Non Solo Cowboys, Tantissime Belle Canzoni! Tom Russell – The Western Years

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Tom Russell – The Western Years – Rockbeat Records 2 CD

Tom Russell è uno dei migliori cantautori americani! Partiamo da questo assunto, e lo accantoniamo momentaneamente. L’arte della raccolta (di successi, ma qui non ne vedo), della compilation, se preferite, è un mestiere difficile da praticare. O ti lanci sui Greatest Hits, ma come detto in questo caso neanche l’ombra (per quanto, tra le cover qualcosa c’è), oppure sui Best Of, ma si può provare anche con la raccolta a tema. E questo The Western Years mi sembra rientri di diritto nella categoria. Compilati dallo stesso Russell, con l’aiuto di James Austin (o viceversa) i 2 CD non seguono la sequenza cronologica, che di solito è il modus operandi preferito per questi progetti, ma pescano qui e là nella copiosa discografia del nostro: 8 brani vengono da Indians Cowboys Horses Dogs (già i titoli dei dischi di Tom sono uno spettacolo in sé), 6 da Borderland, 5 da The Man From God Knows Where, uno ciascuno da The Rose Of San Joaquin e Hot Walker, 5 da un’altra antologia, Song Of The West – The Cowboy Collection, uno da Love And Fear e 2 da Blood and Candle Smoke, quello più recente, del 2009, più tre brani registrati dal vivo a Columbus, Ohio il 9/11/97, che sono la quota di inediti di questa antologia.

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Quindi sono raccolti gli anni che vanno dal 1995 al 2009: mancano le “origini”, quelle con Patricia Hardin, in un’altra vita, prima che il nostro amico, californiano di nascita, si trasferisse a New York, per sbarcare il lunario, per un breve periodo, facendo il tassista, come racconta lui stesso in un sapido aneddoto nelle note, che coinvolge il grande paroliere Robert Hunter, a cui uno sfiduciato ma sempre combattivo Russell fece sentire una canzone, che poi si rivelò essere Gallo Del Cielo https://www.youtube.com/watch?v=w2PUuTdei7k . Inutile dire che Hunter lo incoraggiò a riprendere la carriera di cantautore, ma ci voleva un sordo o un rappresentante di qualche casa discografica per non accorgersi del talento di questo signore. Ma questa è un’altra storia, lontana nel tempo, anche se parte tutto da lì, quella che dal 1984 al 1994 lo vide pubblicare una decina di album per la Philo Records, prima di approdare alla Hightone che gli pubblicò tutti gli album da cui attinge questa antologia. Il West è la “scusa” per questa raccolta, ma, diciamocelo francamente, Tom Russell è un grande narratore per canzoni, storie di vita e di eventi, piccoli e grandi, bozzetti che sono come racconti, dove ogni canzone è in sé una piccola poesia in musica (e che musica), il tutto cantato con una passione e una partecipazione che ha pochi riscontri nell’attuale canzone “popolare” americana (al sottoscritto la sua voce ricorda moltissimo quella di Guthrie Thomas, altro “grande”, ingiustamente dimenticato).

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Giustamente lo si accosta al filone texano, Joe Ely, Guy Clark, Terry Allen, Butch Hancock, Robert Earl Keen, Lyle Lovett, e se ne potrebbero aggiungere a decine, sono spiriti affini, ma Russell ha collaborato anche con Dave Alvin e Ian Tyson che certo texani non sono, e il suo autore preferito, spesso eseguito (in questa antologia ci sono due brani) è il sommo Bob Dylan. Però come ricordano alcune interviste riportate nell’interessante libretto che correda questo doppio, Tom si considera una persona del sud ovest, un Southwestern man, nel Texas ormai risiede il suo cuore, e probabilmente anche se vivesse in Groenlandia lo spirito dei suoi brani sarebbe sempre pervaso da questa idea di “West”. Poi le storie possono raccontare di galli da combattimento con un occhio solo, Gallo del Cielo, qui in versione live, ma secondo chi scrive, insuperabile nella versione donata agli annali della musica da Joe Ely in Letter To Laredo, ma anche canzoni tra fiction e realtà, come la bellissima Sitting Bull In Venice, che narra dell’incontro di Toro Seduto con la calli veneziane, quando venne in Europa insieme al circo di Buffalo Bill, https://www.youtube.com/watch?v=fIZlmjfwW4Y  o ancora i piccoli noir alla Raymond Chandler di The Man From God Knows Where che ci raccontano storie ambientate nella Los Angeles anni ’50, nell’infanzia di Russell. Ma anche semplicemente belle canzoni sentimentali e malinconiche come Bucking Horse Moon https://www.youtube.com/watch?v=1yTB0lVQHY0 , per non dire di un brano stupendo come California Snow, scritta con Dave Alvin, che non sentivo da anni e mi è parsa nuovamente bellissima https://www.youtube.com/watch?v=GzJNDxmAuFE . In fondo lo scopo di questa antologia è anche questo: riscoprire vecchie canzoni che magari non si ascoltavano da anni e, sentite tutte insieme fanno proprio un bel effetto.

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Certo comprarsi un doppio per tre inediti live (ovviamente chi ha già tutto, e chi legge questo spazio temo appartenga alla categoria) è una follia, in questi tempi duri di spending review; gli altri due dal vivo sono Navajo Rug https://www.youtube.com/watch?v=5JW_kl-2d78 , cantata con Katy Moffatt e The Sky Above, The Mud Below http://discoclub.myblog.it/2011/09/06/ma-allora-escono-ancora-dischi-belli-tom-russell-mesabi/ . Però so non lo conoscete, o nell’inevitabile “celo/manca”, il secondo prevale sul primo, direi che l’acquisto è imprescindibile! Almeno una hit (non nella versione di Russell) nel CD c’è, El Paso, un n°1 per il suo autore Marty Robbins, anche se nel libretto, unico errore, peraltro veniale, viene attribuita a Woody Guthrie. Ci sono due brani di Dylan, come ricordato, Seven Curses e Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts https://www.youtube.com/watch?v=uonjSyOku5Q  (ma sul recente Mesabi http://discoclub.myblog.it/2011/09/06/ma-allora-escono-ancora-dischi-belli-tom-russell-mesabi/  fa anche una stupenda A Hard Rain’s A Gonna Fall, che qui sarebbe fuori argomento), a dimostrazione della totale sintonia con le canzoni che vengono sempre reinterpretate in modo stupendo. Comunque le giriamo sono 34 canzoni di notevole spessore, tra cui ricorderei anche le cover di Prairie In The Sky di Mary McCaslin, Gulf Coast Highway di Nancii Griffith e The Ballad Of Sally Rose, una delle rare canzoni firmate da Emmylou Harris, con l’allora marito Paul Kennerly, nel primo periodo di carriera. Una curiosità statistica, El Paso, il brano di cui sopra, è stato eseguito ben 359 volte dal vivo dai Grateful Dead, il gruppo per cui proprio Robert Hunter ha firmato alcune delle sue più belle liriche e di cui Tom Russell, sempre nell’ottimo libretto, ricorda la mail che gli inviò in occasione della pubblicazione di Blood And Candle Smoke: “Grande musica. Grandi Testi. Ce l’hai fatta”, che mi sembra possa fotografare alla perfezione il contenuto di questa doppia compilation:

