Sì, No, Forse! Phil Gates – Live At The Hermosa Saloon

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Phil Gates – Live At The Hermosa Saloon – Self released

Per mettere subito i puntini sulle “I”, come direbbe qualcuno di nostra conoscenza, Phil Gates è un tipo “abbronzato”, fa del Blues, con un piglio contemporaneo non privo di un certo rispetto della tradizione (nato a Chicago ma residente a Los Angeles, unisce le due culture musicali); questo Live At The Hermosa Saloon, registrato in uno dei tanti piccoli locali che costellano L.A (e finanziato dai fans con il sistema del Kickstarter Campaign Fundraising), è una sorta di summa dal vivo del meglio dei suoi cinque album di studio (compresa una colonna sonora), pubblicato nell’estate dello scorso anno https://www.youtube.com/watch?v=chT0k-FA1Kk . La prima cosa che mi ha colpito è la voce (ma quella che usa per parlare, nella introduzione dei brani, che ricorda vagamente il timbro di Jimi Hendrix, solo quello), mentre musicalmente viene presentato come “Buddy Guy incontra John Mayer” e anche se forse è una forzatura promozionale ci può stare (più il secondo).

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Il suono, forgiato in anni di collaborazioni a dischi di musicisti del giro soul e funky attuale, inevitabilmente ha assunto un po’ di quelle caratteristiche, quindi niente selvaggio blues urbano di Chicago o dell’area del Delta, quanto piuttosto un contemporary blues, anche un filino “leccato”, di tanto in tanto, bel suono di chitarra, un organo, nelle mani di Morris Beeks, che dà un tocco leggermente jazzy e una sezione ritmica fin troppo precisa, anche se indubbiamente efficace, quindi, per continuare il parallelo hendrixiano più Band Of Gypsys che Experience (con i dovuti distinguo, come si dice in politichese, ma là eravamo su un altro pianeta https://www.youtube.com/watch?v=ipli5mQR3rc ). I duetti chitarra-organo, che partono nell’iniziale Addicted To The Blues, vengono ripresi in Used Me Up, dove la chitarra, in modalità slide, ha una maggiore grinta, si diversificano nel soul/R&B di Old School e nel funky di Away I Go, passano per le cover di Messin’ The Kid, un classico ripreso da migliaia di bluesmen, in tutte le salse e con la piacevolissima Summer in the City, proprio quella di John Sebastian e dei suoi Lovin’ Spoonful, trasformata in uno slow blues, sulla falsariga di quello che si faceva in SuperSession, dove organo e chitarra si scambiavano licks con piacevole abbandono https://www.youtube.com/watch?v=584fJ66urEI .

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Ogni tanto Phil Gates si ricorda dei paragoni con Buddy Guy e alza la quota blues, come nella grintosa End Of Time, anche se il suono after hours dell’organo, peraltro piacevolissimo, spezza un po’ i ritmi. Evening Train ricorda qualcosa dei suoi trascorsi in quel di Chicago. Take It Out si tinge di nuovo di quel sound R&B o neo soul alquanto blando, pure se la chitarra viaggia sempre spedita, ben sostenuta dall’organo. Per sentire un bel blues, di quelli tosti, bisogna arrivare quasi in finale di concerto, quando il crescendo della notevole I’m Lost mostra quello che avrebbe potuto essere, quasi nove minuti di ottima musica dove Gates finalmente estrae dalla sua solista un torrente di note, giustificando la sua meritata (?) reputazione di guitar slinger. Poi si ricade in un funky vagamente alla George Benson, nella conclusiva Get Around To Me, rispettabile ma assolutamente fuori contesto (o forse no, era il precedente brano quello “strano”?). Avrà anche vinto molti premi nei vari concorsi blues che si tengono ovunque negli States, ma non mi sembra questo fulmine di guerra, molto bravo tecnicamente, come ce ne sono tanti in giro per gli States (forse esagero), se vi bastano gli assolo quelli sono notevoli, per il resto, come dice il titolo del post: sì, no, forse, ma anche un bel mah!

Bruno Conti   

Poco Prolifica, Ma Di Gran Classe. Lou Ann Barton – The Best!

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Lou Ann Barton – The Best – Rockbeat Records

Lou Ann Barton è uno di quei casi, purtroppo non infrequenti, in cui il talento e la bravura sono inversamente proporzionali alla popolarità del soggetto in questione. Non completamente, perché fans, addetti ai lavori, critici e, soprattutto, colleghi musicisti la portano, giustamente, in palmo di mano. Sulla scena musicale, soprattutto Austin, Houston ed il Texas in generale, da una quarantina di anni, la nostra amica ha iniziato con quella pattuglia di musicisti che era guidata dai due fratelli Vaughan, Jimmie prima e Stevie Ray in un secondo momento https://www.youtube.com/watch?v=90XHXDQNuno , in giro per polverosi e scalcinati locali sin dai primi anni ’70 (alcuni leggendari come l’Antones’s o il Continental, ma perlopiù buchi fumosi e mal frequentati, dove però la musica è sempre stata ottima). Le eccellenti note del libretto contenuto in questa antologia tracciano attraverso le “voci” di alcuni personaggi il percorso della carriera di Lou Ann. Apre Etta James, che a sorpresa (ma non troppo) la definisce come “una cantante che non cerca di atteggiarsi a nera è proprio nera”, anzi, testuali parole, “ha un’anima nera, una delle più sottovalutate cantanti della scena blues e soul” di quello scorcio di secolo, “se scriveranno una Bibbia del Blues e non ci sarà un capitolo dedicato a lei sarà una fottuta vergogna”. Ho voluto riportare questa giudizio da parte di una delle più grandi cantanti che la musica (nera e bianca) abbia mai avuto perché sono vere e sincere.

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Anche Jerry Wexler (che ha prodotto il suo album d’esordio, con Glenn Frey) uno dei “miti” del music business americano, Buddy Guy che ricorda che Stevie Ray Vaughan gli disse che era più brava di Janis Joplin e come “sistemò” il suo pard Junior Wells quando la inseguiva sussurrandole in un orecchio, “pussy, pussy, pussy” (i musicisti non sempre sono finissimi, e non solo loro), o il sassofonista Johnny Reno che ricorda i loro primi passi con Roomful Of Blues e Fabulous Thunderbirds. Proprio il leader dei T-Birds (dei quali, Lou Ann sposò il bassista, Keith Ferguson, ma non andò molto bene, però è un’altra storia, per quanto…), Jimmie Vaughan è stato il suo più grande estimatore, a lungo compagno di lavoro e, ultimamente, datore di lavoro nei recenti lavori con i Titl-A-Whirl. Giustamente uno si chiede, con tutta questa unanimità perché Lou Ann Barton non sia famosa come Janis Joplin o almeno Bonnie Raitt o Susan Tedeschi?

