“Solo” Un Altro Disco di Richard Thompson – Still

richard thompon still

Richard Thompson – Still – Proper/Concord

Potremmo aggiungere che è “solo” il sedicesimo disco di studio di Richard Thompson (ma ovviamente non contiamo quelli fatti con Linda, la famiglia, collaboratori vari, i Fairport Convention, oltre ai dischi dal vivo, le antologie, i cofanetti, le raccolte di inediti, i DVD, e molto altro): dal 1967, quando è uscito il primo disco omonimo dei Fairport ad oggi, Thompson credo (anzi ne sono certo) non abbia mai fatto un disco, non dico brutto, ma scarso. Nella sua discografia ci sono varie punte di eccellenza e un ilvello medio-alto costante negli anni, fatto che per il sottoscritto lo mette nella Top 10 degli artisti viventi più importanti della storia del rock (del folk e di qualsiasi altra musica vi venga in mente). Forse sarò parziale, ma per me Richard Thompson vale i Beatles, Dylan, Hendrix, gli Stones, Van Morrison, Springsteen, Presley e gli inventori del R&R e del soul nel pantheon dei grandi, e pur avendolo detto in altre occasioni, non essendo Paganini, lo ripeto! Il titolo, per Thompson, con l’ironia che lo contraddistingue, lascia intendere che si potrebbe interpretare anche come ” Ancora! Ma non era sparito da secoli?”, con quel piccolo tocco di vanità e amor proprio che non guasta, perché il punto interrogativo non c’è. Quindi “ancora”!

E il disco, ma non poteva essere diversamente, è ancora una volta molto bello: preceduto da grandi attese, quando si era saputo che l’album sarebbe stato prodotto da Jeff Tweedy, registrato negli studi di Chicago dei Wilco, molti pensavano che avrebbe potuto segnare un cambiamento nei suoni e nell’andamento sonoro della musica di Thompson, essere il suo Yankee Hotel Foxtrot, una strada però che era già stata percorsa nei dischi prodotti da Mitchell Froom, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, alcuni peraltro molto riusciti (penso a Rumor and Sigh o al doppio You?Me?Us?, ma brutti non ne ha fatti, per cui…), con suoni più carichi e complessi, ricchi di tastiere, forse meno immediati, ma con le canzoni sempre al centro del progetto. E comunque anche, per la serie dei corsi e ricorsi, First Light Sunnyvista avevano avuto questo approccio sonoro più elaborato. Il nostro vive da moltissimi anni negli Stati Uniti e quindi questo tipo di suono americano è già stato usato nel passato, anche quello più recente, con l’eccellente Electric  http://discoclub.myblog.it/2013/02/22/semplicemente-richard-thompson-electric/  che percorreva, in parte, addirittura i sentieri del genere “americana”, grazie alla produzione di un altro chitarrista, in quel caso Buddy Miller. Poi ci sono stati il DVD dal vivo, il disco acustico e quello con la famiglia, assai diversi stilisticamente tra loro. Ora è la volta di Still, dove Tweedy ha privilegiato il suono di Thompson quando suona dal vivo, il classico trio, chitarra-basso e batteria, con le canzoni che sono il veicolo sonoro e la chitarra di Richard libera di improvvisare quando l’estro lo richiede, cioè abbastanza spesso. Probabilmente era difficile cercare di migliorare la quasi perfezione del sound, quindi, come ammette lo stesso musicista inglese, il contributo di Tweedy potrebbe risultare quasi impercettibile alle orecchie dell’ascoltatore, ma si affretta ad aggiungere, comunque indispensabile https://www.youtube.com/watch?v=o-b2ACVhSzU . Tradotto in soldoni, è il solito bel disco di Richard Thompson. E’ non è poco, Jeff Tweedy e Jim Elkington aggiungono le loro chitarre (Tweedy anche marxophone, mellotron e guitarorgan !!, quindi forse il complimento di Thompson è meritato), Liam Cunningham, la brava cantautrice emergente Sima Cunningham e Siobhan Kennedy aggiungono le loro voci, ma il protagonista assoluto è ancora una volta il nostro amico: con la sua voce inconfondibile, la chitarra unica e quando serve un tocco di fisarmonica, uno di mandolino e di ukulele e il gioco è fatto.

Dodici canzoni nella versione standard ( più altre cinque nella versione doppia Deluxe, che include il Variations EP e che vi consiglio): She Never Could Resist A Winding Road è un classico brano à la Thompson, quindi bellissimo, una ballata folk di purezza cristallina, con gli arpeggi delle chitarre di Thompson che iniziano a costruire le solite delizie da gourmet della sei corde, piccoli tocchi di tastiere sullo sfondo e le armonie vocali della Kennedy, tutto nel tipico e classico canone thompsoniano, rafforzato da un testo che racconta di un personaggio ricorrente nelle sue canzoni, un’altra faccia della donna di Beeswing, “piedi freddi” e cuore caldo, indecisa ma sempre “migliore” delle sue controparti maschili, descritta con la consueta partecipazione e simpatia. Beatnik Walking, con due chitarre acustiche a inseguirsi dai canali dello stereo è un delicata delizia folk per i nostri padiglioni auditivi e il lavoro cesellato della sezione ritmica di Prodaniuk e Jerome ha una “presenza” da incontro sonoro ravvicinato. Patty Don’t You Put Me Down, la storia di una relazione finita, è anche l’occasione per le consuete metafore politiche e sociali di Richard, sarcastico e quasi cattivo nei suoi giudizi, ma è anche un brano rock dove la chitarra di Thompson traccia quelle traiettorie soliste che sono solo sue, con un paio di assolo che valgono il prezzo del biglietto (o del disco). Eccellente anche Broken Doll, dove delle tastiere quasi spettrali aggiungono un tocco di drammaticità ad un brano dall’andatura più sospesa e meno immediata, con l’elettrica di Thompson che qui lavora sui toni e la coloritura. All Buttoned Up è un’altra variazione nel vasto repertorio del nostro, andatura nervosa e rimbalzante, si potrebbe usare funky se non fosse lui, (anche se una una volta parlò di funky folk), forse si applica a questo brano, con la chitarra a disegnare le solite “impossibili” evoluzioni solistiche, tra mandolini, tastiere e altre chitarre che occhieggiano sullo sfondo. Josephine è una delicata ballata acustica di stampo folk, memore del suo passato e presente amore per la grande tradizione della canzone popolare inglese, che incarna perfettamente.

