Attrici Che Cantano, Uhm…E Invece E’ Brava! Katey Sagal – Covered

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 Katey Sagal – Covered – Entertainment One

Un bel giorno, tra il lusco e il brusco, mi trovo tra le mani questo CD, Covered, molto bello, ma il nome della cantante, Katey Sagal, mi dice poco o nulla, anche se, come avrebbe detto Totò, quella faccia non mi è nuova (solo la faccia, nella battuta di Totò si alludeva ad altro)! Ai nostri tempi è diventato facile, digiti il nome su Google (o Yahoo o quello che preferite) e ti si apre un mondo: alla faccia si affianca una persona. Attrice, doppiatrice cantante, aveva fatto già due dischi, Well nel 1994 e Room nel 2004, quindi secondo la regola, più o meno, dei dieci anni, era tempo di farne uno nuovo. Ma torniamo, per un attimo, all’attrice: soprattutto serie televisive, una decina di stagioni di Sposata…con figli, anche di più, dal 1999, come una delle voci originali della serie a cartoni animati Futurama,e poi 8 Semplici Regole, The Shield, Lost, Boston Legal, dal 2008 Sons Of Anarchy, oltre a molte partecipazioni a film e telefilm.

Negli anni ’70 e ‘80, e questo ci interessa di più, ha fatto la corista, tra gli altri, per Bob Dylan e Bette Midler e di conseguenza deve avere stretto dei rapporti con il mondo della musica americana che si rivelano fondamentali per questo album. Intanto liberiamoci dai pregiudizi sugli attori che non sanno cantare, ce ne sono molti bravi, l’ultima che mi viene in mente è Minnie Driver, andando a ritroso, Billy Bob Thornton, Bruce Willis, eccetera, eccetera. Ma Katey Segal canta veramente bene, un bel contralto, una voce calda ed espressiva, per certi versi, appena un filo inferiore, mi ha ricordato la giovane Rumer, che tanto mi aveva impressionato negli ultimi anni, anche con il disco delle cover, Boys Don’t Cry, dello scorso anno. Come dice il titolo di questo album, Covered, siamo su quei territori, 9 canzoni, note, anzi notissime e un originale firmato da Bob Thiele Jr, che è anche produttore del disco e polistrumentista, e da Tonio K, vedo delle manine che si alzano, bravi, ricordate? Ma a differenza di altri casi, dove per perversi motivi, vengono scelte canzoni perlopiù oscure dai repertori degli artisti da interpretare, questa volta la Siegal, ha scelto tra il meglio che c’era in circolazione.

Free Fallin, di Thomas Earl Petty e Jeff Lynne (anche questo vezzo di scrivere i nomi completi degli autori è segno di rispetto), For A Dancer di Jackson Browne, Follow The Driver è l’unico brano originale, Goodbye di Stephen F. Earle, I Love You But I Don’t Know What To Say di Ryan Adams, Gonna Take A Miracle di Randazzo,Weinstock, Stallman, ma resa immortale da Laura Nyro, Orphan Girl di Gillian Welch, For Free di Joni Mitchell, Secret Heart di Ron Sexsmith, Roses And Cigarettes di Ray LaMontagne! Ma neanche nelle mix tapes dei vostri sogni c’è un repertorio così. E le fa un gran bene: con l’aiuto di gente come Matt Chamberlain alla batteria, Greg Leisz alle chitarre, Davey Faragher al basso, Freddy Koella al violino, Bobby Mintzer al clarinetto, Lyle Workman alla chitarra, tanto per citare alcuni dei musicisti impiegati nell’album. Ah, un certo Jackson Browne, come seconda voce, in una sontuosa versione di Goodbye di Steve Earle, con un’aria tipicamente messicana provvista dal laud e dalla banduria di Javier Mas e dal violino di Alkexandru Bublitchi (ha un qualcosa di Romance in Durango di Dylan).

Ma lei canta con voce vellutata tutti i brani, forse quello leggermente meno riuscito è l’iniziale Free Fallin’ troppo legato allo stile inconfondibile di Tom Petty, ma non è comunque una brutta versione. Bellissima Gonna Take A Miracle, soul raffinatissimo, soffusa For A Dancer, solo chitarra, pedal steel e organo, deliziosa la versione di Secret Heart di Ron Sexsmith, che ricordo in una interpretazione fantastica dell’autore in una puntata della trasmissione Spectacle di Costello. E poi il brano nuovo scritto appositamente per l’album che è una sorta di soul ballad alla People get ready, rivisata in chiave rock orchestrale. E il valzerone country rock del brano di Ryan Adams, con la pedal steel insinuante di Leisz, è poco bello? Anche il country-folk paesano del brano di Gillian Welch e la ripresa del capolavoro di Joni Mitchell, con lo splendido clarinetto di Mintzer in evidenza, confermano una sintonia completa con il lavoro di queste grandissime cantautrici. Roses And Cigarettes di Ray LaMontagne sancisce definitivamente che là fuori ci sono tante bellissime canzoni, basta saperle cercare, e cantare! Veramente una bella sorpresa, brava!

