Un Vero Gruppo “Stracult”: Pepite O Ottone? The Monks – Monk Jam Live

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The Monks – Monk Jam Live – Cavestomp/Rockbeat Records

Il fenomeno dei cosiddetti dischi di culto è sempre stato croce e delizia per gli appassionati alla ricerca di chicche gustose provenienti dal passato, ma nel caso dei Monks, usando il titolo di una trasmissione televisiva un po’ trash, più che di cult band dovremmo parlare di “Stracult”. Autori di un unico album, Black Monk Time, pubblicato in origine nel 1966 dalla Polydor, i Monks erano un quintetto di militari americani di stanza in Germania che per diletto si erano dedicati ad uno stile che giustamente, a posteriori, è stato definito proto punk o garage ante litteram, ma che all’uscita non ebbe un’accoglienza particolarmente calorosa della critica, e meno ancora dal pubblico, che a parte alcuni appassionati scatenati non era certo numeroso https://www.youtube.com/watch?v=7TvvvQS1aro . Il disco, secondo chi scrive, poi è stato rivalutato anche al di là dei suoi effettivi meriti, però rimane un manufatto di sicuro valore di quell’epoca gloriosa del rock: certo dire che le loro canzoni erano “commentari socio-politici degni dei Fugs” e che “Black Monk Time è uno degli album più formidabili degli anni ’60”, aggiungendo che se i Beatles impressionavano folle di ragazzini perbene (e comunque i Beatles suonarono negli stessi locali di Amburgo, anni prima), i Monks li spaventavano con brani come Drunken Maria (accusata di blasfemia), I Hate You, Shut Up e Complication,  denota la voglia di stupire da parte di chi lo scrive.

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Se però gente come Stooges, Velvet Underground, MC5, Captain Beefheart, persino i Sonics, e tutti gli artisti presenti in Nuggets, con diversi gradi di fama, sono giunti ai giorni nostri e i Monks no, un motivo ci sarà pure stato! Anche il fatto di presentarsi vestiti da frati, pure con la tonsura nel taglio di capelli, mi puzza tanto di idea promozionale, un po’ come Paul Revere and The Raiders che si vestivano da patrioti della guerra di indipendenza americana o Johnny Kidd & The Pirates, appunto da pirati, con tanto di banda nera sull’occhio. Certo, lo stile dei Monks era un garage, ruvido, distorto e tirato, che oggi ed allora viene citato come fonte di ispirazione per Clash e Sex Pistols, che però secondo me manco li conoscevano, ma probabilmente, oltre ai vari gruppi garage citati poc’anzi, si avvicinava di più agli episodi sonori più tirati dei primi Kinks o Who, con l’aggiunta di un organetto selvaggio e di un banjo elettrico amplificato che sicuramente era una primizia ai tempi. Il gruppo all’inizio del 1967 si sciolse e se non fosse stato per la mania delle ristampe che ha portato alla ripubblicazione di qualsiasi reperto discografico di un minimo interesse, mania che prosegue ai giorni nostri, nell’aprile del 1999 non ci sarebbe stato questo Cavestomp Garage Rock Festival, al Westbeth Theatre di New York, per la prima esibizione live in terra americana dei Monks.

Concerto che venne pubblicato su CD una prima volta nel 2000 come Let’s Start A Beat – Live From Cavestomp, poi l’anno dopo dalla spagnola Munster e oggi dai tipi della Rockbeat. Il disco è sempre lo stesso, le note mi pare pure, forse il suono è leggermente migliorato, ma non ci giurerei, comunque il disco è divertente e tirato, se amate quel R&R sporco e selvaggio, chiedere a Peter Zaremba e a suoi Fleshtones, Fuzztones, Chesterfield Kings, oltre che a Seeds, Count Five, Blues Magoos e gli altri ricordati, nei 50 minuti abbondanti del disco ci sono tutti i “successi” del gruppo, sedici brani, con un paio che si avvicinano addirittura ai sei minuti, dove l’organo di Larry Clark è l’elemento principale, ma anche la chitarra di Gary Burger, pure voce solista e il banjo elettrico distorto di Dave Day contribuiscono a creare questa atmosfera da party time eterno, reiterato ed estremo, con il basso pulsante di Eddie Shaw (l’unico con una carriera musicale, a parte i Monks è stato anche il bassista dei Copperhead di John Cipollina) a dettare i tempi, voci rauche e coretti demenziali, esplosioni di chitarra psych improvvise, che divertono il pubblico tra una reminiscenza sui vecchi tempi e l’altra e brani che scorrono da Monk Time a We Do, Wie Du, che piaceva molto ai tedeschi https://www.youtube.com/watch?v=udLefkSkhxw , alla brevissima Boys Are Boys ,la quasi ballata demenziale Pretty Suzanne, i singoli Cuckoo https://www.youtube.com/watch?v=H2b_JLjK9BM  e Complication  https://www.youtube.com/watch?v=uV5Gzbze7QI in sequenza, e il cavallo di battaglia I Hate You, strumentale stralunato e psichedelico, forse uno dei pochi che rafforza la loro fama di band intemerata e senza limiti, con un finale cantato abbastanza free form https://www.youtube.com/watch?v=ipcKTzAKRRc , seguito da una Monk Jam, sei minuti di improvvisazione libera su un tema beat alla Bo Diddley e derive garage pure, con chitarre, banjo e organo tartassati dai componenti della band https://www.youtube.com/watch?v=udLefkSkhxw . Probabilmente non dei geni ma dei “piccoli artigiani di culto”, nel frattempo scomparsi quasi tutti, con l’eccezione dell’organista Larry Clark e di Shaw. Per chi ama il genere un must, per gli altri la voglia di togliersi uno sfizio.

Bruno Conti

Sempre A Proposito Di “Giovani Promesse”! Paul Jones – Suddenly I Like It

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Paul Jones – Suddenly I Like It – Airline Records/Continental Blue Heaven/Ird

Paul Jones non ha fatto molti album solisti, cinque o sei tra il 1966 e il 1972, poi circa 35 anni di silenzio quando è riapparso con un nuovo album Starting All Over Again (che mi sembra di avere recensito, ma non avendo sempre tenuto un archivio preciso, ogni tanto ho dei dubbi, forse la recensione era della reunion della Blues Band?), pubblicato nel 2009 e prodotto da Carla Olson, e con la partecipazione di Eric Clapton, di cui tra un attimo. Ora esce questo nuovo Suddenly I Like It, sempre prodotto dalla Olson, che da qualche anno è diventata anche una apprezzata produttrice, arricchito dalla partecipazione di alcuni nomi di pregio della scena rock internazionale. Come molti sapranno il 73enne (portati benissimo) Jones non è un certo un novellino, tuttora tra i più rinomati esperti di Blues, collaboratore della BBC e ideatore di varie manifestazioni dedicate alla musica del diavolo, il nostro Paul era già in pista nel 1962 in un duo con tale Elmo Lewis, che poi altri non era che Brian Jones che insieme al socio Keith Richards gli propose di entrare in un “nuovo gruppo” che stavano formando. Paul Jones rifiutò e dopo essere transitato dai Blues Incorporated di Alexis Korner, dove c’erano anche Long John Baldry e Mick Jagger,  entrò, come cantante ed armonicista (strumento di cui era ed è grande virtuoso) nei Manfred Mann, rimanendo con loro fino al 1966, prima di iniziare una carriera solista e diventare anche un apprezzato attore teatrale e cinematografico (per esempio in Privilege) e cantante in musical e opere rock, Evita su tutti.