Long John Silver, la storia di un moderno pirata dei giorni nostri è l’occasione per un altro tuffo nel rock inconfondibile alla Thompson, chitarra tagliente e sempre imprevedibile e ritmi vivaci, poi virati nei tempi quasi marziali di una Pony In The Stable che ci riporta ai gloriosi giorni del folk-rock dei primi Fairport Convention. A seguire una ballata sontuosa ed avvolgente, come la struggente Where’s Your Heart, altra dimostrazione della inesauribile vena compositiva di questo signore che non finisce di stupire per la sua capacità di scrivere ad ogni album nuove piccole perle da aggiungere al suo songbook, ottimo nuovamente il lavoro di Siobhan Kennedy, alle armonie vocali. Poi è di nuovo tempo di rock con le evoluzioni frenetiche di No Peace, No End, pezzo dove Thompson estrae dalla sua solista altre incredibili mirabilie da ascoltare in religioso silenzio, mentre Dungeon Eyes rallenta ad un mid-tempo più ragionevole, non per questo meno intenso e godibile delle altre canzoni presenti in Still. Che si conclude con un brano, Guitar Heroes, che si potrebbe definire “The Rock’n’Roll According to Richard Thompson”, una cavalcata di quasi otto minuti dove Thompson ripropone gli stili di alcuni grandi chitarristi che hanno influenzato la sua storia di giovane ascoltatore di musica: e quindi ecco perfette citazioni di Melodie Au Crepuscule di “Django” Reinhardt, Caravan, nella versione di Les Paul, Brenda Lee di Chuck Berry, il chicken pickin’ di James Burton in Susie-Q e gli Shadows di Apache, prima di concludere con uno sferzante assolo di quelli che sono solo suoi.

Bruno Conti

Correva L’Anno 1972, Ottima Annata! B.B. King – United Western Recorders Hollywood Los Angeles

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B.B. King – United Western Recorders Hollywood LA, October 1, 1972 – Hi Hat

Uno potrebbe pensare che in considerazione della recente scomparsa di B.B. King http://discoclub.myblog.it/2015/05/17/profeti-sventura-se-ne-andato-anche-b-b-king-1925-2015/  le pubblicazioni postume si sprechino (ma a luglio torna in circolazione il box Ladies And Gentlemen …Mr. B.B. King) e invece questo disco dal vivo, che per comodità chiameremo Live In Hollywood, era già uscito un mesetto prima della morte di King, inserito in quella ormai inesauribile messe di Broadcast radiofonici che sta invadendo il mercato discografico. Spesso e volentieri sia la qualità sonora che quella dei concerti è eccellente, l’unica avvertenza è quella di leggere bene le note, perché capita abbastanza di frequente che gli stessi concerti vengano pubblicati con diverse copertine e titoli, ma identico contenuto. Non è il caso di questo Live del grande Riley Blues Boy, forse l’unico vero Re del Blues (per quanto Freddie, Albert e tutti gli altri King della storia di questa musica meritino rispetto)! Lui e Lucille sono stati due vere icone della storia delle 12 battute, come procede a raccontarci lo stesso B.B King nella introduzione al brano conclusivo della serata, una Guess Who, che allora nel 1972 era una novità. Il grande musicista nero racconta di come per lui è sempre stato importante dimostrare al suo pubblico quando tenesse a loro, dal 1° gennaio al 31 dicembre, ininterrottamente e nel corso degli anni.

Non so se vi sia mai capitato di assistere ad un concerto dell’omone nero, ma il rapporto con il pubblico, cementato da anni di vita on the road, è sempre stato eccezionale, con questi spettacoli ricchi e sfarzosi, accompagnato dalla sua orchestra, con un M.C. (Master Of Ceremonies) impegnato a urlare a ogni piè sospinto per ricordare a tutti chi era “The King Of The Blues” in enfatici annunci rivaleggiati probabilmente solo da quelli dedicati a James Brown. Ribadendo l’importanza di B.B. King,  questo concerto dell’ottobre 1972 si inserisce sicuramente nella lista di quelli da avere. Ovviamente il Live At The Regal è il capostipite di tutti, ma pure il Live In Cook County Jail, uscito pochi mesi prima di questo concerto, un grande successo commerciale del chitarrista, dopo anni nelle classifiche di settore, King dominava anche in quelle generali: per inserirlo in un contesto temporale, il nostro avrebbe partecipato, nel 1974, al “Rumble in The Jungle” (quello di Ali-Frazier in Zaire), immortalato nel film Soul Power e nel DVD postumo BB King Live In Africa. Sempre a proposito di concerti, in quell’anno esce anche il leggendario doppio dal vivo con Bobby Bland, e tra i “must have” ricorderei anche il Live In Japan, uscito in CD solo nel 1999, ma relativo ad un concerto del 1971. In quegli anni BB, proponeva uno stile che gli americani, con termine infelice, definiscono crossover, una misto dei suoi blues lenti, incredibili, soffertissimi, musica soul con fiati, R&B più ritmato, un pizzico di gospel, il tutto condito dalla voce potente ed espressiva e dalle evoluzioni della sua chitarra Lucille, suoni lunghi, sinuosi, caldissimi, dalle timbriche uniche, che lo hanno fatto diventare uno dei 10 chitarristi più importanti All Time (nell’ultima lista di Billboard era ancora al n°6).