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Nemmeno dieci album in quasi quaranta anni di carriera, collaborazioni e semi-bootleg live compresi! Lo ammette lei stessa in una intervista con un giornale locale texano: per molti anni era famosa soprattutto perché era “No-show Lou Ann”, a causa dei suoi problemi di alcolismo e con altre sostanze, spesso ai suoi concerti non la vedevano neppure. Adesso, da una quindicina di anni, dice di essere sobria, e secondo, chi l’ha vista, mi fido, dimostra dieci anni meno dei 60 appena compiuti, ma forse è troppo tardi. Vedremo se questa ottima antologia riuscirà a raddrizzare le sorti della sua carriera. La vedo dura, ma se vi capita di mettere le mani su questo The Best, e non avete già più o meno tutto, sparso sugli album della discografia non lasciatevelo sfuggire. Nel caso, ci sono anche sette inediti: i primi cinque brani, tutti mai pubblicati, fanno parte di un demo registrato per e con Jerry Wexler nei primi anni ’80, qualità sonora ruspante ma anche la musica, per fortuna, cinque semi-classici come Rocket In My Pocket, Sugar Coated Love, Good Rockin’ Daddy, Every Night Of The Week e Maybe, scaldano subito i cuori con la loro miscela di blues, soul, R&R e musica texana, che sarà (quasi) sempre la stella polare della sua musica, cantati con una voce pimpante, cristallina ma anche vissuta, che è stata definita un incrocio tra Kay Starr e Dinah Washington, o Patsy Cline e Big Maybelle, anche se lei ha sempre avuto come punto di riferimento voci maschili come Little Richard e Jimmy Reed, sempre in buona compagnia comunque.

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Nel dischetto scorrono brani dal citato Old Enough, prodotto dalla coppia Frey-Wexler, dal suono forse un poco “leccato” ma che fa intuire il suo talento https://www.youtube.com/watch?v=JrvjokCl-08 , molti, sei, da Read My Lips, il migliore, quello pubblicato per la Antone’s nel 1989 https://www.youtube.com/watch?v=SR2VzTdvbB4 , tra cui il suo cavallo di battaglia, You Can Have My Husband https://www.youtube.com/watch?v=n7MFWNo3Fks e una poderosa Shake Your Hips. Un paio da Dreams Come True, la collaborazione con le altrettanto talentuose Marcia Ball e Angela Strehli, prodotta da Dr.John, tre da varie collaborazioni con Jimmie Vaughan, anche delle recente accoppiata Blues, Ballads and Favorites. Un lungo brano inedito dal vivo in studio, Shake A Hand https://www.youtube.com/watch?v=k35gbRk91_I , con la stessa formazione dei dischi con Jimmie. E di chitarristi ottimi Lou Ann nei suoi disch ne ha avuti tanti, oltre ai fratelli Vaughan, Derek O’Brien, Denny Freeman e David Grissom, tutti presenti nei brani di questa ottima antologia. Se amate le voci femminili blues oriented non andate a cercare troppo lontano!                 

Bruno Conti  

Rock E Blues In “Bianco E Nero”! John The Conqueror – The Good Life

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John The Conqueror – The Good Life – Alive Natural Sound Records

Un poderoso terzetto (con tastiere aggiunte, all’occorrenza) di stanza a Philadelphia, sulla East Coast, ma originari della zona del Mississippi, Jackson, dove il blues trae le sue radici, i John The Conqueror, nome preso in prestito dal famoso principe/schiavo della tradizione popolare nero-americana, con questo The Good Life sono già al secondo album per la Alive Natural Sound Records, etichetta che vede nel suo roster di artisti anche nomi come Lee Bains III & The Glory Fire, Left Lane Cruiser, Buffalo Killers, Hollis Brown, Beachwood Sparks e la recente aggiunta Mount Carmel (già attivi presso altre etichette), oltre ai Black Keys che per la Alive pubblicano vinili ed EP, tutta gente buona, come vedete.

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Forse proprio ai primi Black Keys si può far risalire il sound di questi John The Conqueror, un rock-blues denso e scarno, che però aggiunge elementi soul e funky, vista la presenza di due artisti di colore nei ruoli chiave della band, chitarra solista e voce Pierre Moore, batteria Michael Gardner, che dovrebbe essere il cugino, mentre al basso l’unico bianco Ryan Lynn che si porta al seguito Steve Lynn alle tastiere, che però non fa parte ufficialmente del gruppo https://www.youtube.com/watch?v=mF0CUs4u1Fk . A tutti gli effetti una sorta di power trio rock-blues, anche se non di quelli che fanno dell’arte della jam e delle lunghe improvvisazioni chitarristiche il loro credo, optando per un suono chiaramente rock ma dove non si prevede la presenza di un guitar hero a tutti i costi, anche se Moore se la cava egregiamente alla sua Gibson, ma senza esagerare mai, preferendo i riff densi e cattivi dell’iniziale Get’Em dove la band costruisce un groove funky con rimandi a vecchi gruppi “neri” che facevano rock come i Chambers Brothers (senza la componente gospel), ma anche e molto ai citati Black Keys, con soli brevi e vagamente simili pure al miglior Kravitz (non è una eresia) o a Jimi quando concedeva qualcosa alle sue radici nere https://www.youtube.com/watch?v=EwVtJQ3-o1I , anche Mississippi Drinkin’ viene da quella scuola, chitarre riverberate e “primali”, intrecci vocali di stampo vagamente R&B su una base decisamente rock.

