolo chitarristico, chiaramente younghiano. Canada è splendida, con il suo jingle-jangle byrdsiano e la melodia solare e distesa (qui mi ricordano anche i migliori Blue Rodeo); Low Country Comedown è una classica rock song, molto anni settanta, con una melodia profonda ed una spruzzatina di country.

A questo punto ditemi voi se sembrano scozzesi.

Whatever It Takes ha un mood più raccolto, ma i ragazzi dimostrano ancora una volta di saper scrivere brani classici senza risultare risaputi: molto bello il lavoro di Taylor all’organo e l’accompagnamento in punta di dita.

La fluida Tide è ancora influenzata dal Bisonte canadese, con un grande lavoro alla chitarra, decisamente evocativo: le due soliste di Sloan e MacLeod quasi duellano in un crescendo tutto da godere.

La spedita The Submariner ha un’atmosfera da country song malinconica (chi ha detto Gram Parsons?) ed un cantato molto alla McGuinn, mentre Crashing (Like The Reds) vede ancora la dodici corde di Sloan protagonista, un ritmo sostenuto ed un motivo molto immediato. Curtain Call è un toccante intermezzo acustico, con violino, cello e pianoforte a fornire la cornice all’esibizione di Benzie in perfetta solitudine; North Atlantic Soul è invece ancora un rock chitarristico in puro stile californiano, melodia liquida e belle armonie.

Chiude l’album la lenta Change Of Heart, dallo sviluppo emozionante e con la band che suona come al solito in maniera impeccabile.

Un dischetto delizioso, un gruppo da tenere assolutamente in considerazione per il futuro.

Marco Verdi

Italiani Per Caso. Da Genova, Paolo Bonfanti Exile On Backstreets – Non Solo Blues.

paolo bonfanti exile.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paolo Bonfanti – Exile On Backstreets – Club De Musique Records

E’ Rock, è blues, è musica di/da (canta)autore? Ardua questione, direi un po’ di tutto, ma soprattutto è un gran bel disco! Da solista dovrebbe essere l’11° disco di Paolo Bonfanti, ma se aggiungiamo Big Fat Mama (chi se li ricorda?) e collaborazioni varie, si superano abbondantemente le quindici uscite. Non male per un cinquantenne genovese che ha studiato alla Berklee School of Music e si è laureato al D.A.M.S. di Bologna con una tesi sul Blues, poi ci ha costruito una vita di musica intorno. Non sarà un disco di “vero” blues, perché sapete che c’è quella famosa teoria (smentita da decenni) che i bianchi, specie se europei (inglesi inclusi), non possono suonare la musica del diavolo, se poi sono italiani, mandolini e O’ Sole Mio, al massimo “Volare! Per fortuna, da un po’ di anni a questa parte, molti solisti e gruppi del Bel Paese se ne sbattono le balle di questo teorema e ci regalano fior di dischi, che, spesso e volentieri, sono meglio di quelli delle loro controparti americane, bianche o nere che siano.

E pensate che in America, ai Grammy, la categoria Blues è stata eliminata, conglobata nel settore “Americana” e Bonfanti, che se non lo sapeva forse se lo “sentiva, ha fatto un disco che rientra in questa fattispecie. Father’s Things, il brano che apre l’album, potrebbe essere una canzone di quando Springsteen usava la sezione fiati degli Asbury Jukes per unire il calore del soul al furore dei suoi pezzi rock (e dal vivo lo fa anche oggi, ogni tanto anche nei dischi), ma la slide che taglia in due il brano è tipicamente di Bonfanti e quindi blues. Break’em Chains sempre con una slide minacciosa e liquida, un tempo nereggiante e sincopato, ricorda molto il Cooder più rock-blues, quello di Bop Til You Drop, Borderline e Slide Area, miracolosamente tornato con l’ultimo Live In San Francisco. E non sono complimenti che faccio a casaccio. My baby can con il pianino saltellante di Henry Carpaneto e la chitarra “flat” ma sempre indaffaratissima di Bonfanti, è un blues più tradizionale con qualche reminiscenza del british blues frequentato anni fa.

