Piccoli Fenomeni, Non Paranormali Ma Chitarristici! Ray Goren – Live From Lucy’s 51

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Ray Goren & The Generation Blues Experience – Live From Lucy’s 51 – R Music

So che molti di voi se lo staranno chiedendo, sta per parlarci di un altro giovane “fenomeno” della chitarra? Ebbene sì: per citarne solo alcuni dei più famosi, dopo Joe Bonamassa che a 11 anni suonava sul palco con BB King, Kenny Wayne Shepherd che iniziava a suonare all’età di 7 anni, “fulminato” da Stevie Ray Vaughan e saliva sui palchi a 13 con Bryan Lee, tutti “dilettanti” in confronto a Eric Steckel che pubblicava il suo primo album dal vivo a 12 anni, per non parlare di Jonny Lang, Monster Mike Welch, Little Jimmy King e altri che non citiamo per brevità, che si sono succeduti nel corso degli anni, sin da quando Shuggie Otis, nel 1969, pubblicava la sua Kooper Session con Al Kooper o, più o meno nello stesso periodo Neal Schon entrava a 15 anni nella band dei Santana, senza dimenticare Randy California o Paul Kossoff, bravissimi fin da giovani.

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Questo per dire che i cosiddetti “fenomeni”, se sono veramente bravi, possono anche arrivare al successo e costruirsi una carriera più che rispettabile. Le premesse sembrano molto incoraggianti anche per Ray Goren, che a tredici anni ha già pubblicato un disco in studio e questo Live At Lucy’s 51. Bobby “Hurricane” Spencer, un sassofonista che nei suoi 50 anni di carriera ha suonato con Etta James, Otis Redding e B.B. King lo ha definito “un giovane Mozart del Blues” e uno dei suoi compagni nella Generation Blues Experience, il 78 enne chitarrista Jamie Powell, suo attuale mentore, ha detto “Credevate che Stevie Ray Vaughan fosse “cattivo”? Dovete sentire questo ragazzino per avere una idea di cosa voglia dire essere “cattivo”. (sarebbe “bad” che in inglese fa un altro effetto)!

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Ok, si tratta di persone del suo entourage, ma anche molti musicisti e giornalisti americani hanno espresso ammirazione per questo giovane maestro della chitarra. L’ultima notizia in ordine di tempo è che Goren è in studio a registrare un nuovo EP con Eddie Kramer (esatto, proprio di quello di Jimi!) https://www.youtube.com/watch?v=WuCric8PrV0 . Saranno tutti pirla costoro? Non credo. Quindi dov’è la fregatura? Perché i suoi dischi non sono in cima alle classifiche, almeno di blues o rock-blues, e nessuno ne ha mai sentito parlare in questa era di internet in cui tutto si sa in un battibaleno. Sarà forse per la crisi dell’industria discografica? https://www.youtube.com/watch?v=e3UuDvlWw2k  Ma non vorrei caricarvi con troppi quesiti, veniamo a questo CD dal vivo, registrato in concerto lo scorso giugno del 2013 in quel di Toluca Lake, California e già in circolazione, faticosa, da qualche tempo. Intanto uno dei difetti ve lo dico subito, è lo stesso di tutti i ragazzini che suonano il blues da adolescenti, come quelli citati sopra anche Goren ha una voce, che per quanta grinta ci metta, sembra sempre quella di un concorrente delle trasmissioni della Clerici o di Gerry Scotti, sottile e in via di formazione, non adatta a parlare di Going Down come tenta di fare nella cover del brano di Don Nix che apre questo disco, però quando inizia a suonare la chitarra, rimani stupefatto, il ragazzino ha una tecnica mostruosa, ma ha anche feeling, inventiva, senso del blues, non è solo uno “sborone” messo lì per fare il fenomeno da baraccone, si sente che ama la musica che suona https://www.youtube.com/watch?v=arsq7dmMiKs .

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Nella successiva When You Leave, Don’t Take Nothin’ oltre quindici minuti di pura magia sonora, quando prende il centro della scena per un assolo incredibile, vedi scorrere davanti ai tuoi occhi i fantasmi benevoli di Jimi Hendrix e Stevie Ray Vaughan https://www.youtube.com/watch?v=46RquEvhCmQ  (vi giuro su mia mamma, che non c’è più, che è veramente così bravo)! Tra l’altro, saggiamente, nel resto del disco, cantano i vecchi marpioni della sua band, nel particolare, in questo pezzo, il secondo chitarrista Jamie Powell. Quando finisce il brano siete sfiniti ma soddisfatti, ma come suona questo! Un mostro! Il pubblico non è numeroso, si capisce dalla registrazione, ma sono tutti impegnati a raccogliere le loro mascelle che sono cadute a terra per lo stupore. In While You Were Steppin’Out, l’unico brano sui 5 minuti, canta una certa Lady GG, che tira la volata a Ray che in questo brano si “limita” ad un assolo che farebbe la gioia  di Clapton o BB King.

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Poi, in una chilometrica Stormy Monday, uno slow blues da sballo che è ancora il festival della chitarra, c’è spazio anche per il chitarrista ritmico della band, tale Terry De Rouen, il nostro amico si ostina a voler cantare ma poi viene sostituito al microfono da Powell e si può occupare con notevole profitto della sua Fender, con una serie di soli che definire notevoli è un eufemismo https://www.youtube.com/watch?v=9aqhYILqf1I . Stesso copione nell’altrettanto lunga Ain’t Nobody Business But My Own (come vedete il repertorio è tutto sul blues classico, d’altronde lo si evince anche dal nome della band, con quel tocco hendrixiano), Ray parte subito con la chitarra, canta, poco, ma con maggiore profitto, anche se qualche nota scappa, ma non quando innesta la chitarra, che viene esplorata su e giù sul manico con una minuzia e una perfezione sonora ammirabili. E la conclusione è affidata a Every Day I Have The Blues, dove l’armonicista Sammy Lee, oltre a regalarci un assolo al suo strumento, canta con passione e classe, il resto lo fa ancora una volta la solista di Ray Goren. Vedremo fra quattro o cinque anni, già ora, se amate la chitarra e il blues, nell’ordine, non lasciatevi sfuggire questo dischetto, il giovane merita davvero!

