Per Completare La Trilogia, Vecchi Sudisti! Cowboy – 5’ll Getcha Ten

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Cowboy – 5’ll Getcha Ten – Real Gone Music

Registrato ai Capricorn Sound Studios di Macon, Georgia e ai Muscle Shoals Sound Studios, Sheffield, Alabama, prodotto da Johnny Sandlin, originariamente pubblicato dalla Capricorn nel 1971, ospiti Duane Allman chitarra e dobro e Chuck Leavell alle tastiere in sei brani. Scusate se è poco, ma già questi pochi dati fotografano un’epoca gloriosa del rock americano, di cui i Cowboy, Tommy Talton e Scott Boyer in primis, forse non sono stati stelle di prima grandezza, ma comprimari di sicura affidabilità. Già la ristampa del primo album della band, Reach For The Sky, sempre su Real Gone, ci aveva permesso di apprezzare questa band della Florida, dal suono più dolce e gentile, un country-folk-rock pastorale https://www.youtube.com/watch?v=4B6vv8L0duU , così diverso dalle frequentazioni rock-blues sudiste delle altre band della Capricorn, ma in questo secondo album, forse anche grazie alla presenza di Duane Allman e Chuck Leavell, il suono si fa leggermente più grintoso ed emerge un lato più rock del sestetto, che in fondo aveva in formazione tre chitarristi e un tastierista, oltre agli ospiti citati, in grado di dare un sound più corposo alla band, senza snaturare i tratti country e bucolici di alcuni  brani.

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Questo secondo disco contiene il loro brano più celebre, quella Please Be With Me che sarebbe andata a finire, tre anni più tardi, su 461 Ocean Boulevard di Eric Clapton, che probabilmente li aveva conosciuti grazie alla sua frequentazione della galassia Allman, o semplicemente perché il buon Manolenta aveva un ottimo fiuto per le belle canzoni. Proprio in questo brano appare Duane Allman al dobro: la cosa curiosa è che la canzone, come usava all’epoca, venne registrata in due versioni diverse, quella più lenta, che apparve nell’album originale  https://www.youtube.com/watch?v=qw763JTPHsc (dove Allman, per misteriose ragioni, visto che incidevano per la stessa etichetta, veniva accreditato come Fini Crodo ?!?), e una seconda. che venne pubblicata nel doppio Duane Allman: An Anthology, album che raccoglieva molte delle collaborazioni realizzate dal chitarrista nel breve corso della sua carriera https://www.youtube.com/watch?v=XY6SlJIk-7Q , in ogni caso bella canzone, sempre percorsa dalle caratteristiche armonie vocali del duo Boyer & Talton, sicuramente tra i migliori rappresentanti, oltre che del southern più morbido, di quel country-rock che impazzava all’epoca in band come Poco, Flying Burrito Brothers, ma anche nella musica di C S N & Y,  provate a sentirvi la deliziosa She Carries A Child che apre questo album, un brano che non avrebbe sfigurato su Dèjà Vu. Non male anche il country-rock più mosso di Hey There Baby, con i fitti intrecci di chitarre acustiche, elettriche e steel con il piano (Leavell o il tastierista originale Bill Pillmore, che però suonava anche la chitarra) e molto bella la title-track 5’ll Getcha Ten, una notevole canzone di Tommy Talton, dalla melodia ariosa, impreziosita dalle impeccabili melodie vocali del gruppo e dai consueti intrecci elettroacustici delle chitarre. The Wonder, l’unica non scritta dal gruppo, viene dalla penna di un vecchio amico della Florida, tale John McKenzie, e nei suoi arrangiamenti ricorda ancora i CSN&Y citati prima, e non in modo sfavorevole https://www.youtube.com/watch?v=7uc7GAk7VUY .

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Shoestring è più mossa, una collaborazione Boyer-Pillman, che si avvale del pianino sfarfalleggiante di Leavell e di una ritmica più marcata, oltre ad un mood brillante e vivace. Lookin’ For You è l’altro brano dove appare Duane Allman, questa volta all’elettrica con vibrato, per un brano malinconico, quasi ombroso, di Scott Boyer, che ricorda quasi nella sua complessità certe cose del Crosby più riflessivo, molto bello. Seven Four Tune, scritta nuovamente da Bill Pillmore, è forse il più brano rock della raccolta, con un sound che oscilla tra Poco e Moby Grape, West Coast e Southern Rock e anche Right On Friend con l’elettrica a mo’ di sitar di Boyer, ha un che di morbida psichedelia e contribuisce alla varietà di temi musicali dell’album. Ancora Boyer, che firma sette dei brani presenti nel CD, con una bellissima ballata dolceamara come All My Friends, che ricorda molti amici scomparsi in quel periodo e che forse, senza volerlo, presagisce quello che sarebbe successo da lì a poco nella grande “famiglia” Allman https://www.youtube.com/watch?v=70vGA4tEZ7E , l’assolo di violino è dello stesso Boyer, forse il musicista più eclettico del gruppo e anche il piano aggiunge pathos al brano, uno dei più complessi del disco. Innocence Song, una ennesima breve collaborazione, meno di due minuti, tra Scott e Bill, ricorda certi sketches acustici del primo CSN, magari i brani di Stills. Detto di Please Be With Me, rimane What I Want Is You, l’unica composizione del chitarrista solista Pete Kowalke, un brano ancora una volta sognante e pastorale, nella migliore tradizione dei Cowboy, che si confermano band di culto e di cui vale la pena avere questo 5’ll Getcha Ten.