Bruno Conti

Meglio La Figlia…Heidi Feek – The Only

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Heidi Feek – The Only – Western PinUp Records

Una delle regole auree quando recensisco qualche disco (ma anche negli ascolti privati, sin dai tempi del vinile) è quella di ascoltare prima e leggere poi, per avere un giudizio sgombro da condizionamenti. Certo le note di copertina, per i titoli, eventuali musicisti ed ospiti ed i testi, si leggono mentre si ascolta il CD. Ma nel caso di questa giovane (e assai carina) Heidi Feek le informazioni sono veramente scarse, rete esclusa, dove si trova tutto. The Only dovrebbe (lo è, poi ho verificato) essere il suo album di esordio e la mia prima impressione ascoltandolo, sin dalla canzone di apertura, I Like The Way, lo giuro sul manuale delle Giovani Marmotte, è stata quella di trovarmi di fronte ad una novella Neko Case (quella più country alternative del primo periodo), accompagnata dalla band di Chris Isaak e con molte similitudini anche con Patsy Cline e Roy Orbison. Per cui mi ha fatto poi molto piacere verificare sul suo sito che la ragazza si è autodefinita: “un misto dell’estasi di Patsy Cline, la carica emotiva di Chris Isaak e le balle di Neko Case”.

E tutto calza a pennello, la giovin signora è veramente brava, bella voce (retaggio familiare, è la figlia di Joey+Rory, un duo country-bluegrass che negli ultimi anni ha pubblicato una serie di buoni album, l’ultimo, lo stesso giorno di uscita di questo The Only), molti anni on the road proprio con i genitori per affinare le sue qualità ed una notevole freschezza, nonché una buona penna, a giudicare dalle canzoni contenute nell’album.

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E’ ovvio che ormai nulla si crea e nulla si inventa, ma se ciò che fai lo esegui bene è già è un buon punto di partenza. E qui ci siamo! Registrato negli studios di Nashville dal profetico nome Welcome To 1979 (quello mi era saltato subito all’occhio leggendo le note, pensavo fosse una cantante dedita alla musica anni ’70 e in effetti qualcosa c’è), co-prodotto con il babbo Rory (che firma con lei anche gran parte dei brani), con un manipolo di validi musicisti in cui spicca la chitarra elettrica di Jeremy Felzer (che suona anche con Caitlin Rose, un’altra di quelle brave), che nella band svolge il ruolo che fu di James Calvin Winsley nei primi quattro e migliori dischi di Chris Isaak, con un sound riverberato e meraviglioso che ci riporta agli anni ’50 e ai primi anni ’60. Dopo la movimentata apertura, i ritmi si fanno più rilassati in Someday Somebody, con il “chitarrone” di Felzer che ben si accoppia con una pedal steel e le tastiere che sono gli altri elementi portanti del sound del disco e  la voce mi ricorda quella di una delle due cantanti dei Fleetwood Mac, ma Christine McVie che non viene mai citata a favore di Stevie Nicks, pur avendo la voce migliore, anche se forse meno caratteristica. 57 Bel Air ha quell’aria Orbison/Elvis anni ’50 ma con un suono anni ’70, appunto molto Fleetwood Mac epoca West Coast. The Only ha qualche la cadenza alla Patsy Cline, o meglio, molto vicina alla prima Neko Case quando era una piccola Orbison in gonnella.

Berlin, sempre in una atmosfera molto ricca di riverberi, introduce anche qualche elemento jazzy and blues, con un bel lavoro delle tastiere e nel suo essere vintage ha comunque un “feel” contemporaneo, come tutto il disco peraltro, raffinato e ricercato, ma con la giusta dose di pop, come usavano fare ai tempi tutti i nomi citati, perché non è un delitto, se ben fatto. One Night With You si candida per qualche futura colonna sonora di Quentin Tarantino, chitarra acustica che affianca la solita elettrica svisata, contrabbasso anche con archetto, un drumming molto composito, la pedal steel sullo sfondo e un’atmosfera molto noir che potrebbe ricordare certe cose di Anna Calvi, cantata con gran classe. Pretty Boy, sempre a proposito di Fleetwood Mac, ha un groove che ricorda moltissimo Rhiannon, completa di breve assolo alla Lindsey Buckingham, sempre se l’avesse cantata la voce più profonda di Christine McVie.


Take It Slow è una bella ballata molto sixties e There Lives A Fool, viene da ancora prima, con la già citata Cline nel DNA, quel country pop di gran classe che allora usava. I Don’t Know About You è nostalgia allo stato puro, West Coast, ma di quella dei Beach Boys, surf-pop con un pizzico di Anka e Sedaka. Per l’unica cover del disco cosa ti va a pensare la geniale figlia d’arte? Ragazzi, che ne direste se facessimo una bella versione di Heartbreak Hotel? Ma rallentata, moolto rallentata, non tipo la versione di John Cale, stiamo dalle parti di Chris Isaak, non potendo competere con la voce di Orbison, facciamola ad una tonalità molto più bassa. E sapete una cosa? Funziona, come tutto il resto del disco. Vedremo come evolverà la sua carriera, per il momento, promossa!

Bruno Conti  

Altri Veri Sudisti Del Nord – The Mallett Brothers Band – Land

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The Mallett Brothers Band – Land – Self-Released CD

Se fate ascoltare questo disco a qualcuno senza dargli informazioni sul gruppo in questione, chiunque penserà di trovarsi di fronte ad una band del Sud, che sia Alabama o Carolina poco importa, ma di sicuro nessuno penserà al Maine. E invece è così: la Mallett Brothers Band è un sestetto proveniente da Portland, città dello stato all’estremo Nord-Est degli Stati Uniti (nota soprattutto per aver dato i natali al noto scrittore Stephen King), formata dai fratelli Luke e Will Mallett, che sono anche figli d’arte: il padre è infatti il noto cantautore David Mallett, un classico artista di culto, autore dagli anni settanta ad oggi di una lunga serie di pregevoli album di folk-rock senza mai aver assaporato il vero successo. Come già detto, i fratelli Mallett (aiutati da Nate Soule, Wally Wenzel, Nick Leen e Brian Higgins), definiti dalla critica genericamente alternative country, fanno in realtà del sano rock chitarristico (nel quale il country non è certo un elemento estraneo), con un suono molto classico guidato da chitarre ed organo: Land è il loro terzo album, dopo l’esordio omonimo del 2010 e Low Down del 2011, ed è il miglior modo per avvicinarsi alla musica dei ragazzi.