Mentre Cards è un blues canonico, direi “ufficiale”, anche per la presenza di Fabio Treves all’armonica e di Marco Fecchio alla slide elettrica. Se chiudete gli occhi non vi trovate più nel New Mill Old Studio, che nonostante il nome è nei pressi di Genova o alla Libreria Labirinto di Casale Monferrato, dove è stato registrato il disco, ma in qualche fumoso locale di Chicago o Memphis. Black Glove è una sorta di political funky-rap-blues, con un florilegio di chitarre che spezzano la negritudine del brano e gli conferiscono un’aura più rock e leggermente sperimentale (e industriale)! Oh perbacco, cosa leggo, che sia per questo che me lo hanno dato da recensire, e che sarà mai questo Slow Blues For Bruno? Elementare Watson, un lungo strumentale dove la chitarra si divide la scena con uno strumento che non appare spesso in questo tipo di brani, la fisarmonica di Roberto Bongianino, bella idea ed ottima esecuzione di entrambi, a noi ci piace “O’ Blues”. Up To My Neck In You, dalle firme degli autori, A.Young, M.Young e B.Scott, non sembrerebbe un brano blues, sarà mica proprio quella? Ma sì che sono loro, gli AC/DC di Powerage, e quel B. sta per Bon (Scott), Bon(fanti) e soci, con “Rigo” Righetti che pompa il suo basso, lo trasformano in bel rock-blues duro e puro.

I’ll Never Get Out Of This World Alive profuma di  country, per via della pedal steel di John Egenes, ma anche perché l’ha scritta Hank Williams, però ci sono elementi cajun per via della fisarmonica e se devo dirla tutta mi ricorda anche il country’n’roll del vecchio Commander Cody. A questo punto un bel brano Claptoniano, di quelli vintage di Manolenta, ci sta proprio bene, l’occasione per affilare di nuovo la chitarra in una sapida Take Me Out che rispolvera anche un bel trio di voci femminili di supporto, come nei dischi belli degli anni ’70 del vecchio Enrico. E per la bellissima rock ballad che dà il titolo alla raccolta, tutti insieme appassionatamente, fiati, voci femminili, un bell’organo d’ordinanza, un sax à la Clarence e una voce più Bruce di Bruce, d’altronde se il brano si intitola Exile On Backstreets ci sarà un motivo, o no? Bello anche il testo della canzone. Poi, già che si è incazzato di gusto, per concludere il tutto, una I Hate The Capitalist System, un brano che viene dalla “Depressione”, anni ’30, una folk tune di quelle che si definiscono politiche, acustica nell’esecuzione, chitarra e fisa, ma durissima nei contenuti, forse in memoria delle lezioni ricevute una trentina di anni fa da Beppe Gambetta. Come già detto in apertura, semplicemente un bel disco, come si usa dire, caldamente consigliato!

Bruno Conti  

P.s E poi chi suona Little Wing avrà sempre il mio imperituro sostegno!

Mi Manda Eric Clapton! Tom Principato – Robert Johnson Told Me So

Tom Principato Robert Johnson Told me So.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tom Principato – Robert Johnson Told Me So – Dixiefrog/Powerhouse/Ird

Don’t worry, non vi preoccupate, non è il miliardesimo disco tributo alla musica di Robert Johnson, è semplicemente un modo di dire dei musicisti americani che fanno blues e dintorni, Robert Johnson Told Me So, e io lo faccio, direbbe Tom Principato, al suo secondo disco di materiale originale, dopo la buona prova di A Part Of Me.

Per dirla in due parole, così se volete non vi leggete il resto della recensione, è un “disco Claptoniano”, inteso nel miglior senso della terminologia: blues, rock, ballate mid-tempo, accenni di reggae, come i dischi anni ’70 di Manolenta, ma anche l’ultimo Old Sock, un cantato quello di Principato che ricorda molto l’Eric appena citato, dopo svariati anni on the road anche Tom ha sviluppato una buona voce, calda, partecipe, non sarà mai un grande cantante, quello è un dono di natura, ma come chitarrista compensa abbondantemente con uno stile, fluido, diversificato, ad alta componente tecnica ma ricco di feeling, in grado di spaziare dai virtuosismi estremi di un Roy Buchanan o di un Danny Gatton (con cui ha registrato un disco in coppia, Blazing Telecasters pubblicato nel lontano 1984, e il suo seguito, Oh no, More Blazing Telecasters e dopo tanti anni le chitarre ancora “fumano”, i suo migliori, insieme all’ottimo Smokin’ e a qualche live, qui e la durante la sua carriera) al suono caldo e corposo appunto alla Clapton, e in questo disco ci sono entrambe le facce di Principato.