CD 1

  1. Tonight We Ride
  2. East Texas Red
  3. El Paso
  4. Little Blue Horse
  5. Hills Of Old Juarez
  6. Old Blue
  7. California Snow
  8. Sitting Bull In Venice
  9. Bucking Horse Moon
  10. Seven Curses
  11. Chickasaw County Jail
  12. Tramps & Hawkers
  13. Grapevine
  14. Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts
  15. Claude Dallas
  16. The Ballad Of William Sycamore

CD 2

  1. Dance Hall Girls
  2. El Llano Estacado
  3. Part 1 – The Man From God Knows Where
  4. Patrick Russell
  5. Down The Rio Grande (Aka Rio Grande)
  6. Prairie In The Sky
  7. Casey Jones
  8. Stealing Electricity
  9. Racehorse Haynes
  10. Gulf Coast Highway
  11. Bacon Rind, Chief Seattle, The Ballad Of Ira Hayes
  12. The Santa Fe At Midnight
  13. The Ballad Of Sally Rose
  14. American Rivers
  15. Santa Ana Wind
  16. Navajo Rug (Live)
  17. The Gallo Del Cielo (Live)
  18. The Sky Above, The Mud Below (Live)

 

Bruno Conti

Quelle Brave (E Anche Belle) Non Bastano Mai! Sena Ehrardt – Live My Life

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Sena Ehrardt – Live My Life – Blind Pig

Sena Ehrardt fa parte delle nuove generazioni del blues, quelle che hanno probabilmente assorbito le loro influenze tramite la famiglia, non per nulla nei due dischi precedenti il chitarrista della band e co-autore di parecchi brani era il babbo Edward, gran chitarrista https://www.youtube.com/watch?v=2FZV7lFdE90 . Lo stesso che nella sua infanzia ed adolescenza l’aveva portata a vedere i concerti di musicisti come BB King, Koko Taylor, i Fabulous Thunderbirds, tutti di passaggio nella sua nativa Minneapolis. Anche se poi, secondo le sue stesse parole, a scatenare la decisione di diventare una musicista è stato un concerto di Luther Allison (uno che dal vivo è sempre stato considerato una sorta di controparte nera di Springsteen, per l’incredibile intensità e durata dei suoi concerti). Ma a cementare questa decisione sono apparsi anche personaggi come Susan Tedeschi o Jonny Lang. Diciamo che sin dall’esordio nel 2011, con Leave The Light On, Sena si è rivelata vocalist di pregio e buona autrice, anche se non suona nessuno strumento, è in possesso di una voce agile e coinvolgente, diciamo della categoria delle Beth Hart o Dana Fuchs, pur non avendo quella potenza vocale. La sua casa discografica le ha affiancato, prima Jim Gaines, per il secondo album All In, ed ora David Z, per questo Live My Life. Come ho scritto molte volte si tratta di due produttori, al di là della fama e dei musicisti con cui hanno lavorato, soprattutto il secondo, che non mi hanno mai fatto impazzire per il tipo di suono che realizzano nei loro dischi.

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Anche in questo caso David Z, in parecchi brani, impone questa patina radiofonica, ma per una volta, in lunghi tratti, il suo lavoro non mi dispiace https://www.youtube.com/watch?v=uyxJhwm63Rg . Affiancata da un gruppo dove spicca il suo collaboratore, chitarrista, fidanzato e spalla musicale, non necessariamente nell’ordine, Cole Allen, la Ehrardt ci propone un disco di rock, blues, pop e soul, con una netta preponderanza del primo, ma con abbondanti razioni anche degli altri tre e qualche occasionale caduta di stile. Il suono all’inizio è vivo, pimpante ed elettrico, come dimostra subito Stakes Have Gone Up, firmata dal tastierista Bruce McCabe, un buon esempio di contemporary blues (che non è una parolaccia), con un sound che può ricordare certe cose di Robert Cray o del primo Jonny Lang, ma anche delle sue citate controparti femminili Tedeschi, Fuchs e Hart, bella voce, la chitarra di Allen subito tagliente, ritmica sul pezzo, tastiere non invadenti, tutto ben miscelato.Things You Shouldn’t Need To Know è anche meglio, ancora più bluesata, scritta in coppia dalla Ehrardt (un nome che è uno scioglilingua) e da Allen, con un sostanzioso contributo dalla slide di Smokin’ Joe Kubek che inchioda un assolo fumante https://www.youtube.com/watch?v=Z5XdkR2p7f4 . Slow Down è proprio il vecchio classico di Larry Williams, un brano che è stato cantato anche dai Beatles, una via di mezzo tra R&R e blues, qui modernizzato su tempi rock’n’soul, sia pure leggermente snaturato e reso quasi irriconoscibile, con risultati finali comunque non malvagi, grazie a Cole Allen, che è chitarrista di pregio e sostanza e alla buona vocalità di Sena https://www.youtube.com/watch?v=-exNr2mapm0 .

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Help Me Through The Day è un vecchio brano di Leon Russell, una ballata di buon spessore dove David Z comincia ad inserire qualche tastierina non ancora troppo fastidiosa, ma la solita chitarra porta a casa il risultato. Fin qui tutto bene, ma Live My Life vira verso un funky rock più commerciale e di maniera, molto radiofonico, sembra un brano anni ’80 di Pat Benatar, fin nell’assolo di Allen che replica quelli di Neil Giraldo; anche Chilled To The Bone è un rock-poppettino teleguidato da David Z (però nella versione unplugged https://www.youtube.com/watch?v=eF_FFXCjdss, ormai il blues è un lontano ricordo e puree Too Late To Ask cantata a due voci con Cole Allen, rimane da quelle parti, ricordando molto le ultime cose di Jonny Lang, non proprio le più esaltanti. Everybody Is You è funky allo stato puro, molto seventies, anche se non memorabile, assolo escluso, ma quando tutto sembra prendere questa brutta china sbuca dal nulla una cover di If Trouble Was Money di Albert Collins che è un grande slow blues, dove sia la Ehrardt che Cole Allen, e anche Bruce McCabe alle tastiere, dimostrano tutto il loro valore, discreto il rocker Did You Ever Love Me At All, un altro duetto dei due piccioncini e non male anche la conclusiva Come Closer, con qualche elemento country. La stoffa e la voce ci sono, la ragazza ha anche dalla sua una notevole avvenenza, bionda, occhi azzurri, ma musicalmente non sempre tutto è di mio gradimento,  però come sempre trattasi di parere personale.