Dieci canzoni, per un totale di circa una quarantina di minuti, ma con parecchi brani che dal vivo potrebbero diventare delle jam: la produzione è nelle mani dell’amico Jonathan Wyman (anch’egli di Portland), che dà al disco un suono pulito e senza fronzoli, lasciando scorrere liberamente la musica come è giusto che sia. Tra le influenze dei ragazzi ci sono indubbiamente gruppi come la Marshall Tucker Band o gli Allman (questi anche nel monicker), ma anche Waylon Jennings viene spesso tirato in ballo nei momenti più country.

Apre Blue Ridge Parkway, un brano quasi di riscaldamento, in tono minore, ma con la sezione ritmica ed il dobro di Wenzel che lavorano nell’ombra ed un’atmosfera intensa. Farmer’s Tan inizia invece con un bel fraseggio di chitarra elettrica, il ritmo è sostenuto ed il leader (cantano sia Luke che Will, ma non so attribuire le voci alle persone) canta con grinta: il crescendo del brano, con l’assolo di chitarra sul tappeto di organo, è da manuale del perfetto sudista. All Kinds Of Crazy è un godibilissimo boogie rallentato, un brano che dal vivo può fare faville (e qui ci vedo molto Waylon); la mossa Take It Slow tiene alto il vessillo del Sud sebbene, ripeto, nel sangue dei ragazzi non scorra neppure una goccia di sangue meridionale.

In The Fold è un godibile folk-rock dove si affaccia anche l’influenza del padre David (quando hai uno in famiglia che in carriera incide quindici album non puoi far finta di niente), mentre Little Bit Of Mud è invece puro boogie-rock, sudato e grintoso, ritmica solida e chitarre protagoniste, con un assolo di slide di quelli che ti fanno fare air guitar davanti allo specchio. Goodnight prosegue con l’adrenalina, con in più un ritornello molto catchy; Somethin’ To Lean On è una bella canzone elettroacustica e con la steel in lontananza, che ci mostra la bravura di Luke e Will anche nel songwriting.

Il CD si chiude con la splendida Getaway Queen, ottima ballata di grande respiro, sulla scia di certi pezzi di Bob Seger (Fire Lake, Shame On The Moon, lo stile è quello), e con la frenetica Piece Of Land, puro rock’n’roll, senza grandi implicazioni southern.

Finalmente anche il piccolo Maine può dire la sua: la Mallett Brothers Band, come ho scritto nel titolo, è un vero gruppo di sudisti…del Nord!

Marco Verdi

Gli Splendidi “Inizi” Della Jeff Healey Band. Live From New York City 1988

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Jeff Healey Band – Live From NYC Recorded December 13, 1988 Eagle Rock

Continua imperterrita ed indefessa (e meritevole) la pubblicazione del materiale inedito dal vivo di Jeff Healey, dagli archivi gestiti dalla famiglia. Nel risalire a ritroso nel tempo siamo arrivati a questo concerto, registrato nel dicembre del 1988 al Bottom Line di New York, che ci porta a pochi mesi dalla uscita del suo classico primo album See The Light, che cominciava proprio allora a scalare le classifiche americane. Per quanto buoni siano stati i precedenti capitoli di questa saga concertistica, molti dei quali recensiti da chi scrive su queste pagine virtuali (altri-inediti-di-jeff-healey-house-on-fire-demos-a.html e un-adeguato-testamento-sonoro-jeff-healey-band-full-circle.html), il concerto in questione è forse il migliore in assoluto, siamo al picco della sua creatività (anche se Healey dal vivo è sempre rimasto un incredibile performer) e anche il repertorio, in gran parte tratto dal disco d’esordio, è assolutamente all’altezza della sua fama. Non sto a raccontarvi per l’ennesima volta della sua bravura, ma sicuramente Healey in quegli anni era uno dei migliori chitarristi blues (e rock) sulla faccia del pianeta, in possesso di una tecnica prodigiosa, con la sua chitarra appoggiata in grembo e brandita solo nei momenti di maggiore intensità del concerto, quando l’eccitazione si faceva palpabile.

Con lui  ci sono Joe Rockman al basso e Tom Stephen alla batteria, per un trio assolutamente formidabile, come procedono subito a dimostrare nel raro strumentale The Better It Gets, uno dei migliori brani del primo periodo, tra quelli firmati da Jeff, rimasti inediti nei dischi di studio, la chitarra è pirotecnica e il drive del gruppo, nonché la qualità di registrazione, sono eccellenti, puri e non adulterati, senza inutili sovrincisioni! La prima cover della serata, poi rimasta a lungo nella sua setlist per i concerti dal vivo, è una vibrante Further On Up The Road, un must per i grandi chitarristi, un brano che infiamma le platee, qui reso in una versione gagliarda, con le dita che corrono sul manico della chitarra. My Little Girl è il primo di una sequenza di brani tratti da See The Light, abbastanza simile all’originale di studio, breve e concisa, molto hendrixiana, con il vocione di Jeff in grande spolvero e il basso che pompa alla grande sotto le evoluzioni incredibili della solista del leader. Blue Jean Blues, il classico degli ZZ Top, che era uno dei punti di forza del primo album, qui è reso in una versione monstre, tra le migliori che mi sia capitato di sentire nei concerti del canadese, uno slow blues di quelli che ti tolgono il fiato, tra gli standard assoluti del rock degli ultimi 40 anni, bellissima, sentita mille volte ma non si finisce mai di gustarla a fondo!