Poco più di 37 minuti di musica dove il nostro amico, ben sostenuto dal proprio gruppo e con l’aiuto di un Chuck Leavell molto ispirato a organo (in alternanza a Tommy Lepson) e piano e di Willie Weeks (a conferma del parallelo con i dischi di Slowhand), al basso in alcuni brani. Il disco è blues, ma anche rock, godibilissimo, non un capolavoro, ma scorre assai piacevole, si fa apprezzare, dal classico blues-rock dell’iniziale title-track, dove Tom si cimenta alla slide, con la presenza dell’armonica di Josh Howell, nel resto del disco impiegato alle percussioni, ad aumentare il quoziente blues del disco, ma senza essere troppo scolastico, didattico o noioso, che è il difetto di molti album che vogliono essere troppo filologici, si passa poi a Knockin’ On The Door dove il cantato di Principato ricorda in modo impressionante quello di Clapton, mentre una sezione di fiati, percussioni aggiunte e l’organo virano anche verso sonorità latineggianti, la chitarra poi scivola che è un piacere. It Ain’t Over (‘til It’s Over) è un brano rock di quelli classici, molto anni ’70, ma ha quella freschezza, quel groove senza tempo che è prerogativa della buona musica e tanta bella chitarra, che non manca mai in questo CD, musica che ti sembra di avere sentito da sempre, che si respira nell’aria o esce dai solchi dei vostri vecchi vinili, lì a prendere polvere sugli scaffali. What Goes Around (Comes Back Around) è un reggae-rock bianco, con armonie vocali di un manipolo di voci femminili, un sound caraibico che anche un non amante del genere come me riesce ad apprezzare, e poi c’è un assolo di sintetizzatore old school che non sentivo da una vita.

The Rain Came Pouring Down è il classico blues lento (con fiati) che non può mancare in un disco di Principato, ma non è nella categoria di quelli lancinanti e tiratissimi, più rilassato, melodico, quasi jazzato, cresce lentamente fino all’inevitabile assolo che conferma le grandi virtù tecniche di questo maestro della Telecaster, uno che può stare alla pari con i succitati Buchanan e Gatton. Falls Church, Virginia 22042, che è l’indirizzo della sua etichetta americana la Powerhouse Records  (era anche il nome del suo primissimo gruppo negli anni ‘70) è uno strumentale latineggiante, quasi alla Santana, e ci permette di apprezzare nuovamente il suo virtuosismo, che ha fatto dire a Pat Metheny, un suo ammiratore, “ha un enorme talento nel raccontare storie con i suoi assolo, non suona serie di note standard!”. La melodica, vagamente soul mid-tempo, Run Out Of Time ha quel suono laid-back, pigro, delle serate autunnali che si avvicinano a grandi passi, ma vengono riscaldate dal calore di questa musica dolce ed avvolgente. Si conclude con la ripresa di It Ain’t Over che evidentemente oltre che al vostro recensore è piaciuta pure a Principato, tanto che ci regala una seconda parte del brano, e noi ce la gustiamo ancora, come peraltro tutto l’album. Al cinema si cataloga film per tutti, disco per tutti in questo caso, ma solo se vi piace la buona musica e non molte delle schifezze che circolano al momento!

Bruno Conti   

Il “Difficile” Secondo Disco! Anna Calvi – One Breath

anna calvi one breath.jpg

 

 

 

 

Anna Calvi – One Breath – Domino Records/Self 2013

Era tanta l’attesa per il secondo album di Anna Calvi (la talentuosa autrice britannica di origine italiane), dopo il sorprendente debutto omonimo di due anni fa (segnalato prontamente su queste pagine virtuali, dal titolare del blog), che si può certo affermare che poteva essere il momento della classica “prova del nove” del secondo disco, test che spesso si è rivelato fatale per molti artisti. Per fortuna della Calvi non è il caso di questo One Breath ( per chi scrive, album abbastanza diverso dal precedente), prodotto da John Congleton (Bill Callahan, Antony & The Johnsons e la bravissima Joanna Newsom) ,concepito nel corso di un anno tra la Francia e Dallas, avvalendosi di musicisti dello spessore di John Baggott già collaboratore dei Portishead alle tastiere, e i suoi compagni abituali Daniel Maiden-Wood alla batteria, Mally Harpaz all’harmonium, percussioni e vibrafono e Fiona Brice agli archi, il tutto registrato presso i Black Box Studios,nell’incantevole Valle della Loira in Francia.