Bruno Conti

Buone Azioni 1: Max Meazza – Charlie Parker Loves Me Raccolta Fondi

max meazza charlie parker me loves me

Come vedete anche in un freeze frame del video, Max Meazza si affida a mani giunte al vostro buon cuore per la raccolta fondi (music raiser se l’inglese è la vostra lingua madre) per supportare l’uscita del nuovo album Charlie Parker Loves Me. Se non sapete chi è Max qui trovate quanto scritto dal sottoscritto nel Blog su di lui http://discoclub.myblog.it/2014/02/24/dei-capostipiti-degli-italiani-caso-anglo-americani-nel-cuore-max-meazza-cold-blood/ e, visto che è un amico e a noi il conflitto di interessi ci fa un baffo (infatti ce l’ho) mi unisco alla sua richiesta. Questo è il link https://www.musicraiser.com/projects/3001-charlie-parker-loves-me-cd se volete donare, con relative modalità e questo è il suo sito http://www.maxmeazza.com/, se volete approfondire la conoscenza con la sua musica. Ormai questo è uno dei futuri della musica indipendente, quindi se potete…non aggiungo altro. La buona musica si aiuta anche così!

Bruno Conti

Giuro Che E’ L’Ultimo (Per Quest’Anno)! Cactus – Tko Tokyo Live In Japan 2CD+DVD

cactus tko tokyo live in japan

Cactus – Tko Tokyo Live In Japan – 2CD/DVD Purple Pyramid/Cleopatra

Non ho fatto in tempo a recensire il Cactus An Evening In Tokyo http://discoclub.myblog.it/2014/08/30/vecchie-glorie-13-cactus-an-evening-tokyo/  ed eccomi di nuovo alle prese con il quintetto di Carmine Appice. Cosa sta succedendo? Nel frattempo è uscito, ma l’abbiamo saltato, anche un doppio CD Live In The Usa, che riporta un concerto del 2006, quando Tim Bogert era ancora in formazione, e anche un Tim Bogert Carmine Appice Friends, registrato in studio, nonché in uscita pure un Pat Travers/Carmine Appice Live In Europe! Ripeto, che sta succedendo? Semplicemente il baffuto batterista ha firmato un contratto di distribuzione con la Cleopatra per la sua etichetta Rocker Records, quindi in futuro dobbiamo attenderci, temo, parecchio altro materiale dagli archivi di Appice. Per la gioia dei fans, se non dei loro portafogli. Forse questa di Tko Tokyo Live In Japan è la più interessante delle varie uscite, in quanto riporta sui 2 CD un concerto completo (come quello americano), sempre dal tour giapponese 2012, però la confezione contiene anche un DVD, dove stranamente (visto quello che succede ultimamente con i supporti video) ci sono tutti i 15 brani. Come detto in altre occasioni, essendo “poveri”, la recensione è fatta con i dischetti audio, però una sbirciatina al DVD l’ho data, e la qualità audio/video è decisamente buona, registrato in digitale, con parecchie telecamere, in un locale piccolo, pubblico giapponese entusiasta.

Il”problema”, se così lo vogliamo definire, è che i pezzi sono più o meno sempre quelli, quindi i Cactus vi devono piacere parecchio se volete comprare tutti i dischi della serie, non essendo i Grateful Dead, gli Allman Brothers o jam band varie, con un repertorio vastissimo da cui attingere, mentre la tendenza alla improvvisazione, per quanto in un ambito più heavy rock, non manca certo alla band statunitense. Quindi io vi dico cosa contiene questo doppio CD, vi consultate con il commercialista e la famiglia, poi decidete cosa fare. Intanto il locale, Garden Shimokitazawa, lo stesso di An Evening in Tokyo, e la data, l’8 dicembre 2012, il giorno dopo, ovviamente la formazione è la stessa, Appice alla batteria, Pete Bremy al basso, Jim McCarty alla solista (l’altro sopravvissuto della formazione originale), il vocalist Jimmy Kunes e Randy Pratt all’armonica, il più giovane del gruppo con Bremy. Come detto per l’altro CD, la band sembra in ottima forma, il sound è il classico hard rock-blues con parecchie similitudini zeppeliniane.

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Rispetto alla serata precedente troviamo una potentissima cover di Long Tall Sally di Little Richard, rallentata e hardizzata (se si può dire), sembra di ascoltare gli Humble Pie di Rockin’ The Fillmore, anche per il tipo di voce di Kunes, per il resto, gli altri sette brani del primo CD sono gli stessi di An Evening…, anche le sequenza, con una eccezione, è la stessa. Il secondo CD si apre con The Groover, uno dei pezzi tratti da Cactus V, il disco della reunion della 2006. con l’armonica di Pratt in evidenza, seguito da una lunghissima Evil (presente anche nell’altro live) che incorpora l’immancabile assolo di batteria di Carmine Appice e fa a pezzettini la versione classica di Howlin’ Wolf, à la Led Zeppelin per intenderci.  Viene anche recuperata Big Mama Boogie che era su One Way…Or Another e prima di Parchman Farm c’è spazio per una breve Randy’s Song, un duetto tra l’armonica di Pratt e la chitarra di MCarty. In coda al tutto Part Of The Game, altra canzone che proviene dalla reunion del 2006, un tirato slow blues che conclude le operazioni. In definitiva sono circa 25 minuti di musica in più, varrebbe la pena per il DVD, ma visto che non lo fanno pagare pochissimo e di DVD dei Cactus ce ne sono in giro un paio di altri, fate vobis, come Ponzio Pilato me ne lavo le mani, spero con risultati meno devastanti!

Bruno Conti

Magari Non “Originale”, Ma Sicuramente Una Copia D’Autore! Janiva Magness – Original

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Janiva Magness – Original – Fathead Records

Janiva Magness, da parecchi anni a questa parte, è una delle mie cantanti preferite in ambito blues e soul http://discoclub.myblog.it/2012/03/22/sempre-piu-forte-janiva-magness-stronger-for-it/http://discoclub.myblog.it/2010/06/20/grande-voce-grande-disco-janiva-magness-the-devil-is-an-ange/ , in possesso di una voce bellissima, in grado di “urlare” ma anche di carezzare, con un phrasing fantastico che le permette di emozionare l’ascoltatore con una semplice frase all’interno di una canzone, come pure di essere calda e sensuale, triste e malinconica, il tutto all’interno dello stesso brano e di farlo ripetutamente nei suoi dischi che ci raccontano di una vita difficile, vissuta all’inizio a Detroit, Michigan e poi in giro per tutti gli Stati Uniti, una vita dove le perdite e i dolori sono stati più delle gioie (ne ho parlato in altre occasioni, comunque sintetizzando molto, entrambi i genitori sono morti suicidi quando era una adolescente, ha girato varie case famiglia, a 17 anni ha avuto una figlia che ha dato in adozione) e che si è stabilizzata con l’incontro con la musica, avvenuta in età matura. Questo album, Original, è il suo decimo, pubblicato un po’ a sorpresa per la propria etichetta Fathead Records, riattivata a 17 anni dall’esordio avvenuto nel 1997 con It Takes One To Know One, in quanto la Alligator per cui erano usciti i tre bellissimi CD precedenti non le ha rinnovato il contratto https://www.youtube.com/watch?v=LWRw1sGIjkU .