Anche Confidence Man, il pezzo scritto da John Hiatt, è abbastanza simile a quella in studio, ma la canzone è talmente bella che risulta difficile migliorarla nella versione live e regala un attimo di tregua al pubblico “travolto” dal torrente di note che la chitarra di Healey ha appena eruttato nella canzone precedente. I Need To Be Loved ha l’andatura classica dei grandi pezzi, cadenzata ma anche cantabile, come sarebbe sempre richiesto nella buona musica rock e coronata da un degno assolo della solista. White Room è sempre stata una delle canzoni più belle del songbook dei Cream, Clapton, Bruce e Baker erano devastanti in questo brano, quando Eric innesta il wah-wah per l’assolo finale è uno dei momenti topici della storia del primo rock, ormai lo sai già ma anche in questa versione parte ineluttabile l’air guitar di fronte agli specchi di casa, non se ne può fare a meno. Prima del bis, Jeff Healey regala al pubblico quella che è sicuramente la sua migliore composizione di sempre, una See The Light, che soprattutto nella lunghissima versione dal vivo non ha nulla da invidiare ai classici del rock nominati fino ad ora, con citazioni hendrixiane e la fluida solista di Jeff che scorre inarrestabile, conclude degnamente una serata degna di essere ricordata. Non prima di tornare per una versione del classico delle dodici battute, Good Morning Blues, altra chicca presente nel repertorio del primo periodo e che Healey conosceva grazie alla sua incredibile collezione di 78 giri d’epoca, un altro bel lentone, (con citazione natalizia, visto il periodo dell’anno), per finire veramente alla grande. Ne usciranno sicuramente altri e se sono così belli, noi li prenderemo!

Bruno Conti

Due “Fanciulle” Che Meritano Attenzione! Basia Bulat E Star Anna

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Basia Bulat – Tall Tall Shadow – Secret City Records 2013

Star Anna – Go To Hell – Spark & Shine Records – 2013

Nativa di Etobicoke, Ontario, nell’area metropolitana di Toronto, Basia Bulat è arrivata al terzo album, dopo l’esordio con Oh, My Darling (2007) e Heart Of My Own (2010), con ampi e meritati riconoscimenti critici (anche su questo Blog piccoli-talenti-crescono-basia-bulat-heart-of-my-own.html), merito senz’altro di una voce e una visione artistica di primaria qualità. Ad aiutarla in questo lavoro Tall Tall Shadow, Tim Kinsbury e Mark Lawson (rispettivamente bassista e ingegnere del suono dei connazionali Arcade Fire), per dieci brani che rapiscono per il loro ritmo fluido e orchestrale.

L’iniziale ballata folk Tall Tall Shadow, dialoga così con il pop di Five, Four e Promise Not To Think About Love, seguita dalla splendida (solo voce e autoharp) It Can’t Be You, la scanzonata Wires, le dolci armonie di The City With No Rivers, la moderna tecnologia pop di Someone, per poi passare alla filastrocca folk di Paris Or Amsterdam, la quasi recitativa e tambureggiante Never Let Me Go, e chiudere con la pianistica From Now On (con echi della grande Joni Mitchell). Il folk dei dischi precedenti, in Tall Tall Shadow è inserito in un contesto più robusto, con canzoni in bilico tra le ultime opere di Feist e Laura Marling (spero che il Bruno me lo consenta), forse il primo passo per la Bulat di intraprendere una nuova direzione. Dolcissimo disco per le prossime cupe giornate invernali.

Di Star Anna, mi ero già occupato circa due anni fa recensendo il suo terzo lavoro Alone in This Together (star+anna+and+the+laughing+dogs) e a differenza della Bulat stenta a decollare, continua a rimanere quella che si dice in questi casi “una bella promessa”, causa forse di una distribuzione difficoltosa dei suoi dischi e una notorietà circoscritta nei “punk-rock” e “coffee houses”, della scena West Coast.

Go To Hell (prodotto con il polistrumentista Ty Bailie) è in tal senso il proseguimento del percorso dei lavori precedenti, contrassegnato dalle interpretazioni vocali di Star Anna e da una qualità sonora “dura e sporca” (senza i fedeli Laughing Dogs), ma con veterani sessionmen, a partire oltre che da Ty Bailie, da Jeff Fielder alle chitarre, Julian MacDonough alla batteria, Will Moore al basso e altri bravi musicisti “di area”.

La partenza è affidata alla “rokkeggiante” For Anyone, seguita dalla title track Go To Hell (un brano dal repertorio di Nina Simone), la rootsy Electric Lights e da un altro brano rock Let Me Be, cantato con voce potente. Si riparte con gli arpeggi “roots” di Mean Kind Of Love, la batteria sincopata di Younger Then e il blues rurale di Power Of My Love. La chiusura è affidata splendidamente alla ballata pianistica Everything You Know (con un crescendo imperioso) e ad una cover d’autore, Come On Up To The House di Tom Waits (brano conclusivo di Mule Variations), che sembra eseguita dai bassifondi di una metro.