Bruno Conti

Ed Eccoli, I Migliori Alfieri Del “Nuovo” Rock Sudista. Blackberry Smoke – Holding All The Roses

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Blackberry Smoke – Holding All The Roses – Rounder/Concord/Earache

A pochi mesi di distanza dallo strepitoso disco dal vivo Leave A Scar  (http://discoclub.myblog.it/2014/08/28/altro-grande-doppio-southern-dal-vivo-anche-triplo-blackberry-smoke-leave-scare-live-north-carolina/), esce il nuovo album dei Blackberry Smoke: Holding All The Rose, il loro quarto di studio, il primo per la nuova etichetta Rounder del gruppo Concord/Universal, almeno negli States, mentre in molti paesi europei, Regno Unito in primis, esce per la Earache, che aveva già distribuito il precedente live https://www.youtube.com/watch?v=ZKCKERcqbF0 . Il primo effetto di questo nuovo contratto è il fatto di essere passati nelle mani di un celebre produttore, Brendan O’Brien (Springsteen, Pearl Jam, Neil Young) che non mi sembra abbia snaturato il sound. Il quintetto della Georgia, guidato come al solito dall’ottima voce di Charlie Starr,  che rimane sempre tra i migliori rappresentanti delle nuove generazioni del southern rock, probabilmente con i Whiskey Myers, puree se per questo nuovo album, che comprende dodici brani, sembrano avere favorito un maggiore approccio alla forma canzone, i pezzi sono tutti intorno ai tre/quattro minuti, uno addirittura un frammento di poco più di un minuto, meno jam chitarristiche, anche se le chitarre si sentono, eccome, ma la ricerca di allargare la base del loro pubblico, forgiato da 250 date all’anno in giro per l’America, con qualche puntata in Europa, sin dal lontano 2000, è evidente.

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Il gruppo mantiene la formazione originale, con Paul Jackson che affianca Starr alla chitarra solista, la sezione ritmica affidata ai fratelli Brit e Richard Turner, e l’ottimo Brandon Still, che con le sue tastiere rende più vario il suono della band. Quindi potremmo dire niente di nuovo, per fortuna, sotto il sole, piccoli ritocchi al sound qui e là, ma il tipico southern rock che uno si aspetta è sempre presente: rock intemerati come Let Me Help You (Find The Door), con la doppia chitarra e l’organo che seguono i riff del rock classico più ruspante, le soliste più stringate rispetto all’approccio live e quel piccolo tocco radiofonico che non guasta più di tanto https://www.youtube.com/watch?v=kSzUeRYDQPY . Anche la title-track Holding All The Roses, con una chitarra acustica e un violino che aumentano la quota country, sferzata dai veloci interventi delle soliste di Starr e Jackson, riporta per certi versi alla epopea di vecchi rockers come Charlie Daniels o la Marshall Tucker, con un suono più “moderno”, senza troppe esagerazioni nelle produzione di O’Brien. Ogni tanto i pezzi sono più banalotti, come Living In the Song, che oltre a qualche tocco più radiofonico sembra mettere in luce influenze del british pop d’antan, Rockpile, Nick Lowe e anche un’aura vagamente beatlesiana, immersi nel solito tessuto sudista https://www.youtube.com/watch?v=h66_DFkYMv4 . Rock And Roll Again, tra Fogerty e ritmi boogie non frenetici, è piacevole senza essere memorabile https://www.youtube.com/watch?v=WJcIgjCeUtA , mentre Woman In The Moon è una delle loro tipiche hard ballads ricercate e malinconiche, chitarre, elettriche ed acustiche, organo e piano che girano intorno alla voce di Charlie Starr, che forse nella produzione di O’Brien perde qualcuno dei suoi tratti distintivi, un filo più “trattata” e meno presente, ma è il prezzo da pagare nel passare ad una major, con un suono vagamente più “leccato”, anche se le brevi parti strumentali mantengono un certo fascino che potrà essere sviluppato in concerto.

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L’elettroacustica Too High, con un sound country-rock che potrebbe ricordare i loro vecchi datori di lavoro ed amici della Zac Brown Band https://www.youtube.com/watch?v=4NqY5alpE-4 , sta dal giusto lato di Nashville, un mid-tempo assai piacevole impreziosito dai tocchi di un morbido wah-wah https://www.youtube.com/watch?v=2iWnX4fZB14 . Si torna al rock’n’roll con Wish In One Hand, pure questa grintosa nelle chitarre che viaggiano nei canali dello stereo, ma un po’ “pasticciata” nella produzione forse troppo sontuosa, magari con più ascolti potrebbe entrare prima in circolo. Randolph Country Farewell è il breve interludio strumentale acustico di cui vi parlavo in sede di presentazione e precede Payback’s Is A Bitch, uno dei brani più classicamente sudisti di questo Holding All The Roses, la voce di Charlie Starr finalmente in primo piano e le chitarre che ci danno dentro di gusto (play loud per goderselo a fondo, ma il discorso vale per tutto il CD, che a volumi adeguati, cioè a manetta, ci guadagna). Lay It All On Me ha di nuovo quello spirito country che è comunque uno dei tratti caratteristici e fondanti dello stile dei Blackberry Smoke, con tanto di pedal steel in evidenza e l’andatura ciondolante e pigra del suono sudista, anche grazie all’organo di Still. No Way Back To Eden è un’altra piccola perla dal tessuto principalmente acustico, con ricchi arrangiamenti vocali e strumentali, tipo la bella coda strumentale, che ne acuiscono la raffinata costruzione sonora e confermano la classe di questa formazione, che ci saluta con una ulteriore bella botta di rock contenuta nella conclusiva Fire In Hole, chitarre ruggenti, ritmica in tiro, tastiere avvolgenti e la voce poderosa di Starr, uno dei loro punti vincenti. Esce martedì!

Bruno Conti

E’ Solo Southern Rock, Ma Ci Piace! Bama Gamblers – Iron Mountain

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Bama Gamblers – Iron Mountain – bamagamblers.com

“It’s only southern rock, but we like it”. Le immortali parole di Jaggers-Richards ci vengono ancora una volta in soccorso, riadattate, per parlare dell’album di debutto di questi Gama Gamblers, quintetto di belle speranze, con sede a Huntsville, Alabama, ma il cui album di debutto, Iron Mountain (ispirato da una famosa linea ferroviaria rapinata ai tempi del glorioso West da Jesse James), è stato registrato a Marietta, Georgia, nei Wonderdog Studios, dove opera Benji Shanks, eminenza grigia locale, chitarrista e produttore per l’occasione. Il disco che ne risulta è un perfetto esempio di southern rock: niente di nuovo sotto il sole ma Bo Flynn, il bassista e voce solista, Matt Alemany e Matt Kooken, le due chitarre, entrambi originari della Georgia, più Eric Baath alle tastiere e Forrest Fleming alla batteria, hanno confezionato proprio un bel disco di musica sudista, non troppo hard , ma decisamente chitarristico, con la giusta quota country, che non può mancare in un album di questo filone e una decina di belle canzoni, che nulla aggiungono alla grande tradizione del genere, ma sono suonate con passione e perizia https://www.youtube.com/watch?v=ozNLn4xEW10 .