Bruno Conti   

Questa Volta “Buon Sangue Mente”. Tammy Van Zant – Freebird Child

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Tammy Van Zant – Freebird Child – Dixie Rose Records

Quando Ronnie Van Zant moriva, nell’ottobre 1977, la sua figlia primogenita Tammy aveva 10 anni. Oltre a tutto il babbo si era diviso dalla prima moglie Nadine, quando la bambina aveva due anni, quindi non penso che ricordasse molto di questo padre poco conosciuto. Ma crescendo, nel corso degli anni, si deve essere resa conto che si era trattato di una icona della canzone americana, voce solista dei Lynyrd Skynyrd, una delle più popolari band a stelle e strisce (nel vero senso del termine).

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Come ha raccontato lei stessa in una intervista che circola on line, quando aveva vent’anni o giù di lì venne ricoverata in ospedale per dei calcoli renali e mentre il medico le somministrava del Valium per i dolori, alla radio iniziò a suonare Freebird https://www.youtube.com/watch?v=CkTQUtx818w e pensando che fosse un segno del destino, il padre che veniva in suo soccorso, pensò di dirlo al dottore, il quale, non sapendo che era effettivamente la figlia di cotanto padre, si preoccupò che non le avessero dato troppi tranquillanti. Che c’entra tutto questo, vi chiederete? Niente: come avrebbe detto il Sani Gesualdi di Frassica era solo un “nanetto” perché, purtroppo, sul disco non c’è molto da dire. O meglio ci sarebbe, ma trattandosi di una signora e comunque per il rispetto che va ai musicisti che realizzano un disco, mi trattengo.

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Il disco, Freebird Child, ha tra l’altro avuto una lunga gestazione: tre canzoni erano già uscite, con lo stesso titolo, come un EP, nel lontano 2007, e anche il CD era circolato in modo indipendente negli scorsi anni, anche se non è dato sapere la data, in quanto nel libretto del album non è riportato nulla https://www.youtube.com/watch?v=JecOXY5bx1Y . O meglio ci sono i testi di alcune canzoni, autobiografiche, sia dedicate al padre, quanto alla nonna, Sister Van Zant, basate su sentimenti semplici e alla portata di tutti, come l’amore per la famiglia, i figli e la musica, ma non particolarmente memorabili, spesso melensi e zuccherosi. Le musiche le firma Robert White Johnson (che non è bravo come l’altro Robert Johnson, quello black vero), collaboratore di Johnny Van Zant e dei Van Zant Brothers, che suona anche parecchi strumenti e cura la produzione, con un sound pure piacevole, chitarristico e sudista, a tratti, non in tutti i pezzi, ma la voce è impresentabile. La nostra amica, Tammy Michelle, ha 47 anni, ma la voce di una ragazzina (beata lei), molto sottile e leggera, e forse si capisce perché non abbia intrapreso prima la carriera della cantante, gli arrangiamenti, a tratti sono insopportabili, alternando canzoncine come It’s Gonna Be Alright dove chitarre e tastiere sudiste cercano di farsi largo in un testo che parla di occasioni perdute, simple man,sweet home, Tuesday’s gone, Billy, Leon, Steve & Allen e padri ingombranti, e questa è una delle migliori, diciamo non delle peggiori.

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Anche Stone Washed Genes ha un bel riff sudista, piano e organo d’ordinanza, coretti ad hoc, un bel groove, persino soli di chitarra a ripetizione, peccato per la voce. E Freebird Child è una ballata che si rifà quasi sfacciatamente all’originale, l’arrangiamento è pacchiano e il babbo era un’altra cosa, i musicisti sono onesti professionisti e se la cavano https://www.youtube.com/watch?v=CqwvpzKHLc0 , infatti il disco che per i contenuti meriterebbe una stelletta per meriti acquisiti ne otterrebbe due. Stendiamo un velo pietoso su More Of Heaven, Daddy Can You See Me (che essendo scritta da Anita Cochran non parla neppure di “quel babbo”), due ballatone lacrimose e le cover di Lean On Me di Bill Withers e Can’t Buy Me Love dei Beatles, massacrate in modo ignobile. Discrete Surviving On A Wing And A Prayer e Your Many Vices, ma a voler essere di manica larga. Super zuccherosa anche la country ballad Dixie Rose, in totale troppo poco per una che porta con quel cognome, gli zii, Donnie e Johnny, ringraziati nelle note, forse non erano al livello del fratello Ronnie ma, in confronto…, quindi questa volta “buon sangue mente”!

Bruno Conti

Signori, Uno Dei “Futuri” Del Blues Elettrico! Jarekus Singleton – Refuse To Lose

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Jarekus Singleton – Refuse To Lose – Alligator/Ird

Michael Burks (che è stato uno dei suoi mentori) e Joe Louis Walker (che peraltro autorizzo a “toccarsi”, con gesto scaramantico) sono sicuramente i due nomi che per primi si affacciano alla mente ascoltando questo Refuse To Lose, secondo disco di Jarekus Singleton e debutto per la Alligator, il cui boss, Bruce Iglauer, produce l’album. Tra l’altro anche i, diciamo, punti di riferimento di Jarekus, sono (erano) sotto contratto per l’etichetta dell’alligatore. Due, Walker e Burks che anche a livello vocale non scherzavano, personaggi poco riscontrabili pure tra gli artisti neri, in cui canto e destrezza canterina erano più o meno allo stesso livello. Singleton, nativo di Clinton, Mississippi, è uno di quei rari casi di bluesmen giovani, esistono, il soggetto in questione non ha ancora compiuto trent’anni e per chi suona il blues, leggenda vuole, dovrebbe trovarsi ancora nel suo trentennio di apprendistato e gavetta on the road, di solito funziona cosi, poi, verso i 40-50, se hai fortuna, ti fanno incidere il primo disco (ci sono ovviamente delle eccezioni, ma spesso funziona così).

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Infatti se, come nel presente caso, la tua qualità è sopra la media difficilmente puoi sfuggire ai talent scout di fiuto e Iglauer, basta scorrere la lista dei musicisti che hanno inciso per la sua casa discografica, fiuto ne ha parecchio. Bassista e cantante di gospel sin quasi da bambino, poi tramite la radio ha scoperto l’hip hop e il rap, ma, per una volta, dopo essere passato alla chitarra, lo zio lo porta ad un club di blues, dove il giovane Jarekus ascolta I’ll Play The Blues For You di Albert King ed è amore a prima vista (beh, visto quanto appena detto, facciamo seconda): poi arrivano le scoperte di Buddy Guy, Freddie King,  Stevie Ray Vaughan, Jimi Hendrix https://www.youtube.com/watch?v=Du8twCEOky4 e Michael “Iron Man” Burks, che lo prende sotto la sua ala protettiva.