 

One Breath si apre con la fragorosa Suddenly (un brano che sembra una coda del disco precedente) e prosegue con la cavalcata rock di Eliza, la sincopata Piece By Piece, la scheggia impazzita di Cry, la ballata sinfonica Sing To Me (dedicata ad un suo idolo, la grande Maria Callas), la maestosa Tristan, la poetica title track One Breath, la interessante e psichedelica Love Of My Life (sembra uscita dai solchi di PJ Harvey), l’orchestrale Carry Me Over, la solenne e avvolgente Bleed Into Me e a chiudere, i cori della magnifica e delicata The Bridge.

 

Come detto, il suo fulminante omonimo debutto aveva incantato vincendo i British Music Awards del 2012 (non penso che accadrà quest’anno, ma mai dire mai), comunque bisogna riconoscere che prima di decantare le doti vocali, il talento compositivo e la maestria interpretativa, il punto di forza di Anna Calvi è indubbio che sia l’originalità e il temperamento, certificato da queste undici canzoni di One Breath, un lavoro che non delude e merita la giusta attenzione, e per quanto mi riguarda, pescando tra i giovani artisti capaci di inventarsi uno stile, il mio giudizio non può essere che lusinghiero. Alla prossima Annina.

Tino Montanari

Signore E Signori: La Storia Della Musica! Bob Dylan – The Complete Album Collection Vol. One – Terza Ed Ultima Puntata

bob dylan complete box.jpgbob dylan complete box open.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Puntata finale dell’anticipazione sul nuovo cofanetto di Bob Dylan The Complete Album Collection da 47 CD, in uscita il prossimo 5 novembre, i due Post precedenti li trovate domenica 6 ottobre e domenica 29 settembre, la parola a Marco Verdi, buona lettura!

220px-Bob_Dylan_-_Oh_Mercy.jpgBob_Dylan_-_Under_the_Red_Sky.jpg220px-Bob_Dylan_-_Good_as_I_Been_to_You.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Oh, Mercy (1989): e Dylan risorge. Chiama Daniel Lanois a produrre, va a New Orleans ed incide il suo miglior disco da Blood On The Tracks. Un album quasi perfetto, con Bob tirato a lucido e brani imperdibili come Where Teardrops Fall, Ring Them Bells, Shooting Star, Most Of The Time e Man In The Long Black Coat. E lascia fuori cose come Series Of Dreams e Dignity. Un pazzo.

 

Under The Red Sky (1990): un disco pieno di superospiti (George Harrison, Elton John, Steve Ray Vaughan ed il fratello Jimmy, Slash, David Crosby, Bruce Hornsby) ed un produttore di gran moda (Don Was), ma il risultato finale è tutto sommato deludente. L’album è pieno di testi di una banalità sconcertante (sembrano filastrocche per bambini, ed infatti Bob dedica il disco a sua figlia Desirée, nata da poco), mentre musicalmente si salva la splendida Born In Time (che infatti risale all’anno prima, periodo Oh, Mercy) e le discrete 2×2 e Handy Dandy, nella quale Al Kooper cerca di rievocare le atmosfere di Like A Rolling Stone. Tra l’altro questo sarà per ben sette anni l’ultimo disco di brani originali per Dylan, anche se al momento nessuno può immaginarlo.

 

Good As I Been To You (1992): nell’anno delle celebrazioni del trentennale della carriera, Dylan torna all’antico e pubblica un disco acustico di brani tradizionali folk. Il risultato è eccellente, con punte quali Jim Jones (sentite come canta, da brividi), Hard Times, Tomorow Night e Blackjack Davey.

220px-Bob_Dylan_-_World_Gone_Wrong.jpg220px-Bob_Dylan_-_MTV_Unplugged.jpgBob_Dylan_-_Time_Out_of_Mind.jpg

 

 

 

 

 



World Gone Wrong (1993): ancora acustico, è il seguito del disco precedente, anche se i traditionals qui sono meno folk e più blues: meritano una menzione la title track, Delia, Two Soldiers e, soprattutto, una Jack-A-Roe da applausi.