Tutti questi elementi sono presenti in questo concerto registrato in uno studio di Hollywood, di fronte ad un pubblico ad inviti, e trasmesso dall’emittente radiofonica KMET-FM con eccellente qualità sonora. Oddio, ogni tanto, per esempio nel primo brano, Everyday I Have The Blues, la chitarra ritmica è un po’ alta nel mix, a tratti la voce sparisce sommersa dagli altri strumenti e la batteria è in primissimo piano, ma sono brevi inconvenienti tecnici che non inficiano la qualità della serata che prevede molti classici del repertorio di King ma anche brani ripresi dagli album del periodo: l’appena citata Everyday Day I Have The Blues, in versione veloce, apre alla grande il concerto, con la chitarra che ti stende subito, How Blue Can You Get?, uno dei suoi slow intensi e raffinati, Just A Little Love, un peana all’amore, a tempo di funky-swing, I Got Some Outside Help I Don’t Need,  altro lento sontuoso, Ghetto Woman, un soul-blues della scuola di The Thrill Is Gone che poi arriverà a fine concerto, un medley di Nobody Loves Me But My Mother e Don’t Answer The Door, con i trilli di Lucille a titillare i presenti, Rock Me Baby, la quintessenza del Blues, bella versione, ma non memorabile; e poi ancora il R&R fiatistico di Ain’t That Just Like A Woman e Hummingbird, un brano di Leon Russell che era uno dei successi del momento di King, un solido R&B. Senza ricordarle tutte, a chiudere, la sua signature song, The Thrill Is Gone, un eccellente strumentale senza titolo, lento ed improvvisato e la citata Guess Who, che sarebbe diventata un successo da lì a poco, un grande brano, melodico e ricco di pathos, con la voce e la chitarra di Mr. B.B. King padrone assolute della scena. Questo è (stato) il Blues!

Bruno Conti

Il Miglior Disco Di Un Altro Tom? Tom McRae – Did I Sleep And Miss The Border

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Tom McRae & The Standing Band – Did I Sleep And Miss The Border – Buzzard Tree Records – Deluxe Edition

Spesso la stampa inglese si entusiasma per poco, facendo apparire la nuova band o il giovane cantautore di turno come la rivelazione assoluta del panorama “pop-rock”, ma non mi sembra questo il  caso: se importanti e famose riviste di settore come Mojo, Uncut, “Q”, e giornali di tradizione come il Sunday Times e Evening Standard, sono tutti concordi nel promuovere a pieni voti il nuovo disco di Tom McRae Did I Sleep And Miss The Border  (musicista di cui sono un estimatore fin dall’esordio), un motivo valido ci sarà. A ventisei anni Tom, cresciuto in un paesino di 250 persone, Chelmsford, dove non c’erano Pub ma ben due chiese (infatti è figlio di due vicari), ha cambiato il suo destino, imbracciando la chitarra e partendo alla volta di Londra alla ricerca di sé stesso e del proprio futuro. Tom McRae è sbucato dal nulla nel 2000 con un bell’album d’esordio omonimo (che anche in quel caso ha fatto gridare al miracolo), seguito dal convincente Just Like Blood (03), per poi venire etichettato come discepolo di Nick Drake, non a livello vocale (in compagnia di David Gray, Damien Rice, Devendra Banhart, Badly Drawn Boy e molti altri), confermandosi comunque con due fortunati album registrati negli Stati Uniti All Maps Welcome (05) e King Of Cards (07), e ribadendo il suo status di cantautore di “culto” con l’ottimo The Alphabet Of Hurricanes (10) http://discoclub.myblog.it/2010/02/03/morbide-piacevolezze-americano-latine-e-asprezze-indie-folk/  e il seguente, complementare, From The Lowlands (12), CD di difficile reperibilità https://www.youtube.com/watch?v=2HpDyE1Dyfg .

tom mcrae from the lowlands

Prodotto come di  consuetudine da Sean Genockey (Suede) Did I Sleep And Miss The Border suona come potrebbe suonare il capolavoro che Tom McRae è stato sempre ad un passo da confezionare, con il decisivo supporto della Standing Band composta da Olli Cunningham, Richard Hammond, Oli Kraus, David Walsh e Brian Wright, riesce a creare un “sound” composto da chitarre, basso, tastiere, fisarmonica, lap steel, banjo, fiati, violoncello, batteria e percussioni varie, che si integra alla perfezione con i testi “artificiosi” delle canzoni di Tom.

La forte presenza delle percussioni in questo lavoro la si nota fin dalle iniziali The High Life e The Dogs Never Sleep cantate da Tom con voce penetrante, a cui fa seguito una delicata Christmas Eve 1943 (la storia di un paracadutista nella seconda guerra mondiale), il valzer danzante e circense di Expecting The Rain, passando poi per la bellissima Let Me Grow Old With You, che inizia solo con il sussurro della voce di McRae e si dipana poi su pochi accordi di chitarra e pianoforte. Si riparte con la tambureggiante We Are The Mark, con un importante sottofondo di archi, la melodia folk di My Desert Bride imperniata su un tappeto di lap steel e banjo che si rincorrono, mentre Lover Still You e Hoping Against Hope sono perfette per la sua voce dalla timbrica alta e carezzevole, e i suoi racconti sul filo dell’emozione. La Deluxe Edition, disponibile solo suo sito http://thestandingband.com/product/did-i-sleep-and-miss-the-border-deluxe-uk-edition-cd-the-buzzard-tree-sessions-download-code/  , e alquanto costosa, comprende un EP di sei brani, The Buzzard Tree Sessions, che sembra un ulteriore ponte ideale tra passato e presente, con l’intrigante arrangiamento alla Peter Gabriel di Only Losers Fight Clean, la dolente armonia di una Out Of A Clear Blue Sky, il moderno country di The Breeze Blows Cold, per poi farci catturare da piccole ballate intime e notturne come Happy New Year, una ariosa e particolare pop-song sotto forma di marcetta, come What A Way To Win A War, andando a chiudere con le note sorprendenti di Hey Tim, Hey Arnie, dove viene evidenziato il “nuovo” corso.

Tom McRae appartiene a quella schiera di cantautori che credono fermamente nel potere delle canzoni, e da musicista preparato riesce a combinare con eleganza musica e testi, giocando con le diverse possibilità di arrangiamento, certificato da questo Did I Sleep And Miss The Border (dal titolo magnifico) https://www.youtube.com/watch?v=pblBF_BPJFU , un disco che eviterei di confrontare con i lavori precedenti di Tom (in quanto in tutto l’album è evidente il tentativo di percorrere nuove strade), e probabilmente questo disco è l’apice del compromesso a cui l’artista inglese ha deciso di piegarsi. Per chi ancora non lo conosce un personaggio assolutamente da scoprire, per chi lo segue la conferma di un cantautore dal talento non comune.

