Charles Burton Blues Band – Sweet Potato Pie – Charles Burton.com
Il mondo è bello perché e vario, ma anche no. Prendete la musica, il blues in particolare e ancora più nello specifico i chitarristi Blues. Ogni stato e città degli USA ha un suo “eroe locale”, un virtuoso dello strumento che dai piccoli e fumosi locali dove si aggira dispensa la sua arte, piccola o grande che sia. Non so dirvi se sempre sia vera gloria, perché nel caso dovremmo avere decine, centinaia, per non dire migliaia di musicisti di cui è indispensabile avere, se non l’opera omnia, almeno una testimonianza del loro lavoro. Forse non tutti sono dei fenomeni come vengono dipinti dalla stampa specializzata e di settore, ma sicuramente sono degli onesti e valorosi lavoratori delle sette note. Prendiamo questo Charles Burton, il “miglior chitarrista” della scena blues di San Diego, come testimoniano molti premi colà ricevuti nel corso degli anni, con cinque album già alle spalle, tutti rigorosamente autogestiti, ma la cui fama difficilmente può raggiungere tutti gli angoli del mondo.
Indubbiamente bravo ma, come dicevo prima, non più di tanti altri, per intenderci forse non ha quel quid, quella scintilla che lo eleva nettamente sopra la media della produzione in circolazione. Ma gli appassionati del blues elettrico e della chitarra in particolare, si possono rivolgere ai suoi prodotti con la certezza di avere tra le mani un prodotto solido e consono alle loro aspettative. Prendiamo questo Sweet Potato Pie, l’iniziale Shake It! con il suo abbrivio quasi R&R alla Thorogood o alla Little Charlie (al leader dei quali; Charlie Baty, Burton viene spesso accostato) poi si trasforma in un vigoroso blues(Rock) che tanto mi ha ricordato i migliori Ten Years After di Alvin Lee, con la chitarra di Charles Burton (non parente dell’altro Burton, quel James che giustamente rientra tra i grandissimi della chitarra) che corre velocissima sul solido groove creato dalla sua band e l’ospite Karl Cabbage che fornisce il suo contributo all’armonica. Anche Double Up ha la giusta grinta, ritmo da vendere, una solista molto presente e ricca di inventiva. Qualità che si confermano in Drivin’ Home un altro blues elettrico di quelli tosti con Burton che duetta con tale Chill Boy, mai sentito, probabilmente una leggenda locale, ma che bisogno c’era di prendere uno senza voce, già il buon Charles non è un fulmine di guerra a livello vocale (un po’ alla Robillard), quando in giro ci sono miliardi di ottimi cantanti? La parte strumentale ottima però. In comune con Robillard Burton ha una passione per il jazz classico che si estrinseca in una New York Jump che spezza un poco la tensione sonora decisamente bluesata del resto dell’album.
Goin’ To Memphis aggiunge un sapore di spezie sudiste al sound dell’album, mentre lo strumentale Crackdown dimostra che la Charles Burton Band è in grado, quando vuole, anche di dare del filo da torcere ai vecchi Double Trouble di SRV. Livin’ Without You (Blues For Simon) è un brano che nasce da una promessa fatta in uno dei viaggi nel Nord Europa (dai nomi i componenti del gruppo mi sembrano svedesi o norvegesi) ed è la classica ballata blues. La title-track è un divertente rockin’ blues dai ritmi spezzati, mentre New Boogie è un brano, fin dal titolo, che non sfigurerebbe tra i migliori del repertorio degli ZZ Top, uno strumentale che consente a tutta la band di mettersi in luce e non permette al vostro piede di rimanere fermo. Torna l’armonica di Cabbage per Used To Love That Woman e Your Number, due onesti esemplari di blues classico, senza infamia e senza lode, inframmezzati dalla tirata Brown Paper Bag dove Burton ha occasione di mettere in mostra ancora il suo stile chitarristico che mi ricorda, per certi versi, il classico British Blues dei tempi che furono, ancora TYA ma anche Chicken Shack o i Bluesbreakers di Mayall. Si torna in territori jazzati per la conclusiva Drop A Dime, un po’ fine a stessa, come altri brani di questo Sweet Potato Pie che alterna punte di eccellenza a momenti decisamente soporiferi, non indispensabile, ma assai piacevole.
Bruno Conti