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Verso la fine degli anni 70, in piena era punk e new Wave, fu uno dei fautori della “seconda ondata” del british blues, con la sua Blues Band, insieme a Dr. Feelgood, Nine Below Zero e altri gruppi minori, alternando poi la sua attività musicale con varie trasmissioni radio e televisive per la BBC sul blues e “prestando” la sua armonica in varie produzioni anche di pop e rock. Continua a collaborare con gli ex Manfred Mann, ribattezzati Manfreds e la Blues Band è ancora in attività, con dischi e concerti https://www.youtube.com/watch?v=HtVmNcNKj-4 . Diciamo subito che il nuovo album, a dispetto dell’età del protagonista, è sempre fresco e pimpante, Paul Jones non ha perso una virgola della sua eccellente impostazione vocale, i brani sono piccoli classici del blues, del rock e anche del jazz, sempre ben miscelati nell’attitudine musicale del nostro, ci sono pure alcune canzoni scritte per l’occasione e il tutto si ascolta con gran piacere https://www.youtube.com/watch?v=_EF6oBpSYEA . Aggiungiamo, per i fans di Clapton, che i due brani con “Manolenta”, aggiunti in coda al CD nella versione Airline, Choose Or Cop Out  https://www.youtube.com/watch?v=9H4M-8dD1nw e Starting All Over Again, sono in effetti gli stessi già presenti nel disco del 2009 e non inseriti nella versione europea dell’album della Continental Blue Heaven, quindi non è una fregatura qualsiasi edizione troviate, vanno bene entrambe. La formazione è la stessa del 2009, Jake Andrews, giovane chitarrista texano di buon spessore,Tony Marsico, vecchio bassista dei Cruzados, Mike Thompson, tastiere e Alvino Bennett, batterista di lunga militanza.

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Si parte con Are You Lonely For Me Baby, un super classico scritto da Bert Berns, cantata da tutti, Al Green, Otis Redding, Gregg Allman, Buddy Guy, Buster Poindexter, Steve Marriott e mille altri, veicolo ideale per la voce ancora potente e di grande intensità di Paul Jones, suono classico con tastiere, chitarre e armonica che sottolineano il cantato di Jones, Lonely Nights è un bluesone di quelli classici ma poco noti, scelto da Paul, grande conoscitore di un repertorio sterminato, Sit Back Down l’ha scritta lui e la voce e l’armonica viaggiano sempre spedite e sicure https://www.youtube.com/watch?v=y3gzHta30WU . Come Jagger, Jones ha sempre una gran voce, naturale e mai forzata, e lo dimostra anche in Beggar For The Blues, dove la solista, per l’occasione, è quella di un ispirato e pimpante Joe Bonamassa https://www.youtube.com/watch?v=-TCqcwEwU5Y . Oh Brother Where Are You è una raffinata ballata soul jazz, con il sax di Tom Jr. Morgan e la voce di supporto di Little Willie G a dividersi la scena con la voce matura di Paul Jones, che è ancora in grado di scatenarsi all’armonica, nel duetto strumentale con il piano di Jools Holland in Mountain Boogie e cantare con forza il blues in Suddenly I Like It https://www.youtube.com/watch?v=pGf8LvhcdZE  o essere suadente e classico, da pefetto crooner, in una torch ballad come Don’t Go To Strangers, degna del miglior Nat King Cole. In Remember Me Jools Holland passa all’organo e Todd Wolfe aggiunge la sua resonator guitar con eccellenti risultati, tra blues e gospel, e anche l’apparizione di un vecchio amico come Vince Melouney, il primo chitarrista dei Bee Gees (parliamo di quasi 50 anni fa), non puzza solo di malinconia, ma la fiatistica Soul To Soul ha “anima” e dignità. Senza stare a ricordare tutti i brani, il disco, pur non essendo certo un capolavoro, è onesto e ben suonato, anche in questo caso  può bastare!

Bruno Conti

Power Rock Trio Vecchia Maniera! Pat Travers – Feelin’ Right The Polydor Albums 1975-1984

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Pat Travers – Feelin’ Right/The Polydor Albums 1975-1984 – Universal

Il canadese Pat Travers è sempre stato considerato uno dei migliori rappresentanti del power rock trio dagli estimatori del genere heavy, mentre da altri, per la legge del contrappasso, un caciarone metallaro non particolarmente raffinato, forse esagerando, in entrambi i casi. Gli album migliori sono sicuramente quelli degli anni ’70, primi ’80, quindi una parte di questi contenuti nel nox, ma nel cofanetto da 4 CD sono stati commessi alcuni errori, voluti e non. Intanto partiamo dal sottotitolo The Polydor Albums 1975-1984: mi chiedo come sia possibile, visto che il primo omonimo album Pat Travers, fu registrato nell’aprile del 1976 e pubblicato lo stesso anno e qualcuno me lo aveva fatto notare subito, già prima dell’uscita. Indagando ulteriormente, ma questo è probabilmente voluto, per rispettare la durata dei singoli dischetti, gli album, inseriti in ordine cronologico, due per ogni CD, all’inizio non rispettano la sequenza, con il terzo album Putting It Straight che appare come secondo, e viceversa per Makin’ Magic, peraltro entrambi del 1977, e quindi trattasi di peccato veniale. Ma la mancanza nel cofanetto di Crash And Burn, l’album del 1980 che fu quello di maggior successo della Pat Travers Band, l’unico ad entrare nei Top 20 delle classifiche USA, è più inspiegabile.

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Dal lato positivo l’ottimo lavoro di remastering degli album effettuato agli Abbey Road Studios di Londra da Andy Pearce (noto ingegnere del suono, famoso per il suo lavoro sugli album di Pretty Things, Deep Purple, Black Sabbath, E L & P, Thin Lizzy, Gentle Giant e moltissimi altri) che ha avuto accesso alle fonti originali anziché dover utilizzare i vinili, come era stato per precedenti uscite in CD. Se aggiungiamo che il quadruplo box costa veramente poco, si tratta di un acquisto quasi obbligato, anche se non indispensabile per tutti. Pat Travers nel frattempo continua imperterrito a fare album, gli ultimi sono, un Live At The Iridium NYC e Retro Rocket (segnalato come uno dei migliori dell’ultimo periodo), entrambi usciti nel 2015, ma, come detto,  il periodo migliore è, più o meno, quello che coincide con gli otto album originali contenuti nel cofanetto. Il primo disco, registrato a Londra, quando il chitarrista canadese, scoperto dal grande Ronnie Hawkins, ottenne un contratto dalla Polydor inglese che gli affiancò il bassista Peter Cowling, un veterano della scena rock, che sarebbe rimasto con lui fino al 1984 e il batterista Roy Dyke, in grado di esprimere sia potenza quanto versatilità (sentitevi l’ottimo lavoro nella cover di Magnolia di JJ Cale, illuminata pure da sprazzi di classe di Travers alle chitarre https://www.youtube.com/watch?v=lqVEATLLLOI ). Eccellenti anche due classici del R&R e del blues come Mabellene (senza la y, chissà perché) e Boom Boom (Out Goes The Lights), con Makes No Difference, dai marcati accenti southern rock https://www.youtube.com/watch?v=Wdo5qvhook0 , rimarrà un evergreen del buon Pat, come pure Feelin’ Right, la title track del box https://www.youtube.com/watch?v=w2oqx2xRfSs .