Tino Montanari

Come Migliorare Un Capolavoro! The Rolling Stones – Sticky Fingers

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The Rolling Stones – Sticky Fingers – Rolling Stones Records CD – Deluxe 2CD – Super Deluxe 3CD + DVD + 45 rpm – LP

Dopo le versioni potenziate di Exile On Main Street e di Some Girls (oltre a quella del magnifico live Get Yer Ya Ya’s Out!), finalmente i Rolling Stones pubblicano in versione deluxe anche quello che, a detta di molti (me compreso, per quello che può interessare) è il loro capolavoro assoluto: Sticky Fingers, uno dei classici dischi da isola deserta, uno di quei rari casi in cui tutti, dal leader del gruppo fino all’ultimo sessionman, ai tecnici del suono e ai grafici (l’iconica copertina era opera, per quei due o tre che ancora non lo sanno, di Andy Warhol) sembrano in un aureo stato di grazia. C’è da dire che all’epoca (1971) gli Stones erano per distacco la migliore band del pianeta (e anche adesso se la battono), venivano da altri due capolavori del calibro di Beggar’s Banquet e Let It Bleed, oltre che dal live citato prima, ed avrebbero pubblicato da lì a un anno il monumentale Exile On Main Street, cioè l’altro disco che contende a Sticky Fingers la palma del disco più bello delle pietre. Ma io non ho mai avuto dubbi nel preferire quello noto anche come “l’album della zip”, più compatto, più ispirato, meno dispersivo, con un suono migliore (la voce in Exile è sempre stata mixata troppo bassa, ed il sound in generale un po’ “fangoso”) e, soprattutto, con una serie di canzoni formidabili. Dulcis in fundo, avevano al loro interno un Mick Taylor (il miglior chitarrista che abbiano mai avuto) ormai perfettamente inserito ed integrato nella macchina da guerra che era all’epoca la band di Jagger e Richards, e dal vivo erano forse ancora meglio dell’anno prima, come dimostra il Live At Marquee di cui vi ha parlato Bruno pochi giorni fa http://discoclub.myblog.it/2015/06/20/erano-proprio-gran-bel-complessino-rolling-stones-from-the-vault-the-marquee-live-1971/ : in poche parole, un ensemble di fenomeni in un momento irripetibile.

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Come di consuetudine, la ristampa esce in varie configurazioni, ed io vorrei come al solito prendere in considerazione la più completa che, oltre ai due CD della “normale” versione deluxe, comprende anche un terzo CD dal vivo, un 45 giri con Brown Sugar e Wild Horses, uno splendido libro pieno di note e foto mai viste, oltre ad un DVD, invero piuttosto inutile, con due (!) brani tratti dal live appena pubblicato al Marquee (che in realtà dovrebbe servire da “traino” per acquistarli entrambi).

CD1: qui troviamo la versione nota di Sticky Fingers (album prodotto, lo ricordo, da Jimmy Miller, dietro la consolle in tutti i dischi del periodo d’oro delle Pietre, e anche responsabile dei lavori dei Traffic e del mitico LP dei Blind Faith), rimasterizzata ex novo e con un suono spettacolare. Che dire che non sia già stato detto di questo album epocale? Che contiene la migliore rock’n’roll song di sempre delle Pietre (Brown Sugar, a pari merito secondo me con Jumpin’ Jack Flash e con buona pace di Satisfaction)! Che ospita la loro più bella ballata (Wild Horses, stavolta ex-aequo con Salt Of The Earth)? Che c’è una delle migliori country songs di sempre, e non solo degli Stones (Dead Flowers)? Che Sister Morphine mi fa accapponare la pelle anche al centesimo ascolto (specie quando Ry Cooder fende l’aria con la sua slide tagliente)? Che non vedo l’ora che in Can’t You Hear Me Knocking Jagger smetta di cantare per sentire l’assolo di Taylor? Che nella stupenda I Got The Blues canta Mick ma sembra quasi di sentire Otis Redding? Che è un delitto che un pezzo come Sway lo conoscano solo i die hard fans? E potrei andare avanti…

CD2: a differenza delle reissues di Exile e Some Girls qui non troviamo vere e proprie outtakes, ma solo versioni alternate di cinque brani del disco originale, ma i motivi di interesse non mancano di certo, a partire da una Brown Sugar non molto diversa ma con l’aggiunta della succosa (e riconoscibilissima) partecipazione di Eric Clapton alla slide, per poi ascoltare una versione più spoglia di Wild Horses, che però non ha nulla da invidiare a quella nota, ed una Dead Flowers più rock di quella finita sul disco. Completano la serie una Can’t You Hear Me Knocking più corta e grezza ed una extended version di Bitch. Siccome cinque pezzi erano pochi per riempire un CD, eccone altrettanti registrati nello stesso anno alla Roundhouse di Londra, con le Pietre accompagnate da Jim Price alla tromba e soprattutto dai grandissimi Bobby Keys al sax e Nicky Hopkins al piano: la spedita Live With Me serve da antipasto per una Stray Cat Blues sporca e cattiva, una sontuosa Love In Vain con Taylor e Richards che fanno a gara a che è più bravo (vince Taylor a mani basse, anche se a feeling Keith non lo batte nessuno), una monumentale Midnight Rambler, allora come oggi momento centrale del concerto, con Taylor ancora sugli scudi e Hopkins che sembra avere venti dita, per finire con la sempre coinvolgente Honky Tonk Women.

CD3: intitolato Get Your Leeds Lungs Out, documenta un concerto del 1971 alla Leeds University, con gli stessi musicisti dei pezzi alla Roundhouse. Tredici canzoni, tra le quali le stesse cinque presenti nella parte live del secondo CD, in versioni similari (cioè eccelse, anzi credo che Midnight Rambler sia pure meglio), tre dal nuovo disco (Dead Flowers, ancora più bella della versione in studio, la trascinante Bitch ed una Brown Sugar nella quale Keys sotterra tutti con il suo sax pieno di groove) ed una manciata di classici suonati alla grandissima, che rendono questo CD superiore anche a quello appena uscito del Marquee, tra cui una Jumpin’ Jack Flash che apre la serata col botto (e con Bill Wyman e Charlie Watts che si confermano silenziosi ma indispensabili), due covers di Chuck Berry (Little Queenie e Let It Rock) cantate e suonate come se non ci fosse domani, una Street Fighting Man che non è mai stata tra le mie preferite ma qui spacca e Satisfaction che è forse l’unica con il pilota automatico (ma forse perché ormai l’ho ascoltata circa 1.500 volte).