 

MTV Unplugged (1995): a parte i Bootleg Series, questo è ad oggi l’ultimo album live di Bob, registrato per l’omonima trasmissione televisiva. Dylan è in gran forma, con una delle migliori band del suo Neverending Tour, e ci offre splendide versioni di Tombstome Blues, Shooting Star, Desolation Row, John Brown, The Times They Are A-Changin’ ed una emozionante With God On Our Side come finale.

 

Time Out Of Mind (1997): il gran ritorno di Dylan vede ancora Daniel Lanois in cabina di regia, e Time Out Of Mind è l’ennesimo capolavoro. Love Sick, Standing In The Doorway, Tryin’ To Get To Heaven, Not Dark Yet (con un grande testo sulla vecchiaia e sulla morte che si avvicina), Make You Feel My Love e l’interminabile Highlands sono brani che ci fanno ritrovare il Dylan degli anni sessanta. La mancata rimasterizzazione per questo box ha creato qualche malumore, ma pare che sia stato Lanois stesso a non dare l’ok.

Bob_Dylan_-_Love_and_Theft.jpgBob_Dylan_-_Modern_Times.jpg220px-Bob_Dylan_-_Together_Through_Life.jpg

 

 

 

 

 

 


Love And Theft (2001): il disco più roots di Dylan, un’altra prova convincente. Autoprodotto (come anche i seguenti) contiene un capolavoro come Mississippi (scartato da Time Out Of Mind), una Honest With Me che sembra provenire dalle sessions di Highway 61, e le ottime Moonlight, High Water e Sugar Baby. Ma anche purtroppo due rockettini qualunque come Tweedle Dee And Tweedle Dum e Summer Days.

 

Modern Times (2006): un disco di grande successo (al primo posto di Billboard dopo trent’anni esatti), anche se Bob non cambia una virgola nel suono. Meno brillante del precedente (e dei successivi), a causa della produzione un po’ piatta, di qualche brano troppo lungo e di un paio di riempitivi che abbassano il giudizio finale. Comunque contiene tre grandi canzoni (When The Deal Goes Down, Workingman’s Blues # 2 e Nettie Moore) e l’ottimo rock’n’roll di apertura Thunder On The Mountain.

 

Together Through Life (2008): un album migliore del precedente (ed a mio parere anche di Love And Theft), con David Hidalgo e Mike Campbell in session a dare più spessore al suono. Tranne forse Life Is Hard, tutti i brani tendono dal buono all’ottimo, specialmente Beyond Here Lies Nothing, If You Ever Go To Houston, la mexican-flavoured This Dream Of You e l’errebi I Feel A Change Comin’ On. Il nostro è tornato a non sbagliare un colpo.

220px-Bob_Dylan_-_Christmas_in_the_Heart.jpg

Bob_Dylan_-_Tempest.jpg





 



Christmas In The Heart (2008): personalmente trovo questo disco godibilissimo: già pensare ad un Dylan alle prese con traditionals natalizi fa abbastanza sensazione, ma poi ascoltarlo divertirsi come un matto in brani come Here Comes Santa Claus, Must Be Santa o Christmas Island, cantare in latino in O Come All Ye Faithful o ancora interpretare con grande rigore classici come Winter Wonderland o Little Drummer Boy è un’esperienza unica.

 

Tempest (2012): l’ultimo album di Dylan è un altro capolavoro assoluto, di sicuro nella Top Ten dei suoi lavori più riusciti. Non c’è un solo minuto sottotono, con momenti sublimi come l’iniziale Duquesne Whistle, lo slow anni sessanta Soon After Midnight, la roccata Pay In Blood ed il toccante tributo a Lennon Roll On, John. Per arrivare all’epica title track, nella quale Dylan, nel corso di ben diciassette minuti e con uno splendido arrangiamento da folk ballad irlandese, narra a modo suo la vicenda del Titanic. Se, come ha ipotizzato qualcuno, questo sarà il suo ultimo disco (ma io spero di no), Dylan si congeda davvero alla grande.

 

Side Tracks: una delusione. Il tanto atteso doppio CD di rarità, esclusivo per questo box, si riduce ad una raccolta degli inediti pubblicati a suo tempo sul box Biograph (rendendolo praticamente inutile) più quelli tratti dai tre Greatest Hits e dai vari Essentials (da Positively 4th Street a Things Have Changed, passando per Watching The River Flow e Series Of Dreams, tanto per citarne alcune), inserendo come unica vera chicca la versione acustica del singolo del 1971 George Jackson.