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https://www.youtube.com/watch?v=bvec0ZVGBnk

In Makin’ Magic arrivano il futuro Iron Maiden Nicko McBrain alla batteria   e si aggiunge Peter Solley alle tastiere, con Brian Robertson dei Thin Lizzy, ospite alla seconda solista in una potente rivisitazione di Statesboro Blues https://www.youtube.com/watch?v=BV4LmA_pwE8 , tra i futuri classici anche Stevie e Rock’n’Roll Suzie. Niente cover in Putting It Straight, registrato a Toronto, ma da notare la presenza dell’altro Thin Lizzy Scott Gorham per un’altra piccola gemma con doppia lead guitar (in futuro formula immancabile della Pat Travers Band) in Speakesy, l’ottimo lavoro al Moog del Rainbow Tony Carey in Off Beat Ride e perfino un assolo di sax in Dedication, senza snaturare troppo il rock-blues di Travers. Heat In The Street, il primo ad essere registrato negli States, presenta il nuovo batterista Tommy Aldridge (tra i tanti con Black Oak Arkansas e Whitesnake) e l’ingresso in pianta stabile del secondo chitarrista Pat Thrall, e la coppia fa faville in Hammerhead https://www.youtube.com/watch?v=Thdov1AtVnw  e One For Me And One For You (non quella dei La Bionda, c’è un And in più) E in tutto il disco Live! Go For What You Know, uno dei classici dischi hard rock dal vivo degli anni ’70, duro e roccioso, un po’ tamarro anche, ma era l’epoca, con le versioni di Boom Boom (Out Goes The Lights), non quella di John Lee Hooker https://www.youtube.com/watch?v=qi4_6kS5gto  e Makes No Difference, dove le chitarre sono micidiali (ma pure nel resto del disco). Detto di Crash And Burn, missing in action nel box, il successivo Radio Active sancisce definitivamente l’ingresso nel sound anni ’80, con tastiere a go-go, un batterista di nome Sandy Gennaro, e canzoni non memorabili, si salva in parte grazie all’ottimo lavoro dei due solisti, ma Black Pearl, il penultimo con Cowling e senza Thrall, che se ne è andato nel frattempo, ha un suono AOR terribile e la versione rock delle Quinta di Beethoven (?!?), ribattezzata The Fifth, ve la raccomando https://www.youtube.com/watch?v=9hJO0gaRyds ! Un filo meglio Hot Shot, l’ultimo degli anni ’80, prima di una pausa che durerà fino al 1990, con una sfilza di batteristi all’opera, tra cui Don Brewer dei Grand Funk, ma niente che rimarrà negli annali del rock. Quindi ricapitolando, sempre se amate il vostro rock molto heavy, bene i primi cinque album, trascurabili gli altri tre, ma un’occasione per (ri)scoprire uno dei chitarristi di culto di quell’epoca!

Bruno Conti

Un Altro Arzillo 70enne! Robin Trower – Something’s About To Change

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Robin Trower – Something’s About To Change – V12 Records/Cadiz/Ird

Robin Trower è da sempre giustamente considerato uno dei migliori epigoni hendrixiani, ma anche per lui il tempo passa (quest’anno, proprio il 9 marzo, giorno di uscita dell’album, ha compiuto 70 anni) e la formula, nonostante la promessa del titolo che Something’s About To Change, rimane più o meno quella e alla lunga comincia a mostrare la corda. Intendiamoci, Trower è sempre un fior di chitarrista, tra i più bravi ed eclettici in ambito blues-rock o rock-blues, come preferite, uno degli “originali” e il suo sound ha sempre quella particolare aura sognante che in dischi come Bridge Of Sighs o Twice Removed From Yesterday, e in generale tutta la produzione anni ’70, anche grazie alla presenza di James Dewar, bassista, ma soprattutto cantante dalla voce maschia e profonda, rimane uno degli output più interessanti di quell’epoca ricca di grandi chitarristi di valore, nei migliori anni del rock inglese. Ma Dewar non c’è più dal 1983 e Robin ha provato, nel corso degli anni, riuscendoci in parte, a sostituirlo, per esempio con Jack Bruce, insieme a cui ha registrato tre album più un live, l’ultimo dei quali Seven Moons Live appunto, nel 2009.

 

Per il resto però, da qualche anno in qua, Robin Trower ha assunto anche il ruolo di cantante e bisogna dire che spesso, per usare un eufemismo, fa rimpiangere i suoi predecessori illustri, dal grande Gary Brooker, nei Paramounts e nei Procol Harum, ai citati Dewar e Bruce; ora, nel nuovo album, anche questo pubblicato a livello indipendente dalla propria etichetta, il musicista inglese ha assunto pure il ruolo di bassista, facendosi affiancare da Chris Taggart, buon batterista di settore, già presente nel precedente Roots And Branches, dove Trower andava ad esplorare anche il passato, con varie cover interessanti, e la presenza, all’organo di Luke Smith, musicisti non  in grado di mascherare il fatto che  il materiale, tutto scritto da Trower, sia spesso (leggi quasi sempre) non all’altezza dei brani delle epoche più fertili. Ogni tanto il vecchio leone dà ancora la sua zampata, soprattutto in quelle particolari blues ballads dalle atmosfere sognanti e spaziali, da sempre suo marchio di fabbrica, per esempio Dreams That Shone Like Diamonds, quasi alla JJ Cale nel suo applicare la formula della sottrazione di volumi e violenza chitarristica, a favore di poche note ma ben piazzate e con un sound limpido e ben delineato https://www.youtube.com/watch?v=jTHtBIWAA_8 .

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Altrove il vecchio amore per Hendrix è ancora presente, come nella energica title-track iniziale, con il suo rock-blues sincopato e percorso da violente scariche della solista, o nel mid-tempo che vorrebbe essere sognante, ma suona un filo risaputo, di Fallen, dove il lavoro, comunque eccellente, della solista, non è sufficiente a coprire il cantato quasi alla camomilla di Trower. A questo punto meglio affidarsi al vecchio blues, che non tradisce mai, come nello slow, Good Morning Midnight, dove il nostro ci regala un bel solo di ottimo spessore tecnico, ma forse poco brilante nel feeling e nella passione. Lo stile è quello solito, Strange Love è un altro lento, ma il cantar parlando di Robin a lungo andare può essere veramente irritante https://www.youtube.com/watch?v=VqhWAVx1Jb0 e non so se i seguaci di questa musica si potranno accontentare solo del suo lavoro alla chitarra, per quanto impeccabile, qualche riff più mosso in The One Saving Grace, ma il wah-wah, che era un altro dei suoi tratti caratteristici è latitante e molte delle canzoni sinceramente non le ricordo neppure. Giudizio di stima, ma mi sa che la prossima volta dovrà cambiare veramente qualcosa, il chitarrista va bene, magari il cantante!