Il box non costa poco (anzi), ma qui siamo di fronte al miglior gruppo di sempre (con i Led Zeppelin), nel loro momento migliore di sempre e nella miglior formazione di sempre, in più con degli extra da leccarsi i baffi: devo ancora convincere qualcuno?

Marco Verdi

Una Band Che Trova Nel Deserto “Il Luogo Dell’Anima” ! Giant Sand – Heartbreak Pass

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Giant Sand – Heartbreak Pass – New West/Warner

Tre anni dopo Tucson (12), uscito a nome Giant Giant Sand, e dopo trent’anni di onorata carriere sotto varie “bandiere” (The Band Of Blacky Ranchette, Calexico, QP8, Friends Of Dean Martinez e i suoi lavori solisti), il buon Howe Gelb (originario della Pennsylvania) pensa bene di festeggiarsi con la sua creatura più amata, i Giant Sand, (una formazione ormai allargata, come dimostra la cover del CD) con questo ottimo Heartbreak Pass, un disco che nella sua costruzione ha visto la luce nelle “locations” più svariate, a partire come al solito da Tucson, Arizona, per approdare poi in Belgio, Canada, Grecia, Olanda, toccando anche la nostra bella Italia, per poi registrare il tutto in quel di Bristol, sotto la consueta produzione dell’amico John Parish (P.J.Harvey). In una discografia sterminata (che solo sotto la ragione sociale Giant Sand, arriva ad una ventina di uscite), non posso non ricordare il capolavoro assoluto Chore Of Enchantment (00) https://www.youtube.com/watch?v=c6LcBPEZ0Os , la “triade” iniziale composta da Valley Of Rain (85), Ballad Of A Thin Line Man (86) dove entra in formazione la futura moglie Paula Jean Brown (ex Go Go’s), Storm (88), con una versione “stratosferica” di The Weight della Band, il bistrattato (dalla stampa e dai critici) Long Stem Rant (89), il rock teso, visionario e lunare di Glum (94), e in tempi più recenti un lavoro intrigante come Is All Over The Map (04), dove giovani musicisti “danesi” rimpiazzavano gli storici Convertino e Burns (ormai usciti dalla band e impegnati a tempo pieno nel progetto Calexico).


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L’attuale formazione dei Giant Sand è un originale e “camaleontico” combo che unisce Arizona e Danimarca, composto da Thoger Lund, Gabriel Sullivan, Brian Lopez, Peter Dombernowsky, Jon Villa, Nikolaj Heyman, Anders Pedersen, Iris Jakobsen, Asger Christiansen, il tutto sotto l’infinito genio musicale di Howe Gelb. Come dichiarato dallo stesso musicista nelle interviste, Heartbreak Pass è una lunga “suite” di quindici canzoni divise idealmente in tre parti, che presenta numerosi ospiti durante il percorso, a partire da Vinicio Capossela e i romagnoli Sacri Cuori (una band affine al sound di Gelb), Grant-Lee Phillips (Grant Lee Buffalo), Ilse DeLange (Common Linnets), Steve Shelley (Sonic Youth), Jason Lytle (Grandaddy), il coro gospel dei Voices Of Praise, e l’importante supporto delle brave Maggie Bjorklund e Lonna Beth Kelley.

La prima parte (quella decisamente più rock) si apre con la tenue ballata acustica Heaventually, dove si trova il recitato (un cameo) di Capossela, il controcanto di Grant-Lee Phillips, ma soprattutto la batteria di John Parish https://www.youtube.com/watch?v=akZWdz7RgEE , il rock’n’roll di Texting Feist, per poi passare al notevole “swamp-blues” di Hurtin’ Habit dove spiccano Steve Shelley e i nostri Sacri Cuori, e al tappeto elettronico di una Trasponder, con Jason Lytle, che rimanda ai solchi dei Grandaddy (non poteva essere altrimenti). La seconda parte è più di impronta “americana”, parte con il country-rock di Song So Wrong https://www.youtube.com/watch?v=mpj9NpBBfA0 , e prosegue con gli immancabili suoni “mariachi” della melodiosa Every Now And Then https://www.youtube.com/watch?v=NH3IZpSgmUI , le atmosfere “morriconiane” di una bellissima Man On A String, cantata in duetto con Ilse DeLange https://www.youtube.com/watch?v=rDeSk0BufGc , e la batteria avvolgente di una country-song come Home Sweat Home. La terza parte è quella più intrigante e meno etichettabile, e qui troviamo la malinconica Eye Opening, con accompagnamento solo di voce, chitarra e violino, la jazzata Pen To Paper con la voce di Lonna Kelley a duettare con quella di Howe che incarna il grande Serge Gainsbourg, l’intermezzo pianistico strumentale di Bitter Suite, una dolce ballata cantautorale come House In Order, prima di tornare all’intimismo di una solenne Gypsy Candle (con archi, piano e di nuovo la bella voce della Kelleyhttps://www.youtube.com/watch?v=z3j522N_NNY  , passare per le deliziose note suggestive di una Done in chiave quasi “lounge”, prima di chiudere con l’incantevole conclusiva Forever And Always, scritta e cantata da Howe con la figlia dodicenne Talula (ma che nome è?).

Imprevedibili, sperimentali, anticipatori di tendenze e suoni, i Giant Sand di Howe Gelb hanno percorso con assoluta dignità artistica trent’anni di rock alternativo e marginale, rileggendo pagine della musica “americana” con un approccio non convenzionale e rigorosamente lo-fi, e vengono considerati trai  fondatori, con i grandissimi Thin White Rope, nella prima metà degli anni ’80, di quel genere etichettato come “desert-rock”, assoluto protagonista del loro percorso musicale. Oggi Howe Gelb, che viaggia verso i sessant’anni, è un vecchio fanciullo che si diverte ancora, e l’uscita di questo nuovo CD Heartbreak Pass (che forse non sarà un capolavoro come Chore Of Enchantment, ma un bel disco sicuramente si), unita alle recenti ristampe dei primi lavori (per la Fire Records), è un’ottima occasione (per chi scrive, ma anche per chi legge) per (ri)percorrere la carriera di una delle band più visionarie e sperimentali del “roots-rock”.