Il viaggio di Star Anna continua, una tipa che ha imparato la lezione da artisti della grandezza di Lucinda Williams o di Brandi Carlile e Grace Potter (la mia preferita con Dana Fuchs), pronta al grande salto, più di altre blasonate colleghe.

Tino Montanari

Il Miglior Chitarrista Blues Di San Diego?! Charles Burton Blues Band – Sweet Potato Pie

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Charles Burton Blues Band – Sweet Potato Pie – Charles Burton.com

Il mondo è bello perché e vario, ma anche no. Prendete la musica, il blues in particolare e ancora più nello specifico i chitarristi Blues. Ogni stato e città degli USA ha un suo “eroe locale”, un virtuoso dello strumento che dai piccoli e fumosi locali dove si aggira dispensa la sua arte, piccola o grande che sia. Non so dirvi se sempre sia vera gloria, perché nel caso dovremmo avere decine, centinaia, per non dire migliaia di musicisti di cui è indispensabile avere, se non l’opera omnia, almeno una testimonianza del loro lavoro. Forse non tutti sono dei fenomeni come vengono dipinti dalla stampa specializzata e di settore, ma sicuramente sono degli onesti e valorosi lavoratori delle sette note. Prendiamo questo Charles Burton, il “miglior chitarrista” della scena blues di San Diego, come testimoniano molti premi colà ricevuti nel corso degli anni, con cinque album già alle spalle, tutti rigorosamente autogestiti, ma la cui fama difficilmente può raggiungere tutti gli angoli del mondo.

Indubbiamente bravo ma, come dicevo prima, non più di tanti altri, per intenderci forse non ha quel quid, quella scintilla che lo eleva nettamente sopra la media della produzione in circolazione. Ma gli appassionati del blues elettrico e della chitarra in particolare, si possono rivolgere ai suoi prodotti con la certezza di avere tra le mani un prodotto solido e consono alle loro aspettative. Prendiamo questo Sweet Potato Pie, l’iniziale Shake It! con il suo abbrivio quasi R&R alla Thorogood o alla Little Charlie (al leader dei quali; Charlie Baty, Burton viene spesso accostato) poi si trasforma in un vigoroso blues(Rock) che tanto mi ha ricordato i migliori Ten Years After di Alvin Lee, con la chitarra di Charles Burton (non parente dell’altro Burton, quel James che giustamente rientra tra i grandissimi della chitarra) che corre velocissima sul solido groove creato dalla sua band e l’ospite Karl Cabbage che fornisce il suo contributo all’armonica. Anche Double Up ha la giusta grinta, ritmo da vendere, una solista molto presente e ricca di inventiva. Qualità che si confermano in Drivin’ Home un altro blues elettrico di quelli tosti con Burton che duetta con tale Chill Boy, mai sentito, probabilmente una leggenda locale, ma che bisogno c’era di prendere uno senza voce, già il buon Charles non è un fulmine di guerra a livello vocale (un po’ alla Robillard), quando in giro ci sono miliardi di ottimi cantanti? La parte strumentale ottima però. In comune con Robillard Burton ha una passione per il jazz classico che si estrinseca in una New York Jump che spezza un poco la tensione sonora decisamente bluesata del resto dell’album.

Goin’ To Memphis aggiunge un sapore di spezie sudiste al sound dell’album, mentre lo strumentale Crackdown dimostra che la Charles Burton Band è in grado, quando vuole, anche di dare del filo da torcere ai vecchi Double Trouble di SRV. Livin’ Without You (Blues For Simon) è un brano che nasce da una promessa fatta in uno dei viaggi nel Nord Europa (dai nomi i componenti del gruppo mi sembrano svedesi o norvegesi) ed è la classica ballata blues. La title-track è un divertente rockin’ blues dai ritmi spezzati, mentre New Boogie è un brano, fin dal titolo, che non sfigurerebbe tra i migliori del repertorio degli ZZ Top, uno strumentale che consente a tutta la band di mettersi in luce e non permette al vostro piede di rimanere fermo. Torna l’armonica di Cabbage per Used To Love That Woman e Your Number, due onesti esemplari di blues classico, senza infamia e senza lode, inframmezzati dalla tirata Brown Paper Bag dove Burton ha occasione di mettere in mostra ancora il suo stile chitarristico che mi ricorda, per certi versi, il classico British Blues dei tempi che furono, ancora TYA ma anche Chicken Shack o i Bluesbreakers di Mayall. Si torna in territori jazzati per la conclusiva Drop A Dime, un po’ fine a stessa, come altri brani di questo Sweet Potato Pie che alterna punte di eccellenza a momenti decisamente soporiferi,  non indispensabile, ma assai piacevole.

Bruno Conti

Country? No, Texas Music! Augie Meyers – Loves Lost And Found

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Augie Meyers – Loves Lost And Found – El Sendero CD

Augie Meyers, leggendario cult artist texano nonché apprezzato e richiestissimo sessionman (ha suonato, tra i tanti, su dischi di Bob Dylan, Tom Waits, John Hammond Jr., Raul Malo, Tom Russell), è rimasto, ormai da quasi quindici anni orfano, del suo partner musicale di una vita, il grande Doug Sahm, che lo aveva praticamente sempre voluto al suo fianco nei suoi numerosi progetti.

Sin dagli anni sessanta, il suono dell’organo farfisa di Meyers ha caratterizzato i successi di Sahm, con o senza il Sir Douglas Quintet, contribuendo all’invenzione del tex-mex sound: morto Doug, sono andati in soffitta anche i Texas Tornados (nel frattempo, è passato a miglior vita anche Freddy Fender, omaggiato nel 2010 dall’ultimo disco dei Tornados, Esta Bueno!, con Augie, Flaco Jimenez e Shawn Sahm, figlio di Doug), e quindi il nostro ha negli ultimi anni ripreso ad incidere album solisti con buona regolarità.