Bruno Conti

Ebbene Sì, E’ La Figlia, Anche Se Il Babbo E’ Un’Altra Cosa! Lilly Hiatt – Royal Blue

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Lilly Hiatt – Royal Blue – Normaltown Records

Cosa dobbiamo aspettarci da una figlia d’arte di cotanto padre? Non la versione femminile di John Hiatt, e sarebbe difficile e scorretto pensare che potrebbe diventarlo (ma un pensierino possiamo pur sempre farlo)! Giunta al secondo album, Lilly Hiatt si affida per questo CD alla produzione di Adam Landry, quello del recente album dei Diamond Rugs, ma anche di Deer Tick, Hollis Brown e Sallie Ford, che la allontana dal sound più roots-country-rock del precedente produttore Doug Lancio, per un suono più contemporaneo, pop e mainstream, dove forse non risaltano troppo quelle che vengono presentate da Lilly come le sue principali influenze ( babbo a parte, ovviamente qualche aria di famiglia c’è), Lucinda Williams e Dinosaur Jr (?!)., o meglio qualche grado di parentela, l’essere anime gemelle, con Lucinda si può riscontrare, magari anche con la Rosanne Cash più leggera, ma per il resto direi che siamo più sul lato contemporary pop di Nashville, tipo Bangles, Cardigans, a tratti anche Aimee Mann, tutti in trasferta nella capitale del Tennessee.

Il country c’è, anche grazie alla pedal steel spesso presente di Luke Schneider, per esempio nella deliziosa Jesus Would’ve Let Me Pick The Restaurant, che si candida come uno dei titoli più originali, ironici e femministi dell’anno, altrove la solista più lavorata e noisy di Beth Finney, già presente nel precedente lavoro Let Down, ed il muro di tastiere, anche molti synth, suonati da Adam Landry, come in Heart Attack  e nell’iniziale Far Away, evocano un suono anni ’80, tipo quello di Echo & The Bunnymen, o anche dei primi Til Tuesday di Aimee Mann https://www.youtube.com/watch?v=HWLJMlOYpAQ . Landry ha anche un po’ nascosto nel mix la voce, piacevole ma non memorabile di Lilly, e quindi lo spirito rock delle canzoni ogni tanto fatica ad emergere, ma in Off Track dove pedal steel e solista si confrontano con successo, la bilancia è più equilibrata https://www.youtube.com/watch?v=AK8Tk_LUNCw , anche se le solite tastiere sono fin troppo soffocanti, con quella patina radiofonica che si spera potrà portarla al successo, formula che viene ripetuta anche nella successiva Too Bad, mentre Get This Right è più energica e suona come una sorta di Lucinda Williams indie pop, con le chitarre più grintose e anche la sezione ritmica ci dà dentro di gusto, il babbo dovrebbe approvare https://www.youtube.com/watch?v=bnqfne5gh20 . Papà che viene evocato nella più delicata, ancorché sempre grintosa, Somebody’s Daughter, sia a livello musicale che di testi, la voce di Carey Kotsionis appoggia e sostiene quella di Lilly e la pedal steel è la protagonista assoluta della tessitura musicale, con la voce che ha quel giusto mix di vulnerabilità e confidenza, presente anche nella citata Jesus Would’ve Let Me Pick The Restaurant.

Diciamo che sentite a volumi adeguati le canzoni acquistano grinta e spessore, non tutte, Heart Attack continua a ricordarmi più i Quarterflash che Tom Petty https://www.youtube.com/watch?v=YE-ODQQci2g , mentre una ballatona come Your Choice, solo voce, chitarra acustica e tastiere potrebbe vagamente ricordare Natalie Merchant, ma vagamente https://www.youtube.com/watch?v=0dSxuFaZIzQ . Machine potrebbe passare per uno dei brani che Carlene Carter faceva negli anni ’80, quando era la moglie di Nick Lowe e nei suoi dischi suonavano i Rockpile e i Rumour, cioè un bell’esempio di country’n’roll, con chitarre spiegate e la voce finalmente pimpante https://www.youtube.com/watch?v=kyVOYWvE3JE , ma Don’t Do These Things Anymore, al di là delle chitarre molto “lavorate” ha troppo un’aria synth pop irrisolta, meglio la country ballad conclusiva Royal Blue, un valzerone melodico e delicato, degno dei brani lenti ed intensi che l’augusto genitore ci regala spesso e volentieri, e che in questo caso Lilly è in grado di rivedere da un punto di vista femminile https://www.youtube.com/watch?v=74kv-BxP0cM . La stoffa c’è, qualche canzone pure, proviamo magari un terzo produttore ed avremo la nuova Jenny Lewis o un’altra Brandi Carlile? E in ogni caso, rispetto a gran parte di quello che si ascolta in radio o si vede nelle classifiche, non dico che siamo a livelli sublimi, ma per fortuna siamo su un altro pianeta. Certo non è facile, il cognome ti apre qualche porta https://www.youtube.com/watch?v=aTxjXZtf-nw ma poi, come dice Teddy Thompson nella bella e sincera Family, che dà il titolo al disco della famiglia Thompson riunita: “My father is one of the greats to ever step on a stage/ My mother has the most beautiful voice in the world…And I am the middle child, the boy with red hair and no smile/ Not too secure, very unsure who to be”, si può applicare anche a Lilly Hiatt e a tutti i figli d’arte sparsi per il mondo.

Bruno Conti    

Non Puoi Usare Il Mio Nome (Ma Il Cognome Sì)? Curtis Knight & The Squires (Featuring Jimi Hendrix) – You Can’t Use My Name

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Curtis Knight & The Squires (Featuring Jimi Hendrix) – You Can’t Use My Name The RSVP/PPX Sessions – Hendrix Experience/Sony Legacy

Quando nel settembre del 1970 moriva Jimi Hendrix nessuno avrebbe potuto immaginare che ancora oggi, a 45 anni dalla sua morte, saremmo stati qui a parlare di “dischi nuovi” del mancino di Seattle. Forse solo Mike Jeffery, il manager all’epoca ed Alan Douglas, che subentrò nel 1973, applicando una “tecnica creativa” e cannibalistica di ristampe, che se non era il massimo a livello etico, servì comunque a mantenere vivo presso le nuove generazioni l’interesse per la musica del geniale musicista americano e, a conti fatti, soprattutto nelle ristampe in CD (stendiamo un velo pietoso sui vinili di Crash Landing e Midnight Lightning, manipolati in modo incredibile con sovraincisioni messe un po’ a casaccio), devo dire che il lavoro fatto, soprattutto nelle “versioni definitive” anni ’90, poi superate da quelle curate dalla famiglia Hendrix, non era tutto sommato male, anzi! Forse perché, in ogni caso, alle spalle di tutte queste operazioni, c’era sempre e comunque Eddie Kramer, l’ingegnere del suono e produttore delle sessions originali. Ma negli settanta circolavano anche tutta una serie di vinili, a nome Jimi Hendrix, distribuiti in Italia dalla Joker-Saar, che in effetti erano parte della collaborazione tra lo stesso Jimi e Curtis Knight, nel cui gruppo militò tra il 1965 ed il 1966, con una appendice nel 1967.

curtis-knight-and-the-squires Photo of Jimi HENDRIX and Curtis KNIGHT and SQUIRES

Nel frattempo Hendrix aveva fondato anche il suo gruppo, Jimmy James & The Blue Flames, dove fu “scoperto” da Chas Chandler, su indicazione di Linda Keith, la fidanzata di Keith Richards, che lo aveva visto suonare in alcuni locali del Greenwich Village di New York. E da qui in avanti la storia è nota. Nel 1965 però il giovane Jimmy Hendrix aveva firmato un contratto con il “geniale” Ed Chalpin della PPX Enterprises, che dietro versamento della sontuosa cifra di un dollaro e l’1% delle royalties future sulle registrazioni con Curtis Knight, gli aveva fatto firmare un contratto di tre anni, e all’epoca purtroppo usava così. Quando Chalpin venne a conoscenza del successo di Hendrix in Europa, gli ricordò che aveva un contratto in esclusiva per lui, e alla insistenze di Jimi che gli diceva “You Can’t Use My Name”, come testimoniato in una session ulteriore del 1967 con Curtis Knight, dal dicembre di quell’anno cominciò a pubblicare Get That Feeling, con il nome (ok, il cognome!) Hendrix grosso come una casa in copertina e nell’ottobre del 1968 Flashing. E poi quelle registrazioni hanno perseguitato Hendrix per tutta la sua breve vita e gli eredi fino al 2003, anno in cui i diritti furono recuperati in tribunale dalla famiglia.