Tino Montanari

Il Miglior Disco Dal Vivo Di Tom? Tom Petty & The Heartbreakers – Southern Accents In The Sunshine State

tom petty southern accents live

Tom Petty & The Heartbreakers – Southern Accents In The Sunshine State – Gossip 2CD

Per principio di solito tendo a bypassare i sempre più molteplici CD tratti da trasmissioni radiofoniche dell’epoca, in primo luogo perché faccio già fatica a star dietro alle uscite “ufficiali”, in secondo perché la fregatura (leggasi qualità di registrazione insufficiente) è sempre dietro l’angolo, ed in ultima battuta perché questi prodotti è giusto chiamarli con il loro nome: bootleg. L’unica eccezione l’ho fatta per questo live di Tom Petty con i suoi Heartbreakers messo fuori dalla Gossip (???), che documenta la registrazione completa del suo homecoming concert del 1993 a Gainesville, Florida, per la semplice ragione che considero il biondo rocker ed i suoi compari la migliore rock’n’roll band sul pianeta assieme ai Rolling Stones ed a Bruce Springsteen & The E Street Band ma, a differenza delle Pietre e del Boss (che ultimamente hanno aperto gli archivi dei concerti), sono sempre stati un po’ avari sul fronte delle uscite ufficiali dal vivo (a parte il cofanetto pubblicato qualche anno fa, che infatti è uno dei classici dischi da isola deserta). Facendo ricerche online, ho letto poi che la qualità del suono di questo Southern Accents In The Sunshine State era considerata tra l’ottimo e l’eccellente, e con mio grande godimento posso confermare che esistono album dal vivo “regolari” che suonano molto peggio di questo.

Nel 1993 Tom era in un periodo di grazia: veniva da due album di grande successo (Full Moon Fever e Into The Great Wide Open, il suo periodo Jeff Lynne), la sua intesa sul palco con la band era ormai a prova di bomba (oltre ai veterani Mike Campbell e Benmont Tench, c’erano ancora Stan Lynch alla batteria prima di lasciare per darsi…all’oblio, e Howie Epstein, prima che la droga se lo portasse via per sempre) e, grazie anche alla sua militanza nei Traveling Wilburys, la sua popolarità era alle stelle. Venendo a questo doppio CD, e già detto del suono ottimo, sottolineerei prima di una rapida disamina del contenuto la spettacolarità della scaletta, che comprende il meglio degli ultimi due album, vari classici del passato, qualche brano “oscuro”, un paio di interessanti covers e due brani offerti in anteprima.

L’inizio tramortirebbe una mandria di tori: si passa dalla potente Love Is A Long Road, brano oggi un po’ dimenticato ma perfetto per aprire un concerto, alla splendida Into The Great Wide Open (Petty canta benissimo), alla byrdsiana Listen To Her Heart, fino alla grandissima I Won’t Back Down, nella quale tutto il pubblico canta insieme a Tom (e pure io dal mio divano). Anche Free Fallin’ è un perfetto singalong, mentre con le seguenti Psychotic Reaction (un oscuro brano anni sessanta dei Count Five) e Ben’s Boogie, Petty riposa per un po’ le corde vocali, in quanto la prima vede Lynch come cantante solista (con Tom all’armonica) e la seconda è una trascinante improvvisazione strumentale guidata dalle evoluzioni pianistiche di Tench. Tom si riprende il centro del palco con la lunga Don’t Come Around Here No More, da sempre uno degli highlights dei suoi show (ed una vetrina per la bravura di Campbell, sentite il finale), per poi presentare due brani all’epoca nuovi (erano gli inediti del Greatest Hits in uscita in quei giorni): la gradevole Something In The Air (altro brano oscurissimo di una band ancor più sconosciuta, i Thunderclap Newman) e la strepitosa Mary Jane’s Last Dance, grandissima canzone che vede, in quasi nove minuti, Tom e Mike duellare mirabilmente alle chitarre, un pezzo che andrebbe fatto sentire a chiunque sostenga che il rock è morto. Chiudono il primo CD due deliziose canzoni proposte con un inedito arrangiamento acustico, Kings Highway e A Face In The Crowd (ed il pubblico è sempre più caldo).

Il secondo dischetto comincia sempre acustico, con una sorprendente versione, ricca di feeling, del classico dei Byrds Ballad Of Easy Rider (perfetta per la vocalità di Petty), seguita da due cover (elettriche) della celebre Take Out Some Insurance di Jimmy Reed, dove gli Spezzacuori bluesano come se non sapessero fare altro, ed una pimpante Thirteen Days di JJ Cale. Ed ecco un altro brano-manifesto di Petty, quella Southern Accents che, nel 1985, diede il titolo ad uno dei dischi più controversi di Tom (ma la canzone è magnifica), con a ruota la divertente Yer So Bad, con un altro ritornello killer; a seguire abbiamo due canzoni inedite, che a tutt’oggi non hanno una versione in studio: Drivin’ Down To Georgia e Lost Without You (assieme a Something In The Air presenti proprio in questa versione anche nella Live Anthology), due pezzi discreti ma Tom sa fare di meglio. Ed ecco che si preparano i fuochi d’artificio finali: Refugee non ha bisogno di presentazioni, è forse la signature song di Petty per antonomasia insieme ad American Girl, ma anche Runnin’ Down A Dream fa la sua porca figura (e Campbell arrota alla grande), mentre Learning To Fly, full band a differenza degli ultimi anni in cui Tom la fa acustica, è forse ancora meglio dell’originale (e ce ne vuole). Finale pirotecnico con una trascinante Rainy Day Women # 12 & 35 (dopo Byrds e Cale, non poteva mancare Bob Dylan per completare l’omaggio alle influenze di Tom), subito seguita dalla già citata American Girl, più che una canzone una vera e propria celebrazione.

Congedo acustico e solitario con la poco nota Alright For Now: Live Anthology a parte (in cui peraltro tre brani di questo concerto appaiono), come scrivo nel titolo del post questo Southern Accents In The Sunshine State è semplicemente il miglior album dal vivo sul mercato, DVD compresi, di Tom Petty, al punto da farmi quasi dimenticare che è un bootleg.