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Ritmi tribali e reiterati, come nelle derive leggermente psych di Waking Up To You, dove riff e grinta vanno di pari passo, soli brevissimi e ficcanti, pochissime concessioni al virtuosismo, forse una eccessiva ripetitività, anche se l’aggiunta delle tastiere conferisce a What Am I Gonna Do una sorta di patente soul-rock molto incisiva, dove la bella voce di Moore ha ragione di farsi apprezzare. Però i brani viaggiano quasi tutta in quella sorta di mid-tempo funky, dove il groove è più importante della melodia e le capacità compositive di Pierre Moore non sono eccelse, i brani si assomigliano un po’ tutti. Non è un caso se il brano che forse si nota di più è una cover di Let’s Burn Down The Cornfleld di Randy Newman, musicista notoriamente non dedito abitualmente al blues-rock di matrice sudista, ma che le note sa metterle in fila per benino, anche se l’esecuzione della band non è poi molto differente da quella delle altre canzoni https://www.youtube.com/watch?v=GK2Ye1ym6kM . Potrebbero essere  avvicinati pure ad una sorta di Roots, meno vari e “moderni”, più rockisti e meno hip-hop, ma abili in questa fusione di elementi rock con varie forme di musica nera, blues grezzo e ritmato in primis. John Doe, rallenta i ritmi e si avvale con buoni risultati dell’organo di Steve Lynn mentre Daddy’s Little Girl, dall’inizio soffuso, sembra tentare altre strade sonore ma poi ritorna in fretta al “solito” suono denso e cattivo, ma quantomeno Moore prova a diversificare lo stile compositivo e la solista si lascia andare per una volta tanto. Interessanti ma non fondamentali, li attendiamo a prove più decisive, se ci saranno!

Bruno Conti   

“Gregario Di Lusso”? Non Solo Un Grande Chitarrista! David Grissom – How It Feel To Fly

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David Grissom – How It Feels To Fly –  Wide Lode/Blue Rose Records/Ird

Credo che per definire David Grissom il termine “gregario di lusso” possa essere usato tranquillamente, un modo di dire forse abusato ma che rende l’idea in modo chiaro, un po’ come  “non ci sono più le mezze stagioni” o “SPQR – Sono Pazzi Questi Romani” (Asterix)! Scherzi a parte, il musicista texano è proprio l’epitome del musicista for hire, chiedete a Joe Ely, John Mellencamp, James McMurtry, Chris Kinght, e a migliaia di altri che hanno usufruito dei suoi servizi nell’ultimo trentennio e più. Però Grissom ha anche cercato di farsi una carriera in proprio, per esempio negli Storyville (con la sezione ritmica dei Double Trouble, Shannon e Layton, con l’altro “manico” David Holt e con il cantante Malford Milligan), autori di tre album tra il 1994 e il 1998 quando David era stalo licenziato da Mellencamp perché suonava “troppo texano”! https://www.youtube.com/watch?v=pXJzKppxKrg

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E soprattutto una carriera solista dal 2007, che, ad oggi, ha fruttato quattro album, compreso questo How It Feels To Fly, il primo che viene pubblicato anche in Europa dalla tedesca Blue Rose. Naturalmente Grissom non ha cessato la sua lucrativa attività di sessionman (ottima quella nel recente Rhythm & Blues di Buddy Guy), ma nel corso dello scorso anno si è dedicato alla preparazione di questo disco, registrato nei suoi Spicewood Studios e ad un concerto con la sua band, al Saxon Pub, sempre di Austin, Texas, dalla quale sono stati ricavati quattro brani posti in coda del CD. Suonano con lui da qualche anno l’eccellente pianista e organista pavese Stefano Intelisano (che dagli inizi con Fabrizio Poggi & Chicken Mambo è passato alla world domination, suonando anche lui con centinaia di gruppi e solisti), il bassista Scott Nelson (Tony Price, Doyle Bramhall) e il batterista Bryan Austin. Nei pezzi di studio appaiono anche alcuni vocalist di supporto, tra cui Kacy Crowley che firma con lo stesso Grissom il brano Overnight.

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Vi vedo già chiedervi, ma il risultato? Un onesto, a tratti buon album di rock, nobilitato dalla parte dal vivo, dove ci sono un paio di cover straordinarie e percorso in tutta la sua durata, che supera l’ora (a differenza del penultimo Way Down, dove i sei brani presenti faticavano a raggiungere la mezz’ora), dalla chitarra del leader, che è poi il motivo, a ben vedere, per cui si compra un disco del genere, memori degli assolo del nostro, che so, in Letter To L.A. di Joe Ely o in tutto Whenever We Wanted e anche in Human Wheels del “coguaro” Mellencamp, due dei suoi dischi più rock. Peraltro David se la cava discretamente anche come autore (e cantante) in questo How It Feels To Fly, lo si capisce dal riffatissimo blues-rocker iniziale Bringin’ Sunday Mornin’ To Saturday Night dallo spirito stonesiano e nobilitato dal “solito” assolo fumigante di Grissom, breve e cattivo, come è spesso sua caratteristica, linee rapide e pungenti https://www.youtube.com/watch?v=rZhhye1JUdo . How It Feels To Fly, la title-track si divide equamente tra un sound che ricorda gli Who, anche per l’eccellente lavoro delle tastiere di Intelisano e della sezione ritmica, agile e potente al contempo, e come ha rilevato qualcuno, i brani più rock del non dimenticato Tommy Keene.

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Georgia Girl, firmata con Chris Stapleton, si avvale delle armonie del cantautore Drew Womack, e di un sound a metà tra le radici sudiste e il rock di Mellencamp, con qualche deriva di pop orecchiabile ma non commerciale, sempre con quella chitarra che inventa musica gioiosamente. Never Came Easy To Me, con Grissom che si divide tra acustiche ed elettriche forse ricorda il suo lavoro con il Joe Ely più rock, ma ha una bella costruzione sonora, sempre con un sound à la Stones più roots https://www.youtube.com/watch?v=y5DzWVCV-U4 . Way Jose è uno shuffle strumentale che gli permette di misurarsi con alcuni dei suoi ispiratori, da SRV a Freddie King, grandi chitarristi come lui https://www.youtube.com/watch?v=nqQpOmD8cys . La già citata Overnight è una bella ballata elettroacustica, che chissà perché mi ricorda sempre gli Stones (ma anche Mellencamp attingeva da questa musica a piene mani). Gift Of Desperation è un altro bel pezzo rock, molto solare, da sentire su qualche highway americana, ma funziona anche sulle nostre strade e Satisfied, l’altra canzone firmata con Stapleton, una bella ballata deep soul, con acustica e organo che tracciano il suono, chiude la parte in studio.

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Nella parte dal vivo David Grissom si supera, prima con una straordinaria cover di Jessica degli Allman, fatta da Dio https://www.youtube.com/watch?v=8t5zkpq9H50 , dove anche Intelisano si cimenta con successo nella parte che fu di Chuck Leavell , poi con due brani dal proprio repertorio, Way Down Deep e lo strumentale Flim Flam che ne esaltano le grandi capacità chitarristiche https://www.youtube.com/watch?v=wOlL8XaTJZQ , per concludere con una ferocissima Nasty Dogs And Funky Kings che si trovava su Fandango degli eroi di casa ZZ Top. In conclusione, ca…spita se suona, confermo: è il motivo per cui si compra un disco come questo!