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Senza raccontarvi la sua vicenda completa, tutto il Singleton minuto per minuto, il nostro amico si fa la sua gavetta tipica per locali in giro per l’America, pubblica a livello autogestito il suo primo disco, Heartfelt, nel 2011, viene “scoperto” da Iglauer a Memphis nel 2013, una verifica un paio di settimane dopo a Jackson, Mississippi, ed arriva la firma del contratto per l’artista, che nel frattempo ha vinto vari premi a livello locale, ed è stato indicato dalla rivista Living Blues come uno delle “Great Black Hopes”, se mi passate il termine https://www.youtube.com/watch?v=hEKZPmo-9iA . E così ci troviamo tra le mani un musicista che ama la grande tradizione blues, ma vuole anche innovare, con forti tratti rock, accenni hip-hop e rap, usati con classe e giudizio non temete, funky e pop, un artista eclettico che miscela i vari stili, si scrive le canzoni, suona alla grande la sua chitarra (con i buchi, come il groviera, Clevenger, “che cacchio di marca è?” ) con una grinta, una passione, una tecnica, che sono la somma di tutti i nomi citati https://www.youtube.com/watch?v=FIG0UXSMTxU .

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Quando parte il primo brano, I Refuse To Lose, non si può fare a meno di dire, “Cazzo, ma questo suona!”, scusate per il suona, se non ci fossero già stati Hendrix, Stevie Ray Vaughan e tutti gli altri citati prima, avrebbe potuto dire, come Baudo per la televisione, il blues (rock) l’ho inventato io! Facezie a parte, la chitarra viaggia come una cippa lippa, la sua band ci dà dentro alla grande, lui ha nel modo di cantare quel leggero “talking” del rap, ma che voce, ragazzi, ed è solo il primo brano. Purposely ha un incipit che ricorda moltissimo I’m So Glad dei Cream, poi entrano l’organo di James Salone ed il groove funky della ritmica di Sterling e Blackmon, lui canta come un incrocio tra i due citati all’inizio, quindi benissimo e spara dei soli taglienti e tecnicamente ineccepibili, con scale velocissime, svisate improvvise e tutto l’armamentario del grande chitarrista https://www.youtube.com/watch?v=ZBxnhkULszQ . Gonna Let Go sta tra soul e blues, e ci sta benissimo, ritmica e solista alternate e usate alla perfezione, Crime Scene è uno slow blues cadenzato e trascinante con grande controllo della chitarra, che però ogni tanto sfugge e guizza https://www.youtube.com/watch?v=x0ya2v1bSOY , per diventare trascinante in Keep Pushin’, una sorta di All Along The Watchtower part 2, mentre i testi, autobiografici, parlano della sua adolescenza “pericolosa”, da perfetto street singer.

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Ottime anche Suspicion, ben sostenuta dall’organo e Hell, dal testo dove Singleton parla in terza persona, come fosse il fantasma di Stevie Ray Vaughan e narrasse la propria storia, in uno slow blues splendido e lancinante. Hero, vagamente funky e rappata (ma vagamente), potrebbe passare in qualche radio “illuminata”, High Minded,è raffinata e cruda al tempo stesso. Sorry è un altro blues da torcibudella, molto vicino al mood di Burks e Walker, mentre Blame Game, con Brandon Santini all’armonica e Robert “Nighthawk” Tooms al piano, è l’unico blues canonico che potrebbe venire da Clinton, Mississippi, prima di lasciarci con la poderosa Come Wit Me, un altro blues-rock ad alto potenziale chitarristico.

Bruno Conti

Grande Disco O Solenne Ciofeca? Mah… Neil Young – A Letter Home

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*NDB Come avrete notato, spesso nel Blog i dischi “più  importanti” vengono affidati anche agli altri collaboratori e non solo recensiti dal sottoscritto, magari li propongo io o mi vengono proposti, in un processo democratico che non sempre viene attuato in altre realtà virtuali o della carta stampata. Nel caso in questione, sapendo della passione di Marco per il “Bisonte” gli ho chiesto se voleva parlare di questo A Letter Home e quello che state per leggere è il risultato delle sue riflessioni. Mi ha anche chiesto se volevo fare una controrecensione, ma non mi sembra il caso, concordo anch’io con la sua visione, il suono sembra venire dalla cantina dell’appartamento sottostante o essere una field recording del vecchio John Lomax, o magari un bootleg? Qualcuno ne è stato entusiasta, altri molto meno, come si usa dire, ai posteri l’ardua sentenza. Buona lettura.

Bruno

Neil Young – A Letter Home – Third Man Records LP

Neil Young non perde occasione di mostrare al mondo la sua incoerenza.

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Prima ci frantuma i cosiddetti con il trip del sound, asserendo a più riprese che il CD suona  malissimo e che se fosse per lui lo eliminerebbe, arrivando a pubblicare il primo volume dei suoi Archivi (e fino ad oggi anche l’unico) inizialmente solo in DVD Audio e Blu Ray Audio, acconsentendo solo in seguito (probabilmente a causa di pressioni da parte della sua casa discografica) a farne uscire anche una versione in CD, ma con una confezione così spartana rispetto a quella sontuosa in DVD e Blu Ray da scoraggiarne quasi l’acquisto. Inoltre, in tempi più recenti ha iniziato una crociata contro la musica liquida dei vari riproduttori MP3, IPod, MP4, ecc., arrivando a mettere a punto un nuovo aggeggio, denominato Pono, che a suo dire dovrebbe far ascoltare la musica come nessun supporto era mai riuscito prima (anche se la vedo dura che riesca a prendere piede, soprattutto se contrapposto al colosso Apple). Quindi, dopo tutte queste battaglie a favore di un suono migliore (magari non condivisibili ma rispettabili), che c’è di meglio di uscire con un disco nuovo inciso volutamente…male?

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Andiamo con ordine: si sapeva già da qualche mese che Neil aveva inciso un album intitolato A Letter Home per la Third Man Records di Jack White (un altro tipo “stranino”), un disco composto esclusivamente di covers di altri cantautori, scelte di persona da Young stesso, e si vociferava di un’uscita tra la primavera e l’estate. Poi, come un fulmine a ciel sereno, Neil ha messo sul mercato il disco lo scorso 19 Aprile in concomitanza del Record Store Day, senza alcun annuncio e solo in vinile (il CD è in uscita a fine Maggio, insieme alla solita Deluxe Version che però costerà un botto), rimandando a data da destinarsi (che con Neil potrebbe voler dire mai) ciò che doveva uscire in origine per quella data, cioè un box con alcuni dei suoi primi album, tra i quali la tanto attesa ristampa di Time Fades Away, fuori catalogo da una vita (e mai stampato in CD).

