Il Rirorno Dei Del Amitri: “Profeti” In Patria! – Into The Mirror: Del Amitri Live In Concert

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Del Amitri – Into The Mirror: Del Amitri Live In Concert – 2 CD –  Heard Through A Wall Records – Self Released

Di questo gruppo vi avevo accennato, per vie traverse, recensendo l’ultimo lavoro solista del suo leader Justin Currie (Lower Reaches (13http://discoclub.myblog.it/2013/08/25/nuovamente-uno-scozzese-alla-ribalta-justin-currie-lower-rea/ ), e devo dire che nonostante una lunga storia trentennale i Del Amitri hanno prodotto solo sei album in studio, di cui l’ultimo Can You Do Me Good? nel lontano 2002; dopo lo scioglimento (dovuto “in primis” alla carriera solista di Currie), hanno pensato di riunirsi per una serie di concerti tenutisi lo scorso anno, per incidere finalmente (anche per omaggiare i fans) il primo live ufficiale della loro carriera. La ricomposta line-up del gruppo vede sempre alla guida i tre ex-ragazzi di Glasgow, i due leader storici Justin Currie voce e basso e il chitarrista Iain Harvie, il tastierista Andy Alston, con il recupero di due membri dell’ultima formazione, il batterista Ashley Soan, e il chitarrista Kris Dollimore, proponendo sul palco un pop chitarristico di chiara matrice americana.

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Il primo “set” si apre con  Always The Last To Know https://www.youtube.com/watch?v=Nox57hdgeAU , che con Just Like A Man, The Ones That You Love Lead You Nowhere, uno dei primi “hit” Just Like A Man e Be My Downfall, sono estratti da Change Everything (92), seguite da un trittico  composto da What I Think She Sees, Not Where It’s At e la splendida Sleep Instead Of Teardrops, pescate dal poco considerato Some Other Sucker’s Parade (97). Dall’album d’esordio Walking Hours (89) la band rilegge Kiss This Thing Goodbye e una meravigliosa ballata (che resiste al tempo) come Nothing Ever Happens, mentre Food For Songs, Tell Her This e Roll To Me https://www.youtube.com/watch?v=2NamDzYSS8o  vengono prese da Twisted (95), chiudendo la prima parte del concerto con la quasi inedita tenue ballata acustica In The Frame, b-side di un singolo del 95 https://www.youtube.com/watch?v=YIsv56teKE0 . La seconda parte riprende con un’altra meravigliosa ballata “unplugged” Driving With The Brakes On sempre da Twisted (95) https://www.youtube.com/watch?v=uFOltwvjfIQ , come la pop-song Oasis-style Being Somebody Else e In The Meantime, a cui fanno seguito due brani recuperati anche dall’antologia Hatful Of Rain (98), come la rockeggiante Hammering Heart, in origine sul primo omonimo e la corale Here And Now, ancora da Twisted https://www.youtube.com/watch?v=JJUBz5CqiZc  e un altro brano uscito come singolo nell’89, la tambureggiante e chitarristica Spit In The Rain. Con Drunk In A Band e il “groove” deciso di Just Before You Leave https://www.youtube.com/watch?v=jAC-nZ64wq0  si ritorna ai tempi un po’ “naif” di Can You Do Me Good?, per poi andare a chiudere in gloria con Stone Cold Sober e le note à la Lou Reed della celebre Move Away Jimmy Blue, tratte (per chi scrive) dal capolavoro del gruppo Walking Hours.

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Questo live dei Del Amitri raccoglie alcune delle canzoni pop più trascurate degli anni ’90, e ha in Justin Currie  probabilmente uno degli autori più sottovalutati della propria generazione, quindi si tratta di un grande ritorno per una band quasi dimenticata che, in questa occasione, in ogni “performance”  live dà il meglio di sé in ciascuna canzone, quasi a confermare che gli scozzesi sono ancora un gruppo rassicurante per i loro tanti sostenitori (in attesa di un eventuale ipotetico nuovo lavoro in studio se ci sarà). Da riscoprire!

NDT: Dato il successo del Tour, questo doppio CD, stampato in 2.000 copie, numerate ed autografate, uscito ad ottobre, è già praticamente esaurito ed introvabile, ma se vi armate di sana pazienza si può scaricare a pagamento in rete sulle varie piattaforme. Buona ricerca, ne vale la pena!

Tino Montanari

Asso (Di Picche) Della Chitarra? Dave Fields – All In

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Dave Fields – All In – FMI Records

A distanza di uno anno e mezzo circa dal precedente Detonation  http://discoclub.myblog.it/2013/02/17/piu-un-grosso-petardo-che-una-bomba-ma-il-botto-lo-fa-dave-f/ eccoci di nuovo a parlarvi di Dave Fields. E non posso che confermare per questo All In quanto detto per il precedente album. Il signore in questione è bravo, tecnicamente è quello che si può definire un “chitarrista della Madonna”, però anche questo CD ha gli stessi “difetti” e i pochi pregi del precedenti: non c’è più alla produzione il mio arci-nemico David Z, ma il sound rimane, per non dire bombastico, comunque molto robusto, un rock-blues energico, dove la quota blues è molto limitata rispetto al rock, che trovate in abbondanza. Il disco è autoprodotto (nel frattempo ho scoperto che Fields ha una sua società che realizza musica per colonne sonore, commercials per TV e radio e anche dischi di tanto in tanto, ed in passato era stato il direttore musicale per i New Voices Of Freedom, il gruppo newyorkese che appariva in Rattle and Hum degli U2, quindi direi non un novellino), e questo è il quarto, non secondo, disco per il musicista (due in vendita solo sul suo sito http://www.davefields.com/): per onestà vi segnalo anche che il musicista ha avuto vari attestati di stima, a partire da Hubert Sumlin a vari colleghi e musicisti che gravitano nell’area intorno al blues, e quindi confermo che sicuramente è bravo, non lo discuto, ma rimango del mio parere, anche in questo ambito il buon Dave non è uno da prima fascia, forse soddisferà chi è alla ricerca di buon rock-blues chitarristico, ancorché assai tirato https://www.youtube.com/watch?v=kRVaUMTcGxI .