Bruno Conti

“Americana” Di Sera, Bel Tempo Si Spera! – Chuck Ragan – Till Midnight

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Chuck Ragan – Till Midnight – SideOneDummy Records

Ritorna, con mio sommo piacere, il cantautore americano Chuck Ragan (ex frontman del gruppo punk-rock Hot Water Music), di lui mi ero già occupato su queste pagine virtuali in occasione del suo precedente ottimo Covering Ground http://discoclub.myblog.it/2011/10/11/anche-questo-e-bravo-chuck-ragan-covering-ground1/ . La sua carriera solista quindi arriva al quinto capitolo (live, collaborazioni ed edizioni numerate escluse) con questo Till Midnight (prodotto e mixato dal polistrumentista Christopher Thorn), dieci tracce folk-rock per un totale di quasi quaranta minuti di musica, che spaziano tra i vari generi della tradizione americana.

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Registrato presso i Fireside Sound e Fonogenic Studios di Los Angeles, hanno preso parte alle sessions “personcine” di tutto rispetto, che da anni collaborano o dividono il palco con Chuck Ragan, gente come Ben Nichols (Lucero), Dave Hause (Loved Ones), Chad Price e Jon Snodgrass (Drag The River), oltre a “rodati” musicisti tra cui il citato Christopher Thorn che suona di tutto, Jon Gaunt al violino, Joe Ginsberg al basso, Todd Beene alle percussioni e pedal steel, Rami Jaffee alle tastiere e David Hidalgo Jr. (figlio del grande leader dei Los Lobos) alla batteria.

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I punti di forza di Till Midnight sono sicuramente le melodie sulle quali si innestano i vari strumenti, violino, pedal steel e percussioni che contribuiscono a creare quel “sound” tipicamente folk, a partire dal brano iniziale, la superba Something May Catch Fire, con un serrato dialogo tra violino e batteria https://www.youtube.com/watch?v=A2B2TvdW7jk , a cui fanno seguito la pulsante Vagabond  e il potente incedere di Non Typical https://www.youtube.com/watch?v=MS454s6Yeq8 . Dopo questo brillante inizio, segue un trio di brani di moderna “americana”  che parte con la danza accelerata di Revved, dotata di un ritornello trascinante, e si estrinseca poi nelle canzoni migliori dell’album, Bedroll Lullaby https://www.youtube.com/watch?v=AVSfnQxRdFE  e Gave My Heart Out, brani in cui Chuck, con il suo tipico vocione (che qualcosa deve al Boss, non solo la voce), mischia alla perfezione diversi stili, inserendo strumenti come armonica, banjo e steel-guitar, su ritmiche di stampo folk-rock. Con Wake With You arriva il momento della ballata acustica, per poi cambiare di nuovo registro con You And I Alone e tutta la rabbia e la disperazione di Whistleblowers Song, con una voce quasi urlata che mette in evidenza i suoi trascorsi “punk” https://www.youtube.com/watch?v=LVNJ3lbgJmc , infine per chiudere con la dolcezza acustica della conclusiva For All We Care, con un crescendo finale che sprigiona tutta la sua “selvaggia” bellezza.

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Chuck Ragan non è un songwriter come tanti, insieme a Israel Nash Gripka (e pochi altri) porta avanti la nuova ondata del genere etichettato come “americana”, un artista determinato e ormai consapevole delle sue potenzialità, capace con le sue armonie di ammaliare chi è solito ascoltare la buona musica. L’indole folk del musicista americano è costantemente presente in ogni brano di Till Midnight, e con una sezione ritmica importante, violino, armonica e una voce calda che riempie il cuore dal primo istante (sporcata da tante sigarette e tanto whisky), dà vita a quaranta minuti di grande musica. Ho sempre pensato che ci sono due tipi di cantautori in questo mondo, cantanti e cantastorie: il cantante ha imparato il mestiere, nel cantastorie è una attitudine di vita, Chuck Ragan è un narratore, un narratore di storie vere, da ascoltare (possibilmente dopo la mezzanotte) in un lungo viaggio in auto, benedicendo l’inventore del tasto “repeat”.

Consigliatissimo!

Tino Montanari

Peccato Sia L’ultimo! R.I.P. Jeff Strahan – Monkey Around

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Jeff Strahan – Monkey Around – Squaw Peaks Records

La stella del Texas sarà sicuramente più solitaria dopo la morte di Jeff Strahan, avvenuta il 15 gennaio del 2014, anche se pare fosse malato già da qualche tempo. Ottimo musicista Blues dalle profonde radici sudiste, per ricordarlo, come ci dice la moglie dalle pagine del suo sito http://www.jeffstrahan.com/ , invece di fiori comprate uno o due dei suoi CD, ne vale certamente la pena. Certo, lo scheletro con la chitarra, che era il suo logo ed appariva sulla copertina degli ultimi tre dischi (incluso un doppio live registrato al Sealy Flats, un locale di San Angelo, Texas, dove spesso si esibiva), questo logo, a posteriori potrebbe sembrare fuori luogo, ma faceva parte del suo modo, a tratti irriverente, di vedere la musica https://www.youtube.com/watch?v=hTjEiZ2TUgw .

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Parliamo di questo disco, Monkey Around, uscito già da qualche mese, ma non di facile reperibilità, anche per onorare la memoria di questo musicista, sicuramente minore ma di buona caratura, un ex avvocato prestato alla musica (o più probabilmente viceversa), che nel corso degli anni ha saputo costruirsi una buona reputazione tra gli appassionati, con una serie di album di ottimo valore. Strahan ha sempre ondeggiato nella sua musica tra un blues texano di chiara derivazione Stevie Ray Vaughan (di cui era considerato uno dei tanti “eredi) e un suono più composito, ricco di tratti soul e cantautorali https://www.youtube.com/watch?v=vLxH0p52gtw , con rimandi alla musica di Delbert McClinton e la produzione, per esempio, di Walt Wilkins in Wayward Son, un disco dove la musica roots ha un suo perché.