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La particolarità di questo album, oltre ad essere, come già detto. composto esclusivamente da brani di altri autori, è di vedere all’opera solo Young alla voce, chitarra ed armonica (con White ad aiutarlo in un paio di pezzi al piano ed alla chitarra), ma soprattutto di essere stato inciso in modo da suonare come un vecchio disco folk degli anni trenta.

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Infatti l’album è stato registrato da Young all’interno di un Voice-O-Graph, una specie di cabina telefonica che veniva usata nell’anteguerra per incidere gli LP di musica folk o blues https://www.youtube.com/watch?v=vlFysAciLrU : il risultato è un suono gracchiante, lontano, quasi amatoriale, un vero e proprio schiaffo alle tecnologie moderne da parte di Young e White (Neil l’ha definita l’esperienza più low-fi della sua vita). Ma la domanda che tutti state per farmi è…com’è il disco?

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Beh, dovrei dire che con una lista simile di canzoni fare un album brutto è impossibile: dopo una introduzione parlata nella quale Neil si rivolge idealmente a sua madre, dedicandole il disco, scorrono una dopo l’altra Changes di Phil Ochs, Girl From The North Country di Bob Dylan https://www.youtube.com/watch?v=6cPfI9c_Dk0 , Crazy e On The Road Again di Willie Nelson, Early Mornin’ Rain e If You Could Read My Mind di Gordon Lightfoot https://www.youtube.com/watch?v=rlsagC-y-hc , Needle Of Death di Bert Jansch https://www.youtube.com/watch?v=6H47jI6xanA , Since I Met You Baby di Ivory Joe Hunter, My Hometown di Bruce Springsteen (e qui si poteva scegliere meglio), Reason To Believe di Tim Hardin e I Wonder If I Care As Much degli Everly Brothers.

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Quindi una bella serie di capolavori, che in mano ad uno come Neil Young dovrebbero brillare di nuova luce…beh, non proprio. Intanto, il suono a me dopo due canzoni ha già rotto le palle: non si buttano nel cesso anni e anni di progressi tecnologici per una voglia un po’ snob di suoni vintage, a meno di non far pagare il tutto una cifra irrisoria (e non, come nel caso del Deluxe Box, più di cento Euro), ma quello che più mi lascia basito è la performance di Neil. Troppo scolastiche le interpretazioni, troppo superficiali e con poco feeling da parte del canadese (e questa è una notizia, dato che Young è al 50% feeling), che in alcuni momenti sembra quasi titubante e poco convinto di quello che sta facendo. E poi, ripeto, il suono non lo aiuta.

I brani migliori sono proprio quelli dove Neil sembra più convinto: il pezzo di Jansch innanzitutto, forse la più riuscita del lotto, ma anche quelli di Dylan ed Ochs non sono male, oppure il blues di Hunter, al quale l’atmosfera vintage non può che giovare. My Hometown era già noiosa nella versione del Boss (e poi in questo brano il suono è davvero terribile), il pezzo degli Everly sembra eseguito da due ubriachi (è l’unico infatti in cui canta anche White), Reason To Believe è accompagnata dal piano ma non decolla, On The Road Again impallidisce a confronto delle mille versioni proposte da Willie Nelson nella sua carriera.

E le altre non risollevano di certo le sorti del disco, che sembra più un esercizio fine a sé stesso che una seria proposta discografica.

Il Super Box conterrà due brani in più, una take alternata di Crazy ed una versione di Blowin’ In The Wind di Dylan, ma visto il costo spropositato e la qualità del suono non me la sento di consigliarlo.

In definitiva, per rispondere all’interrogativo del titolo, A Letter Home non è né un grande disco né una ciofeca, ma ad ogni modo lo vedo come un esperimento poco riuscito ed oltremodo snob.

Marco Verdi

“Christian Rock” Dalla Carolina Del Sud, Ma Niente Paura, E’ Musica Per Tutti! Needtobreathe – Rivers In The Wasteland

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Needtobreathe – Rivers In The Wasteland – Atlantic Records

Per chi non li conoscesse i Needtobreathe sono un trio della Carolina Del Sud (dopo l’abbandono del batterista Joe Stillwell) formato dai fratelli Bear e Bo Rinehart, con l’aggiunta di Seth Bolt e sono in giro da parecchi anni, all’incirca una decade, proponendo il loro classico rock americano con testi a sfondo religioso, con forti analogie con la Band di Robbie Robertson, i Counting Crows e la meno nota e sottovalutata Ralph Roddenbery Band. Esordiscono discograficamente con Daylight (06) e subito incontrano i favori del pubblico con il seguente The Heat (07), ma il salto definitivo arriva con The Outsiders (09) che vende più di mezzo milione di copie, ma soprattutto con la conferma di The Reckoning (11), con una copertina che richiama i primi dischi della Band, e alcune canzoni come la splendida Able.

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I Needtobreathe (fra un sermone e una preghiera) si riuniscono negli studi di Charleston, e con la multi produzione di Joe Chiccarelli, Kevin Augunas, Ed Cash e Jerrod Bettis danno corpo a undici canzoni che potrebbero diventare molto popolari, un sound moderno, diretto e immediato, con largo uso di una importante sezione ritmica (Paul Mabury e Randall Harris), e una sezione fiati con Jason Freese al sax, Ronnie Blake alla tromba e Francisco Torres al trombone.

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Wasteland è il modo perfetto per iniziare questo album, una ballata lenta, tutta giocata sulla bella voce di Bear https://www.youtube.com/watch?v=Se2C3v1a7OY , seguita dalla divertente State I’m In, dal ritornello orecchiabile in stile Beach Boys, mentre con le chitarre distorte di Feet, Dont Fail Me Now, si viaggia dalle parti degli ZZ Top https://www.youtube.com/watch?v=2nXwMQbRLas . Con Oh, Carolina (il ricordo di un lontano amore) il piedino non riesce a stare fermo, mentre splendide e commoventi sono Difference Maker https://www.youtube.com/watch?v=L2LtB9KLf98  e Rise Again (dai profondi testi “cristiani”). Il folk- rock di The Heart è trascinante https://www.youtube.com/watch?v=Z5Yo99VjE2o , come pure il rock accelerato di Where The Money Is, mentre Multiplied dall’intro acustica si rivela un’altra bella canzone, per poi chiudere con la brillante e trascinante Brother, e una dolcissima ballata pianistica come More Heart, Less Attack, che segna la via (spirituale) della band.