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Non per nulla, e partiamo dal mezzo, due dei brani “salienti” dell’album sono delle cover di brani celeberrimi: una versione di Crossroads, proprio quella di Robert Johnson, che diventa Cross Road, forse perché Dave Fields ha aggiunto un quarto verso alla canzone (ce n’era bisogno?!?) e l’ha tramutata in un pezzo alla Satriani o Vai, durissima ed iper tecnica, con chitarre molto lavorate e a tratti hendrixiane, anche se Jimi era un’altra cosa. Per non parlare di Black Dog, proprio quella dei Led Zeppelin, registrata dal vivo in un piccolo club in Norvegia, con musicisti locali, che invece diventa una sorta di funky-blues rallentato https://www.youtube.com/watch?v=SGhkRltJzN8 , forse perché Fields non può competere a livello vocale con Plant, insomma ho sentito migliori versioni di entrambe, per essere buoni!

Anche altre parti del disco sono registrate live, ma in studio, come la poderosa Changes In My Life, che apre le operazioni e ci permette di gustare l’abilità chitarristica di Dave che sciorina una serie di solo notevoli, non per nulla la migliore, che illude sulla consistenza dell’album, ma se merita diciamolo. O l’orgia hendrixiana, fin dal titolo, Voodoo Eyes, dove wah-wah e organo cercano di ricreare atmosfere rock storiche, ma l’originale era inarrivabile e questa è una pallidissima copia. Let’s Go Downtown è un funkettone piacevole ma nulla più, con Fields che si esibisce anche al basso e l’assolo più di tanto non può redimere, Dragon Fly, ha una bella intro strumentale atmosferica giocata su toni e livelli, ma poi il brano non decolla, virando su sonorità quasi prog, dove si apprezza giusto la chitarra solista. Il brano più blues (rock) è sicuramente Wake Up Jasper, una sorta di shuffle robusto, posto tra le due cover, dove si apprezza il piano di Dave Keys e anche Got A Hold On Me si salva, ma nulla più. Conclude Lovers Holiday in cui Fields ci propone una sorta di piacevole variazione acustica sul tema. Anche in questo caso il disco meriterebbe almeno tre stellette per il lavoro chitarristico, ma per il resto una è di mancia!

Bruno Conti

Un Terzetto Di “Combattenti” Rock! Da Brooklyn The Last Internationale – We Will Reign

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The Last Internationale – We Will Reign – Sony Music/Epic

Non è un disco recentissimo (è uscito sul finire di settembre dello scorso anno), ma quando vieni a conoscenza di certi gruppi o artisti, come questi The Last Internationale, che ti colpiscono, è doveroso e giusto (come abbiamo sempre fatto) segnalarli. Vengono da Brooklyn (NYC), e amano definirsi un trio “folk radicale”, un progetto che spazia tra musica e attivismo politico, che ha sorpreso tutti gli addetti ai lavori sia per la qualità dei componenti che per l’affidabilità del songwriting, con testi che raccontano storie di Indiani d’America, di “new economy”, di banche ladre ed inique, e tutta l’ingiustizia che l’umanità deve subire, alla fine con un disco che suona soltanto come del “vecchio” e sano rock and roll. L’artefice di questo splendido album di debutto è senza dubbio il musicista Tom Morello (leader dei Rage Against The Machine e amico di Bruce)), che ha portato in dote come consulenti artistici il produttore Brendan O’Brien (Pearl Jam, Springsteen) e Brendan Benson (tra gli altri, Raconteurs), un contratto con la Sony e  il batterista aggiunto Brad Wilk (dei RATM, Audioslave e ultimamente Black Sabbath): così Edgey Pires alla chitarra, e la voce bellissima della fascinosa “frontwoman” Delila Paz (non è un paragone azzardato, ma era dai tempi della grande Grace Slick che non mi entusiasmavo così per la cantante di un gruppo), suonando con anima, corpo e grinta in questo We Will Reign, registrato nei noti Henson Studios di Hollywood, sono partiti alla conquista dell’America (passando anche dal David Letterman Show https://www.youtube.com/watch?v=Tq3OaQvgXPU )!

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Tamburi martellanti annunciano l’iniziale Life, Liberty, And The Pursuit Of Indian Blood (sui temi dei compromessi della vita del popolo indiano), seguita dalla title track We Will Reign (pescata dal repertorio del “vecchio” autore rock americano Marti Frederiksen https://www.youtube.com/watch?v=vDy3NXVBQtI ), per poi passare ad una ballata western come Wanted Man (con un bellissimo video https://www.youtube.com/watch?v=sTXlK-O2Q8E ), dove viene messa in risalto la grinta della Paz, la rocciosa Killing Fields  (già sentita nella serie di successo Justifield https://www.youtube.com/watch?v=VcpZX6Wt37A ), e l’ariosa cavalcata di suoni in Battleground. Con Baby It’s You (cover delle Shirilles e dei Beatles), i tre addirittura vanno a spulciare l’immenso “songbook” del duo Bacharach/David https://www.youtube.com/watch?v=tht6exR_Fbk , a cui fanno seguire due ballate come Devil’s Dust https://www.youtube.com/watch?v=Lu0EQYlXhTE  e I’ll Be Alright, dove sembra di sentire la Chrissie Hynde più grintosa dei tempi d’oro, per tornare ai canti rivoluzionari con l’infuocata Fire, e la commemorativa 1968, con echi dei Black Keys.