Marco Verdi

Tra OGM E Grande Musica! Neil Young + Promise Of The Real – The Monsanto Years

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Neil Young + Promise Of The Real – The Monsanto Years – Reprise CD

Nel mondo musicale (e non solo) le etichette appiccicate addosso ad un determinato artista sono dure a morire, anche a distanza di decenni. Neil Young non è mai stato esattamente considerato un cantante di protesta, a differenza del collega ed amico Bob Dylan: se poi andiamo a vedere nel dettaglio, il buon Bob ha basato sulle cosiddette topical songs appena un paio di album ad inizio carriera (Freewheelin’ e The Times They Are A-Changin’, tra l’altro neppure nella loro interezza), riservando poi il privilegio a poche canzoni sparse tra anni settanta ed ottanta (a memoria ricordo George Jackson, la veemente Hurricane, Slow Train, Union Sundown e Neighborhood Bully), ma il momento era quello giusto (i primi anni sessanta, il folk revival), tanto che ancora oggi qualcuno pensa che Dylan sia uno che ha fatto successo cantando canzoni sulla guerra in Vietnam (conflitto invece mai neppure citato direttamente). Invece il rocker canadese, pur scrivendo testi di una profondità rara, non ha mai fatto della denuncia sociale il suo cavallo di battaglia, ma c’è da dire che, quando ne ha avuto l’occasione, non si è mai tirato indietro, bastonando duro e facendo quasi sempre nomi e cognomi. Il caso più celebre è senz’altro Ohio, singolo inciso nel 1971 con Crosby, Stills & Nash, nel quale incolpava direttamente Nixon dei quattro studenti uccisi dalla polizia durante i disordini alla Kent Univesity, ma in seguito (molti anni dopo) c’è stato il caso, trattato con molta più leggerezza ed ironia, di This Note’s For You, nella quale Neil se la prendeva con i colleghi che prestavano la loro voce alla pubblicità di prodotti commerciali.

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In anni più recenti clamoroso è stato il caso di Living With War, album del 2006 nel quale il nostro martellava l’amministrazione Bush Jr., in particolare la sua politica estera, fatto ancora più sorprendente dato che negli anni ottanta spesso Neil si era trovato d’accordo con le posizioni repubblicane dell’allora presidente Ronald Reagan. Dischi così corrono il rischio di risultare datati (negli argomenti, non nella musica) dopo pochi anni dalla loro uscita, ma Young chiaramente se ne fotte (come sua abitudine) ed ora torna tra noi, a pochi mesi di distanza dall’ottimo Storytone http://discoclub.myblog.it/2014/11/16/il-bisonte-sbaglia-due-volte-fila-neil-young-storytone/ , con un altro topical record, chiamato The Monsanto Years. Come suggerisce il titolo, il disco è un’invettiva lunga nove brani contro la Monsanto, multinazionale specializzata in biotecnologie agricole ed OGM, ma anche produttrice di sostanze tossiche utilizzate in guerra: in sostanza Neil (che se la prende anche con altri colossi come Starbucks, Walmart e Chevron) conduce una mini-crociata in favore dei contadini americani (da lui difesi da sempre, bisogna riconoscere) e del loro diritto di coltivare prodotti naturali, senza imposizioni esterne. Sinceramente a noi europei, cinicamente se volete, importa poco o niente di questo tipo di battaglia tutta americana (tra l’altro condotta da un cittadino canadese che neppure vota negli USA), ma come al solito ci interessa la musica che, fortunatamente, è di ottimo livello e sicuramente ispirata

L’album è stato inciso al Teatro Theater di Oxnard, in California (lo stesso luogo dove Willie Nelson e Daniel Lanois partorirono lo splendido Teatro), insieme ai Promise Of The Real, che non è altro che la band formata da uno dei figli di Willie, Lukas Nelson, assieme al bassista Corey McCormick, al batterista Anthony Logerfo ed al percussionista Tato Melgar (come chitarrista aggiunto troviamo anche Micah Nelson, fratello di Lukas, che però non fa parte del gruppo). E The Monsanto Years mostra fieramente il lato più rock, aggressivo ed “incazzato” di Young, e non solo dal punto di vista dei testi, con la sezione ritmica che pesta che è un piacere ed il nostro che fa ululare la sua old black come sui dischi con i fidi Crazy Horse, con l’aggiunta della solista di Lukas che tende a stemperare qua e là l’atmosfera irruenta data dal chitarrismo del bisonte. I brani, aldilà del contenuto polemico (che in America ha già attirato più di una critica), sono musicalmente classici, nel senso che ti danno l’idea di averli già sentiti su qualche altro disco del canadese sotto altri titoli, ma forse è proprio questo che ci si aspetta quando si mette nel lettore un CD di Neil Young, cioè niente sorprese ma un suono “amico” che, in definitiva, è il suo marchio di fabbrica.

L’album si apre con il mid-tempo molto elettrico New Day For Love, dal bel ritornello corale e la prima serie di assoli pieni di feeling tipici del nostro, anche se il suono è un po’ grezzo, tipo buona la prima (ma tutto il disco è inciso in presa diretta, altro punto in comune con i lavori più classici di Young). Wolf Moon è l’unico pezzo acustico, con la band che si sente appena, e Neil che canta in una tonalità un filo troppo alta (ma la fragilità della sua voce è sempre stata un punto quasi di forza), un brano toccante impreziosito dai cori e dalla solita armonica evocativa. People Want To Hear About Love riprende il mood elettrico, ritmo alto, voci intonate e solita tensione chitarristica molto elevata: dal vivo farà di sicuro la sua figura; Big Box è la più lunga e sia per riff, che per assoli e melodia può essere tranquillamente assimilata ai grandi classici younghiani, otto minuti di puro godimento rock, sentire per credere.

La già conosciuta (il video è online da un paio di mesi) A Rock Star Bucks A Coffee Shop (che se la prende con la nota catena americana madre del Frappuccino, il cui nome è molto poco celato nel titolo) è uno dei classici brani elettrici e cadenzati del nostro, orecchiabili sin dal primo ascolto, dal ritornello memorabile e con lo spirito del Cavallo Pazzo in ogni nota (davvero, questo album poteva essere inciso con il trio Sampedro-Talbot-Molina che non cambiava niente). Workin’ Man è ancora più roccata, quasi punk, con Neil e Lukas che duellano alla grande con le loro sei corde: anche qui il refrain è godibilissimo, ancorché tipico del suo autore. La rabbiosa Rules Of Change, distorta e un po’ stonata, precede la lunga title track, un brano lento, disteso, fluido, sullo stile di Cortez The Killer (ma non a quel livello…), nel quale la performance vocale un po’ zoppicante e la melodia non eccelsa passano in secondo piano rispetto alle splendide digressioni “chitarrustiche”!