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Queste melodie e questi riff li avremo sentiti mille volte, ma quando parte l’attacco ruggente a doppia chitarra di Footsteps, uno non può fare a meno di pensare ai primi Allman e quando entra la voce di Flynn, i fantasmi della famiglia Van Zant si agitano https://www.youtube.com/watch?v=W42kdfqz-44 . Negli ultimi anni molti gruppi, a partire da Whiskey Myers e Blackberry Smoke (di cui leggerete in altra parte domani) hanno rinverdito i fasti del vecchio southern rock, ripulendolo dalle scorie di durezza e banalità che ne avevano appesantito il sound quando le band migliori del genere avevano perso la giusta direzione, ora anche i Gama Gamblers, insieme ad alcuni altri gruppi recenti, che non cito, per non fare la solita lista della spesa, hanno portato una ventata di freschezza ed entusiasmo negli Stati del Sud. Il tocco di Shanks rende il CD molto godibile, con un suono nitido e ben definito, quasi da major, nonostante la sua genesi a livello indipendente e locale, e i brani scorrono senza scadimenti di qualità e con alcune punte di eccellenza, a partire dalla citata Footsteps, che è una partenza perfetta e se confermata a quei livelli per tutto il disco ci avrebbe fatto gridare al “piccolo” capolavoro. Il suono sembra uscire dai vecchi solchi di Idlewild South o Second Helping, con le chitarre che si inseguono dai canali dello stereo, le tastiere, soprattutto l’organo e la sezione ritmica che ancorano il suono e la voce maschia ed espressiva di Flynn; tutto profuma di Georgia Clay, con la slide di Alemany che si integra all’organo e piano elettrico di Baath, il basso di Flynn danza intorno alla batteria di Fleming e questo storie sudiste si dipanano con grande naturalezza https://www.youtube.com/watch?v=uzjIT3l1li4 . Storie abbastanza semplici, come quella della barista Emily Jay, che è un po’ come la Sweet Loretta di Get Back e musicalmente si viaggia anche dalle parti di John Fogerty, quindi classico rock americano, puro e non adulterato, con le chitarre che disegnano linee soliste essenziali ma suonate con gran gusto. Devil’s Daughter, con le due soliste suonate all’unisono https://www.youtube.com/watch?v=ahuSx5yWnAY , è la prima canzone scritta dal gruppo intorno al 2010 quando nasceva la band, storie di ragazze di college, “diaboliche” per dei giovani teenager ricchi di testosterone (Bo Flynn, il bassista ha compiuto 25 anni da poco), con la musica che resta nei binari del genere, un continuo svolazzare di chitarre che però non allungano la durata delle canzoni oltre i classici quattro/cinque minuti canonici del miglior rock  .

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Anche Dead Roses ha il classico suono sudista, ma arricchito da riff stonesiani o alla Faces, che la possono avvicinare anche a gente come i Black Crowes https://www.youtube.com/watch?v=NrmFA7Aa4e8 , sonorità ribadite nella poderosa Love Me In The Morning, altro ottimo esempio di rock song dura e pura, nuovamente assai riffata e con una bella parte, centrale e finale, dove le chitarre sono libere di improvvisare. Non possono naturalmente mancare le classiche ballate sudiste, Sweet Revival, con un intro di chitarra acustica e organo, poi si sviluppa nel sempiterno crescendo di questo tipo di brani, per una lirica cavalcata a guida slide https://www.youtube.com/watch?v=CppfTRDGNis , reiterata nell’eccellente The River, altro mid-tempo costruito secondo gli stilemi del miglior rock sudista, partenza attendista, belle armonie vocali e l’immancabile coda chitarristica che dal vivo potrebbe fare sfracelli. L’allmaniano rock-blues di Smooth Sailing viaggia sulle ali di un pianino elettrico alla Billy Preston, con la giusta quota boogie e l’immancabile slide di Alemany ad intrecciarsi con la solista di Kooken, mi tocca ripetermi, sentito mille volte, ma se è fatto bene è quasi inevitabile https://www.youtube.com/watch?v=64ZV89EUxIs . Essendo dell’Alabama un bel brano di impronta country (rock), come la conclusiva Love Somebody è la classica ciliegina sulla torta di un lavoro che gli appassionati del genere potranno godersi fino in fondo.

Bruno Conti

Sempre A Proposito Di Parenti! Murali Coryell – Restless Mind

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Murali Coryell – Restless Mind – Shake-It-Sugar Records

Larry Coryell è universalmente considerato uno dei più grandi chitarristi partoriti dal cosiddetto filone americano del jazz-rock, “gemello” di quanto faceva dall’altra parte dell’oceano, più o meno nello stesso periodo, John Mc Laughlin, con cui Larry (e Billy Cobham, Miroslav Vitous e Chick Corea) avrebbe collaborato nell’eccellente Spaces del 1970. Ma lasciamo stare il babbo e la sua copiosissima discografica e occupiamoci di uno dei figli, Murali Coryell, che ha invece abbracciato uno stile che sta a cavallo tra blues, soul, rock e R&B e giusto qualche piccola spruzzatina jazz: punti di riferimento citati BB King, ma anche Santana e Hendrix, a differenza del fratello Julian, anche lui chitarrista, ma più vicino allo stile del padre, col quale peraltro hanno entrambi collaborato nel disco del 2000 The Coryells.