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La Band The Last Internationale, capitanata dalla portoricana dai capelli corvini Delila Paz, come già detto e  ripetuto, nelle loro canzoni parlano di fuorilegge e indiani, citano il ’68 ed inneggiano alla rivoluzione (spero pacifica), a dimostrazione che la musica può essere ancora utilizzata per combattere le “storture” di questo mondo, pur essendo progressisti nei contenuti ma tradizionalisti nella forma. Infatti We Will Reign è un lavoro di classic rock contemporaneo, e i Last Internationale una delle più convincenti sorprese dell’ultimo periodo, a dimostrazione che il Rock è (ancora) vivo e vegeto  https://www.youtube.com/watch?v=3pUcs8mym3I ! Per chi vuole investigare ulteriormente hanno pubblicato in precedenza, a livello indipendente e con un suono più ruspante, un paio di album e un EP dove affrontano anche vecchi blues e traditionals

NDT: Mi vien da pensare, che se i Last Internationale fossero italiani, sarebbero ospiti fissi del Concertone del 1° Maggio, ma mai dire mai !

Tino Montanari

Ancora Chitarristi! Eric Gales – Good For Sumthin’

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Eric Gales – Good For Sumthin’ – Cleopatra Records

Il cambio di etichetta, dalla Tone Center/Shrapnel alla Cleopatra, e di produttore, da Mike Varney a Raphael Saadiq, poteva far presagire un radicale cambio di suono e di stile di Eric Gales, ma mi pare che il nostro si mantenga fedele al suo sound abituale, una miscela di rock hendrixiano, blues decisamente energico, giravolte jazz-rock e prog, con una più accentuata attitudine al funky, portata probabilmente dal nuovo produttore, bassista e buon interprete delle nuove frontiere del soul e del R&B. Forse il brano che meglio esemplifica questa “nuova” svolta è l’unica cover del disco, una versione di Miss You, che suona molto come potrebbe averla fatta Hendrix ai tempi della Band Of Gypsies, intro spaziale, poi il classico groove ritmato del brano, sottolineato dal poderoso giro di basso, suonato per l’occasione da Saadiq, e le immancabili improvvisazioni della solista del mancino Gales, imperdibile https://www.youtube.com/watch?v=TgNbu3Ue7wI ? No, però si lascia ascoltare. Continuiamo con la disamina dei brani posti in coda al disco e poi andiamo a ritroso: Steep Climb è un duetto con l’hard rocker Zakk Wylde, molto vicino ai brani registrati con i PGP (Pinnick, Gales & Pridgen) http://discoclub.myblog.it/2014/09/12/fenomeni-nuovo-capitolo-pinnick-gales-pridgen-pgp-2/ , rock decisamente duro, con chitarre in libertà, spesso in modalità wah-wah https://www.youtube.com/watch?v=w11_N_qfx9c , l’ultimo brano E2 (Note For Note) è uno strumentale registrato in coppia con Eric Johnson, in quell’area prog-jazz-rock che già presagivo nella recensione del precedente Ghost Notes http://discoclub.myblog.it/2013/12/11/il-figlioccio-jimi-hendrix-tenta-nuove-strade-eric-gales-trio-ghost-notes/ , brano virtuosistico che sarà apprezzato dagli appassionati dei chitarristi molto tecnici ed entrambi lo sono.

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Per il resto i fans di Gales (che fisiognomicamente ricorda Will Smith, fateci caso) possono stare tranquilli (forse solo loro), siamo di fronte a del solido rock-blues, anche se quei guizzi in cui si accende la fiamma dell’ispirazione, come capita nei dischi live, sono meno numerosi che ad inizio carriera: si  va dal potente blues-rock in black and white di Come A Long Way, con il pirotecnico solismo del buon Eric, all’orgia wah-wah di 1019, sempre ispirata dal suo mito Jimi https://www.youtube.com/watch?v=50KUWVEksIU , anche se non manca il boogie-blues tirato, alla ZZ Top, di Going Back To Memphis, le derive più funky, ma sempre belle “cattive” della title-track https://www.youtube.com/watch?v=rZocjX55gFo  e l’eccellente slow blues primo amore, sia pure meticciato, di una torrenziale Six Deep, dove Gales mette in mostra tutta la sua abilità di axeman https://www.youtube.com/watch?v=iMmygR5nJys . You Give Me Life è una piacevole ballata elettrica che mette in evidenza, come nel resto del disco, la produzione nitida e secca di Saadiq, mentre Heaven’s Gate è un’altra botta di adrenalinico rock-blues ad alta densità chitarristica e Tonight (I’m Leaving), scritta, come altre presenti nel disco, con il fratello Eugene (il terzo dei Gales Brothers era Manuel, più noto come Little Jimmy King, forse il più bravo dei tre, scomparso nel 2002), ha un assolo lancinante che la eleva da una aurea mediocrità. Show Me How è un ballatone acoustic soul dove si sente lo zampino di Saadiq, che vocalizza sullo sfondo, non c’entra un tubo con il resto dell’album, ma rimane comunque assai godibile. Del resto si è detto.

Bruno Conti

Ne’ Moderno, Ne’ Antico, Solo Blues Sopraffino! Howell Devine – Modern Sounds Of Ancient Juju

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Howell Devine – Modern Sounds Of Ancient Juju – Arhoolie/Ird

Terzo album per questa inconsueta band americana, che prende il nome dai due componenti principali della formazione, Joshua Howell, cantante, chitarrista ed armonicista, e Pete Devine, batterista e percussionista, proponendoci la loro particolare visione del blues, che sembra provenire, grazie a qualche primitiva macchina del tempo, dalle origini di questa musica, intorno agli anni ’20 o ’30, in un qualche juke joint lungo le rive o il Delta del Mississippi, però attenzione stiamo parlando di una band contemporanea, composta da tre musicisti dei giorni nostri, bianchi per di più. Il loro secondo album (e primo per la Aarhoolie, che non metteva sotto contratto un musicista nuovo da una infinità di tempo) aveva un titolo perfetto per definire il tipo di musica, Jumps, Boogies & Wobbles https://www.youtube.com/watch?v=BPXI4ejS7jc , ma anche questo nuovo non scherza, Modern Sounds Of Ancient Juju  (e anche le copertine sono suggestive)! Joshua Howell, il leader, si divide tra chitarra, slide, armonica e canta con un voce spesso laconica e rilassata, ma allo stesso tempo precisa ed espressiva, Pete Devine, utilizza un kit di batteria molto ridotto, ma che gli permette di mostrare comunque una tecnica raffinatissima, sentite cosa non riesce a combinare nella sua composizione, Woogie Man, uno strumentale fantastico dove lui e il nuovo contrabbassista Joe Kyle jr, fanno i numeri ai rispettivi strumenti, mentre Howell lavora di fino all’armonica.