Negli ultimi dieci anni i Needtobreathe hanno tracciato un percorso proprio nell’ambito del rock alternativo, e ascoltando Rivers In The Wasteland le loro canzoni variano nel soggetto e nello stile, ma non nella qualità, dimostrando di non aver paura di esprimere la propria fede in Dio, e spiace che fuori dai confini statunitensi si senta parlare ben poco di questo gruppo. Per quel che mi riguarda, che Dio li abbia in gloria. Amen!

Tino Montanari

Forse Piacerà Anche A Lui! Bob Dylan In The 80s: Volume One

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VV.AA. –Bob Dylan In The 80s: Volume One – ATO Records CD

Nel panorama musicale mondiale i tributi a Bob Dylan occupano una categoria a parte: infatti, nel corso degli anni, ne sono usciti una quantità interminabile, e non c’è praticamente genere musicale che non abbia reso omaggio al grande Bob. Ci sono stati tributi country, bluegrass, gospel, reggae, strumentali, altri composti rigorosamente da musicisti indie, altri ancora pieni di stars (come il concertone del 1992 al Madison Square Garden, ristampato da poco, ancora oggi la migliore opera dedicata a His Bobness), ma, almeno a mia memoria (e qui chiamo in causa il titolare del blog per eventualmente smentirmi), mai nessuno aveva omaggiato un determinato periodo della carriera. Ci pensa ora la ATO, piccola etichetta di New York fondata da Dave Matthews, che pubblica questo Bob Dylan In The 80s, divertente dischetto che prende in esame proprio la decade più bistrattata e controversa di Bob, un periodo pieno di dischi assemblati male e suonati svogliatamente (ma anche un capolavoro come Oh, Mercy ed un grande disco come Infidels, dal quale però il meglio era stato lasciato fuori), nei quali il nostro pareva aver completamente perso l’ispirazione.

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In quei dischi però non mancavano alcuni ottimi brani, in qualche caso anche dei grandi brani (penso a Brownsville Girl, ma anche Every Grain Of Sand), ed è con in mente lo scopo di mettere in luce il fatto che anche il Dylan degli ottanta qualcosa di buono ha fatto che nasce questo disco. L’album mette in fila una bella serie di outsiders, musicisti assolutamente sconosciuti o noti soltanto a noi carbonari (tranne un caso), che però mostrano una bella dose di inventiva e buone doti interpretative, e portano a termine un CD fresco e divertente, che, come ho detto nel titolo, potrebbe piacere anche a Bob stesso, sempre ben disposto quando si tratta di rivoltare le sue canzoni come un calzino. Certo, qua non ci sono brani superiori agli originali (secondo me solo Hendrix, talvolta i Byrds e pochi altri sono riusciti a superare il Maestro), non manca qualche ciofeca, ma tutto sommato il CD, 17 canzoni in tutto, si lascia ascoltare con facilità e risulta godibile https://www.youtube.com/watch?v=CsiVW7I0vCY .

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Apre Langhorne Slim And The Law (poco noti, ma sono in giro da più di dieci anni), con una versione tra country, bluegrass e punk di Got My Mind Made Up, decisamente riuscita e gradevole. I Built To Spill nei primi anni novanta sembravano una delle next big things, ma poi si sono un po’ persi: la loro Jokerman mantiene intatta la melodia originale ma la ricopre di una patina pop che le dà una nuova luce https://www.youtube.com/watch?v=F1t0pzqad28 , anche se vocalmente Bob aveva mille volte il carisma di Doug Martsch.

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Reggie Watts ce la mette tutta per rovinare il capolavoro Brownsville Girl, con una versione techno-reggae-acapella veramente orripilante; meno male che c’è Craig Finn a porgerci una versione molto rigorosa ma anche decisamente riuscita dell’intensa Sweetheart Like You: Craig, voce alla Elvis Costello, ci mette l’anima ed il brano è uno dei più riusciti del tributo. Mi piacciono moltissimo anche Ivan & Alyosha (ma chi sono?), che interpretano dylaneggiando non poco la splendida You Changed My Life, una delle migliori outtakes di Shot Of Love: forse la mia versione preferita del CD, o almeno una delle prime tre.

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I Deer Tick sono una delle band più “note” del disco: Night After Night non è un gran pezzo, ma il gruppo del Rhode Island si salva con un arrangiamento solare e corale; la bravissima Dawn Landes duetta da par suo con Bonnie “Prince” Billy (cioè Will Oldham) in una versione acustica e spoglia (quindi simile all’originale) di Dark Eyes, l’unico brano di Empire Burlesque che scampò al terribile missaggio anni ottanta di Arthur Baker. Waiting To Get Beat è il brano meno noto della raccolta, in quanto è l’unico tuttora inedito: i Tea Leaf Green ne fanno una versione un po’ fuori di testa, con troppi sintetizzatori, peccato perché il brano non sembrava male, ma così non va. Slash è il musicista indubbiamente più noto del CD: l’ex chitarrista dei Guns’n’Roses accompagna Aaron Freeman in una Wiggle Wiggle semplicemente da vomitare, una vera schifezza. (Piccola curiosità: il riccioluto chitarrista suonava anche nell’originale di Bob, ma diciamo che anche quella versione non passerà alla storia).

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Elvis Perkins è bravino, e la sua Congratulations (l’unico pezzo dei Traveling Wilburys) mantiene intatto lo spirito malinconico dell’originale; Covenant Woman è una delle migliori ballate del periodo religioso di Dylan, e Hannah Cohen (non conosco) ne fornisce una versione profonda, pianistica, drammatica, quasi sullo stile di Laura Nyro (ma anche con qualche somiglianza con Regina Spektor). Veramente brava.

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Every Grain Of Sand è uno dei dieci brani migliori di sempre di Bob, almeno per il sottoscritto, e quindi volerei in New Jersey solo per andare da Marco Benevento (chi?) a dirgliene quattro per come l’ha ridotta dopo il suo esperimento a base di tastiere bislacche e sintetizzatori. Meno male che ci sono gli Yellowbirds (e non ho detto i Rolling Stones, ho detto Yellowbirds) a regalarci una bella Series Of Dreams, un brano inarrivabile per chiunque non sia Dylan, ma qui riproposto molto bene, tenendo presente anche l’arrangiamento originale di Daniel Lanois, ma con alcune trovate particolari, come il riff di organo qui rifatto con una tromba: un’altra delle mie Top Three. I Blitzen Trapper (??) non mi entusiasmano con Unbelievable, troppo finta e tecnologica, mentre i Lucius (???) fanno un po’ meglio con la roccata When The Night Comes Falling From The Sky, che stenta a decollare ma poi si mette sui binari giusti.