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Un vero peccato, ma la Magness, come dice lei stessa, nelle note del disco, si è rimboccata le maniche e pur tra mille difficoltà, aiutata dall’ottimo David Darling, produttore, ingegnere del suono, tecnico, oltre che grande chitarrista e co-autore di parecchi brani, ha realizzato un disco che forse è il suo migliore in assoluto (e come detto, gli altri precedenti non scherzavano in quanto a qualità) https://www.youtube.com/watch?v=HboJ8XZFts0 . Nelle stesse note, oltre all’orgoglio per questo lavoro, si percepisce anche un ottimismo inconsueto per Janiva, che conclude la sua breve presentazione con un “Life is good, baby, real good…” che potrebbe essere il manifesto di questo disco. Oltre a tutto la nostra amica si è anche scoperta autrice, oltre che cantante, firmando sette delle undici composizioni contenute nell’album e, con l’aiuto di una pattuglia di ottimi musicisti, ha realizzato un’opera che unisce ai “soliti” sapori blues, soul e gospel, anche un gusto per la musica roots, belle canzoni che si possono far risalire al genere Americana, come l’iniziale Let Me Breathe, scritta con il citato Darling, che oltre alla chitarre (a fianco dell’eccellente Zach Zunis, che è il solista accreditato), suona nel disco anche basso, dobro, celeste e glockenspiel (!), oltre ad essere impegnato alle armonie vocali: un brano, quello di apertura, dove appare il glockenspiel citato e che potrebbe ricordare i brani della migliore Bonnie Raitt, una canzone dove si apprezza la naturalezza assoluta della voce della Magness, che senza sforzi apparenti si libra sicura ed emozionante su un tappeto di organo, chitarre, armonie vocali deliziose, come le grandi cantanti bianche e nere del passato che hanno saputo fondere le radici della musica americana in modo appunto “originale”, rispettoso della tradizione ma ricco di mille nuances sonore.

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Twice As Strong è un gospel soul con la voce rauca e profonda di Janiva che afferma con orgoglio la sua ritrovata stabilità https://www.youtube.com/watch?v=rwdVsrBdfBY , Jim Alfredson, anche al piano, oltre che all’organo, aggiunge quella patina deep soul, rafforzata dalle armonie vocali che sostengono le evoluzioni vocali della Magness che poi si tuffa a capofitto in una When You Were My King, dove il blues si affianca al soul, rappresentati l’uno dalle chitarre di Zunis e Darling, l’altro dalla seconda voce del bravo Dan Navarro e dagli altri vocalists, per una ballata altamente emozionale. I Need A Man, è un brano tra rock e blues, grintoso, con le chitarre e le percussioni in bella evidenza e qualche concessione ad un sound più moderno. Anche Everything Is Allright  ha un suono più contemporaneo, persino radiofonico, ma quell’organo e quelle chitarre non appartengono purtroppo, se non marginalmente, al nuovo soul, ne facesse di brani così, oggi, la grande Aretha. Funky-soul per il duetto con Navarro, una piacevole With Love che ricorda molto ancora la Raitt più melodica, mentre Mountain è una ballata fantastica, con le due chitarre ad affiancare la voce altamente emozionale di Janiva Magness https://www.youtube.com/watch?v=ifyGh9eKWGI  e Who Am I è un veemente R&B quasi in stile Motown, cantato a piena voce.

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Badass, uno dei pochi brani non firmati da Janiva, ha meno verve del resto, non così The Hard Way, altra fantastica ballata soul e Standing, una bellissima canzone di impianto pianistico, ma con la chitarra sempre in agguato, che ci permette di gustare ancora una volta la meravigliosa voce della Magness https://www.youtube.com/watch?v=F-HMhpPoPb8 , per una degna conclusione ad un disco consigliato naturalmente agli amanti delle belle voci. Adesso un bel Live https://www.youtube.com/watch?v=2Bi8dCUcL0s !

Bruno Conti

Robuste Pillole Rinvigorenti! Blues Pills CD+DVD

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Blues Pills – Blues Pills – CD+DVD  Nuclear Blast Records

Nuova formazione che si affaccia sulla scena musicale, i Blues Pills sono piuttosto giovani (età media poco più di 20 anni), ma in due anni di attività hanno già pubblicato tre EP, perlopiù in vinile, tra cui uno dal vivo registrato al prestigioso Rockpalast https://www.youtube.com/watch?v=PW9Pl6ZIbHI (e non a caso il disco è entrato nella Top 5 in Germania). Sono in quattro, Elin Larsson, la cantante, viene dalla Svezia, ed è chiaramente influenzata dalla musica di Janis Joplin (dicono anche da Aretha Franklin, ma non mi è parso), quella più rock e selvaggia peraltro, magari più Lynn Carey, detta anche Mama Lion, una epigona più dura della grande Janis, in attività nei primi anni ’70, bella voce che può rimandare anche alle primissime cose di Beth Hart o Dana Fuchs e, perché no, anche a Grace Potter con i suoi Nocturnals. Il chitarrista, francese, si chiama Dorrian Sorriaux, mentre la sezione ritmica è composta dagli americani Zack Anderson e Cory Berry (che nel frattempo ha lasciato il gruppo) https://www.youtube.com/watch?v=1gp6PbDrucg   .

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Per loro sono stati scomodati paragoni con i Big Brother, i Led Zeppelin, Jimi Hendrix, i Cream, i primi Fleetwood Mac, quelli di Peter Green, e qui devo dire che sono d’accordo, alcuni passaggi chitarristici di Sorriaux possono ricordare le atmosfere di Then Play On o di brani come The Green Manalishi. Vista l’etichetta per cui incidono, la Nuclear Blast, anche i legami con l’hard rock, se non l’heavy, ogni tanto li portano forse ad esagerare, a forzare le sonorità dal blues-rock verso certo hard targato anni ’70, ma più spesso, senza frenare la loro irruenza giovanile, riescono a veicolare l’indubbia potenza vocale della Larsson verso un suono più “studiato” che lascia ampio spazio alle improvvisazioni della solista del giovane Dorrian https://www.youtube.com/watch?v=zcamFdoXiQ4 .

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Il disco contiene 10 brani, tutti originali, almeno nella firma degli autori, se non nei risultati sonori che indubbiamente sono molto derivativi, ma non si può fare a meno di ammirare la grinta e l’impegno che ci mettono, e anche la perizia tecnica dei vari musicisti e della cantante. Esistono anche altre versioni del disco, una Exclusive con 14 brani, un’altra con allegato un eccellente DVD, sette brani registrati dal vivo all’Hammer Of Doom Festival nel 2013. Anche l’iconografia, copertina del disco, modo di vestire dei componenti, capelli lunghi da Summer Of Love, si rifà moltissimo agli anni a cavallo tra fine anni ’60 e primi ’70, e quindi poteva andarci peggio. I brani sono tutti piuttosto buoni, forse con una certa uniformità qualitativa, niente che si eleva sopra la media, ma neppure canzoni chiaramente scadenti: si va dalla scarica di potenza dell’iniziale High Class Woman, con la sezione ritmica tiratissima, la Larsson che scalda subito l’ugola e Sorriaux che alterna riff potenti a passaggi raffinati che ricordano il Peter Green già citato, a un brano come Ain’t No Change che prosegue questa ricerca di sonorità più ricercate della solista prima di lasciare spazio ai ritmi incalzanti di basso e batteria che lanciano la voce di Elin verso derive più hard https://www.youtube.com/watch?v=MUGwN1YPFg0 . I nostri amici non fanno prigionieri, anche Jupiter è piuttosto duretta, con un wah-wah che conferisce ulteriori connotati seventies alla musica https://www.youtube.com/watch?v=R5Evh8E3_oI , mentre Black Smoke rallenta i ritmi verso atmosfere più psichedeliche, e qui i paralleli con i Big Brother della Joplin si colgono, con continui cambi di tempo e accelerazioni improvvise che tengono viva l’attenzione dell’ascoltatore.