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Quindi musica semplice e primordiale, se vogliamo, come possiamo riscontrare ad esempio nella bellissima cover di I Can’t Be Satisfied di Mastro Muddy Waters, posta in apertura dell’album, forse poco elettrica nella strumentazione, ma elettrizzante nei risultati, con la slide di Howell che guizza e serpeggia alla grande https://www.youtube.com/watch?v=HPArJOgtGCs , se vogliamo fare un paragone forse può ricordare l’R.L. Burnside dei dischi anni novanta per la Fat Possum, meno selvaggio e più misurato, ma ricco di  feeling. Ci sono un paio di brani a firma Frank Stokes, uno dei bluesmen delle origini, It Won’t Be Long Now, dove Devine passa al washboard (come in parecchi brani dell’album) e il suono si fa ancora più minimale, qui si viaggia su sonorità alla Mississippi Fred McDowell o tipo i primissimi Hot Tuna, quelli acustici. Anche la cover di She Brought Life Back To The Dead, scritta da Sonny Boy Williamson II, ha questo suono scarno e primigenio, con un tipo di approccio vocale che potrebbe ricordare i pionieri bianchi del primissimo british blues, Cyril Davies, Alexis Korner e pure il John Mayall degli esordi, grazie all’uso continuo dell’armonica (un altro armonicista che non ha bisogno di presentazioni, Charlie Musselwhite, firma le brevi note di copertina, mentre anche Maria Muldaur ha espresso la sua ammirazione per questa band).

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Si prosegue con un brano originale di Joshua Howell, Let You Go, che comunque suona esattamente come le cover, con la chitarra acustica che sostituisce l’armonica https://www.youtube.com/watch?v=39IML7JMrZA . Quando passa all’elettrica, per l’altra cover di Stokes, Sweet To Mama, il suono rimane laconico ed essenziale ma sempre di grande efficacia, con il piedino che si muove a tempo con il ritmo, detto di Woogie Man, anche House In Field, firmato dall’accoppiata Howell/Devine, potrebbe venire dal repertorio di qualche oscuro bluesman degli anni ’20, mentre Shake ‘Em Down è proprio quella di Bukka White, e qui il sound si fa più elettrico, parte il boogie  https://www.youtube.com/watch?v=8uN6wdBaTmo , sembra quasi di ascoltare i primi Canned Heat o Hound Dog Taylor, con l’amplificazione ridotta al minimo, ma Howell e soci lavorano di fino, la chitarra slide viaggia alla grande e la band dimostra tutto il proprio valore con una grinta notevole. It’s Too Late Brother è un vecchio brano anni ’50, scritto dal batterista della Chess Al Duncan per il suo datore di lavoro Little Walter, ed è un altro tour de force per Howell, altrettanto bravo all’armonica quanto alla chitarra, Rollin’ In Her Arms è un altro brano originale del buon Joshua che dice di essersi ispirato a Howlin’ Wolf, un altro secco blues di grande impatto https://www.youtube.com/watch?v=uPzSNjjNt5s . Chiude la spettacolare Railroad Stomp, registrata dal vivo in un club di Richmond, California, la terra da dove proviene questo trio di musicisti, una classica “train tune” di quelle vorticose https://www.youtube.com/watch?v=15S_ElxpPz4 , con armonica, batteria e contrabbasso che partono per un viaggio nella stratosfera del country-blues. In una parola, bravissimi!

Bruno Conti    

“Grandi” Nomi Ma Piccoli Risultati. Chris Spedding – Joyland

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Chris Spedding – Joyland – Cleopatra Records

Chris Spedding è stato uno dei protagonisti del rock inglese negli anni ’70, anzi era già in pista sul finire dei Sessanta, prima nei Battered Ornaments di Pete Brown e poi nella sua prima opera discografica nel Frank Ricotti Quartet con Our Point Of View. Però la sua fama gli deriva soprattutto dal fatto di avere suonato in due dei dischi più belli del Jack Bruce solista, Songs For A Taylor e Harmony Row, immancabili in ogni discoteca che si rispetti, e di essere stato presente nella realizzazione del primo disco dei Nucleus, Elastic Rock, uno dei primi esempi del jazz rock britannico, influenzato dalla svolta elettrica di Miles Davis. Sempre nel 1970 registra il suo primo album strumentale Songs Without Words, uscito solo in Giappone ed Europa, e dimostrando la sua profonda ecletticità partecipa ad un paio dei migliori album di Nilsson, al disco solista di Chris Youlden dei Savoy Brown e fonda gli Sharks, con l’ex bassista dei Free Andy Fraser. Tutti dischi che fanno curriculum ma non sono rimasti nella storia del rock.