E che fine hanno fatto gli altri singoli mai apparsi su album (George Jackson full band, If You Gotta Go, Go Now, Rita May, Band Of The Hand, Most Of The Time rifatta nel 1990), tutti i lati B inediti, i brani tratti da colonne sonore e tribute albums?

Un’occasione sprecata: a mio parere se fosse stata compilata meglio, questa collezione avrebbe fatto crescere sensibilmente gli acquirenti del box (dato che non è previsto che venga pubblicata a parte), mentre così com’è ne scoraggerà più di qualcuno. E poi la mancata rimasterizzazione di Shot Of Love non mi è andata giù.

*NDB Questa è la tracklist completa. Non è ancora certo al 100%, ma pare che uscirà separatamente come triplo vinile per il “Black Friday”, il Record Store Day del 29 novembre:

  • Baby, I’m in the Mood for You *
  • Mixed-Up Confusion (45) *
  • Tomorrow Is a Long Time (live) **
  • Lay Down Your Weary Tune *
  • Percy’s Song *
  • I’ll Keep It With Mine *
  • Can You Please Crawl Out Your Window? (45) *
  • Positively 4th Street (45) *
  • Jet Pilot *
  • I Wanna Be Your Lover *
  • I Don’t Believe You (She Acts Like We Never Have Met) (live) *
  • Visions of Johanna (live) *
  • Quinn the Eskimo (1967) *
  • Watching the River Flow (45) **
  • When I Paint My Masterpiece **
  • CD 2
  • Down in the Flood (1971) **
  • I Shall Be Released (1971) **
  • You Ain’t Goin’ Nowhere (1971) **
  • George Jackson (45 acoustic version)
  • Forever Young (demo) *
  • You’re a Big Girl Now (alternate)*
  • Up to Me *
  • Abandoned Love *
  • Isis (live) *
  • Romance in Durango (live) *
  • Caribbean Wind *
  • Heart of Mine (live) *
  • Series of Dreams
  • Dignity
  • Things Have Changed

* From “Biograph.” ** From “Greatest Hits, Volume II.”

Concludo (siete ancora con me?) con un riferimento a quel minaccioso Vol. 1 scritto nel titolo, che ha già gettato nel panico più di un fans: pare, ma non è confermato, che il secondo volume, in uscita fra un anno, includerà tutti i Bootleg Series pubblicati finora (altra scelta quantomeno strana, dato che è una serie in pieno sviluppo), più altri live d’archivio come il Gaslight Café o il Brandeis University.

E spero vivamente anche un secondo Side Tracks con roba più interessante.

Marco Verdi

Fine, anzi…

P.S. del Bruno Blogger, sempre il 5 novembre usciranno anche questi due titoli:

“The Very Best Of Bob Dylan” (1-CD)

 

1. Like a Rolling Stone 

2. Blowin’ In The Wind 

3. Subterranean Homesick Blues 

4. Lay, Lady, Lay

5. Knockin’ On Heaven’s Door 

6. I Want You 

7. All Along The Watchtower 

8. Tangled Up In Blue 

9. Don’t Think Twice, It’s All Right 

10. Hurricane 

11. Just Like a Woman 

12. Mr. Tambourine Man 

13. It Ain’t Me Babe 

14. The Times They Are A-Changin’ 

15. Duquesne Whistle 

16. Baby, Stop Crying 

17. Make You Feel My Love 

18. Thunder on the Mountain 

 

“The Very Best Of Bob Dylan” (2-CD Deluxe 35 Classic Tracks)

 

 

Disc one in this collection is the same as the above single CD release. Disc two consists of:

 

1. Maggie’s Farm 

2. Rainy Day Women 

3. Girl From The North Country 

4. Positively 4th Street 

5. A Hard Rain’s A-Gonna Fall 

6. Shelter From The Storm 

7. Mississippi 

8. (Quinn The Eskimo) The Mighty Quinn 

9. I Shall Be Released 

10. It’s All Over Now, Baby Blue 

11. Forever Young 

12. Gotta Serve Somebody 

13. Things Have Changed 

14. Jokerman 

15. Not Dark Yet 

16. Ring Them Bells 

17. Beyond Here Lies Nothin’