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Chiudono l’album il bravissimo Glen Hansard, bella voce e grande feeling nell’emozionante Pressing On, uno dei brani gospel più belli di Dylan (ecco la mia terza tra le prime tre) ed il semisconosciuto Carl Broemel (*NDB Qui mi meraviglio di lei, Sig. Verdi, è il chitarrista e secondo vocalist dei My Morning Jacket, forse i più “famosi” di tutto il lotto) con una Death Is Not The End un po’ noiosa.

Tolte alcune (poche, per fortuna) nefandezze, a me questo disco è piaciuto, e sono curioso di sapere cosa ci sarà nel secondo volume.

Marco Verdi

P.s del BC: Qui c’è il sito http://80sdylan.com/, dove trovate una valanga di notizie interessanti, ad esempio il fatto che si tratta di un’operazione benefica per raccogliere fondi da mandare nei paesi meno sviluppati, tramite Pencils Of Promise. E anche che nel secondo volume, tra gli altri, probabilmente ci saranno Widespread Panic, Grayson Capps, Neal Casal e Low Anthem.

Sono Di Nashville, Ma Non Fanno Country! – Apache Relay

apache relay

Apache Relay – Apache Relay – Nomadic Records

Nella geografia musicale statunitense, Nashville è stata sempre, giustamente, etichettata come la “mecca” della country-music, ma questo gruppo, gli Apache Relay (di cui mi sono già occupato per il disco precedente American Nomad http://discoclub.myblog.it/2011/05/25/staffette-indiane-apache-relay-american-nomad/ ), fa tutta un’altra musica, un misto di folk-rock con influenze molto ampie che richiamano le nuove band “generazionali”, come gli Avett Brothers, Mumford & Sons, e i capostipiti Arcade Fire. Sono stari scoperti da Doug Williams (l’uomo che portò alla ribalta i fratelli Avett), e hanno in Michael Ford Jr. il riconosciuto leader e voce solista, con gli altri Apache a fare da supporto, ovvero Mike Harris, Brett Moore, Kellen Wenrich e la new entry Ben Ford, per un gruppo particolare e decisamente interessante. Questo nuovo lavoro prodotto da Kevin Augunas (Valerie June, Edward Sharp & Magnetic Zeros), anche autore, con Johnathan Rice, dei brani di questo album, è stato registrato in Canada nei prestigiosi Fairfax Recordings Studios, utilizzando un tessuto musicale “indie-rock”, mescolato con sonorità anni ’60.

ApRelay

L’album inizia brillantemente con il singolo Katie Queen Of Tennessee (che ha il potenziale per essere un successo radiofonico) https://www.youtube.com/watch?v=qhlnPq8hLJw , a cui fanno seguito le divertite percussioni di Ruby e la melodia avvolgente di Terrible Feeling, mentre Don’t Leave Me Now sembra uscita da uno dei primi dischi degli Arcade Fire https://www.youtube.com/watch?v=7FeuRTI7hM8 . Il CD continua su questi livelli attraverso belle costruzioni armoniche, come in Growing Pains,  un country-bluegrass dalla melodia semplice, passando per i riff chitarristici di Good As Gold e Forest For The Trees, la ballata folk Dose https://www.youtube.com/watch?v=SykTGWaNmq8 , mentre White Light è un brano ritmato e ben cantato. Chiudono un disco interessante, Valley Of The Fevers dall’incedere tambureggiante, e Happiest Day Of Your Life intimista e acustica, solo la chitarra e la voce del leader Michael Ford Jr.

apache relay

Le belle canzoni non mancano di certo in questo disco (come nel precedente), confermando a tre anni da American Nomad le qualità del gruppo, certificate da una serie di canzoni composite, dove l’armonia e la melodia  sono sempre al centro del contesto musicale ed in cui gli strumenti a corda sono essenziali (come il violino di Sharon Louise Jackson e Kathleen Robertson). Un altro passo in avanti per una giovane band che mi fa dire con certezza che non si tratta più di una rivelazione.

Tino Montanari

Singer Songwriter Per Eccellenza! Michael McDermott And The Westies – West Side Stories

Michael McDermott And The Westies – West Side Stories – Appaloosa/IRD

westies west side

Non a caso il Post appena prima di questo, che leggete in questa pagina, è dedicato dall’amico Marco Verdi a Bruce Springsteen. Proprio il Boss è sempre stato uno dei punti di riferimento nella carriera di Michael McDermott (e lo è tuttora, visto che non più tardi del giorno di San Valentino di quest’anno, in un locale di Chicago dove vive da tempo, ha dedicato a Bruce una intera serata dove reinterpretava, a richiesta, brani dal repertorio di Springsteen); ma è altrettanto vero, fatico ad ammetterlo, che Bruce non fa più un disco bello come questo West Side Stories da parecchio tempo (Seeger Sessions strepitose escluse, ed anche però, per onestà, molte canzoni sparse qui e là nella sua produzione recente, come dice Marco nell’articolo che leggete qui sotto, che sottoscrivo). Ma anche McDermott non faceva un disco così bello dagli anni ’90, quando era stato presentato come “un nuovo Springsteen” (forse quello più di talento, con Will T Massey, che poi però si è perso per strada), tanto da fare esclamare a Stephen King “uno dei più grandi cantautori del mondo e forse il più grande talento non riconosciuto del rock’n’roll degli ultimi 20 anni”, paragonandolo a Van Morrison e allo Springsteen di Rosalita https://www.youtube.com/watch?v=12v3cd548gk . Se volete leggere quello che ho detto di lui sul Blog, andate qui http://discoclub.myblog.it/2011/07/26/il-manuale-del-perfetto-beatiful-loser-michael-mcdermott-tou/, e comunque continuate a leggere la recensione di questo CD.