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River ha un mood più sognante, la frenesia rock si placa per un attimo e la band lascia intravedere anche momenti più delicati per quanto sempre pervasi dal quel sentire rock che li contraddistingue, con la slide che disegna traiettorie interessanti https://www.youtube.com/watch?v=wHhABdBLJqE . Anche No Hope Left For Me è più tranquilla, uno degli episodi più bluesati dell’album, con voce e chitarra che si dividono la guida del brano; Devil Man era il titolo di uno degli EP che hanno preceduto questo CD, una nuova scarica di adrenalina violenta, molto zeppeliniana https://www.youtube.com/watch?v=g6p2R8jaUW0 , per contro Astralplane torna ai tempi più sospesi e trasognati dei Fleetwood Mac già citati più volte, anche se l’energia che esce dagli speaker è sempre palpabile, con l’ottimo lavoro alla solista di Sorriaux https://www.youtube.com/watch?v=rx4oAAT9HBQ . Gypsy, di nuovo con una bella slide in evidenza è un altro potenziale singolo per qualche vecchia emittente rock, con l’urlo della Elin a guidare i suoi compari. Conclude Little Sun, forse l’unica ballata presente in questo esordio, un’oasi di tranquillità nel vortice sonoro che esce da questo primo disco dei Blues Pills https://www.youtube.com/watch?v=FJNoD5Mcodo . Non male, da tenere d’occhio.

Bruno Conti

Tante Vite Vissute In 50 Anni Di Carriera! Marianne Faithfull – Give My Love To London

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Marianne Faitfull – Give My Love To London – Naive/Self Records

Figlia di una baronessa austriaca, discendente dei Von Sacher-Masoch, proprio quelli, la signorina Marianne Faithfull (narrano le cronache) vede cambiare improvvisamente la propria esistenza, quando nel lontano ’64 partecipa ad una festa londinese in compagnia  di John Dunbar (che diventerà in seguito suo marito), dove tra i tanti “imbucati” spiccavano i Rolling Stones e il loro produttore Andrew Loog Oldham, che trova il viso della Faithfull perfetto per lanciare l’ultima composizione di Jagger e Richards As Tears Go By (e anche la voce si rivela adatta) https://www.youtube.com/watch?v=rHUQuD7ZzYg , proiettando quindi la canzone nei Top 10 di quell’anno. Il personaggio Faithfull funziona perfettamente, al punto che i primi due album (stranamente pubblicati nello stesso giorno) Come My Way e l’omonimo Marianne Faithfull (65) entrano simultaneamente in classifica. Nel ’66, all’apice della popolarità, si separa da Dunbar per dedicarsi ai Rolling Stones e ad una burrascosa relazione con Mick Jagger, durata, tra alti e bassi fino a maggio del ’70, e poi gli anni settanta, vissuti tra tentativi di suicidio, dipendenza da eroina, un paio di anni da “homeless” per le strade di Soho, varie malattie che la porteranno a cambiare completamente il tipo di voce.

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La seconda vita di Marianne arriva con il successo di Broken English (79), un disco di platino che riporta l’artista in prima fila, come i successivi Dangerous Acquaintances (81), Child’s Adventure (83), Strange Weather (87) raggiungendo la perfezione con il celebrato live Blazing Away (90) con l’accompagnamento di famosi musicisti tra cui Garth Hudson (The Band), Marc Ribot, Dr.John e Fernando Saunders, con un repertorio che va dal Tom Waits di Strange Weather al John Lennon di Working Class Hero https://www.youtube.com/watch?v=3N_rNz2oAGA , fino ai vecchi amici Rolling Stones con una commovente Sister Morphine che non poteva mancare https://www.youtube.com/watch?v=rdtM2YGaJ4k , anche se fu frutto di una lunga battaglia legale per vedere il proprio nome riconosciuto tra gli autori del brano e As Tears Go By. La terza vita artistica della Faithfull inizia con il primo lavoro con la Virgin RecordsVagabond Ways (99,) affiancata in alcuni brani da Daniel Lanois, con cover di Elton John (For Waiting You) e Leonard Cohen (Tower Of Song), a cui fanno seguito album meno convincenti come Kissin’ Time (02) e Before The Poison (04), per poi tornare su livelli di eccellenza con i recenti Easy Come, Easy Go (08) e Horses And High Heels (11).

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Per questo Give My Love To London (20° album in una carriera quasi cinquantennale) https://www.youtube.com/watch?v=Cjel_2KRF6s , Marianne ha il privilegio di farsi scrivere le musiche da un pool di autori che rispondono al nome di Nick Cave, Roger Waters, Tom McRae, Steve Earle, Anna Calvi, Patrick Leonard (Leonard Cohen), e di poter disporre di una band di supporto composta da musicisti eccellenti come Adrian Utley dei noti Portishead, Warren Ellis e Jim Sclavunos dei Bad Seeds (gruppo storico di Nick Cave), Dimitri Tikovoi , Ed Harcourt (eccellente pianista e cantautore), sotto la produzione di Rob Ellis (noto per i lavori con P.J. Harvey) e dello stesso Tikovoi, insomma “la crema” del rock inglese. Il brano iniziale, la title track Give My Love To London è opera di Steve Earle, e si respira subito un suono country-folk con un arrangiamento brioso, seguita da una Sparrows Will Sing omaggiatale da Roger Waters, con certe sonorità tipiche “velvettiane” cantate da Marianne alla Nico https://www.youtube.com/watch?v=jE9I4lVpE64 , dalle belle aperture ariose di True Lies, un brano del sottovalutato Ed Harcourt, mentre Love More Or Less è una arpeggiata ballata acustica uscita dalla penna di Tom McRae https://www.youtube.com/watch?v=dFRbn5jVPlE .

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Nick Cave compone invece per la Faithfull la sofferta, pianistica Late Victorian Holocaust (con il violino “lamentoso” di Warren Ellis) https://www.youtube.com/watch?v=wirrsgsfNqQ , e l’eterea melodia di Deep Water (brani che Nick stranamente non riesce più a scrivere per sè stesso) https://www.youtube.com/watch?v=0TEVMqX9dNE , passando poi ad una veloce e turbinosa Falling Back della brava emergente Anna Calvi e ai suoni rock di Mother Wolf, musicati da Pat Leonard, il compositore attualmente preferito dal grande Leonard Cohen. Completano un disco meraviglioso alcune cover d’autore, su tutte una The Price Of Love degli Everly Brothers, rifatta con la stessa energia, una strepitosa rilettura pianoforte e voce (alla Marlene Dietrich)  del brano di Cohen Going Home (tratto da Old Ideas) e chiudere con la notevole lettura “spettrale” di un grande autore come Hoagy Carmichael in I Get Along Without You Very Well (eseguita in passato da grandi cantanti come Billie Holiday, Nina Simone, Petula Clark, Frank Sinatra, e in tempi recenti Diana Krall).