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Anche gli altri dischi usciti in quel periodo, tra cui uno, Only Lick I Know con Alan Parsons,  allora ingegnere del suono nei famosi Abbey Road Studio. Nel 1975 esce un album omonimo che contiene la prima versione di quella che diventerà la sua canzone simbolo, Guitar Jamboree https://www.youtube.com/watch?v=QqpJj2H5Tq0  (forse non avevamo detto che suona la chitarra), una sorta di excursus negli stili dei grandi solisti del rock, un po’ come faceva Alvin Lee nei medley contenuti nei suoi brani più celebri, dove venivano citati i licks di questi grandi chitarristi. Collaborazioni con Brian Eno, Roxy Music, Sex Pistols (!?), John Cale, Roy Harper, ma anche i Wombles di Mike Batt, dove suonava vestito da animale di pelouche e altre amenità, prima di approdare sul finire della decade ad un lungo sodalizio con Robert Gordon in sostituzione di Link Wray. Senza approfondire ulteriormente (ma ha suonato anche in Raindogs di Tom Waits e in due dischi anni ’90 di Willy DeVille, Big Easy Fantasy e Loup Garou) Chris Spedding “è stato” soprattutto un gregario (per quanto grande) ed i suoi dischi solisti non sono mai stati particolarmente memorabili. Quindi una “preda” ideale per la Cleopatra, specializzata nel ripescaggio di personaggi non dico bolliti ma spesso dimenticati dal grande pubblico. E cosa ti hanno pensato per questo album Joyland? Perché non lo affianchiamo con alcuni nomi celebri del (suo) passato? Idea anche non peregrina, il problema è che il risultato, come spesso succede con i dischi dell’etichetta californiana, vedi i loro tributi, è molto altalenante a dir poco. Questo è il motivo per cui mi sono incentrato soprattutto sul passato: comunque il disco, spesso bruttino, nonostante gli eccellenti musicisti utilizzati, basta ricordare Andy Newmark e Martin Chambers dei Pretenders, che si alternano alla batteria, Johnny Marr degli Smiths e Andy Mackay dei Roxy Music, al sax.

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Proprio il brano con il buon Andy, una cover di Pied Piper (la “nostra” Bandiera Gialla) è quanto di più pacchiano mi sia capitato di ascoltare da lungo tempo, ma anche lo pseudo country-rockabilly di Cafe Racer con Glenn Matlock dei Sex Pistols, non è memorabile, per quanto tra le meno peggio. Quasi sempre nei brani ci sono sprazzi di classe chitarristica di Spedding, ma il recitato dell’attore Ian McShane nell’iniziale Joyland non si può sentire https://www.youtube.com/watch?v=X-TEjxbisls . Fa eccezione una poderosa Now You See It con un gagliardo Arthur Brown alla voce https://www.youtube.com/watch?v=B0XlLrZuqns , ma in Gun Shaft City una sorta di desertic blues di stampo americano Bryan Ferry non sembra molto a suo agio e anche il duetto strumentale con Marr in una Heisenberg che oscilla tra musica gitana e atmosfere country-morriconiane mi ispira un bel bah! Brividi non di piacere, anche in I Still Love You dove la bella voce di Robert Gordon viene ingabbiata e sommersa in una costruzione di batterie elettroniche e coretti irritanti https://www.youtube.com/watch?v=k35WMorFXZA . Anche la collaborazione con Steve Parsons (il vecchio Snips degli Sharks), Shock Treatment  vorrebbe essere “moderna” ma è una palla. E pure l’altro vecchio pard, Andy Fraser, al di là di qualche giro di basso, non fa un gran figura, meglio nel rock ribaldo di Message For Stella https://www.youtube.com/watch?v=Fcuu-nH_I2U   Non so chi sia Lane, una piacevole vocalist femminile, ma il suo duetto con Spedding in I’m Your Sin è uno dei rari momenti positivi del disco https://www.youtube.com/watch?v=YHr6SWAoIk8 . Stendendo un velo pietoso sulla conclusiva Boom Shakka Boom vi lascerei con un bel mah ?!?.

Bruno Conti      

Sono Sempre Belli! Jeff Healey Band – Live At The Legendary Horseshoe Tavern

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Jeff Healey Band – Live At The Legendary Horseshoe Tavern 1993 – Eagle Rock

Questo dovrebbe essere il decimo album postumo di Healey (contando anche Mess Of Blues, che usciva proprio nei giorni del marzo 2008 in cui moriva il chitarrista canadese), di cui sette dal vivo, compresi cofanetti con più concerti. Ovviamente il repertorio è più o meno simile nelle varie serate riportate su CD e DVD, ma finché questi dischi saranno così belli, rimarrà comunque un piacere (ri)ascoltare quello che la famiglia e la sua casa discografica vorranno farci ascoltare pescando da questi archivi che sembrano inesauribili, pur essendo durata la carriera di Jeff Healey solo una ventina di anni (ma a 45 anni di distanza dalla morte di Hendrix continua ad uscire materiale inedito del mancino di Seattle, la cui carriera durò quattro anni scarsi, per cui mai dire mai). L’Horseshoe Tavern è un piccolo locale di Toronto,  la cui capacità è di circa 350 posti, ma giustifica la sua qualifica di “leggendario” con la longevità del club, aperto dal 1947 e dalla qualità degli artisti che si sono succeduti sul suo palco negli anni: persino gli Stones hanno aperto il loro Bridges To Babylon Tour del 1997, con un concerto mandato in onda da MTV. Quindi proprio il locale ideale per ascoltare musica e questo si percepisce anche da questa serata di Healey nella sua città natale, dove non era infrequente ascoltarlo.