Si diceva che McDermott non faceva un album così bello da quasi venti anni, Hey La Hey e Hit Me Back, i due dischi precedenti, erano dei buoni dischi, con delle ottime canzoni, ma questo West Side Stories è un piccolo capolavoro sull’arte del cantautore: pronto da circa un anno, mi pare che fosse in vendita sul suo sito in una tiratura limitata ed autografata, non ricordo se 50 copie a 100 dollari o 100 copie a 50 dollari, e poi un EP con 5 brani era disponibile solo per il dowload da qualche mese. Onore alla Appaloosa per avergli fornito un punto di appoggio in Italia (sua patria di adozione) e la possibiltà di pubblicare questo CD, come ricorda lui stesso, il primo da parecchi anni a questa parte ad uscire per una etichetta non autogestita, con due bonus tracks rispetto alla edizione limitata. Tutto nasce da una serie di jam tenute in quel di Nashville insieme ad una serie di musicisti, prima fra tra tutti l’amata moglie Heather Horton, ottima cantante e violinista anche in proprio, quella che gli ha “salvato la vita”, Lex Price, il bassista, che è anche il produttore del disco, Joe Pisapia alla chitarra elettrica, Ian Fitchuck alla batteria e al piano e John Deaderick, pianista aggiunto.

Lo spunto viene dai Westies, una gang criminale di origine irlandese che dalla fine degli anni ’60 fino a metà anni ’80 terrorizzò la zona West Side di Manhattan. Le canzoni, nate come ciclo dedicato a queata saga, poi si sono allargate a contenere temi più ampi della poetica di Michael (e nel libretto contenuto nella bella confezione in digipack del CD, oltre al testo originale trovate anche la traduzione italiana), questa risalita dal buio della mente umana fino alla luce delle storie e delle canzoni che i suoi genitori e nonni irlandesi gli hanno insegnato fin dall’infanzia. Il disco si apre con Hell’s Kitchen, una ballata di quelle altamente emozionali, che Bruce non scrive (quasi) più, con la seconda voce di Heather in evidenza, ma che, per certi versi, per le sue malinconiche atmosfere, mi ha ricordato anche le canzoni di Elliott Murphy, un altro beautiful loser, uno dei tanti nuovi Dylan, con Bruce, ad inizio anni ’70, e poi autore di una gloriosa carriera che continua fino ai giorni nostri, bellissima apertura, ma non temete perché tutto il disco è costellato di canzoni stupende. Trains, già presente come Dreams About Trains nel precedente Hit Me Back (ma se sono belle, repetita iuvant), è un altro brano bellissimo, in leggero crescendo, percorso dal violino di Heather Horton che ne nobilita i tratti dolenti anche con le sue armonie vocali e con la band che segue passo dopo passo l’ispirazione ritrovata di McDermott, altro grande brano  . Come pure Say It…, un delicato e struggente duetto con la moglie Heather, una ulteriore ballata elettroacustica di grande spessore, con chitarre acustiche e piano che rincorrono le voci dei protagonisti, cinque minuti di pura magia.

Un vero e proprio piccolo noir è Death, narra la storia della vicenda che porterà il protagonista sulla ghigliottina, nel racconto che fa alla sua “piccola”, colei che lo ha spinto fino a questa tragica fine, il violino di Heather è ancora protagonista di questa amara e tragica murder folk song, dall’arrangiamento musicale complesso e coinvolgente, quasi dylaniano, epoca Desire, nel suo dipanarsi . Bars potrebbe essere la metafora degli anni più bui della vita di Michael, quelli in cui l’oscurità era più profonda, ma come dice nel testo “Hai bisogno dell’oscurità per vedere la luce”, musicalmente un altro brano che ricorda assai il meglio dell’opera springsteeniana, con quello che pare un delizioso organo sullo sfondo. Tante le metafore presenti in questo West Side Stories, Rosie parla delle difficoltà di comunicazione e lo fa con un suono che ancora risale al meglio della tradizione musicale americana, un filo di country, il disco è pure stato registrato in quel di Nashville, ma anche tanto Bruce e Dylan, un pizzico di Cat Stevens (ognuno ci sente quello che vuole) ma anche molto Michael McDermott, che è un fior di autore, scrive delle canzoni meravigliose, tra le migliori che è possibile ascoltare nella canzone d’autore doc https://www.youtube.com/watch?v=su713vH4F4k . Atmosfere sospese per l’altro duetto con la moglie Heather, Fallen, una dolcissima canzone sulle pene d’amore, sussurrato dai due come se il mondo dipendesse da questo.

Five Leaf è l’ennesima stupenda ballata, con il profumo del Van Morrison mistico degli inizi o dello Springsteen dei primi dischi, quello più romantico e meno disincantato, e sono otto brani in fila, uno più bello dell’altro, non un momento di cedimento qualitativo, come dovrebbero essere tutti i dischi, gli americani dicono, con espressione riuscita, “all killer, no filler”! E anche Still l’ultimo duetto tra Heather e Michael è una piccola meraviglia di equlibri sonori, piano, chitarre acustiche, le voci ispirate della coppia, tutto contribuisce a creare un altra canzone che nella sua apparente semplicità ha una complessita di accenti notevoli. Le due bonus, che tali non sono: Gun, sulla piaga di quelli che girano per le strade americane con una pistola in tasca (o vorrebbero averla, come in questo caso), solo un demo, chitarra acustica, piano e violino, ma ragazzi che intensità. E infine Silent, anche questa già usata come The Silent Will Soon Be Singing nel precedente Hit Me Back , oltre sei minuti da puro folksinger per eccellenza. Nell’occasione McDermott sveste il giubbetto del rocker intemerato e mette la giacca e la cravata (slacciata) del cantautore più puro ed il risultato è sorprendente (oppure no?). Dischi così belli ne escono pochi in un anno, non lasciatevelo scappare.

Bruno Conti

Se Non Fosse Il Boss Non Sarebbe Neanche Male! Bruce Springsteen – American Beauty

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Bruce Springsteen – American Beauty – Sony Vinyl EP

Il problema con Bruce Springsteen è che in passato ci ha dato talmente tanti capolavori, specie negli anni settanta, che ogni volta che fa uscire qualcosa di nuovo tutti vorremmo ascoltare un nuovo Darkness On The Edge Of Town od un nuovo The River. Per carità, non è che in anni recenti il Boss abbia smesso di fare buona musica: The Rising e Wrecking Ball erano a mio giudizio due ottimi album (lasciamo stare le Seeger Sessions, un capolavoro assoluto, ma privo di brani originali), ma troppo spesso Bruce ha pubblicato dischi di livello palesemente inferiore, quasi che volesse avere sempre un CD nuovo sul mercato e così la scusa per andare in tour.