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In questo ultimo capitolo della sua discografia ci sono pure chiari rimandi al southern rock classico, peraltro sempre presente nelle sue influenze musicali: addirittura la bellissima Don’t Get Too Low, posta in apertura del CD, potrebbe essere una traccia perduta della Marshall Tucker Band di Searchin’ For a Rainbow, con la chitarra di Strahan che ricorda moltissimo nel timbro quella del compianto Toy Caldwell, senza dimenticare gli inserti di piano e organo (suonati sempre da Jeff) che aumentano la quota sudista del brano https://www.youtube.com/watch?v=93iAnkB13_8 . Fosse tutto l’album su questo livello sarebbe stato un canto del cigno formidabile, ma comunque l’album ha una sua validità, incentrata sulle scorribande chitarristiche di Strahan, che era un solista di rara versatilità, capace di passare dallo slow-blues intensissimo di Curtains al suono più cattivo e sporco di Dangerous Curves, sempre però con le tastiere a dare un tocco alla Allman alla costruzione dei brani. La breve Monkey Round è un conciso rock-blues dove voce e chitarra viaggiano all’unisono, nella migliore tradizione del sound anni ’70, chitarra vagamente alla Alvin Lee e ritmica che si diverte con i cliché del genere.

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The One è una struggente ballata, solo voce e piano, che ricorda quelle di John Hiatt, anche se Strahan non ha quella potenza vocale, il pathos che emana da questo brano, conoscendo il suo destino, commuove veramente. Ma niente paura per i chitarromani, perché il nostro amico riallaccia subito i legami con il rock più grintoso, in una Can’t Change Me dove il piano elettrico aggiunge un tocco di inconsueta raffinatezza alla costruzione del brano e la chitarra viaggia senza freni. Hard Headed Woman, l’unica cover, è un veloce shuffle chitarra-organo che porta la firma di Lil’ Dave Thompson, un musicista minore proveniente dall’area del Mississippi, mentre 4:20, tra soul, R&B e blues, con i suoi continui cambi di tempo, ricorda certe cose del citato Delbert McClinton. Baptist Bootleggers con un bel groove ritmico e un pianino insinuante ha ancora quella tipica andatura della migliore musica texana, come la precedente traccia. Nuovamente soul e blues miscelati per la conclusiva Two Shades, una canzone che porta alla luce le migliori influenze della musica di Jeff Strahan e che nel finale funky, con un wah-wah inconsueto, aggiunge anche elementi di New Orleans. Peccato sia l’ultimo, R.I.P.!

Bruno Conti

Che “Strano”, Piacevole Disco… Paul Carrack – Rain Or Shine

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Paul Carrack – Rain Or Shine – Carrack-uk/Proper

Che “strano” disco, che album particolare. Niente di particolarmente trascendentale, in ogni caso un’opera inconsueta. Paul Carrack recentemente ha fatto parte della touring band di Eric Clapton https://www.youtube.com/watch?v=3wTur8PQV2Q , ma il musicista britannico ha una lunga militanza nella scena musicale: prima, negli anni ’70, con i pub-rockers melodici e aperti al pop Ace, quelli di How Long per intenderci https://www.youtube.com/watch?v=XwisOIAwQxY (che rimane il suo brano più conosciuto), poi con Frankie Miller e Roxy Music, negli Squeeze in sostituzione di Jools Holland, una prima collaborazione con Clapton e poi la lunga militanza con Mike And The Mechanics. Carrack è principalmente un tastierista (ma se la cava con tutti gli strumenti) nonché un ottimo cantante, dotato di una bella voce, più che mielosa, vellutata, intrisa di pop e soul, quello che si usa definire blue-eyed soul, comunque in grado districarsi anche come crooner, molto meglio di quelli che circolano al momento, tra il tripudio delle folle.

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Nella sua lunga carriera ha sfornato almeno una ventina di dischi come solista, sempre in bilico tra i generi, ma con l’amato Ray Charles spesso vicino al cuore. Più il Ray Charles balladeer, country, quello più morbido e meno soul, ma pur sempre “genius”. La stranezza di questo disco, se così vogliamo chiamarla, sta nella strana inversione dei ruoli in alcuni brani: i brani blue-eyed soul spesso vengono interpretati con uno stile da crooner, quasi alla Sinatra (di cui riprende ottimamente Come Rain or Come Shine nel finale) o tipo Lou Rawls, con grande profusione di archi, forse anche esagerati in alcuni momenti e qualche brano soul, per esempio la bellissima (If Loving You Is Wrong) I Don’t Want To Be Right, grande successo dei primi ’70 di Luther Ingram, ma la facevano anche Bobby “Blue” Bland e Millie Jackson, come se fosse un lussurioso standard della canzone americana.

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Oppure inserendo a tratti i fiati che danno una patina Philly soul o Motown a Time Waits For No One (che non è quella degli Stones), quando la sua voce quasi accarezza le note https://www.youtube.com/watch?v=F4CSfYoQXl0 . Stepping Stone, con il figlio Jack alla batteria e Paul che suona tutti gli altri strumenti, archi esclusi, ma organo d’ordinanza compreso, è un altro esempio di questo soul sofisticato, siamo nei dintorni di Boz Scaggs, da solo o con i Dukes Of September, meno immediato, più “adult oriented” forse, ma in possesso di una sua classe peculiare https://www.youtube.com/watch?v=D4ewksUGty4 . That’s All That Matters forse esagera con gli archi e lo zucchero, ma non si può non apprezzare una voce come quella di Carrack, uno di quei bianchi “neri” che ogni tanto graziano il mondo del pop https://www.youtube.com/watch?v=rb-Jip1MATQ . One In A Million è un incrocio tra People get ready e gli O’Jays o Harold Melvin, e perché no anche Al Green, vi ricordate, magari non come timbro vocale, ma come idea, il vecchio Rod Stewart? You Don’t Know Me è il primo omaggio al Ray Charles di Modern Sounds In Country & Western Music, un brano country scritto per Eddy Arnold, diventato uno degli standard più amati del grande Ray, incisa anche da Willie Nelson, Dylan, Presley, da Van Morrison su Days Like Days e da mille altri, rimane sempre una gran canzone, come la successiva e già citata I Don’t Want To Be Right, sempre con l’organo che scivola in modo quasi lubrico, sotto quegli archi esagerati.

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Hard Times (No One Knows Better Than I) porta proprio la firma di Ray Charles come autore ed era su The genius sings the Blues, Carrack non avrà mai la classe di Charles, ma ci si mette di impegno, piano, organo e voce sono ottimi, i fiati sono ben piazzati e gli archi non rompono i maroni ( in qualche brano ci stanno bene)! Anche I’m Losing You è un grande brano, viene dal repertorio di Brenda Lee, una ballata che fa uscire il crooner che è in Carrack, malinconica e melodica senza essere troppo “carica”, forse per adulti, ma se Bublé piace a grandi e piccini, qui saremmo su un altro pianeta interpretativo, quindi…come non detto. Sarà anche musica per “vecchi” ma Life’s Too Short ha un piglio danzereccio di quelli sani, con fiati e organo sempre ben presenti, R&B vecchia scuola, anche se poi porta la firma di Paul Carrack https://www.youtube.com/watch?v=gc-kBmImLZQ . Per Come Rain Or Come Shine avevo fatto il paragone con Sinatra, ma Paul la canta come se fosse il figlio illegittimo di una avventura europea del grande Ray. Disco “strano”, ma in fondo assai piacevole.