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Il nostro amico non è un novellino ( anche se diciamo subito che non ha la classe e il carisma del padre), infatti  la sua discografia conta già poco meno di una decina di titoli. in circa venti anni di carriera, oltre ad un DVD dal vivo Adventures Live https://www.youtube.com/watch?v=KNcZs2qFM-E che è stato candidato ai Blues Music Awards del 2014 nella categoria Video, premio poi vinto dai Royal Southern Brotherhood con il loro Songs From The Road. Naturalmente anche il nostro amico ha dovuto imboccare la strada del prodotto autogestito, ormai quasi un obbligo per i musicisti indipendenti in questi tempi duri per l’industria discografica (purtroppo non solo per quella), quindi il disco non risulta di facilissima reperibilità, pure se in teoria è uscito da qualche mese. Non pensate ad una prova da super virtuoso dello strumento, per quanto Murali Coryell abbia un’ottima tecnica alla solista, ma avendo dalla sua una ottima voce (caratteristica non sempre presente tra i chitarristi, anzi raramente) privilegia la forma canzone, con brani che, come detto, spaziano tra rock, soul, blues e, quando vengono utilizzati i fiati, in un paio di brani, anche del sano, vecchio, R&B. Il disco cresce lentamente a livello qualitativo, i primi tre brani non sono memorabili, per quanto buoni, il funky-rock energico e grintoso di Waiting and Wasting Away, con la Fender del nostro che in ogni caso disegna linee soliste interessanti, ancora funky, più marcato, con qualche deriva jazzata, in Kiss Me First e lo stile più sognante e bluesy della raffinata title-track si lasciano apprezzare per la voce rauca e vissuta di Murali https://www.youtube.com/watch?v=RNcbKZnrgf8 , ben coadiuvato dalla sezione ritmica di Chris Alcaraz al basso e Ernie Durawa alla batteria, oltre ad un lavoro intrigante della solista che comincia a fare intravedere le sue qualità.

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I’m so happy eleva la qualità, un brano all’apparenza semplice e perfino orecchiabile,  dove Coryell comincia a scaldare l’attrezzo con un bel solo fluido e di notevole tecnica. Sex Maniac, con l’utilizzo massiccio del wah-wah ha più di una influenza hendrixiana, mentre in Crime Of  Opportunity si lavora anche molto di tocco, senza raggiungere peraltro vette memorabili. Quando entrano i fiati in I Can’t Give You Up si va subito in trasferta in quel di Memphis e dintorni o comunque verso lidi deep soul e R&B, chitarrina choppata e sax e tromba che viaggiano all’unisono, la voce si fa più calda e suadente (una sorta di Huey Lewis più bluesato) e tutto funziona alla perfezione, come pure molto gradevole è la successiva Tag Along, altro ottimo esempio di blue-eyed soul (con assolo di entrambi gli addetti ai fiati ), per uno stile che mi pare si attagli alla perfezione al nostro figlio d’arte. I Need Someone To Love è un solido blues che giustifica la sua passione per il grande BB King, Lonely Eyes è una sorta di pop song con elementi latineggianti e country. Il rock si fa più grintoso e chitarristico nella tirata Everyday Is A Struggle, e qui la solista viaggia che è un piacere; la conclusione è affidata all’unica cover dell’album, una bella versione del sensuale classico di Marvin Gaye, Let’s Get It On, piacevole ma non memorabile, al di là del solito bel assolo della solista, giudizio che si può applicare a tutto l’album. Non indispensabile, ma ben suonato, per chi ama i chitarristi.

Bruno Conti   

“L’Ultimo “Storyteller Sulla Piazza? Tom Pacheco – Boomtown

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Tom Pacheco – Boomtown – Grammofon Records

A distanza di tre anni dall’ultimo lavoro Luminol The Houston Sessions http://discoclub.myblog.it/2011/12/22/un-altro-outsider-di-lusso-tom-pacheco-luminol-the-houston-s/ , torno a parlarvi di un grande “narratore” di storie americane; Tom Pacheco. Ora Tom vive in Irlanda, ma per registrare questo disco è traslocato a Oslo (che sembra diventata la “Nashville del Nord”), città che negli ultimi anni ha visto passare nei suoi studi di registrazione artisti del calibro di Eric Andersen, Chip Taylor, e giovani promettenti come Kreg Viesselman e altri, e nei Nyando Studios di Oslo,  Pacheco, con l’aiuto di un piccolo gruppo di  musicisti di area locale come il produttore Kai Lolands alle chitarre e tastiere, Jack Lowland alla batteria, Tim Neo al basso e Olav Torgeir al dobro e pedal steel, ci regala  un lavoro dal sapore fortemente autobiografico.

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Questo scorcio di storia americana (passato e presente) inizia con il racconto di MacDougal Street Summer 1966 (quando il Greenwich Village era un raduno di squattrinati poeti e musicisti), salvo poi passare a Julian, dedicata a Julian Assange (l’attivista australiano fondatore del famoso sito Wikileakshttps://www.youtube.com/watch?v=JhAVN4YH9Dg caratterizzata da una minacciosa slide, per proseguire con il groove più mosso di Reality’s Virtually Fine, la ballata agrodolce One More Time, fino ai ritmi folk di The Lost Diary Of D.B. Cooper e le meditazioni generazionali di The Woodstock Generation Passing On https://www.youtube.com/watch?v=Tv7kdpXYWtM . I  “racconti” proseguono ancora con l’intro di un piano nella brillante title track Boomtown https://www.youtube.com/watch?v=isRp6pMcLLc , con la delicata Homeland, la ritmate e accattivanti I’m Still Here e You Tube,  andando a chiudere queste storie di marca prettamente americana con la convincente The Healing,  il folk-country agreste What Would Woody Think, e una meravigliosa struggente ballata come Only One More Night Till Touchdown https://www.youtube.com/watch?v=hy75rlj9tWU .