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Siamo al 16 Dicembre del 1993, un anno non coperto, mi pare, dalle precedenti uscite di materiale dal vivo, a circa un anno dall’uscita di Feel This, album del quale vengono eseguiti quattro brani in questo Live At The Legendary Horseshoe Tavern, la band si presenta nella versione allargata a quattro, con Washington Savage aggiunto alle tastiere e Mischke & Toucu come backing vocalist, oltre agli immancabili Joe Rockman al basso e Tom Stephen alla batteria. Jeff Healey non rientra di solito nelle liste dei 100 più grandi chitarristi all-time, compilate da varie riviste, ma in un ambito prettamente rock-blues, per chi scrive, ci sta comodamente: un solista dallo stile particolare, quasi unico, con la chitarra appoggiata in grembo, suonata a mo’ di lap steel, ma nei momenti di furore, quando Jeff si alzava dalla sua posizione seduta, brandita come un’ascia ed in grado di rilasciare scariche di pura potenza chitarristica e anche in questo concerto ce ne sono parecchie prove, visto che siamo ancora in uno dei momenti migliori della carriera di Healey, quindi se rock-blues deve essere, così sia. Si parte con due brani tratti da Feel This, Baby’s Lookin’ Hot, un onesto rock’n’soul con coriste e organo in evidenza e The House That Love Built, un buon pezzo dal repertorio di Tito And Tarantula, sempre con l’Hammond di Savage che supporta la solista di Jeff che comincia a scaldare i motori. Primo classico della serata, la “solita” versione” gagliarda di Blue Jean Blues degli ZZ Top, uno dei cavalli di battaglia di Healey, che comincia a far volare le dita sul fretboard della sua chitarra, sentita decine di volte, ma sempre bellissima https://www.youtube.com/watch?v=PUGoeTePdWE . A seguire una bella versione di I Think I Love You Too Much, brano scritto da Mark Knopfler, ma eseguito per la prima volta dallo stesso Jeff,  e poi un altro brano da Feel This, la poco conosciuta Heart Of An Angel, di nuovo con le coriste in bella evidenza e una solida grinta rock-blues nell’esecuzione, con Healey che gigioneggia alla solista da quel consumato performer che è stato.

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That’s What They Say era sul primo album, una bella ballata, solo voce e chitarra acustica, seguita dall’ultimo brano tratto da Feel This, You’re Comin’ Home, altra romantica canzone d’amore eseguita in versione acustica, con la band. L’immancabile Angel Eyes, l’ultima della parte unplugged del concerto, è il bellissimo brano scritto da John Hiatt, e non manca di emozionare, con Healey che conferma una volta di più le sue doti di cantante https://www.youtube.com/watch?v=5Bp-m5JfxYg . Ma con la chitarra elettrica è una vera potenza, prima una devastante cover del pezzo dei Doors, quella Roadhouse Blues che era nella colonna sonora del film omonimo https://www.youtube.com/watch?v=ybnxD1tJUNA  e poi una lunghissima versione, oltre dieci minuti, del brano più bello scritto da Jeff Healey, See The Light, con un wah-wah hendrixiano devastante e tutta la band in spolvero https://www.youtube.com/watch?v=LqwsDwqbUVw . Negli encores, prima un altro classico come While My Guitar Gently Weeps, che Jeff aveva inciso con la presenza del suo autore, George Harrison, nell’album Hell To pay, a conferma della stima di cui godeva presso i colleghi musicisti. Il secondo bis e chicca della serata è una rara versione di The Thrill Is Gone, il brano più celebre di BB King, con Jeff Healey ispiratissimo alla sua solista in questo must del Blues  https://www.youtube.com/watch?v=QHP-_bEzSvE . Un’altra bella serata per un grande musicista!

Bruno Conti

Deliziosamente Invernali… Forse Il Nome Non Dice Nulla, Ma E’ Chris Eckman! Distance, Light & Sky – Casting Nets

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Distance, Light & Sky – Casting Nets – Glitterhouse Records

Ultimamente Chris Eckman non sbaglia un colpo, e questo nuovo progetto elaborato dal musicista americano (dopo il suo gruppo storico i Walkabouts e più recentemente i Dirtmusic), che lo vede accanto alla cantante olandese Chantal Acda ed al percussionista belga Eric Thielemans, si avvicina molto al filone meraviglioso del duo Chris & Carla. Questo debutto dei Distance, Light & Sky, avviene negli Studi di Praga (ormai “tana” abituale di Chris), con il leggendario produttore Phil Brown (uomo di fiducia dei Talk Talk), e il trio, composto oltre che da Chris chitarra acustica e voce, come già detto, dalla cantante e pianista Chantal Acda e dal percussionista di formazione classica Eric Thielemans, ha realizzato delle “sessions”  da cui sono scaturiti dieci brani di minimale bellezza e atmosfera.

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Il minimo comun dominatore di Casting Nets sembra essere la struttura di queste ballate, a partire dagli arpeggi “desertici” di Son, cantata in duetto da Chris e Chantal (come peraltro buona parte dei brani), le dolci note di pianoforte che accompagnano Still On The Loose ed il crescendo emozionante di Cold Summer Wood  https://www.youtube.com/watch?v=PQPqlmRBihA  (brani che che ricordano i giorni migliori dei Walkabouts), passando per la scarna This Place sussurrata da Chantal, e l’inizio tambureggiante di You Were Done, con un parsimonioso utilizzo delle tastiere. La seconda parte del lavoro inizia con la voce baritonale di Chris e con un brano che porta il titolo del gruppo Distance, Light & Sky, a cui fanno seguito le rarefatte note di Soul e il folk-noir di una dolente Riding Shotgun, per poi ritornare improvvisamente al vigore quasi country-rock di Western Avenue, e andare a chiudere di nuovo con la suadente voce di Chantal, nel pop limpido e timido di 50’s Song.

Il debutto dei Distance, Light & Sky con Casting Nets, è composto da una serie di canzoni che sembrano nate per coinvolgere l’ascoltatore attraverso la malinconia di un suono tranquillo e calmo, multiforme e sfumato, dove i dettagli sono il vero punto di forza, ed è quindi affascinante ascoltare questi duetti di Chantal e Chris che cercano di esplorare nuovi orizzonti, (anche se siamo di fronte ad un lavoro che certamente non sarà ricordato come un capolavoro), ma che dimostra ancora una volta la sensibilità di autore di Chris Eckman. Da ascoltare in queste ultime fredde serate invernali (aspettando con impazienza, se ci sarà, il prossimo lavoro dei Walkabouts).