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Per questo Give My Love To London, il termine “capolavoro” non pare fuori luogo, per un lavoro dove Marianne oltre che il suo “status” di icona musicale (esemplificato anche dalla copertina dove appare circondata da una nuvola di fumo emessa dalla “ennesima sigaretta”, come quelle di Yanez) ci mette pathos, lacrime, dolcezza e una voce che rimane sempre particolare ed unica, se non bellissima (però segnata dal tanto vissuto) e che festeggia degnamente il mezzo secolo di carriera, iniziata nel lontano ’64 quando appunto la Faithfull, allora appena diciassettenne, debuttò con quella che pareva una canzoncina come As Tears Go By, proponendosi ancora oggi come una “madame” aristocratica e tenebrosa, dotata di una classe immensa, impossibilitata nel tempo a sfiorire.

NDT: Per gli amanti della signora, la Faithfull nell’ambito del tour europeo farà tappa dalle nostre parti, il 27/10/14 a Milano all’Auditorium e il giorno successivo a Lucca al Teatro del Giglio, con un prezzo del biglietto abbastanza accessibile.

Tino Montanari

Il Grande Rock Abita Anche In Italia, E Da Molto Tempo! Cheap Wine – Beggar Town Album E Concerto

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Cheap Wine – Beggar Town – Cheap Wine/Distr. IRD

Piccola premessa. Sabato scorso, 4 ottobre, sono andato allo Spazio Teatro 89 di Milano per la presentazione ufficiale del nuovo album dei Cheap Wine Beggar Town, da oggi disponibile ufficialmente in vendita, in rete per il download e nei negozi specializzati: concerto bellissimo, con una prima parte dove è stato eseguito il disco nella sua interezza e, senza soluzione di continuità, una cavalcata nel vecchio repertorio della band pesarese. Solito quintetto, o meglio, rispetto al nuovo disco, dove appariva ancora il vecchio bassista, Alessandro Grazioli, che ha lasciato dopo 18 anni di presenza nella band, c’era il nuovo bassista Andrea Giaro, che diminuisce drasticamente la quota bulbo pilifera del gruppo, ma non la competenza e la qualità del sound (era già presente al Buscadero Day). Per il resto, Alan Giannini, la solita macchina da guerra inarrestabile e raffinata al contempo alla batteria, l’ottimo Alessio Raffaelli alle tastiere (presente anche nei Miami And The Groovers) e i fratelli Diamantini, Marco, voce solista, occasionale chitarra e armonica, nonché autore dei testi e di quasi tutte le musiche della band, e alle chitarre elettriche, slide e con wah-wah, Michele Diamantini; nell’insieme, una eccellente esibizione anche grazie all’ottima acustica del Teatro milanese (un posto da scoprire ed usare in una “poverissima”  metropoli meneghina a livello di luoghi concertistici per il rock). Vi risparmio la lista dei brani eseguiti, visto che fra poco parliamo del nuovo disco, posso aggiungere che per motivi vari a livello personale, ammessi dallo stesso Marco, è stata una serata ad alto contenuto emozionale e la conferma del loro valore di Live Band che non scopro certo io.

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Venendo al nuovo Beggar Town, si tratta di un disco buio, cupo e tempestoso, dai testi crudi e pessimisti all’ennesima potenza, però la musica, quasi a compensare, è ricca, vibrante e di grande spessore, senza nulla da invidiare alle grandi produzioni internazionali anche a livello di suono, brillante e ben delineato. Questo decimo album dei Cheap Wine, in 18 anni di attività, ma già da inizio anni ’90 qualcosa si muoveva in quel di Pesaro, è l’ennesima conferma che siamo di fronte ad una delle formazioni più interessanti del panorama musicale rock italiano: anche loro, come mi piace ricordare, fanno parte di quella piccola ma agguerrita pattuglia di “italiani per caso”, da sempre proiettati verso un tipo di suono che si abbevera alle radici della musica americana (e anche di quella anglosassone), il tutto visto attraverso l’ottica della provincia italiana, dal loro quartier generale di Pesaro la “conquista” del mondo si spera idealmente sia sempre possibile. Se un brano dei Green On Red è stato quello che ha dato il nome al gruppo, la musica del Paisley Underground, il punk più raffinato (anche se il termine è un po’ un ossimoro) inglese, il rock classico inglese, Jimmy Page nelle chitarre di Michele Diamantini, ma anche Mott The Hoople nelle loro derive più R&R, qualcosa del Gilmour più lancinante e blues, tanto rock americano, da Petty a Springsteen, i citati Green On Red e i Dream Syndicate, Dylan Neil Young, quello più tosto, tra i cantautori, questo sono alcune delle cose che sento io nella loro musica, ma potete aggiungere quello che volete, anche perché il risultato finale è poi un suono molto personale che si inserisce d’autorità, ed in modo indipendente e onesto, nel grande fiume della buona musica tout court.

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Una bella confezione digipack apribile, con copertina, illustrazioni e artwork curate da Serena Riglietti, già all’opera per il precedente Based On Lies, e nota per essere l’autrice delle copertine dei libri della saga di Harry Potter, nonché insegnante all’Accademia di Belle Arti di Urbino, che notoriamente è a due passi da Pesaro. Non è tutto, il libretto comprende i testi completi, da ponderare, con relativa traduzione in italiano. E soprattutto, dodici nuove canzoni che si ascoltano tutte di un fiato, anche se l’approccio globale è forse meno immediato e rock che nei dischi passati (nel senso di “rawk and roll”), a parte il crescendo finale, siamo in ogni caso di fronte ad un signor disco. La partenza è affidata ad una intensa Fog On The Highway, con il piano Bittaniano di Raffaelli ad intrecciarsi con la chitarra di Michele Diamantini in modalità slide più wah-wah che inanella una serie di assoli acidissimi che ti torcono le budelle con delle scosse poderose mentre il fratello Marco, con voce piana da narratore esterno inizia a raccontarci cosa non funziona nel mondo, e purtroppo la lista è lunga. Altro brano eccellente è Muddy Hopes, una sorta di valzerone noir sempre incentrato sul dualismo chitarra-tastiere, con il cantato di Marco che ricorda moltissimo le atmosfere (e la voce). quasi sussurrata di Leonard Cohen, con l’atout di una chitarra risonante che ha tratti western, salvo poi nel finale scatenare tutta la sua inquietante potenza e pigiare di nuovo a fondo sul pedale del wah-wah, mentre il corpo della melodia è lasciato ai florilegi di un piano acustico quasi jazzistico nel suo divenire.