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Tom Pacheco classe ’46, nativo del Massachusetts con questo Boomtown è giunto al 20° album (escluse le collaborazioni con Steinar Albrigtsen e le raccolte), disco dove ancora una volta ci dona 13 canzoni con testi profondi che si interrogano sui grandi temi ideali della storia americana, con melodie che lasciano il segno e ti scavano un solco tra orecchio e cervello, mentre basta un arpeggio di chitarra ben suonato, alcune sapienti spruzzate di violino, e soprattutto una voce distintiva e possibilmente accarezzata dal corso della vita.

Ne è passata di acqua sotto i ponti dai gloriosi tempi del Greenwich Village, e anche se adesso Tom Pacheco scrive le sue canzoni dietro una scrivania, non ha perso un briciolo della determinazione di raccontare le sue “storie americane”, come in questo Boomtown (e lo si nota anche dalla splendida cover del CD), un lavoro suggestivo da conservare gelosamente per queste lunghe serate invernali:  la buona musica rappresenta sempre un’ancora di salvezza.

NDT: Come di consueto i dischi di questo signore sono di difficile reperibilità, e ultimamente non solo i suoi, purtroppo, ma credetemi vale la pena fare un piccolo sforzo (cercando magari sul sito della Grammofon http://grammofon.no/utgivelser/album/Tom+Pacheco/Boomtown/175 , anche se scritto in norvegese), per procurarseli. Buona ricerca!

Tino Montanari

Parenti Eccellenti! Mahalia Barnes & The Soulmates – Ooh Yea The Betty Davis Songbook

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Mahalia Barnes & The Soulmates – Ooh Yea The Betty Davis Songbook – Provogue/Edel

Mahalia Barnes ha sia un nome che un cognome che mi dicono qualcosa: il cognome è lo stesso del suo babbo (il poderoso cantante australiano Jimmy Barnes, e lo zio è Johnny Diesel, sposato con la sorella della moglie di Jimmy e leader degli ottimi Diesel), il nome di battesimo il padre glielo ha dato in onore della grande cantante gospel, Mahalia Jackson. Era quasi inevitabile che con simili precedenti familiari anche la giovane Barnes (ma ormai ha i suoi bravi 32 anni) si sarebbe data alla musica ed in effetti con le sorelle ha iniziato a cantare quando era meno che una adolescente. Ha già prodotto un paio di EP e un album a nome proprio, oltre ad un disco in coppia con Prinnie Stevens, sua compagna di viaggio al The Voice Australia, dove nessuna delle due ha vinto, ma almeno partecipano come “Sister Of Soul”, piuttosto che “sorelle” vere! Recentemente ha partecipato al disco di duetti di babbo Jimmy Barnes, 30:30 Hindsight http://discoclub.myblog.it/2014/11/04/30-anni-jimmy-barnes-hindsight/ , firmando una delle migliori prove con Stand Up. In quell’occasione, già che si trovavano down under e avevano tre giorni liberi, il produttore Kevin Shirley e Joe Bonamassa, sono entrati in studio con Mahalia Barnes ed i suoi Soulmates e qui si sono detti, che facciamo?

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Perché non un bel disco tributo ad una delle donne simbolo della fine anni ’60, primi anni ’70, quella Betty Davis che ai meno attenti non dirà nulla (non è l’attrice ovviamente), ma agli amanti della buona musica, viceversa sì. Modella, attrice, cantante, moglie di Miles Davis, secondo varie voci (tra cui lo stesso Davis nella sua autobiografia) colei che ha introdotto Jimi Hendrix e Sly Stone al grande Miles (e viceversa), piantando i primi germi della svolta elettrica di quegli anni, e quello che più importa autrice di tre ottimi album usciti nel 1973-1974-1975 per la Just Sunshine e ripubblicati in CD dalla Light In The Attic.

Si tratta di un vero compendio di sana ed ottima funky music, mista a rock, soul e R&B, che ha sicuramente influenzato gente come Rick James, Prince, Erykah Badu, i Roots e moltissimi altri negli anni a venire, e penso anche i Rufus di Chaka Khan, nati più o meno in contemporanea, mentre anche lo Stevie Wonder di quel periodo era a sua volta una influenza.

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Se tutti questi nomi non vi sono ignoti, in questo album di Mahalia Barnes troverete di che compiacervi: con un bel sound realizzato da Shirley, la presenza fissa e costante di Joe Bonamassa che con la sua chitarra rilascia una serie di assolo che dimostrano che la parentesi con i Rock Candy Funk Party non era dovuta al caso. Darren Percival, altro concorrente a The Voice (mi sa che è meglio di quello nostrano!) duetta in una “cattivissima” Nasty Gal, dove anche il buon Joe rivolta la sua solista come un calzino, il papà appare come indiavolata voce aggiunta nella seconda parte di Walking Up The Road, uno dei tanti brani che non hanno nulla da invidiare al repertorio più R&B-soul oriented della coppia Beth Hart/Joe Bonamassa.

Le ballate e i brani lenti non sono molti, anzi direi uno, ma In The meantime è una piccola delizia di pura soul music, impreziosita dal lavoro prezioso della chitarra di Bonamassa, ormai un uomo per tutte le stagioni (e tutti i generi); per il resto è un impazzare di chitarrine choppate, clavinet, piani elettrici e organo messi ovunque sul groove super funky di un basso spesso slappato e batteria dai ritmi sincopati, in brani che rispondono a nomi come He Was A Big Freak, Anti-Love Song, Shoo-B-Doop And Cop Him, If I’m In Luck I Might Get Picked Up dove ricorrono termini piccanti e salaci tipo “Wiggling my Fanny”, che però secondo la Barnes in Australia hanno altri significati. In definitiva se vi piace un suono crudo, gagliardo, sentito oggi magari non particolarmente innovativo, ma ruspante e decisamente ben suonato vi consiglio di farci un pensierino https://www.youtube.com/watch?v=uG9KSnwy5cU . Lei è brava, ha una bella voce, potente e decisa, Bonamassa e Shirley ultimamente sono una garanzia, il gruppo dei Soulmates è ben bilanciato, non sarà un capolavoro ma perché no? Potete pensarci con calma, perché tanto esce verso fine febbraio, il 24 per la precisione!