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Non sono brani di Jimi Hendrix, ma al tempo stesso lo sono, si capisce che in nuce, in queste canzoni, che non sono per niente brutte ma neppure fantastiche, c’è già l’idea della futura epopea musicale di uno dei più grandi musicisti della storia della musica rock, forse il più geniale, sicuramente il più grande chitarrista elettrico di tutti i tempi. I brani totali recuperati da quelle registrazioni sono ben 88, tra incisioni di studio e pezzi live, in questo primo volume delle RSVP/PPX Sessions ne appaiono 14, ancora una volta amorevolmente restaurati da quel genio degli studi di registrazione e delle consolles che risponde al nome di Eddie Kramer, ma neppure lui può fare miracoli: c’è un brano inedito in assoluto, Station Break e due brani dalle incisioni del 1967, completi del dialogo tra Jimi e Chalpin, che dà il titolo a questa raccolta. L’iniziale How Would You Feel , autore Jimmy Hendrix, il primo singolo uscito nel ’66, fino dal titolo è più che ispirata da Like A Rolling Stone di Dylan, non a caso il brano con cui si aprirà la sua epocale esibizione al Festival di Monterey nel giugno del 1967: e questa versione non è per niente trascurabile, Curtis Knight ha una bella voce e la chitarra di Hendrix guizza sullo sfondo, come in attesa di esplodere nei futuri fuochi di artificio https://www.youtube.com/watch?v=u1FuBHN4W5s . In Gotta Have A New Dress, con un organo che incombe sullo sfondo ed uno stile sempre rock’n’soul, Jimi comincia ad esplorare quel suo stile ritmico/solista che poi porterà alla perfezione negli anni successivi.

Don’t Accuse è un blues con fiati, il suono per quanto restaurato è primevo e crudo, molto basico,  ma si lascia ascoltare e la chitarra, ancora trattenuta, non differisce molto da quella dei solisti dell’epoca, detto in soldoni poteva essere chiunque, anche se adesso sappiamo chi sarebbe diventato https://www.youtube.com/watch?v=y-P4e3iB_HI . Fool For You Baby è una soul ballad atmosferica, quasi con un suono alla Motown, No Such Animal è uno strumentale di chiara impronta rock, il gruppo e Jimi ci danno dentro di gusto, con un bel interplay tra organo e chitarra, un po’ alla Booker T & The Mg’s https://www.youtube.com/watch?v=n_i8l4JCjGE . Anche Welcome Home, il lato B del 1° singolo, portava la firma di Hendrix, niente per cui stracciarsi le vesti, ma ricca di energia. Knock Yourself Out (On Instruments) è un altro strumentale che era il lato B del secondo singolo, sempre embrionale del futuro stile, Simon Says non è la futura “Il Ballo di Peppe”, ma insomma, siamo lì. Station Break è il “mitico” inedito, ma poteva rimanere tale, non se ne sentiva la mancanza https://www.youtube.com/watch?v=wDcu15Wb3u0 , mentre Strange Things viaggia su un riff alla Bo Diddley e ha qualche piccola traccia garage-psych con Hendrix che si diverte alla chitarra, interessante. Hornet’s Nest, altro singolo strumentale firmato da Jimi è anche lui figlio del suono del ’66, non ancora rock, non più solo beat o soul https://www.youtube.com/watch?v=2N1XkMBV9ro . You Can’t Use My Name, uno dei due brani del 1967 è uno di quelli con l’incisione più primitiva e anche se ha qualche parentela con il soul di marca Stax non è memorabile, mentre Gloomy Monday è interessante più che altro per il dialogo che la precede tra Hendrix e Chalpin, che lascia intravedere il futuro tradimento che è già nell’aria https://www.youtube.com/watch?v=CPrB5tHJ0Ec . Classico disco da tre stellette, forse si potrebbe aggiungere mezza stelletta per il valore storico, ma non possiamo certo gridare al capolavoro.

Bruno Conti    

Nothing But The Blues…And More, Senti Che Roba: Può Bastare?! Joe Bonamassa – Muddy Wolf At Red Rocks

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Joe Bonamassa – Muddy Wolf At Red Rocks -2CD/2DVD/BRD Provogue/Edel

Sappiamo tutti che Joe Bonamassa, per usare un eufemismo, è un artista prolifico, e quindi essendo passati ben sei mesi dall’ultimo, ottimo, album di studio, Different Shades Of Blue http://discoclub.myblog.it/2014/09/10/ebbene-si-eccolo-joe-bonamassa-different-shades-of-blues/ , ci si chiedeva quale sarebbe stata la prossima mossa di Joe. Ma in effetti l’artista di Utica, stato di New York, la mossa l’aveva già pianificata lo scorso 31 agosto del 2014, quando, nel meraviglioso anfiteatro naturale di Red Rocks, a due passi da Denver, Colorado, e di fronte a 9.000 entusiasti spettatori, ha organizzato una speciale serata unica dedicata al Blues ed in particolare a quello di due titani delle 12 battute come Muddy Waters e Howlin’ Wolf, da cui il titolo Muddy Wolf At Red Rocks. Negli ultimi anni il buon Joe sembra avere “messo la testa a posto”: una ottima serie di album, in studio e dal vivo (non ve li ricordo tutti perché sono veramente tanti) ma non sbaglia un colpo, e non è che prima non avesse fatto buoni dischi, ma la sua carriera, quantomeno a livello critico, era stata più discontinua. Diciamo che la collaborazione con il produttore sudafricano Kevin Shirley, ha giovato ad entrambi i personaggi, con un percorso lento ma sempre più sicuro, disco dopo disco, stanno creando un body of work che rivaleggia con quelli dei grandi Guitar Heroes del passato.