La title-track Beggar Town, con la musica di Raffaelli e ancora con una chitarra circolare e tagliente come una sega elettrica cerca di dividerci in due prima di consegnarci al “Re dei mendicanti”, il tutto su un drumming ossessivo e con il wah-wah che sparge ancora una volta velenosi accordi. Lifeboat, un altro lentone minaccioso e ciondolante, con la solita chitarra acida ed un piano elettrico che intessono traiettorie blues notturne e sospese è un’altra perla di preziosi equlibri sonori, con il solito Diamantini jr a disegnare sonorità liquide in un brano che a tratti ricorda le atmosfere e le sonorità di una Riders On The Storm per i giorni nostri. Qualche pennata di chitarra acustica ingentilisce il mood di Your Time Is Right Now, una costruzione sonora, dove il cantato corale ricorda la “vecchia” West Coast (anche se loro tecnicamente vengono dalla East Coast) o il “nuovo” Jonathan Wilson, tra Pink Floyd; Yes (lo Steve Howe di Yes Album era un gran solista, sentitevi Yours Is No Disgrace) e cavalcate psichedeliche che poi sfociano in una bella jam strumentale, dove le chitarre soliste raddoppiate e le tastiere trascinano l’ascoltatore verso lidi di pura libidine aurale, veramente un brano corale che dimostra la maturità eccellente raggiunta dal gruppo anche al di fuori delle vecchie sfuriate rock. Keep On Playing chissà perché mi ricorda il buon prog, con un inizio quasi vicino all’incipit del Il Banchetto della PFM o ancora i Led Zeppelin più pastorali, quando la batteria fa il suo trionfale ingresso sulle improvvisazioni del piano che poi lascia spazio ad un assolo di chitarra in crescendo. nella versione dal vivo si è dimostrato quasi inarrestabile nella sua magica fluidità, tra Page e il Bonamassa più legato ai 70’s, ma sempre con quei sottotoni springsteeniani che non guastano, come il cantato, sempre essenziale e mai sopra le righe di un ispirato Marco Diamantini.

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Claim The Sun è una ballatona ariosa, sulle ali di una slide ricorrente e di un piano elettrico essenziale, potrebbe ricordare anche nel timbro vocale di Diamantini Sr. certe cose più meditate dello Steve Wynn della maturità o il meglio della produzione dei Cheap Wine stessi, quelli più riflessivi. Utrillo’s Wine, basata su un aneddoto o una storia vera, un “piccolo tradimento” tra due amici sfigatissimi a Parigi, Modigliani e Utrillo, con il secondo che si vende i pochi stracci del primo per comprarsi due bottiglie di vino e berle alla sua salute, una sorta di parabola della serie non c’è limite al peggio, ridiamo per non piangere, un brano solo piano e voce, che nella melodia iniziale mi ha ricordato, non so se solo a me, il vecchio Cat Stevens (Father And Son?), per poi diventare una umbratile canzone tra Springsteen e il Waits più melodico. Di nuovo chitarre choppate e con il wah-wah innestato, ma accelerano i tempi, il suono si fa più funky-rock ed incalzante in una Destination Nowhere sempre poderosa anche nella sua incarnazione concertistica, con la solista che disegna ghirigori elettrici tra Zappa e Page, ma anche ricordando i “vecchi maestri” Green On Red, che fanno capolino pure nelle violente sventagliate rock’n’roll di una incattivita ode all’Uomo Nero, una Black Man dove anche le cascate pianistiche di Alessio Raffelli hanno un brio e una violenza tipiche del miglior R&,prima di lasciare spazio ad un altro assolo di chitarra di quelli che ti tagliano in tanti pezzettini.

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La minacciosa, nel tempo e nella musica, I Am The Scar, si situa in quel crocevia rock che sta tra i vecchi inni garage-psych di Nuggets, il Petty più rock, il Paisley Underground più cattivo di Wynn e Stuart, con i loro degni compari Karl Precoda e Chuck Prophet. Mentre la conclusione è affidata ad un brano The Fairy Has Your Wings (For Valeria), scritta in memoria di qualcuno che non c’è più ,ma la cui voce, fattezze e ricordi sono sempre vivi nella mente di Diamantini che vuole immortarli per sempre in questa bella canzone, complessa e dal bellissimo crescendo, un inizio malinconico e soffuso, una parte centrale, dove il suono è più ricercato e melodico e una lunga coda pianistica, che nella versione live vista alla presentazione, si chiude con una ulteriore coda strumentale d’assieme, una sorta di catarsi sonora che rende il brano quasi trionfale, peccato non sia presente nella pur bella versione di studio, già oltre i sei minuti e quindi forse siamo extra time, ma ci sarebbe stata veramente bene (questi recensori mai contenti!). Sarà per i prossimi concerti dell’imminente tour che tra ottobre, novembre e dicembre li vedrà in giro per l’Italia a spargere la buona novella (in alcune date anche in versione acustica) di questo nuovo, eccellente disco, e di tutto il loro passato catalogo sonoro http://www.cheapwine.net/concerti.htm. Il giudizio è uno: grande Rock, ma le parole d’ordine sono tre, comprate, comprate, comprate! Soldi spesi bene!

Bruno Conti

Anche Dopo La Sua Morte Prosegue Una Serie “Infinita”! Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.11

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Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.11 – Friday Music

Johnny Winter ci ha lasciati il 16 luglio di questa estate non particolarmente calda, trovato senza vita nella sua camera d’albergo a Zurigo, in circostanze mai chiarite, due giorni dopo la sua ultima esibizione dal vivo http://discoclub.myblog.it/2014/07/17/ieri-oggi-sempre-fedele-true-to-the-blues-boxset-the-johnny-winter-story/ . Come sapete è uscito un nuovo (bellissimo) album di duetti, Step Back, la cui uscita era già comunque prevista, ma prima è stato pubblicato questo capitolo 11 delle Live Bootleg Series, croce e delizia degli appassionati della musica dello scomparso albino texano. Visto che caratteristica di questi album è sempre stata quella di non riportare nome dei musicisti impiegati e date e luoghi dei concerti da cui sono tratti i brani (e anche questo volume non fa eccezione), almeno ci si aspettava che Paul Nelson, curatore della serie, manager e factotum,  spesso secondo chitarrista nella sua band e “amico” di Winter, avrebbe almeno inserito sul CD un piccolo ricordo del musicista scomparso, ma evidentemente era troppo sperarlo. Qualcuno dirà che forse il disco era già pronto e non si potevano fare aggiunte, ma almeno un piccolo sticker avrebbe richiesto veramente poco, però da come è stata gestita la serie non dobbiamo poi meravigliarci troppo.