Bruno Conti

Il Poeta Cantastorie Che Plasma “L’Argilla Londinese” ! Lee Fardon – London Clay

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Lee Fardon – London Clay – Self Released

Cantastorie romantico e malinconico, Lee Fardon ha al suo attivo una lunga carriera che non gli rende certo giustizia per i molteplici suoi meriti. Nel corso degli anni ’70 Lee forma i Legionaires (insieme a Jim Hall, Noel Brown, Rod Godwin e Don Bodie), arrivando nel ’79 ad aprire i concerti dei Dire Straits. In seguito, conclusa l’esperienza con il gruppo, esce finalmente il suo esordio solista (per l’etichetta indipendente Aura) Stories Of Adventure (81), un disco vigoroso, essenziale, di grande spessore, guadagnandosi reazioni entusiastiche dal pubblico e dagli addetti ai lavori, seguito a breve dal suo capolavoro The God Given Right (82), un lavoro decisamente personale, valorizzato dalla voce angelica di Lee https://www.youtube.com/watch?v=b4zINEk7MKY , completando poi il trittico con The Savage Art Of Love (85), un disco che non ha la stessa intensità dei primi lavori, ma contiene alcuni dei migliori pezzi di Fardon. Dopo alcuni anni di silenzio, grazie all’entusiasmo di alcuni cultori musicali (Gianni Passino, Luciano Angelini e il giornalista Aldo Pedron, che  recensisce proprio oggi in rete il nuovo album, in contemporanea con questo Blog, strani casi della vita) e della etichetta discografica Club De Musique Records di Courmayer, incide l’ottimo Too Close To The Fire (92), prodotto da Mick Cox (chitarrista di Van Morrison), con dodici canzoni d’autore raffinate, suonate con gusto https://www.youtube.com/watch?v=vi-WaO4A3-k , tra le quali  spicca la meravigliosa Saturday Night (un brano che certi “osannati” songwriters farebbero carte false per avere nel loro repertorio). Il progetto successivo è il Lee Fardon Trio (93) una cassetta autoprodotta, che oltre al titolare vede coinvolti la cantante Jo Garrett e il chitarrista Mick Cox, e al termine di una pausa durata circa dieci anni (contrassegnata anche da innumerevoli traversie umane, e dopo fortunatamente aver riposto la bottiglia), Lee si rimette a scrivere, torna in sala d’incisione per incidere Lost & Found (03) dove ritorna come ospite la brava Jo Garrett e Compassion (04), sicuramente il più bel disco di Fardon dai tempi di The God Given Right.

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In questo nuovo lavoro London Clay (per dare i meriti che spettano loro, ne hanno parlato puntualmente sul suo Blog il giornalista Blue Bottazzi, che lo ha inserito tra i migliori dell’anno appena passato e anche Alfonso Cernelli nel suo Blog gli ha dedicato una intervista), Fardon si avvale di musicisti acustici raffinati quali il fido Tony Wilson alle chitarre, Dik Cadbury al basso, Steve Smith al piano, Paul Beavis alla batteria e percussioni, e le belle e brave Kelly Jakubowski al violino e Chloe Overton alle armonie vocali, per una raccolta di vecchi brani rivisitati e quattro nuove composizioni in una forma acustica e introspettiva, il tutto registrato presso i Beacon Studios a Herne Bay, nella quiete del Kent.

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L’iniziale Sons Of Plunder e la struggente The Sheriff And His Sister (sulla storia di due bambini ebrei mandati ai campi di sterminio) vengono ripescate dall’ultimo lavoro in studio Compassion, con largo uso di chitarre acustiche e dolci armonie vocali, mentre un violino tzigano e una chitarra spagnoleggiante rendono omaggio alla Maria And The Writer che svettava in The Savage Art Of Love, passando per la bella ballata pianistica Day By Day presa da Lost & Found, dove, a distanza di anni, il piano di Steve Smith sparge ancora note suadenti, mentre con Talk To Me cantata in duetto con Chloe Overton e il delizioso violino della Jakubowski in evidenza, si respirano echi del Van Morrison migliore. Con Everything inizia il percorso dei brani inediti, che prosegue con The Builders Song (era apparsa solo sulla cassetta del ’93), The Devils Question e Summer ’76, nei quali Fardon dimostra che sa ancora scrivere grandi canzoni, andando a chiudere (non in modo occasionale) con due tracce “rubate” al capolavoro indiscusso The God Given Right, con uno stratosferico violino nella bellissima Together In Heat, e infine la commovente ballata pianistica I Remember You, che chiudeva il disco, e che ancora oggi è parte inamovibile dei concerti di Lee Fardon.

Più di trent’anni fa un ragazzo arrivato dal sud di Londra sembrava aver raccolto le migliori doti di alcune generazioni di cantautori, sintetizzandole in un suono elettrico, urbano, dolce e romantico nello stesso tempo https://www.youtube.com/watch?v=qUpz09tKr9o , e il bello di Lee Fardon, adesso come allora, è che alle sue spalle non c’era nessuno, e anche oggi che, fortunatamente,  suona ancora in acustico nei Club il repertorio che ha saputo creare in tutti questi anni, con al suo fianco la chitarra dell’amico Tony Wilson, non ha perso una briciola del suo fascino https://www.youtube.com/watch?v=_e7g1_DbBuA . Fardon non è mai stato un’artista alla moda, spesso controverso, ma coerentemente non ha mai seguito la via del facile successo, e anche per questo London Clay non si tratta di acquistare solo un “prodotto”,  per chi scrive Lee Fardon è ben altra cosa, e se per voi amore e poesia, abbinate ad un suono armonico, voluttuoso  e magico, dicono ancora qualcosa, se il vostro cuore batte e si emoziona ascoltando della buona musica, è  giunto allora il momento di riscoprire un’artista di classe come questo grande cantautore, sperando che continui a produrre musica non solo per fortunati eletti. Ben tornato Mr. Fardon!

NDT: E’ un peccato che nel digipack della confezione (molto spartana), non siano compresi i testi delle canzoni, ma essendo un’autoproduzione acquistabile solo sul suo sito http://www.leefardon.com/ , non si poteva onestamente chiedere di più.!