Tino Montanari

Rock, Blues & Jazz! Eric Johnson And Mike Stern – Eclectic

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Eric Johnson & Mike Stern – Eclectic – Vortexan Music/Concord

Per gli appassionati di chitarristi un disco da sedici stellette, ma anche i non fanatici avranno motivo di apprezzare, non così esageratamente virtuosistico come ci si potrebbe aspettare, o meglio lo è ma, tenendo fede al suo titolo, è talmente “eclettico” che lo può ascoltare sia chi apprezza il jazz quanto il rock, anche la fusion se volete, ma con ampi sprazzi di blues e due pennellate di musica etnica,  persino del pop-jazz melodico https://www.youtube.com/watch?v=cBNoHoh4Evw . L’idea di incidere un disco insieme ai due, Johnson e Stern, è venuta dopo una serie di concerti tenuti nel 2013 al Blue Note di New York nell’agosto di quell’anno https://www.youtube.com/watch?v=Jg0fmzMP0tg . Soprattutto il primo, Eric Johnson, non è nuovo a queste collaborazioni con altri chitarristi, vedi il progetto G3, con Vai e Satriani, ma mentre in quel caso lo stile unificante era una sorta di hard/metal acrobatico, questa volta il punto di partenza sembrano più il jazz, nelle sue varie coniugazioni, e il blues.

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Forse tra i nomi dei musicisti del passato che si possono citare come punto di raffronto, ricorderei gente come Ollie Halsall dei Patto o Allan Holdsworth, virtuosi della solista in grado di unire le improvvisazioni del jazz e il vigore del rock(blues) in uno stile ibrido il cui maestro riconosciuto è comunque sempre stato Jeff Beck. I due hanno utilizzato una sezione ritmica che si avvale di Chris Maresh, nativo di Austin, Texas come Johnson e bassista nella sua band e Anton Fig, da molti anni batterista nell’house band del David Letterman Show nonché con Joe Bonamassa, più qualche significativo ospite. Brani che sono tutti originali, meno una significativa cover che chiude il programma: apre l’album una Roll With It scritta da Mike Stern per il suo album del 2006 Who Let The Cats Out, con la presenza di un altro musicista di Austin, l’eccellente ex cantante degli Storyville Malford Milligan, con il suo cantato ruvido e ricco di soul, e qui trasformata in una sorta di shuffle texano molto funky, finché non partono i fuochi d’artificio dei due chitarristi, Johnson anche in modalità wah-wah e Stern con il pedale della distorsione innestato, una serie di solo fluidi e tecnicamente mirabili introducono quel che seguirà.

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Remember, sempre di Stern, già apparsa su These Times del 2004, è una sorta di variazione jazz-rock delle spirali modali di John Coltrane in Expressions, un brano strumentale scritto in memoria di Bob Berg, vecchio pard sassofonista di Mike, è l’occasione per ascoltare quel jazz-rock frenetico di cui Halsall e Holdsworth erano due eccellenti interpreti, scale velocissime e fluide, in un call and response continuo. Benny Man’s Blues è un omaggio fin dal titolo al grande Benny Goodman,  proprio uno swing tipico, stranamente a firma Johnson, appassionato del genere e di Wes Montgomery in particolare https://www.youtube.com/watch?v=R35fD7zTFa0 . Wishing Well, nuovamente di Stern, è una sorta di ballata melodica impreziosita dallo scat dello stesso Mike e di Christopher Cross nella parte centrale, con un’aura che potrebbe ricordare il suono del vecchio Pat Metheny Goup del periodo ECM https://www.youtube.com/watch?v=qAAV75PIaXY . Le sonorità particolari della voce e del n’goni della moglie di Mike, Leni Stern, unite all’electric sitar di Johnson, portano una piccola oasi orientale alla introduzione di Big Foot, uno strumentale firmato da Maresh che poi diventa una libera improvvisazione sui temi del Miles Davis elettrico, con i due chitarristi impegnati a scambiarsi sciabolate sulle intricate variazioni della sezione ritmica.

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Un morbido mid-tempo come Tidal, costruito da Eric sulla falsariga proprio dei brani di Wes Montgomery, fa da preludio ad un ennesimo cambio di genere per You Never Know, una specie di “strano” blues jazzato di Stern con Johnson che innesta nuovamente il suo wah-wah ben sostenuto da uno Stern più soffuso, mentre Dry Ice è il jazz-rock frenetico che ti aspetteresti dai due, con chitarre supersoniche e Anton Fig che tiene botta con la sua batteria indemoniata e citazione finale di Third Stone From The Sun da parte di Stern https://www.youtube.com/watch?v=P1Ba7RfDVWU . Altra oasi di pace nella dolce Sometimes, ballata giocata sui toni e sui volumi e intervento a sorpresa di una piccola sezione fiati per Hullabaloo, brano rock tipico in crescendo di Eric Johnson, con una serie di fucilate chitarristiche dei due. Altra deviazione etnica per l’intro di Wherever You Go dove appare nuovamente Leni Stern, brano che poi diventa nuovamente una sognante e riflessiva ballata. Gran finale con una succinta ma sentita cover del “Blues per eccellenza” di Jimi Hendrix, Red House, una versione dove Mike Stern fa il suo esordio discografico ufficiale come cantante nel primo verso del brano, Guy Forsyth aggiunge la sua armonica e i due cercano di emulare le gesta del più grande chitarrista elettrico del rock, perché questa versione è decisamente buona, come peraltro tutto il disco https://www.youtube.com/watch?v=1TSLTHwzx60 . Forse per “chitarromaniaci”, ma non palloso o troppo tecnocratico!