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I contenuti musicali di questo nuovo album sono i soliti: sei brani, sette se contiamo un Opening di pochi secondi, che a livello musicale vanno dal buono all’eccelso, anche se come qualità di registrazione, al solito, si fatica ad arrivare alla sufficienza, ma d’altronde di Bootleg si parla (anche se uno si chiede come mai i bootleg ufficiali di Dylan e di moltissimi altri si sentano benissimo, ma evidenetmente è una domanda retorica ). Ed in effetti il repertorio di questo disco, ribadisco, a livello musicale è eccellente: si va dall’introduzione fulminante di una poderosa E-Z Rider, quella incisa meglio, tratta dal repertorio di Taj Mahal, tra R&R e Blues, con la voce e la chitarra di Winter, anche con un wah-wah vagamente hendrixiano, subito in gran spolvero https://www.youtube.com/watch?v=8-XdsfGuZVw . Boot Hill, un traditional rivisitato che appariva sul disco Alligator del 1984, Guitar Slinger https://www.youtube.com/watch?v=hSY1MuA091A , non è tra i brani più eseguiti dal vivo nella discografia di Johnny Winter e quindi, in virtù di una ottima esecuzione, dove appare anche un pianista, naturalmente non accreditato (se siamo a metà anni ‘80, potrebbe essere Ken Saydak, ma tiro proprio a indovinare, potrebbe essere chiunque) si ascolta con piacere, anche se la qualità sonora subisce un drastico peggioramento. Notevole il festival slide in una versione fiume di Long Distance Call, uno dei tre brani provenienti dal repertorio del suo mito Muddy Waters.

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Ottima anche la versione di Baby What’s Wrong di un altro dei maestri indiscussi del Blues, Jimmy Reed, dove si sente anche un’armonica, sempre in base al periodo ipotizzo un Billy Branch, non sarà lui ma la butto lì. Non male, per usare un eufemismo, pure una calda e sentita rilettura di She Moves Me, sempre di Mastro Muddy e torrida ed entusiasmante la Rollin’ And Tumblin’ che va a concludere il dischetto, con la chitarra devastante di Winter ancora in modalità slide, come nel brano precedente, a duettare con la solita “timida” armonica sepolta nel mixaggio confuso del disco. Come dice un proverbio “chi si accontenta gode” e qui, almeno a livello vocale e chitarristico, c’è da godersi ancora una volta uno dei più grandi musicisti bianchi che abbia mai suonato il Blues!

Bruno Conti

Un Filo Meno Bello Del Solito! Jimmy Thackery And The Drivers – Wide Open

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Jimmy Thackery And The Drivers – Wide Open – White River Records

Dopo un lungo filotto di dischi, prima per la Blind Pig, poi per la Telarc, e anche uno dal vivo per la Dixiefrog, pure Jimmy Thackery si è dovuto piegare alle logiche di mercato, quindi etichetta indipendente autogestita, e questo Wide Open è il secondo CD che esce con questo sistema di distribuzione, dopo Feel The Heat del 2011. Forse ricorderete che avevo parlato abbastanza bene di quell’album (e sarebbe difficile il contrario) http://discoclub.myblog.it/2011/06/18/questo-uomo-suona-jimmy-thackery-and-the-drivers-feel-the-he/  ma non benissimo, pur essendo chi scrive convinto che Thackery sia uno dei migliori chitarristi attualmente in circolazione, e non solo in ambito rock-blues. Convinzione maturata in decenni di ascolti, prima con i Nighthawks e poi, da una ventina di anni, con i Drivers, in varie incarnazioni, in mezzo ci sono stati anche gli Assassins, i cui dischi sono di difficile reperibilità. Diciamo che anche lui, come Ronnie Earl o Danny Gatton (che addirittura non cantano), e prima ancora Roy Buchanan non brillavano come vocalisti: Thackery se la cava, ma non è un fulmine di guerra, Robillard, che peraltro non è certo Otis Redding o Sam Cooke, è decisamente meglio.

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Però la qualità come solista è pari ai nomi citati. Anche questo nuovo CD non lo annovererei sicuramente tra i suoi migliori in assoluto, palma che potrebbe spettare, Nighthawks a parte, ai due in coppia con Tab Benoit, a We Got It, dove ripercorreva il repertorio di Eddie Hinton, con l’aiuto dei Cate Brothers, ai vari Live, e ad altri CD dell’epoca Blind Pig e Telarc. Per questo Wide Open Jimmy Thackery si è preso il suo tempo, un paio di anni per concepire i brani e poi per registrarli ad Aprile di quest’anno negli studi di Cadiz, Ohio, con i due pards, Mark Bumgarner al basso e George Sheppard alla batteria https://www.youtube.com/watch?v=rgO3-xcOIbw . Il risultato è un disco più rilassato, a tratti jazzato, a tratti “atmosferico”, non privo delle sue feroci cavalcate chitarristiche rock-blues, ma che si può definire tanto eclettico quanto discontinuo, Wide Open per dirla con il buon Jimmy. Si parte con il jazz-blues swingato di Change Your Tune, con un cantato assai “rilassato” di Thackery, che però alla solista può suonare quello che vuole, con una disinvoltura disarmante. Anche Minor Step ha un taglio jazzistico, uno strumentale che oscilla tra Wes Montgomery, Robben Ford e certe cose di Ronnie Earl, niente male insomma. Coffee And Chicken è il primo vero blues, i Drivers rendono omaggio al loro nome e il nostro comincia ad affilare le stilettate della sua chitarra, anche se la parte cantata è sempre troppo sforzata. King Of Livin’ On My Own vira addirittura verso lidi country, con Thackery impegnato all’acustica in un brano che non è proprio un capolavoro. Hard Luck Man è il Thackery che più ci piace, un blues-rocker ricco di riff, con una grinta alla Nighthawks e la chitarra che “vola” https://www.youtube.com/watch?v=eeS2Bv4xdkY . Shame Shame Shame, il brano più lungo di questa collezione, quasi otto minuti, è uno strano slow blues elettroacustico dove Thackery si cimenta alla slide acustica, ma non resterà negli annali del blues.

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Molto meglio parlando di blues lenti una You Brush Me Off dove Jimmy se la batte con il miglior Ronnie Earl, uno di quei classici brani in crescendo che si gustano tutti d’un fiato https://www.youtube.com/watch?v=WHwKuLLngo8 , mentre Someone Who’s Crying Tonight, nonostante la presenza di Reese Wynans all’organo Hammond, fatica a decollare, un altro lento più parlato che cantato, ancora vicino ad atmosfere vagamente outlaw country-rock, sempre in attesa di un assolo che non arriva mai. Keep My Heart From Breakin’ torna al rock-blues più sanguigno, quello che di solito impazza nei suoi dischi, ma Swingin’ Breeze è un brano più adatto ai dischi jazz di Robillard o di un Herb Ellis, uno strumentale suonato benissimo ma non è il genere chi mi aspetto da Thackery e Run Like The Wind, un blues acustico, solo voce e chitarra, non è che metta il fuoco alle chiappe dell’ascoltatore. Rimane la conclusiva Pondok, un interessante brano strumentale che rende omaggio all’arte dei citati Buchanan e Gatton, un esercizio di grande perizia tecnica che però non solleva completamente le sorti dell’album. Ovviamente parere personale, magari non condivisibile, ma sapete che amo essere sincero. Gli anni passano e Thackery è un distinto signore di 61 anni, ma mi aspettavo di più, la classe c’è, ma solo a tratti.

Bruno Conti