Tino Montanari

Quest’Anno Sono 50! La Partenza Delle Celebrazioni Non E’ Fantastica: The Best Of The Grateful Dead

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In questo 2015 da poco iniziato anche i Grateful Dead festeggiano il il loro 50° Anniversario di carriera: infatti nei primi mesi del 1965 dalle ceneri dei Mother McCree’s Uptown Jug Champions nascevano i Warlocks (notare che nello stesso periodo sulla costa Est anche i Velvet Underground usavano lo stesso nome, la sigla Grateful Dead, quantomeno in concerto, verrà utilizzata per la prima volta in uno show del 4 dicembre 1965, in quelli che erano noti come Ken Kesey’s Acid Tests). Il primo disco venne pubblicato solo nel 1967, ma come ormai è diventata una usanza consolidata si inizia a festeggiare dalle prime apparizioni concertistiche (anche il countdown  degli Stones è partito dalla prima esibizione live del luglio 1962). Spiace dire che per una band famosa per il suo sterminato archivio (ancora oggi a 20 anni dallo scioglimento del gruppo dopo la morte di Jerry Garcia, escono a getto continuo pubblicazioni discografiche di notevole valore qualitativo), la prima mossa di queste celebrazioni è l’uscita di un doppio CD, intitolato semplicemente The Best Of The Grateful Dead, a cura della Grateful Dead Records/Rhino, con 32 brani estratti dal loro prodigioso catalogo. Se la vogliamo considerare come una uscita propedeutica per chi non conosce nulla della grande band californiana, forse ci può anche stare, ma la scelta dei brani è quantomeno “strana”.

Photo of Grateful Dead & Warlocksthe-grateful-dead-1965

Tracklist
CD1:
1. The Golden Road (To Unlimited Devotion) [2:09]
2. Cream Puff War [2:28]
3. Born Cross-Eyed [2:04]
4. Dark Star (Single Version) [2:41]
5. St. Stephen [4:26]
6. China Cat Sunflower [3:40]
7. Uncle John’s Band [4:42]
8. Easy Wind [4:59]
9. Casey Jones [4:24]
10. Truckin’ [5:03]
11. Box Of Rain [5:17]
12. Sugar Magnolia [3:17]
13. Friend Of The Devil [3:21]
14. Ripple [4:10]
15. Eyes Of The World [5:16]
16. Unbroken Chain [6:45]
17. Scarlet Begonias [4:19]
18. The Music Never Stopped [4:35]
19. Estimated Prophet [5:35]

CD2:
1. Terrapin Station [16:10]
2. Shakedown Street [4:59]
3. I Need A Miracle [3:36]
4. Fire On The Mountain [3:46]
5. Feel Like A Stranger [5:06]
6. Far From Me [3:39]
7. Touch Of Grey [5:47]
8. Hell In A Bucket [5:35]
9. Throwing Stones [7:18]
10. Black Muddy River [5:58]
11. Blow Away [6:09]
12. Foolish Heart [5:10]
13. Standing On The Moon [5:20]

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Ok, c’è stata una nuova, ulteriore, rimasterizzazione curata da David Glasser, vincitore di Grammy Award per il suo lavoro nel campo, però mi devono spiegare perché Terrapin Station nella versione da 16 minuti e rotti e Dark Star, nella single version da 2 minuti e 41 (!?!), forse per i collezionisti? Tra le cose positive dicono che contenga brani estratti da tutti gli album di studio della band (che però era famosa soprattutto per i concerti, e in ogni caso i brani più celebri, ma ne mancano moltissimi, sono concentrati in gran parte nel primo disco della compilation) e che il tutto è stato masterizzato in HDCD. Probabilmente nella restante parte dell’anno pavento, ma nello stesso tempo mi auguro, che usciranno tomi ben più consistenti e, temo, costosi, del doppio album, per il momento si parte con questo Best, che uscirà comunque il 31 marzo.

Bruno Conti

Tra Leggende…Ci Si Intende! Bob Dylan – Shadows In The Night

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Bob Dylan – Shadows In The Night – Columbia/Sony CD

I mondi di Bob Dylan e Frank Sinatra sono distanti soltanto in apparenza. Infatti il Vate di Duluth ha sempre avuto una smisurata ammirazione per la Voce di Hoboken (e per Charles Aznavour, ma questa è un’altra storia), ammirazione d’altronde ricambiata da Sinatra stesso, che a differenza di atteggiamenti pubblici al limite dello sprezzante, ha sempre guardato con attenzione al mondo del rock, dal celebre duetto con Elvis in diretta televisiva, all’incisione di brani di Beatles e Paul Simon, fino all’incontro negli anni settanta con Alice Cooper per discutere della possibile incisione da parte di Frank della hit del rocker di Detroit Only Women Bleed (ipotesi poi tramontata, ma esistono foto che immortalano l’incontro).

I due mondi si incontrarono nel 1995, quando, durante il concerto celebrativo per gli ottant’anni di Ol’ Blue Eyes, Dylan offrì forse la performance più toccante della serata, con una splendida versione full band della poco nota Restless Farewell (pare su richiesta di Sinatra stesso), che, come ha intelligentemente suggerito qualcuno, è un po’ la My Way di Dylan (anche se Bob l’ha scritta all’età di 23 anni, per marcare forse l’addio all’ambiente del folk politicizzato che cominciava a stargli stretto). Tutto questo per far capire che non deve sorprendere il fatto che Dylan, come suo nuovo album di studio, abbia deciso di pubblicare un disco di covers di brani di Sinatra: che poi non è esattamente così, dato che Shadows In The Night (pronto già dallo scorso anno ma slittato a favore dei Basement Tapes) è in realtà un disco di standards della musica americana che sono stati ripresi anche dal grande cantante del New Jersey.