Bruno Conti

Musica Di “Peso”, Non Fate Caso Al Titolo Del CD! Matt Andersen – Weightless

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Matt Andersen – Weightless – High Romance/True North/Ird

A giudicare dal titolo e dalla piuma che svolazza senza peso, Weightless, sulla copertina del disco, uno non potrebbe neppure immaginare che siamo di fronte ad una “personcina” che ha più il peso e le dimensioni di un Popa Chubby. Ma il talento, in questo caso, non è inversamente proporzionale: ogni etto contiene talento a profusione! Presentato sullo sticker della copertina come vincitore dell’European Blues Award e dell’International Blues Challenge uno si aspetterebbe un disco sulla falsariga di un Duke Robillard, un Matt Schofield, un Johnny Lang. Ma in effetti, anche se il Blues è presente, sarebbe come dire che i Jethro Tull sono una band di heavy metal? Come dite? Ah, gli hanno dato un Grammy proprio per quello! Strano.

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Se dovessi definire lo stile di Matt Andersen. ottimo musicista canadese mi riferirei a gente come John Hiatt, il primo Joe Cocker, il Clapton influenzato da Delaney & Bonnie, la Band. Tutta musica buona: non per nulla il disco è stato prodotto dall’ex Blasters e Los Lobos, Steve Berlin, registrato ad Halifax, nella Nova Scotia canadese, i fiati (elemento integrante del sound) sono stati aggiunti ad Austin, Texas, mixato a Newbury Park, in California e masterizzato da Hank Williams (giuro, non III o Jr.!), in quel di Nashville, Tennessee, Se dovessi sintetizzare, gran bel disco, canzoni notevoli, splendida voce, ottimi musicisti. E qui, se volete, potete smettere di leggere, ma conoscendomi, sapete che non posso esimermi dall’elaborarne un po’ i contenuti, per cui vediamo cosa stiamo per ascoltare, anche se il consiglio sentito è di acquistare questo album https://www.youtube.com/watch?v=SqZtVvziHJA .

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Dodici brani, tutti firmati dallo stesso Matt Andersen, quasi sempre con diversi parolieri e musicisti, uno migliore dell’altro: oltre alla produzione di Berlin il CD si avvale anche del decisivo lavoro del chitarrista Paul Rigby (quello dei dischi di Neko Case). Questo è l’ottavo album di Andersen, già il precedente Coal Mining Blues, prodotto da Colin Linden, era un bel disco https://www.youtube.com/watch?v=unh4gbcanoI , ma in questo Weightless la qualità migliora ancora, prendete la canzone d’apertura, I Lost My Way, un brano che mescola il meglio di Steve Winwood, John Hiatt e Delbert McClinton, un filo di Joe Cocker, la chitarra lavoratissima di Rigby, una sezione fiati che aggiunge pepe al brano, le vocalist di supporto, guidate da Amy Helm, che donano una patina soul à la Band, un’aria rootsy-rock che ricorda anche le mid-tempo ballads del Marc Cohn più ispirato, tanto per non fare nomi https://www.youtube.com/watch?v=GC8jw0LM_z0 .

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My Last Day prosegue con questo groove rilassato ed avvolgente, anche le tastiere si fanno sentire, il cantato è sempre delizioso, una voce avvolgente che ti culla e ti scuote al contempo, sembra di essere in quel di Memphis per qualche session dei tempi che furono, una meraviglia https://www.youtube.com/watch?v=WKbht9nKFKI . Paul Rigby, ha un sound chitarristico inconsueto ma affascinante e tutti i musicisti sono al servizio delle canzoni e non viceversa, come ogni tanto accade. Anche So Easy, con una bella intro di chitarra acustica, ruota intorno alla voce espressiva di Andersen, qui ancora più suadente ed emozionante, e alla pedal steel incisiva di Rigby, che sorpresa, un cantante che sa esporre i suoi sentimenti attraverso la voce senza dovere urlare come un ossesso https://www.youtube.com/watch?v=tNEC6NVDRd4 . Per Weightless tornano i fiati e le voci femminili di supporto, il suono è tra la Band più soul e gli Stones di Honky Tonk Women, qui Matt lascia andare un po’ di più la voce e l’amico Mike Stevens aggiunge un gagliardo assolo di armonica. Alberta Gold è un’altra gioiosa ode ai grandi cantautori degli anni ’70, mossa e ritmata, con Rigby sempre magico alla chitarra https://www.youtube.com/watch?v=ek1-swOBYfY , Let’s Go To Bed viceversa è un gioiellino elettroacustico, molto intimista, “canadese” se vale come aggettivo, sempre con la voce sugli scudi e la chitarra che lavora di fino sullo sfondo.

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The Fight ha un attacco molto pettyano, acustica e organo in evidenza, Berlin al piano (?!), l’elettrica minacciosa subito in primo piano, ma il brano prende quota quando la voce e la chitarra acquistano grinta e stamina per un crescendo entusiasmante, bellissima canzone. Drift away, nuovamente dolce e tranquilla, potrebbe ricordare l’Hiatt più bucolico, ma è solo l’impressione di chi scrive, potete sostituire con chi volete, solo gente brava mi raccomando! Ottima anche Let You Down, dove un mandolino, le armonie vocali avvolgenti e il lavoro di fino del batterista Geoff Arsenault, potrebbero ricordare ancora la Band, ma anche il sound del primo album di Bruce Hornsby, esatto, così bello. Un po’ di country-rock-blues per City Of Dreams, una fantastica ballata tra soul e Cooder, Between The Lines, con la slide di Rigby perfetta, e la conclusione con l‘errebì rauco di What Will You Leave. Cosa volere di più?