Augie è tornato al suo antico amore: la musica country (sempre presente comunque nel suo dna), un country molto texano, denso di ritmo e swing ma anche di melodie influenzate dalla vicinanza del Messico, ed il suo nuovo lavoro, Loves Lost And Found, ci regala un’altra mezz’oretta di buon Texas country. Dei dieci brani presenti sul disco, sette sono a firma di Augie e tre sono covers di classici, ed il nostro lascia per un attimo da parte l’organo e si accompagna alla fisarmonica (non è Flaco, ma se la cava), assistito da una manciata di ottimi compagni di viaggio, tra cui spiccano i noti Tommy Detamore e Bobby Flores, rispettivamente alla steel guitar e violino. Loves Lost And Found non è un capolavoro, ma è in grado di regalare mezz’ora di piacere e divertimento agli appassionati: Augie si rivela anche un buon vocalist (con Sahm e nei Tornados la sua voce si sentiva poco), con una timbrica forse non particolarmente carismatica ma corretta.

Apre l’album la swingata e pimpante But Not Now, decisamente texana (ben presente l’influenza di Bob Wills), con ottimi intervanti solisti di steel, violino e pianoforte. I Found Love è un’eccellente ballata di confine, che se fosse uscita su un disco dei Tornados sarebbe stata cantata sicuramente da Fender: la melodia è di quelle che toccano nel profondo, semplice ma non banale. Con Deed To Texas siamo in pieno honky-tonk mood, un brano che anche il George Jones meno legato alle briglie di Nashville (non dimentichiamo che anche Jones era texano) avrebbe gradito.

A Love You A Thousand Ways, di Lefty Frizzell, è rifatta con lo spirito dell’originale, un tuffo indietro (anche nel sound) di sessant’anni, mentre la trascinante Side Effect ha un mood quasi cajun: una delle più immediate e riuscite del disco, anche se Sahm l’avrebbe cantata con più carisma. Be Real è proprio un pezzo del vecchio Doug, e, come si suol dire, class is not water: grande brano, ad Augie basta riproporla con rispetto ed il gioco è fatto. La languida Where Were You When I Needed You è una ballata abbastanza canonica, mentre Pick Me Up On Your Way Down (di Harlan Howard) è puro country d’altri tempi, suonato con freschezza e perizia. Chiudono l’album lo swing lento The Sun Is Shining Down On Me In Texas (titoli corti mai) e la pianistica Prosperity Street, country tune con uan punta di jazz, vicino a certe cose di Willie Nelson.

Non fanno più texani come Augie Meyers.

Marco Verdi

Da Omaha, Nebraska Un “Sudista” Convertito! Michael Lee Firkins – Yep

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Michael Lee Firkins – Yep – Magnatude/Magna Carta

Anche se Michael Lee Firkins è sempre stato considerato uno dei nuovi “fenomeni” della chitarra, un axeman funambolico, sin dalla sua apparizione con il primo omonimo album del 1990, pubblicato dalla Shrapnel di Mike Varney, tra critiche e musiche roboanti, capello lungo alla Yingwie Malmsteen (e un po’ anche la musica, stranamente però con echi roots, country e sudisti, un pizzico di Steve Morse, ma vicino pure a Vai e Satriani), ebbene, devo dire che al sottoscritto la sua musica non è mai apparsa irresistibile, pur apprezzandone le indubbie qualità tecniche, mi sembrava sempre “troppa”, non so se mi spiego, non sulla mia lunghezza d’onda. Dopo una decina di anni di onorata carriera Firkins ha avuto una sorta di ripensamento, di “crisi mistica” musicale, si è più volte ritirato nella sua città natale di Omaha, Nebraska, per studiare a fondo la sua musica ed il suo strumento.

E’ emerso una prima volta nel 2007, con l’album Black Light Sonatas che interrompeva il digiuno dei fans che durava dal 1999 del precedente Decomposition e introduceva le prime interessanti variazioni al suo stile; in alcuni brani erano presenti Matt Abts e Andy Hess, praticamente la sezione ritmica dei Gov’t Mule, e alle tastiere sedeva Chuck Leavell (per dirne tre con cui ha suonato, Allman, Stones, Clapton oltre ai suoi Sea Level) e la musica cominciava a dirigersi verso lidi più papabili per i miei gusti, anche se, aggiungo per i “chitarrofili,” nei vari dischi passati di Firkins ci sono fior di cover di Lynyrd Skynyrd, Rick Derringer, naturalmente Jimi Hendrix, ma anche la “Pantera Rosa” di Henry Mancini e Caravan di Duke Ellington, tutte suonate in modo incredibile (forse anche troppo) con la particolare tecnica di Michael Lee che non prevedeva l’uso del plettro, un vero virtuoso in sostanza. In questi anni di studio e ricerca il nostro amico ha “creato” una Reso-Electric Guitar, un incrocio tra una acustica Resonator e il corpo e il collo di una Fender Telecaster una sorta di slide, ma di quelle vigorosamente elettriche. Con undici nuove canzoni, niente cover, ha preso baracca e burattini e si è trasferito a Nashville, negli studi di Johnny Neel, dove lo aspettavano nuovamente Abts, Hess e Leavell, per registrare questa volta tutto il nuovo disco.