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Una delle “piccole lacune” da colmare era quella di un disco dedicato completamente al Blues; in effetti in passato Bonamassa, nel 2003, aveva già dedicato un disco che, fin dal titolo, Blues Deluxe, era un tributo alla musica del diavolo, ed infatti viene considerato uno dei dischi migliori della sua discografia, però, accanto ad alcuni brani classici, c’erano anche un paio di composizioni autografe e la title-track, a firma Jeff Beck/Rod Stewart, peraltro bellissima, che non si possono certo considerare pietre miliari della musica nera. Questa volta tutto è stato fatto a puntino: dalla scelta della band che lo accompagna, i “soliti” Anton Fig alla batteria e Michael Rhodes al basso, solidissima sezione ritmica, l’ultimo arrivato, il tastierista della Florida Reese Wynans, vecchio pard di SRV, ma che era già in pista sul finire anni ’60, con i Second Coming pre-Allmans, la sezione fiati composta da Lee Thornburg, Ron Dziubla e Nick Lane, ormai una presenza fissa negli ultimi anni, e, per l’occasione, il chitarrista americano Mike Henderson, che proprio recentemente ha dato alle stampe un nuovo album, If You Think It’s Hot Here, dopo parecchi anni di silenzio discografico, qui utilizzato, con ottimi risultati, come armonicista e Kirk Fletcher dei Mannish Boys, altro veterano del blues, alla seconda chitarra. Il risultato è un bijou, disponibile in doppio CD o doppio DVD  e Blu-Ray (con vari contenuti extra nei supporti video, tra cui un breve documentario sul viaggio di Kevin e Joe al famoso Crossroads, il dietro le quinte del concerto e materiale d’archivio dedicato a Muddy e al Wolf): secondo me il disco meriterebbe almeno 4 stellette, ma visto che ci sono ancora gli scettici che considerano Bonamassa un volgare caciarone dal suono pesante e violento, gli consiglierei di ascoltarsi questo disco o video dal vivo e ricredersi.

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Si tratta veramente di una serata blues con i fiocchi e controfiocchi: fin dall’introduzione atmosferica dello strumentale We Went Down To The Mississipi Delta, all’ultima nota dei credits che scorrono sulla finale Muddy Wolf, Bonamassa e soci dimostrano come si suona O’blues. La prima parte del concerto è dedicata al repertorio di McKinley Morganfield, in arte Muddy Waters, ed ecco così scorrere, preceduta dalla versione originale, Tiger In Your Tank https://www.youtube.com/watch?v=vlqK4DMhawk , un inizio da brividi, per un brano che molti non considerano uno dei super classici, ma che è perfetto con il suo mood swingante per aprire le operazioni, con Joe che comincia a regalarci il primo dei suoi soli, che saranno numerosi e sempre molto variati, con un perfetto uso della solista, misurata, cristallina e perfetta come in rare precedenti occasioni mi è capitato di ascoltare, sempre misurato ma in grado di regalare le sue proverbiali zampate. Da I Can’t Be Satisfied, dove da perfetto band leader comincia a chiamare gli assolo dei suoi musicisti, il primo, Mike Henderson all’armonica e poi il suo, inserito alla perfezione nel contesto di uno dei cavalli di battaglia di Waters https://www.youtube.com/watch?v=_q3L0my3cao . Ma è con You Shook Me che le cose cominciano a farsi serie, Wynans passa al piano, Bonamassa canta sempre benissimo e comincia a scaldare la sua chitarra, per quello che sarà uno degli interventi solistici più belli della serata, con un fiume lungo e torrenziale di note che inizia a scorrere con grande intensità, sembra di ascoltare il suo idolo Eric Clapton in serata di grazia, grande musica. Che non si ferma neppure con Stuff You Gotta Watch, altro swing-blues dove fiati ed interventi misurati di Henderson, Wynans, Fletcher e un ingrifato Bonamassa ci riportano alle origini del blues https://www.youtube.com/watch?v=wvOwOrBrxNI , prima di tramortirci di nuovo con una versione micidiale di Double Trouble, brano che spesso viene accostato anche alla figura di Otis Rush, ma pure a Clapton che ne ha spesso rilasciato delle versioni da manuale, e qui Joe, di nuovo baciato dall’ispirazione dimostra di nuovo perché è veramente un grande chitarrista, in uno degli altri momenti topici della serata.

Real Love raffredda brevemente gli animi (si fa per dire perché è comunque un gran canzone) ma è un attimo, perché Bonamassa dimostra di essere anche un grande chitarrista slide e indossato il bottleneck ci regala una versione devastante di My Home Is On The Delta, Chicago Blues allo stato puro, per concludere la prima parte della serata con il train time inarrestabile di All Aboard, tra sferzate di chitarra ed armonica. Lo show riprende, preceduto da un breve talking di Howlin’ Wolf che ci spiega cosa è il blues, e si riparte proprio con un super classico come How Many Years, con tutta la band in gran spolvero https://www.youtube.com/watch?v=9Tk-4aC2lok  e poi si susseguono i ritmi sincopati della immancabile Shake For Me, con retrotoni quasi R&B https://www.youtube.com/watch?v=Hv2hGTGrwvI , la scatenata Hidden Charms in odore di boogie e R&R https://www.youtube.com/watch?v=TWh57xQG3wo , prima dell’immortale riff di Spoonful, condita da un altro assolo di chitarra di quelli da sentire per credere, otto minuti di pura magia sonora, che rievocano le migliori serate dei Cream, perché siamo su quei livelli https://www.youtube.com/watch?v=MJMzjqsitq0 , seguita da un altro dei brani più conosciuti della storia, una pimpante e ricca di ritmo Killing Floor che confluisce in un’altra intensa punta della serata, di nuovo il “lupo” più cattivo, ecco il momento del Diavolo, Evil (is going on), uno slow blues dove c’è spazio anche per l’armonica di Henderson, il solito inarrestabile fiume di note di Bonamassa, ispiratissimo ancora una volta, che entusiasma il pubblico, prima di lanciare l’ultimo brano della seconda parte, All Night Boogie (All Night Long), che finisce in gloria la serata con tutto il gruppo al proscenio, musicisti di classe e sostanza come raramente è dato ascoltare in un concerto blues in questi anni moderni.

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La serata non è finita e Joe ritorna per presentare alcuni dei suoi classici, dove potrà dare luogo anche a qualche escursione con il suo pedale wah-wah, raramente innestato nel corso della serata di blues elettrico, ma ora è tempo di rock-blues, e così arrivano, l’omaggio a Jimi Hendrix di Hey Baby (New Rising Sun), Oh Beautiful e Love Ain’t A Love Song, che allora erano nuove per il pubblico presente, una tiratissima Sloe Gin ed un’epica Ballad Of Joe Henry, tra le due quasi venti minuti di rock-blues feroce e selvaggio che illustrano anche il lato più heavy ed entusiasmante della musica del nostro amico. Titoli di coda, fine: uno dei migliori album dal vivo di questi anni, dovrebbe bastare!

Bruno Conti

“Pene D’Amor Perduto”, Un Ritorno Alle Origini Del Suo Suono! Allison Moorer – Down To Believing

allison moorer down to believing

Allison Moorer – Down To Believing – Entertainment One

Allison Moorer è una delle più interessanti cantautrici americane. Con Down To Believing giunge al nono album della sua carriera. Allison è anche stata la moglie di Steve Earle, fino a che nel marzo del 2014 Earle non ha annunciato che i due si erano divisi. Di solito le cose andrebbero tenute separate, ma visto che il nuovo album, in un certo senso, è la cronaca del divorzio tra i due,  in quella categoria di dischi che si chiamano “divorce album”, dopo che la stessa Allison ha dichiarato che non essendo lei capace di scrivere canzoni in seconda persona, come un osservatore esterno, ma ama scrivere brani ispirati alla sua vicenda umana ed amorosa, il disco è diventato la storia di questa dolorosa vicenda; prima di lei, penso a Rosanne Cash in passato, o Kathleen Edwards in tempi più recenti, altre hanno raccontato le cosiddette “pene d’amor perduto” (perché a differenza di Shakespeare, non finisce bene). Condizione certo non necessaria per incidere un buon disco, ma evidentemente la Moorer voleva mettere in versi e musica quello che stava succedendo. Con ottimi risultati. La brava e gentile Allison è rimasta fedele al suo stile che coniuga da sempre country e rock, ma il risultato non si ascrive tout court, come si potrebbe pensare, al country-rock, ma è una fusione dei due stili, con ampi innesti di folk e una facilità di scrittura vicina al pop più raffinato, punto che la accomuna alla sorella Shelby Lynne (di cui è atteso, con impazienza da chi scrive, il nuovo album, I Can’t Imagine, previsto per inizio maggio) https://www.youtube.com/watch?v=ehAsS8BPUD4 .