Bruno Conti

Potrebbe Essere Il Miglior Live Del 2014! Beth Hart Joe Bonamassa – Live In Amsterdam

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Beth Hart & Joe Bonamassa – Live In Amsterdam – 2CD/2DVD/Blu-ray Jr/Mascot/Provogue

Presi separatamente sono fantastici. Lui, Joe Bonamassa, è uno dei migliori chitarristi rock (e blues, jazz, funky, come dimostra il recente doppio CD con DVD dei Rock Candy Funk Party di cui avete letto qualche giorno fa), lei, Beth Hart, è il prototipo di come deve essere la perfetta cantante rock (ma con un amore smisurato per soul, jazz e canzone d’autore). Insieme diventano irresistibili e complementari. A chi scrive è capitato di vederli in concerto, ognuno per conto proprio e l’esperienza è stata molto soddisfacente in entrambi i casi. In questo album, nel formato che preferite, il risultato è una delle rare occasioni in cui unendo due talenti si ottiene esattamente la somma delle due personalità: Bonamassa ha già pubblicato “miliardi” di dischi dal vivo (quatto in contemporanea lo scorso novembre), quindi in questa accoppiata, può riservarsi il ruolo “semplicemente” del Chitarrista (anche se con la C Maiuscola), lasciando il proscenio alla Hart, che è il perfetto animale da palcoscenico, esagerata e vibrante, ma anche con una anima malinconica e scura, solare e divertente nel suo interscambio con il pubblico, più “composta” nella  nuova immagine da panterona, con taglio di capelli e colore più sobri, ma sempre pronta a scatenarsi all’impronta https://www.youtube.com/watch?v=BA7cCeSW2Ic .

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I fortunati che erano presenti al Koninklijk (uno scioglilingua) Theater Carré di Amsterdam, il 30 giugno dello scorso, hanno potuto godersi lo spettacolo di persona, per tutti gli altri questo Live, direi, è quasi imperdibile. Veniamo al contenuto. Si parte con lo swing divertente di Them There Eyes, per rompere il ghiaccio, formazione con i fiati aggiunti, primo assolo jazzato per Joe, un brano della Billie Holiday meno sofferta e più disincantata, piacevole ma non memorabile, Beth non potrà mai essere “Lady Day” ma se la cava egregiamente. Sinner’s Prayer è il primo blues che comincia a scaldare l’atmosfera della serata, un vecchio pezzo di Ray Charles, molto virato verso il rock-blues più sanguigno, quasi subito in uno stile che ricorda Humble Pie e Led Zeppelin, novelli Page e Plant (anche se lei è più carina, la voce c’è), Joe è alla slide. Anche Can’t Let Go non molla la presa, sempre modalità slide, ritmi serrati e veloci per il brano di Lucinda Williams, completamente cambiato rispetto all’originale, ma comunque musica ad alto tasso adrenalinico e sempre cantato alla grande. For My Friend ,scritta in origine da Bill Withers, diventa un infuocato brano rock, come avrebbero potuto farlo i citati Humble Pie o gli Zeppelin, molto cadenzato e tirato, e la successiva Close To My Fire non abbassa la tensione, anche se i tempi rallentano e il brano pop degli Slackwax, nato per una pubblicità, diventa quasi uno standard soul degli anni ’60, con la chitarra di Bonamassa che aggiunge solo tocchi di colore https://www.youtube.com/watch?v=HMuz3ANHPj0 .

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Il vero soul esplode con Rhymes, i fiati sincopati e l’organo di Shierbaum alzano la temperatura, lei canta come una novella Etta James (anche se è dura) e Joe fa il Clapton della situazione. L’omaggio a Etta prosegue con una sanguigna Something’s Got A Hold On Me, Beth Hart sfoggia la sua ugola d’oro, a metà tra il R&B nero (sottolineato da fiati e coristi) e la “cattiveria” del rock duro, incarnato dalla solista ispirata di Bonamassa, che dal vivo concede di più rispetto alle versioni di studio. Cambio totale di atmosfera per il brano scritto da Melody Gardot, con Tomorrow Is As Black As Night si passa ad un fumoso locale della New York anni ’60, immaginate una Nina Simone bianca sul palco, con Joe che fa il Kenny Burrell della situazione, con alcune pennellate jazz, prima di rilasciare un assolo blues che è un miracolo di equilibri sonori e potenza, bellissimo. Chocolate Jesus è il classico brano waitsiano che appariva nel primo album della coppia, l’ottimo Don’t Explain (eccellente, come il successore Seesaw, da avere entrambi), Schierbaum alla fisarmonica, il sound è molto rilassato ed europeo, ma l’assolo di Joe è tagliente e cattivo come pochi, e lei canta con impegno ammirevole, confermandosi la migliore voce femminile di stampo rock attualmente in circolazione https://www.youtube.com/watch?v=DPks5XAwfxQ .

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Baddest Blues, con Beth che siede al piano, viene dal repertorio solista della cantante losangelena, una struggente ballata dedicata alla madre, con la band che aggiunge intensità alla voce fantastica della Hart. Intensità che rimane nella successiva Someday After Awhile, il classico slow blues che è lo showcase per l’anima più Claptoniana di Bonamassa, che canta e suona come fosse posseduto dal fantasma del buon Eric, e che assolo, fluido e ricco di classe, alla faccia di quelli che lo considerano un “fracassone”. Presentazione dell’ottima band e poi si riparte con Well Well, un rock’n’soul alla Delaney & Bonnie (grande Joe), le ambientazioni mitteleuropee di If I Tell Tou I Love You, ancora della Gardot, un omaggio ad un’altra Regina, Aretha Franklin, con il soul puro di Seesaw (che voce, ragazzi), un momento raccolto ed emozionante con una Strange Fruit assai sentita da Beth, che è una grande fan della Holiday, e poi di nuovo una fucilata rock-blues con una micidiale Miss Lady che conclude il concerto https://www.youtube.com/watch?v=mHW4YARgcJA .Ma ci sono i bis: I Love You More Than You’ll Ever Know è un blues lento ed intensissimo, scritto da Al Kooper per i Blood, Sweat & Tears, di cui faceva un’ottima versione anche Donny Hathaway, con Beth e Joe che danno il meglio di sé nei rispettivi ruoli di cantante e chitarrista. Nutbush City Limits non la faceva nessuno così bene dai tempi di Ike & Tina Turner, grandiosa e con una energia dirompente  e poi gran finale con l’ennesima versione di I’d Rather Go Blind, una canzone che la Hart ha reso propria nel corso degli anni e che è seconda solo, come versione, a parere di scrive, a quella originale di Etta James, ma di poco. Credo che dischi dal vivo così belli non ne usciranno molti quest’anno, “giustamente” ai Grammy non hanno vinto nulla come coppia, ma Live In Amsterdam sarà difficile da superare (anche se pure il Musicares Tribute a Bruce Springsteen è un gran concerto, entrambi registrati lo scorso anno), per il momento Live del 2014 https://www.youtube.com/watch?v=Jjv9Hmu5Vj0 !