Michael Lee Firkins, in questi anni ha lavorato anche molto sulla propria voce e i risultati più che vedersi si sentono, per questo disco sfodera una voce da perfetto southern rocker. Ovviamente non ha perso neppure la sua prodigiosa tecnica, che però viene utilizzata in funzione delle canzoni e non solo per un mero sfoggio di bravura, anche se ci sono molti assolo che vi costringeranno ad andare a ricercare in giro per la stanza la vostra mascella che è caduta per terra per la meraviglia. Dalla Clapton anni’70 meets Allmans dell’iniziale Golden Oldie Jam dove la Reso e la solista di Firkins duettano con lo splendido organo old school di Leavell in modo magistrale e misurato, ho subito capito che questo è un disco ricco della “nostra” musica, spesso realizzato in presa diretta, senza sovra incisioni, con i quattro musicisti registrati live in studio, come nella deliziosa Cajun Boogie, ancora nella migliore tradizione del vecchio southern rock dei primi Lynyrd Skynyrd, già rivisitati da Firkins nel passato,ma qui presi solo come fonte d’ispirazione, sempre con quella solista che scorre velocissima sul groove solidissimo della sua band. No More Angry Man è un altro ottimo esempio del sound “roots” che Firkins per l’occasione riesce a cavare dalle sue chitarre, mentre Standing Ovation ancora con le splendide tastiere di Leavell ad affiancare le evoluzioni della solista ci trasporta sulle onde del miglior rockin’ country di Outlaws o Charlie Daniels Band, ragazzi se filano.

Long Day ci mostra che il musicista del Nebraska padroneggia anche l’arte della ballata, rock, ricca di chitarre e tastiere, ma pur sempre ballata, mentre Wearin’ Black è nuovamente quel country according to Michael Lee Firkins che si lascia ascoltare con piacere. Out Of Season è un’altra ballata mid-tempo sudista in crescendo, con continui spunti chitarristici, come pure Take Me Back, con un bel tessuto sonoro elettroacustico sempre orientato verso gli stati del Sud. Last Call con la sua slide tagliente è decisamente più bluesata, mentre No More Angry Man (Part 2) è un discreto boogie rock con Michael Bland (ex della band di Prince) che sostituisce Abts alla batteria, un po’ scontato, anche se non è che il disco tutto brilli per innovazione, ma non manca di feeling, come dimostra l’atmosferica e “misteriosa” The Cane, peraltro un po’ pretenziosa e che come il brano precedente lascia calare la giusta tensione che sostiene il resto dell’album. Bravo e sorprendente per chi conosceva la produzione precedente, solo del buon sano vecchio rock (anche sudista)!      

Bruno Conti

“Ripassi” Autunnali In Nero! Joshua Black Wilkins – Fair Weather

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Joshua Black Wilkins – Fair Weather – Self Released 2013

Meglio tardi che mai (questo disco è uscito a Febbraio di quest’anno) ma, esssendone entrato in possesso da poco, puntualmente e con piacere, torno a parlarvi del “tatuato” Joshua Black Wilkins, cantautore e fotografo di talento, dopo il bellissimo lavoro del 2010 While You Wait, realizzato con il suo ex gruppo The Forty Volts (sempre con ritardo joshua+black+wilkins). Wilkins viene dal Tennessee, ed è considerato tra i leader di un nuovo percorso musicale che viene etichettato come “country noir”, ma personalmente preferisco considerarlo (uno dei tanti) con Springsteen (nelle liriche) e Waits (nella voce) nel cuore.

A differenza del precedente che si basava sulla forza del gruppo (solida base ritmica, robusti riff chitarristici e il violino di Amanda Shires), in questo nuovo lavoro Fair Weather, troviamo il buon Joshua che apparentemente suona tutti gli strumenti (a parte il violoncello), realizzando un suono sorprendente, con chitarre distorte e l’uso pungente dell’armonica che si inseriscono perfettamente nello sviluppo dei brani.

L’autogestione inizia con la chitarra rock di Spurs In The Dirt, mentre la canzone successiva dal titolo appropriato Western (con accompagnamento di armonica), evoca atmosfere nostalgiche e cinematografiche, per poi passare alla splendida ballata Are You Happier Now, dove Joshua mostra  le sue qualità di cantante e chitarrista. Si riprende con la potente Lie To Me (con una “performance” vocale notevole), seguita dalla canzone più inquietante del disco Put Your Hat On, con una batteria sincopata e suoni di chitarra distorti, mentre in I Tremble aleggia ancora lo spirito del grande Tom Waits. Con Ramble And Fall arriva la “perla” del CD, un brano sorretto da una chitarra acustica e da colpi  leggeri di batteria, che poi ci introducono alla nervosa We All Bleed, per tornare alla ballata Tennessee Junkyard, declamata in modo appassionato. Il cerchio si chiude con la matrice folk di Bird On A Wire e la ballata “spettrale” Frankie, punteggiata da un’armonica lancinante.

Tra uno scatto e l’altro (sul suo sito internet, si possono vedere i lavori anche come fotografo) http://www.joshuablackwilkins.com/, Joshua Black Wilkins trova il tempo di scrivere canzoni profonde e reali (come le sue fotografie), eseguite con una voce, si presume, resa roca da fiumi di bourbon e stecche di sigarette e sorrette da arrangiamenti robusti e “noir”.