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Quindi non ci sono le hit di Sinatra, niente Strangers In The Night, My Way o New York, New York, ma una bella serie di classici che Ol’ Blue Eyes ha ripreso almeno una volta in carriera, anche se difficilmente li troverete in un greatest hits di Frank. Una scelta trasversale, molto dylaniana, che però dimostra una profonda conoscenza del songbook di Sinatra e di quello americano in generale; qualcuno inoltre ha storto il naso per il fatto che uno con la voce di Dylan omaggiasse quello che è stato forse il più grande crooner della storia, ma ad un attento ascolto dei dieci brani che compongono Shadows In The Night posso dire tranquillamente che tutte queste critiche preventive crollano miseramente. Dylan ha fatto un lavoro splendido, adattando i sontuosi ed orchestrati arrangiamenti tipici di Sinatra ad un combo rock di sei elementi (oltre a Bob, la sua abituale touring band, cioè Charlie Sexton, Tony Garnier, Stu Kimball, Donnie Herron e George Receli), con appena qualche discreto intervento di fiati: il risultato è un disco meraviglioso, nel quale il nostro adatta al suo stile attuale una serie di evergreen che parevano intoccabili, spazzando via in un colpo solo, per esempio, tutti i vari volumi dell’American Songbook di Rod Stewart.

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Bob ha capito che riproporre questi brani con un arrangiamento “alla Sinatra” sarebbe stato rischioso e probabilmente fallimentare (lui stesso, con il solito genio, ha definito queste interpretazioni “uncovers”), così ha deciso di spogliare le canzoni e di adattarle al suo sound, con un esito molto vicino al suono che ultimamente si sente ai suoi concerti. Chitarre discrete e mai invadenti, batteria leggera e spesso spazzolata, una steel che langue in sottofondo, la voce di Dylan al centro, una voce che appare ancora più presente del solito, con punte inattese di dolcezza ed un feeling enorme; un plauso va anche al Dylan produttore (Jack Frost è lo pseudonimo che di solito usa), che migliora di disco in disco, e che qui è quasi al livello di gente come Daniel Lanois, Joe Henry o T-Bone Burnett (a cui ha affidato i cosiddetti New Basement Tapes).  Ma veniamo ad una veloce disamina dei brani presenti nel CD (che dura appena 35 minuti, ma sono minuti molto intensi).

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Dylan ha trascurato il periodo Reprise di Sinatra, quello forse più popolare, prendendo solo un brano, mentre ne ha scelti quattro dal periodo Capitol (il migliore), peraltro tutti dall’album Where Are You?, ed i restanti cinque dal primo periodo, quello Columbia.

I’m A Fool To Want You: uno dei rari brani in cui Sinatra figura anche tra i co-autori, ma paradossalmente resa immortale non da Frank ma dalla grande Billie Holiday. A molti sarebbero tremate le mani, ma Dylan la fa sua con classe, leggerezza ed un tocco country (merito della steel di Herron, grande protagonista del CD), rispettando la melodia originale.

The Night We Called It A Day: uno standard jazz inciso anche da Chet Baker, Doris Day e, in anni recenti, Diana Krall. Bob la canta benissimo, non la maltratta come ogni tanto fa con i suoi classici, e la band alle spalle lo accompagna con grande discrezione, quasi accarezzando la melodia. Un’interpretazione di gran classe (ma sarà una costante in tutto il disco).

Stay With Me: questo è l’unico pezzo del periodo Reprise di Sinatra, un brano recentemente proposto più volte da Dylan come chiusura dei suoi concerti. Apre come al solito la steel, una chitarra arpeggiata, un violoncello, e la voce del nostro che sembra tornata indietro di almeno vent’anni.

Autumn Leaves: uno dei brani più famosi del disco, riadattata dalla francese Les Feuilles Mortes, l’hanno fatta in mille, oltre a Sinatra (tra di loro, Edith Piaf e Nat King Cole). Qui l’interpretazione di Dylan è decisamente sofferta, quasi drammatica, e si candida come uno degli episodi da ricordare di questo album, per merito anche dell’arrangiamento spoglio. Da brividi.

Why Try To Change Me Now: uno dei brani meno noti di Sinatra, riproposto da Bob in maniera più distesa, quasi rilassata, con la band che lo segue languidamente e fornendo un background in perfetto stile “country afterhours”.

Some Enchanted Evening: altro brano famosissimo, scritto da Rodgers e Hammerstein per il musical South Pacific. Forse tra tutte è il brano meno nelle corde di Dylan, che però se la cava ugualmente con mestiere e…l’ho già detto? Classe!

Full Moon And Empty Arms: già uscita lo scorso anno (solo per il download) con largo anticipo sull’album, vede la band più presente, con intrecci di steel, chitarra, ed una batteria appena accennata. Bob, manco a dirlo, la canta come se non avesse fatto altro nella sua carriera.

Where Are You?: canzone che vanta, tra le altre, versioni da parte di Shirley Bassey, Aretha Franklin ed Ella Fitzgerald; bella melodia, languida e distesa, ancora la steel dietro la voce (strumento al quale imputerei almeno il 40% della riuscita dell’album).

What I’ll Do: altro pezzo con mille versioni diverse (Chet Baker, Perry Como, Judy Garland, Sarah Vaughan ma anche Cher, Linda Ronstadt e Harry Nilsson); qui Dylan sembra inserire il pilota automatico, ma man mano che il brano procede canta con maggiore convinzione, e porta a casa quindi il risultato un’altra volta.

That Lucky Old Sun: un’altra tra le canzoni più popolari del lotto, grande successo per Frankie Laine, ma rifatta poi anche da Louis Armstrong, Ray Charles, Jerry Lee Lewis, Willie Nelson, Johnny Cash, Jerry Garcia e Brian Wilson. Lo stesso Dylan la suonò più volte negli anni 1986/87 durante il tour con Tom Petty.  (*NDB: Anche nel 2000.)

Questa versione, introdotta da un french horn, è splendida, con Dylan che canta in maniera superba, regalando emozioni a gogo con la sua voce imperfetta, rovinata, ma nella quale si riesce ancora a sentire il sacro fuoco di mille battaglie.

Un capolavoro, a chiusura di un album che ci accompagnerà a lungo in questo 2015. E negli anni a seguire.

Marco Verdi