Bruno Conti

“Grande Festa Musicale” Nelle Highlands Scozzesi! Runrig – Party On The Moor

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Runrig – Party On The Moor – Ridge Records –  3 CD  – 2 DVD – BLU-RAY

I Runrig più che un gruppo sono un fenomeno di costume, i loro concerti, sempre affollatissimi, si trasformano in “happenings” che inneggiano all’autonomia, se non all’indipendenza della Scozia. I promotori di tutto sono, a metà degli anni ’70, i fratelli Rory e Calum MacDonald, a cui dopo un breve periodo si aggiunge il cantante “storico” Donnie Munro. L’esordio avviene con Play Gaelic (78), che fin dal titolo mostra tutto lo spirito della formazione impegnata in brani (tradizionali e originali), cantati in “gaelico” su una base di folk elettrico convenzionale e gradevole. Notevoli passi avanti mostra il successivo The Highland Connection (79), dove spicca un’eccellente versione di uno dei tanti inni “non ufficiali” della Scozia (ufficialmente non ne ha nessuno) Loch Lomond.

La svolta artistica avviene con Recovery (81), con il materiale cantato quasi tutto in gaelico, mentre nei seguenti Heartland (85) e The Cutter And The Clan (87), propongono un rock epico e solenne (con reminiscenze dei mai dimenticati Big Country). Un concerto come spalla degli U2 a Dublino, li porta ad accasarsi alla Chrysalis Records, debuttando con Searchlight (89), a cui faranno seguire  The Big Wheel (91), Amazing Things (93), lo splendido live Transmitting Live (94) un poderoso esempio di rock da stadio (con le cornamuse che mantengono vivo il legame con la tradizione), Mara (95) e Beat The Drum (98). In Search Of Angels (99) vede per la prima volta assente Donnie Munro (dedicatosi alla politica), che viene sostituito da Bruce Guthro (un canadese che canta in gaelico, è il massimo!, comunque bravo), portando la band ad un calo d’ispirazione, certificato dai seguenti lavori The Stamping Ground (01), Proterra (03), Everything You See (07), intervallati da un altro eccellente album dal vivo Day Of Days (04), per il 30° anniversario di carriera tenuto nella magnifica “location” dello Sturling Castle di Edimburgo.

Il 10 Agosto 2013 una folla di dimensioni bibliche si riunisce nella pianura di Moor per festeggiare i quattro decenni di carriera di una delle band più longeve del folk-rock britannico  , e all’imbrunire vede salire sul palco Bruce Guthro voce e chitarra acustica, Rory MacDonald voce e basso, Iain Bayne alla batteria, Malcom Jones alla chitarra e fisarmonica, Brian Hurren alle tastiere e Calum MacDonald (autore dei testi con il fratello Rory) voce e percussioni, con l’apporto importante del violinista Duncan Chisholm e del tastierista Peter Wishart. Il sottoscritto, che li segue passo dopo passo sin dagli esordi (guardando il concerto in DVD), trova che il sestetto ha ancora il carisma e soprattutto forza ed energia da vendere, in quanto sul palco non si risparmiano per niente, anche perché con il pubblico di “fans” che si ritrovano, non sarebbe possibile comportarsi diversamente.

Devo anche riconoscere che non mi aspettavo un sound cosi “hard” da parte loro, che tende forse ad allontanarsi un po’ troppo dal folk, ma è anche indubbio che sulla scena ci sono un batterista e un percussionista, rispettivamente Iain Bayne e Calum MacDonald, che con il fratello Rory bassista costituisce la parte ritmica del gruppo, trovando nel “vocalist” Bruce Guthro (che come detto ha rilevato Donnie Munro), il terminale più idoneo “on stage” per tenere in mano le redini del gruppo. Ma se c’è qualcuno che stupisce sul palco è il chitarrista Malcom Jones, che suona di tutto, dalle cornamuse elettriche alla fisarmonica, assecondato dal più giovane della compagnia Brian Hurren, che suona sempre in piedi, saltellando da una tastiera all’altra, diventando complementare al suono di Malcom La festa inizia con un set di rock duro che parte con Only The Brave City Of Lights, Road Trip, Big Sky e Maymorning, passando per la celebre Dance Called America, ad affascinanti pezzi cantati in gaelico quali Siol Ghoraidh, Faileas Air Airidh  (con Julie Fowlis, nuova stella del folk scozzese che canta in gaelico) e An Sabhal Aig Neill. Arriva il momento delle dolcissime ballate The Engine Room, Book Of Golden Stories e Every River, seguite dalle rumorose The Summer Walkers e Dust, per poi chiudere la prima parte con l’apprezzatissima e curiosa scorribanda di un quartetto di suonatori di tamburo (Rory, Calum, Iain e Malcom), per il tripudio del pubblico. I Runrig  ritornano sul palco per la seconda parte con la presenza di Donnie Munro, che canta alla sua maniera The Cutter, Edge Of The World e una commovente An Ubhal As Airde (indovinate in quale lingua?), per poi passare il testimone al buon Guthro, nella trascinante Rocket To The Moon e nelle tambureggianti Alba e Pride Of The Summer. Una banda di cornamuse (la Inverness Royal British Legion Pipe Band) introduce Skye con il duetto vocale Bruce/Rory e lo strepitoso finale strumentale, mentre le struggenti Going Home, Hearts Of Olden Glory e On The Edge vedono come ospite il bravissimo violinista Duncan Chisholm. Richiamati sul palco a furor di popolo i Runrig eseguono Protect And Survive (il loro motivo più ecologista), Clash Of The Ash, la meravigliosa And We’ll Sing, con la chiusura affidata al classico “traditional” Loch Lomond, che il gruppo propone nella sua particolarissima versione, che accende i cuori di tutti i presenti fino in fondo.

La musica del sestetto scozzese risulta oggi più immediata e adatta ai gusti di un pubblico più vasto e cosmopolita, essendo meno legata alle radici folk che ne hanno caratterizzato gli esordi, e per il pubblico (tedeschi, danesi, neozelandesi e scozzesi) che sfollava sulle note dolcissime della famosa  Travellers, era grande la sensazione di aver assistito a qualcosa di speciale, non solo nella rituale celebrazione, ma di aver condiviso il viaggio di una grande band. *NDT:  i fortunati che inseriranno il DVD nel lettore (sorseggiando un buon whisky scozzese), noteranno che fra le persone dall’entusiasmo incontenibile, si possono vedere bambini in tenera età (come la mia nipotina), e arzille ultra ottantenni (come le mie zie), a dimostrazione che i valori e l’appartenenza di un popolo passano anche attraverso la musica.

Tino Montanari