Tra i tanti country-rockers (!?) perduti nel cuore nascosto dell’America, Joshua Black Wilkins mi sembra uno dei più schietti e credibili, in quanto Fair Weather suona esattamente come ci si aspetta da un onesto rampollo del Boss del profondo sud, uno che rappresenta una fetta robusta della “working class” americana. Personalmente mi sento la coscienza pulita nel suggerirvi di ascoltare questo disco (purtroppo di non facilissima reperibilità), non griderete al miracolo, ma certamente non avrete motivo di lamentarvi, spero!

Tino Montanari

E Anche Questa “Canta”! Ursula Ricks – My Street

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Ursula Ricks – My Street – Severn Records

Il suo nome è Ricks, Ursula Ricks, viene da Baltimora, Baltimore per gli americani, una importante città fluviale del Maryland, nel nord-est degli States, una delle più “antiche”, sede di una importante Università, la John Hopkins, musicalmente è la patria di gente come Frank Zappa, Philip Glass, Billie Holiday (ma solo come città adottiva, negli anni dell’infanzia, è nata a Filadelfia), quindi non una scena musicale attivissima. Perché vi dico tutto questo, se non c’entra con il resto? Perché un incipit è importante, attira il lettore verso quello che è il contenuto successivo. In effetti, a ben guardare, un ulteriore nesso con Ursula Ricks c’è, Annapolis, dove è stato registrato il disco per la Severn (che è anche il nome del fiume della città, fine della lezione di geografia), è la capitale del Maryland.

Proprio la Severn, ultimamente, si sta segnalando come una delle etichette più attive ed interessanti della scena indipendente blues & soul americana: tra i loro progetti recenti, l’ottimo ultimo album di Bryan Lee, di cui vi ho parlato nei mesi scorsi, l’ultima fatica dei Fabulous Thunderbirds, la doppia antologia di Alan Wilson ed ora questo My Street che segna l’esordio di Ursula Ricks. Dopo oltre venti anni di attività nei locali con il suo Ursula Ricks Project, un gruppo dedito all’interpretazione di cover soul, R&B e blues, la nostra amica, non più giovanissima, pubblica il suo primo album di materiale originale (con solo un paio di cover), un po’ come era successo per Charles Bradley (visto dal vivo di recente, è veramente bravo) pochi anni orsono. Magari la Ricks è un poco più giovane, ma lei e i suoi amici “paciarotti” del progetto, come potete vedere da molti video che si trovano in rete, è una notevole interprete di musica nera: presenza scenica, gran voce, bassa, risonante e potente, feeling a tonnellate.

Quelli della Severn le hanno messo intorno la loro house band, più alcuni ospiti di spicco e voilà, ecco questo piacevole e trascinante My Street, un disco di funky blues, se così vogliamo definirlo. Producono Kevin Anker, anche alle tastiere, Steve Gomes, pure al basso e il boss, David Earl, gli arrangiamenti di fiati ed archi sono del grande musicista di Chicago Willie Henderson, lo stesso team di Bryan Lee, ed i risultati sono eccellenti. Dal vigoroso blues iniziale, Tobacco Road (non quella famosa, un caso di omonimia), con Kim Wilson ospite all’armonica e Johnny Moeller alla chitarra, peraltro presente in tutto il disco, che con l’aggiunta del veterano Rob Stupka alla batteria garantiscono un sound bluesy alle procedure, che però spesso e volentieri virano verso motivi soul ed errebì veramente sanguigni. Come ad esempio nella ballata soul Sweet Tenderness dove la vociona espressiva della Ricks (che, modestamente, ringrazia l’Universo (!) per i suoi talenti, nelle note) assume quasi delle tonalità alla Nina Simone (una che ha fatto un disco intitolato Baltimore, per i corsi e ricorsi della vita), carezzata dagli archi e dai fiati di Henderson e dalle deliziose armonie vocali di Christal Rheams e Caleb Green, sembra un brano di Al Green o di Isaac Hayes del primo periodo. Mary Jane non sembra, è proprio una cover di una canzone di Bobby Rush, funky e ritmata il giusto, con un basso sinuoso, la chitarra di Moeller che fa lo Steve Cropper della situazione e tutto il gruppo che gira alla grande.

Sempre il giusto ritmo anche nella title-track My Street che ci permette di gustare appieno la vocalità della Ricks. Che è ancora più avvolgente in Due, un altro dei brani dove archi e fiati, più l’organo di Anker contribuiscono a creare quel mood raffinato à la Stax anni d’oro, Mike Welch, un altro degli ospiti nell’album, ci piazza un assolo dei suoi. E si ripete nella decisamente più bluesata Right Now dove lui e Moeller si scambiano licks chitarristici di gran classe intorno alle evoluzioni vocali della brava Ursula. The NewTrend ha di nuovo quell’afflato soul Staxiano se mi passate il termine, ma quello degli anni ’70, meno ruspante e più raffinato. Make Me Blue, di nuovo con le raffinate traiettorie orchestrali di Henderson, ha un qualcosa del miglior Barry White, quello “soffice” pre-disco, con chitarrine e fiati che colorano la performance vocale di gran qualità della Ricks. Che si ripete ancora alla grande in un brano come Just A Little Bit Of Love, che ti fa esclamare Curtis Mayfield ancora prima di avere letto l’autore del brano, bellissima e con una nota di merito ancora per Johnny Moeller che con la sua chitarra wah-wah pennella un sound vecchio stile di gran classe. Di nuovo Moeller sugli scudi nella ondeggiante What You Judge, ma tutto il gruppo suona come un orologio di marca, preciso e puntuale intorno alla vocalità corposa di Ursula Ricks, una veramente brava e meritevole di essere scoperta, se ne avete voglia segnatevi il nome!                                              

 Bruno Conti