La Moorer non ha, forse, una voce bella e completa come la sorella https://www.youtube.com/watch?v=WfKpF_YLgQ4 , ma comunque più che adeguata alla bisogna, espressiva ed energica, quando occorre, come nell’iniziale, eccellente sferzata rock di Like It Used To Be, con la pioggia di chitarre acustiche ed elettriche, soprattutto le seconde, poste in primo piano dal produttore Kenny Greenberg (di nuovo alla “guida” dopo aver prodotto i primi due dischi della Moorer) https://www.youtube.com/watch?v=QvBvph2ssLI . O Thumderstorm/Hurricane, una sorta di scura e drammatica ballata percorsa da una spruzzata di archi che rendono avvolgente il suono, e con le chitarre elettriche, suonate dallo stesso Greenberg che la punteggiano con veemenza, oltre ad Allison, che la canta con grande verve vocale https://www.youtube.com/watch?v=xiXo1WbziSA . I Lost My Crystal Ball è la prima delle canzoni che avvicinano la sua recente vicenda, attraverso la metafora di questa palla di cristallo che si trasforma in una palla da demolizione la Moorer racconta, in modo semisarcastico, dell’effetto devastante che la stessa ha avuto nella sua vita https://www.youtube.com/watch?v=29ApPZg6b88 , Greenberg le cuce addosso un altro arrangiamento molto carico, elettrico, ma ricco di particolari, dove primeggiano i musicisti che suonano nell’album, dallo stesso Kenny Greenberg impegnato all’acustica, oltre che alla solista, a Dan Dugmore, alla steel, mandolino e 12 corde, Chad Cromwell, batteria e Michael Rhodes, basso,  tutti impegnati anche nella title-track Down To Believing, una ballata umbratile e malinconica che cerca di esorcizzare le ferite attraverso un afflato melodico che è figlio del più classico suono country ed è cantato con voce vulnerabile, ma anche assertiva, dalla brava Allison https://www.youtube.com/watch?v=V3CxTZhYbug .

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Che spesso si fa aiutare anche da altri autori, i più noti, oltre a Greenberg, Angelo Petraglia, Keith Gattis e Audley Freed, ma il merito sostanziale della riuscita del disco va soprattutto alla Moorer, che nei cinque anni passati dal precedente Crows, evidentemente aveva radunato molte idee poi messe in pratica in questo CD. Tear Me Me Apart, di nuovo con una bella grinta rock nello svolgimento dei temi o If I Were Stronger che approccia queste storie di amori che finiscono sotto la forma di una bella ballata pianistica, poi abbellita dalle fioriture degli arrangiamenti di Greenberg, nel giusto mix tra un suono più pop e commerciale e le esigenze della canzone d’autore https://www.youtube.com/watch?v=wIaisYn2k5s . Wish I, con la sua lista di desideri sciorinati senza vergogna https://www.youtube.com/watch?v=m6BZNqHs2Ck , è un altro tassello di questo viaggio verso la guarigione, cantato con la solita passione e forse un pizzico di romanticismo di troppo, che però non guasta, ottimo l’arrangiamento con le chitarre sempre sugli scudi.

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Molto bella anche la più raccolta Blood, una sorta di moderna country folk ballad, con la sua weeping steel guitar, che esamina il rapporto con la sorella Shelby https://www.youtube.com/watch?v=x5DaFddnrcs  o Mama Let The Wolf In, il “vaffanculo” a quel “Big Bad Motherfucker” che è la malattia autistica che affligge il figlio di 5 anni John Henry, avuto con Steve Earle, e che è il motivo per cui vive a New York, città dove risiede anche il padre, il brano ha un suono elettrico quasi alla Creedence https://www.youtube.com/watch?v=n6WUj-ceuLc , e non è un caso che la cover scelta dalla Moorer, su istigazione della sua etichetta, sia la splendida Have You Ever Seen The Rain, una delle più belle canzoni di sempre https://www.youtube.com/watch?v=YUmmrn8vdlk , che fonde in modo mirabile country e rock, come in fondo è riuscita a fare anche Allison Moorer, in questo bel album, caldamente consigliato agli amanti del cantautorato femminile.

Bruno Conti

Non E’ Uno Scherzo Da 1° Di Aprile, Il 25 Maggio Uscirà Una Super Edizione di Sticky Fingers Dei Rolling Stones!

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Quindi i Rolling Stones non lasciano, ma raddoppiano. Finite le celebrazioni per il 50° Anniversario ora siamo passati ad una nuova fase: ieri, oltre all’annuncio della ristampa di Sticky Fingers, di cui tra un attimo, gli Stones hanno anche annunciato un nuovo, ennesimo, tour del Nord America, Canada e Stati Uniti, dove è più che probabile che eseguiranno nella sua interezza quello che per molti è il loro album più bello (ma se la batte con Exile On Main Street e Beggars Banquet)!

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Il Tour si chiamerà Zip Code e toccherà 15 città: per chi progetta una trasferta queste sono le date:

THE ROLLING STONES – ZIP CODE TOUR

May 24, 2015                       San Diego, CA                       Petco Park

May 30, 2015                       Columbus, OH                     Ohio Stadium

June 3, 2015                         Minneapolis, MN              TCF Bank Stadium

June 6, 2015                         Dallas, TX                               AT&T Stadium

June 9, 2015                         Atlanta, GA                            Bobby Dodd Stadium

June 12, 2015                      Orlando, FL                            Orlando Citrus Bowl

June 17, 2015                      Nashville, TN                        LP Field

June 20, 2015                      Pittsburgh, PA                     Heinz Field

June 23, 2015                      Milwaukee, WI                   Summerfest / Marcus Amphitheater

June 27, 2015                      Kansas City, MO                 Arrowhead Stadium

July 1, 2015                           Raleigh, NC                            Carter-Finley Stadium

July 4, 2015                           Indianapolis, IN                                   Indianapolis Motor Speedway

July 8, 2015                           Detroit, MI                             Comerica Park

July 11, 2015                        Buffalo, NY                             Ralph Wilson Stadium

July 15, 2015                        Quebec, QC                           Le Festival D’Été de Québec*

*wristbands will go on sale at 12pm local on Saturday, April 11

Ovviamente si parla di stadi, o comunque di locations enormi.

Il tutto avverrà in contemporanea con la ristampa di Sticky Fingers, il celebre album del 1971, che uscirà in una quantità iperbolica di versioni. Ve le riporto sotto, perché sono veramente tante:

Original CD
Remastered album with 12 page booklet.