Bruno Conti

Una “Voce” E Una Leggenda Della Musica Soul ! Bettye LaVette – Worthy

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Bettye LaVette – Worthy – Cherry Red Records – Deluxe Edition CD + DVD

Chi non conosce Aretha Franklin, Etta James, Ann Peebles, Mavis Staples (le prime che mi vengono in mente)? Troppo facile. Ma chi conosce invece Bettye Lavette?. Con oltre mezzo secolo di carriera alle spalle, su Betty Haskins (vero nome all’anagrafe) si potrebbero scrivere molte pagine per descrivere questa meravigliosa cantante soul, un’artista decisamente affascinante e importante nella cultura soul, che solo nell’ultimo decennio è tornata in auge (purtroppo era rimasta in sordina per troppo tempo), dedicandosi da qualche anno in qua a rileggere le canzoni altrui. Bettye, purtroppo, ha un percorso artistico travagliato tra i primi anni ’60 e i primi ’80, cambiando varie etichette, con incisioni per Atlantic, Calla, Karen, Silver Fox, Epic e Motown, comunque riuscendo ugualmente a lasciare i segni della sua classe con brani come Let Me Down Easy, Your Turn To Cry, Souvenirs e  He Made A Woman Out Of Me, creandosi nel tempo un seguito di fans da cantante di “culto”.

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Poi, dopo il bellissimo live Let Me Down Easy (00), in contemporanea all’ottimo Souvenirs (un album del ’73 che viene ristampato con l’aggiunta di altre incisioni ritrovate nel frattempo), viene riportata alla sua migliore dimensione qualitativa, prima con A Woman Like Me (03), e al passo coi tempi, da I’ve Got My Own Hell To Raise (05) prodotto dal grande Joe Henry, con una decina di cover tutte di autrici femminili (Sinead O’Connor, Lucinda Williams, Sharon Robinson, Aimee Mann, Rosanne Cash, Joan Armatrading, Dolly Parton, Fiona Apple), con arrangiamenti particolarmente originali e una “voce” sempre in splendida forma. Dopo il ritrovato successo Bettye incide The Scene Of The Crime (07) con una band come i Drive-By Truckers alle spalle, con brani soul potenti e blues elettrici, a cui farà seguito un viaggio sonoro attraverso brani che hanno fatto la storia del rock inglese Interpretations: The British Rock Songbook (10), con canzoni di Beatles, Rolling Stones, Led Zeppelin, Pink Floyd, Who, Elton John (solo per citarne alcuni), celebrando infine i 50 anni di carriera musicale con la pubblicazione di Thankful ‘N’ Thoughful (12), una selezione di brani contemporanei, scritti da Bob Dylan, Tom Waits, Neil Young, Patty Griffin, (e la versione di Dirty Old Town dei Pogues, che da sola, vale il disco).

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Questo ultimo lavoro Worthy ripropone, dopo dieci anni, l’accoppiata vincente con Joe Henry (un vero Re Mida della produzione), perfettamente coadiuvato dal magnifico gruppo di musicisti che accompagnano da tempo il cantautore del North Carolina, composto da Jay Bellerose alla batteria e percussioni, Chris Bruce al basso, Patrick Warren alle tastiere e il chitarrista Doyle Bramball II, con il contributo al sax (baritono e tenore) di Ben Chapoteau e di Levon Henry (il figlio di Joe), con un repertorio che va a pescare fra i brani meno noti, tra gli altri, nuovamente, di Dylan, Beatles e Rolling Stones.

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Si parte con il piano che accompagna un irriconoscibile brano di Dylan, Unbelievable (pescato da Under The Red Sky), per passare ai ritmi Motown di una When I Was A Young Girl, ad un classico di Mickey Newbury come Bless Us All rifatto in chiave blues, omaggiare il produttore rivisitando la sua Stop (dall’album Scar) con una bella sezione fiati in evidenza, ed a una inaspettata cover di un brano degli Over The Rhine Undamned, suonata e cantata come fosse per i clienti di un Bar di Casablanca. Le sorprese proseguono con una poco conosciuta Complicated del duo Jagger/Richards (per chi non lo ricordasse era in Between The Buttons), una sofferta ballata di Randall Bramblett Where A Life Goes, per poi passare ad una spettacolare versione di un brano dal titolo chilometrico, Just Between You And Me And The Wall, You’re A Fool, meritoriamente ripescata dal repertorio di un grande gruppo come gli Amazing Rhythm Aces , mentre con Wait dell’accoppiata Lennon/McCartney,  Bettye riesce a trasformare una canzone dei Beatles (da Rubber Soul), in una chaive soul, cosa che non a molti è riuscita con successo. La chiusura di un lavoro magnifico è affidata alla classica soul-ballad Step Away, della semisconosciuta e brava Christine Santelli http://www.christinesantelli.com/, e alla title track Worthy presa dal repertorio più recente della Mary Gauthier, (scritta in collaborazione con un’altra brava cantautrice come Beth Nielsen Chapman).

La carriera di Bettye LaVette (per chi scrive) è una serie di piccoli eventi, il tempo per fermarsi ad ascoltare una delle più belle voci della “black music” si trova sempre, e in questo Worthy una manciata di cover (a volte anche apparentemente lontane dal suo genere), vengono riportate a nuova vita da questa quasi settantenne, che ci mette anima e corpo, sangue e passione, al punto che viene il sospetto che i vari autori che hanno scritto il materiale, abbiano scritto quelle canzoni “solo” per lei. Betty Haskins LaVette ha quindi trovato negli ultimi dieci anni, tutto il riconoscimento che le era mancato da giovane “soulsinger”, e Worthy non fa altro che testimoniare il grande valore di questa straordinaria artista, sperando che contribuisca ulteriormente a darle la notorietà internazionale che merita. Toccante !

NDT: Il DVD contiene un’ora e mezza di “performances” live, registrate a Londra al The Jazz Cafè il 15 Luglio del 2014, dove questa “arzilla” signora ripercorre il suo classico repertorio. Da vedere e sentire, questi i brani contenuti nel video:

The Word
Everything Is Broken
Your Time To Cry 
https://www.youtube.com/watch?v=GElWMUWj2_w
They Call It Love
Joy
Heart Of Gold
Don’t Let Me Be Misunderstood
Either Way We Lose
Blackbird
My Man – He’s A Loving Man
Like A Rock
Heaven (The Closest I’ll Get)
Sleep To Dream
I Do Not Want What I Haven’t Go

Tino Montanari