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Magic non era neanche male, ma Working On A Dream ed il recentissimo High Hopes sono due lavori troppo discontinui e raffazzonati, ed in più con una produzione massiccia (Brendan O’Brien prima, Ron Aniello poi) ed un suono gonfio che poco si addice al suo stile (la versione elettrica di The Ghost Of Tom Joad, con Tom Morello a suo fianco, pur piacendomi non poco, è quasi un brano metal). In occasione del recente Record Store Day (sempre di più un’operazione di marketing e sempre di meno una buona causa), Springsteen ha pubblicato questo American Beauty, un EP in vinile con quattro brani inediti, probabilmente assemblati nello stesso modo dell’ultimo High Hopes (cioè da sessions sparse tenutesi negli ultimi anni), e, aldilà del discorso collezionistico che avrà catapultato tutti i fans del Boss ad accaparrarsi la loro copia, l’esito riflette quello altalenante del recente CD https://www.youtube.com/watch?v=JYMc4FkSObM .

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Inciso con membri della E Street Band mescolati con sessionmen esterni (ma niente Morello), American Beauty è un dischetto che si ascolta con facilità (grazie anche alla sua esigua durata), ma nulla aggiunge a quanto fatto dal Boss negli ultimi anni. La title track è un brano rock un tantino sovrastrumentato e con una melodia che fatica ad uscire, se non dopo ripetuti ascolti (e questo non è bello) https://www.youtube.com/watch?v=QkKFaQVcfnY , mentre Mary Mary è un pezzo di base acustico, al quale sono stati aggiunti un po’ troppi strumenti: discreta, ma che non lascia traccia https://www.youtube.com/watch?v=pC0KgpCHCyw . Il lato B si apre con Hurry Up Sundown, che appartiene al filone più pop di Bruce: sembra una outtake di Working On A Dream (un disco che già di suo sembrava una raccolta di outtakes), con un arrangiamento non proprio consono al Boss, un ibrido tra Beatles ed Electric Light Orchestra https://www.youtube.com/watch?v=7a3FZagG9co .

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Bisogna attendere l’ultimo pezzo per avere finalmente un brano coi fiocchi: Hey Blue Eyes è una squisita ballata, dal mood coinvolgente ed una melodia con qualcosa di dylaniano https://www.youtube.com/watch?v=qSJQ0WFmiCE , e con un crescendo epico sullo stile di The Rising (la canzone); guarda caso è il brano meno recente, in quanto è prodotto da O’Brien (i primi tre vedevano Aniello alla consolle).

Nessuno pretende un altro Born To Run (forse neanche un altro Born In The USA), ma un disco nuovo con tutte canzoni al livello di Hey Blue Eyes sarebbe già un buon inizio.

Marco Verdi

Anche Il Blues Svedese Mancava All’Appello! T-Bear And The Dukes – Ice Machine

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T-Bear And The Dukes – Ice Machine – Self Released

Devo dire che in tanti anni di milizia recensoria mi mancava il disco del gruppo blues svedese (anzi Svezia ai confini con la Norvegia), formazioni progressive, psych, rock classico, cantautori e cantautrici, da Bo Hansson in giù, non mi erano nuovi, ma i fautori delle 12 battute non c’erano nell’album delle figurine (o almeno non ricordo, in decine di migliaia di ascolti nel corso degli anni): americani, inglesi (con irlandesi al seguito), australiani. olandesi, francesi, tedeschi, italiani, brasiliani, africani, danesi e tantissime altre nazionalità di bluesmen, ma gli svedesi no. Eppure mi sono fatto un giro in rete e ho visto che alla voce “swedish blues bands” se ne trovano parecchie, ma tutte mai sentite, almeno per il sottoscritto.

 

Ora colmo questa lacuna con i T-Bear And The Dukes, formazione che è già al terzo album, il primo con la nuova formazione senza i fiati, il classico trio con tastierista aggiunto, quindi un quartetto secondo logica : il leader è tale Torbjorn “T-Bear” Solberg, voce, chitarra solista e piano, nonché autore dei brani, gli altri non li citiamo, perché, a parte le loro mamme, non so a chi possa interessare. Il cognome mi dice qualcosa, nel senso che James Solberg, forse un lontano discendente degli avi svedesi che portano lo stesso cognome, il blues, con Luther Allison e da solista, l’ha frequentato con profitto per molti anni, ma sto divagando come al solito (non sembra, ma me ne rendo conto, potrebbe anche essere voluto, pensa te!). Si tratta di un disco formidabile, questo Ice Machine, uno di cui non si può fare assolutamente a meno? Direi di no.

Però è un disco solido e onesto (si dice così!), lui ha un bel “tocco” di chitarra, una bella voce, il gruppo se la sbriga con efficienza nei vari stili del blues: alla rinfusa, blues tirati come la cover di Let Me Love You, dove la voce, che ha qualche grado di parentela con quella di Chris Farlowe, brilla, e la chitarra pure, sarà perché il brano porta la firma di Willie Dixon ? O il sound tra Santana e Ronnie Earl della brillante Things Ain’t Like They Seem. Sempre a proposito di Earl, il breve strumentale posto in apertura, Intro:To be continued è su quella lunghezza d’onda, mentre Why Don’t You Stop ha qualche aggancio sonoro con il rock californiano dei primi Doobie Brothers, Same Old Tricks è il classico electric blues Chicago Style, con una bella chitarra pungente e la voce grintosa del leader, Ain’t Gone ‘n Give Up On Love, è l’immancabile slow blues, un omaggio a Stevie Ray Vaughan che l’ha scritto, anche se il texano aveva ben altra consistenza, Solberg se la cava più che bene https://www.youtube.com/watch?v=7q_Nk8ayhAU . La title-track è il classico strumentale after-hours jazzato, chitarra-organo, in cui Ronnie Earl appunto è maestro negli ultimi anni. Come è pure strumentale la ritmata Choke Dog ancora con l’ottimo interplay solista-organo, niente da strapparsi le vesti, ma estremamente piacevole, molto da piccoli club dove fare le ore piccole con qualche drink, ma non entrerà nella storia del blues (neppure con la b minuscola, anche se è ben suonato)! Che altro? Una Hard To Believe che anche per la voce di Solberg può ricordare certe cose dei Colosseum e del british blues in generale, una Come Back Baby piacevole anche se abbastanza scolastica e Church Blues un altro lento strumentale, con il solito interplay chitarra-organo, un po’ alla camomilla forse.

Bruno Conti