ORIGINAL TRACK LISTING:

 

  1. 1.      Brown Sugar

(Jagger – Richards)

Keith Richards – guitar & acoustic guitar

Mick Taylor – Guitar

Bill Wyman – Bass

Charlie Watts – Drums

Ian Stewart – Piano

Mick Jagger – Vocal & percussion

Bobby Keyes – Sax

 

 

  1. 2.      Sway

(Jagger – Richards)

Mick Taylor – Guitars

Bill Wyman – Bass

Charlie Watts – Drums

Mick Jagger – Vocal & guitar

Keith Richards – Vocal

Paul Buckmaster – Strings

Nicky Hopkins – Piano

 

  1. 3.      Wild Horses

(Jagger – Richards)

Keith Richards – Guitar & Vocal

Mick Taylor – Guitar

Bill Wyman – Bass

Jim Dickinson – Piano

Mick Jagger – Vocal

Charlie Watts – Drums

 

  1. 4.      Can’t You Hear Me Knocking

(Jagger – Richards)

Keith Richards – Guitar & vocals

Mick Taylor – Guitar

Bill Wyman – Bass

Charlie Watts – Drums

Billy Preston – Organ

Jimmy Miller – Percussion

Rocky Dijon – Congas

Bobby Keyes – Sax

Mick Jagger – Vocal

 

  1. 5.      You Gotta Move

(Jagger – Richards)

Keith Richards – Guitar & vocals

Mick Taylor – Electric guitar

Charlie Watts – Drums

Bill Wyman – Electric piano

Mick Jagger – Vocal

 

  1. 6.      Bitch

(Jagger – Richards)

Mick Taylor – Guitar

Keith Richards – Guitar & vocals

Mick Jagger – Vocal

Bill Wyman – Bass

Bobby Keyes – Sax

Jim Price – Trumpet

Jimmy Miller – Percussion

Charlie Watts – Drums

 

  1. 7.      I Got The Blues

(Jagger – Richards)

Keith Richards – Guitar & vocals

Mick Taylor – Guitar

Bill Wyman – Bass

Charlie Watts – Drums

Bobby Keyes – Sax

Jim Price – Trumpet

Mick Jagger – Vocal

Billy Preston – Organ

 

  1. 8.      Sister Morphine

(Jagger – Richards – Marianne Faithfull)

Charlie Watts – Drums

Bill Wyman – Bass

Keith Richards – Guitar

Ry Cooder – Guitar

Mick Jagger – Vocal

Jack Nitzche – Piano

 

  1. 9.      Dead Flowers

(Jagger – Richards)

Bill Wyman – Bass

Charlie Watts – Drums

Keith Richards – Guitar & vocals

Mick Taylor – Guitar

Mick Jagger – Guitar & vocal

Ian Stewart – Piano

 

10. Moonlight Mile

(Jagger – Richards)

Charlie Watts – Drums

Bill Wyman – Bass

Jim Price – Piano

Mick Jagger – Guitar & vocal

Mick Taylor – Guitar

Paul Buckmaster – Strings

 

Original LP
Remastered album on black heavyweight vinyl plus 12×12 insert.

Deluxe 2CD
Remastered album plus bonus CD featuring previously unreleased alternate takes and live performances with 24 page booklet.

Deluxe Edition Boxset
Remastered album, bonus CD featuring previously unreleased alternate takes and live performances plus DVD with 2 tracks from Live At The Marquee.

All housed in a presentation box with 72 page hardback picture book and 4 postcard set.

Super Deluxe Edition Boxset
Remastered album and bonus CD featuring previously unreleased alternate takes and live performances.

Plus Get Yer Leeds Lungs Out CD, a DVD featuring 2 tracks from Live At The Marquee and 7” vinyl with “Brown Sugar” and “Wild Horses”.

All housed in a presentation box with a 120 page hardback book complete with real zip.

Plus print, poster, 4 postcard set and mini replica of band cut out.

Deluxe Double LP Set
Remastered album and bonus tracks featuring previously unreleased alternate takes and live performances on two black heavyweight vinyls.

Housed in an outer wallet with real zip.

Deluxe Double LP Set – Limited Edition Spanish Cover (e-commerce only)
Remastered album and bonus tracks featuring previously unreleased alternate takes and live performances on two black heavyweight vinyls.

Housed in an outer wallet with Spanish cover.

Standard Download
Remastered album.

Download
Remastered album plus bonus tracks featuring previously unreleased alternate takes and live performances.

Super Deluxe Download
Remastered album, bonus tracks featuring previously unreleased alternate takes and live performances, plus Get Yer Leeds Lungs Out live tracks.

https://www.youtube.com/watch?v=SuAhbxkKLc4

Ovviamente la più bramata e la più completa (anche la più cara, al momento si parla di una cifra tra i 105 e 110 euro, ma potrebbe essere anche di più, negli Stati Uniti è annunciata a 300 dollari !?!), sarà la Super Deluxe di cui, questo sotto, sarà il contenuto; fantastico, così  a occhio, ricco di inediti, anche se nei bootleg era già uscito più o meno tutto, ovviamente cambierà la qualità sonora: ma perché il DVD solo con due pezzi? Nelle altre versioni il contenuto dei brani è lo stesso, ma diminuisce il numero a seconda dei supporti sonori:

Original CD:
Brown Sugar
Sway
Wild Horses
Can’t You Hear Me Knocking
You Gotta Move
Bitch
I Got The Blues
Sister Morphine
Dead Flowers
Moonlight Mile

The Deluxe 2CD Set also includes this bonus CD2:
1. Brown Sugar (Alternate Version with Eric Clapton) https://www.youtube.com/watch?v=I77SuTVkluI
2. Wild Horses (Acoustic Version) https://www.youtube.com/watch?v=SQTHB4jM-KQ
3. Can’t You Hear Me Knocking (Alternate Version)
4. Bitch (Extended Version)
5. Dead Flowers (Alternate Version)
6. Live With Me (Live At The Roundhouse, 1971)
7. Stray Cat Blues (Live At The Roundhouse, 1971)
8. Love In Vain (Live At The Roundhouse, 1971)
9. Midnight Rambler (Live At The Roundhouse, 1971)
10. Honky Tonk Women (Live The Roundhouse, 1971)

The Deluxe 2CD/1DVD Box Set contains both of the above CDs plus the DVD “Live at The Marquee, 1971” with two tracks:
Midnight Rambler
Bitch

The Super Deluxe Edition Box Set contains all of the above plus a bonus third CD entitled “Get Yer Leeds Lungs Out”:
Jumpin Jack Flash (Live At Leeds University, 1971)
Live With Me (Live At Leeds University, 1971)
Dead Flowers (Live At Leeds University, 1971)
Stray Cat Blues (Live At Leeds University, 1971)
Love In Vain (Live At Leeds University, 1971)
Midnight Rambler (Live At Leeds University, 1971)
Bitch (Live At Leeds University, 1971)
Honky Tonk Women (Live At Leeds University, 1971)
(I Can’t Get No) Satisfaction (Live At Leeds University, 1971)
Little Queenie (Live At Leeds University, 1971)
Brown Sugar (Live At Leeds University, 1971)
Street Fighting Man (Live At Leeds University, 1971)
Let It Rock (Live At Leeds University, 1971)

Quindi per il momento è tutto, per i fans degli Stones, parte la fase del risparmio per le future spese, come dice l’amico Tino, preparate i portafogli! Da qui alla data dell’uscita magari ci torneremo con più dettagli su questo album storico.

Bruno Conti