Chiude If I Don’t Know, ancora lenta, ma con uno script nettamente migliore ed una prova vocale più convincente da parte del Bisonte: gli spunti chitarristici di Nelson Jr., più puliti di quelli di Young, le danno poi una profondità maggiore. Degna conclusione di un disco che, aldilà delle tematiche più o meno condivisibili, ci mostra un Neil Young in piena forma, arrabbiato al punto giusto, ed i Promise Of The Real come un valido surrogato dei Crazy Horse. Non siamo ai livelli eccelsi di Psychedelic Pill, né sono in grado di giudicare se The Monsanto Years saprà superare la prova del tempo (un problema che ogni tanto i dischi di Young hanno, vedi il già citato Living WIth War o anche l’album inciso con i Pearl Jam, Mirror Ball), ma per il momento mi accontento alla grande. Esce ufficialmente il 30 giugno.

Marco Verdi

*NDB A volte ritornano (anche Young), ma nel caso mi riferisco all’amico Marco che dopo un periodo di assenza riprende la sua collaborazione con il Blog: sapendo i suoi gusti gli ho riservato questa anteprima del nuovo album di Neil Young!

Buone Notizie (Future). Tom Petty – Wildflowers: All The Rest

All’inizio di giugno, Tom Petty e la sua casa discografica hanno annunciato (senza precisare la data) la prossima uscita di Wildflowers: All The Rest, un CD che conterrà tutto materiale inedito registrato tra il 1992 e il 1994, anno di pubblicazione del primo album solista di Petty, co-prodotto da Rick Rubin, e che nelle intenzioni dei suoi ideatori doveva essere un doppio. La prima canzone a vedere la luce (e se il buongiorno si vede dal mattino…) è questa Somehere Under Heaven, un brano firmato da Mike Campbell e Tom Petty che appare nei titoli di coda del recentissimo film Entourage (https://www.youtube.com/watch?v=uVW94FmeZ7c così a occhio non sembra un capolavoro, il film, magari sbaglio) e si trova in rete per il download a pagamento, il pezzo musicale ovviamente.

Forse tra i brani contenuti nel CD ci sarà anche questa Girl On LSD, prevista sempre nel disco originale, ma rimossa dalla Warner e pubblicata solo come lato B di You Don’t Know How It Feels https://www.youtube.com/watch?v=9TlBTPITo1I, (il cd singolo viaggia a oltre 100 dollari tra le rarità), mentre alcuni altri pezzi registrati per quell’album disco sono stati poi pubblicati nella colonna sonora di She’s The One e Leave Virginia Alone, sempre scritta e registrata durante le sessioni per Wildflowers è poi apparsa su A Spanner In The Works, il disco del 1995 di Rod Stewart https://www.youtube.com/watch?v=xhPWbSWRCU0. Considerando che Wildflowers è un signor disco, come testimoniamo questi altri brani

e

attendiamo con impazienza ulteriori sviluppi, di cui vi terrò informati.

Bruno Conti

Storie Di Circhi, Spettacoli E Country Music. William Clark Green – Ringling Road

william clark green ringling road

William Clark Green – Ringling Road – Bill Grease/Thirty Tigers Records

Sembra che le qualità di William Clark Green, cantautore di Flint, Texas, già al suo quarto album, questo Ringling Road, non siano in discussione. Inserito in quella pattuglia di musicisti che mescolano, alternative country, a momenti anche abbastanza grintoso e chitarristico, roots e Red dirt music, una abbondante dose di rock texano, Green è in possesso della classica voce del cantante sudista, vellutata e grintosa, a seconda delle occasioni, ha una buona penna, infatti firma tutta le sue canzoni, da solo o con l’aiuto di vari co-autori, si circonda di buoni musicisti, alcuni che costituiscono la sua band fissa, magari non notissimi, ma decisamente validi, oltre ad alcuni sessionmen tra i migliori in circolazione e utilizzati in alcuni brani, Kenny Greenberg alle chitarre, Dan Dugmore alla steel, John Deaderick alle tastiere e alla fisa, Glenn Duncan a mandolino, banjo e violino, proprio nei tre brani iniziali, non a caso  tra i migliori dell’album, di cui tra un attimo. La produzione è affidata a Rachel Loy, una gentil donzella che ha realizzato il disco allo Shack in quel di Austin, Texas, e che nel suo CV, oltre ad essere la bassista di Hank Williams Jr. vanta il lavoro di sessionwoman in quel di Nashville (anche con Taylor Swift, uhm) e ha realizzato tre o quattro album come solista. Come al solito mi chiederete, ma tutti questi particolari sono importanti? Sì.

william clark green rose queen

E’ ovvio che poi la parte del leone la fanno le canzoni, ma tutto il contorno sonoro ha una rilevanza non marginale. Come nel precedente Rose Queen, registrato in quel di Nashville, il nostro WCG ha la tendenza a mescolare un rockin’ country grintoso a momenti dove prevale un country più allineato ai voleri dell’industria discografica (ed infatti i suoi dischi sono regolarmente nelle classifiche di settore). Quindi, partendo dalla fine, questo Ringling Road, che si avvale nella grafica del pregevole libretto interno di una iconografia ispirata dai Freak-show, dai circhi, dagli spettacoli itineranti in generale, evocati nelle belle illustrazioni, appunto nel finale, vira verso un country un po’ di maniera, sempre dignitoso, ma diciamo non memorabile, in Going Home, la classica canzoncina piacevole di country-pop e nella zuccherosa ballata Still Think About You, entrambe dagli arrangiamenti più carichi e dai ritornelli facili da memorizzare, che si aggiungono a Final This Time, un’altra ballatona spezzacuore a base di pedal steel, in duetto con Dani Flowers, che aumentano il tasso glicemico del CD https://www.youtube.com/watch?v=oFZ7NqFyNYA . Per il resto, a partire dal trittico iniziale, dove si apprezza il lavoro di Duncan ricordato prima, è tutto un fiorire di chitarre elettriche grintose e generose, anche in modalità slide, sezioni ritmiche poderose, tastiere che colorano con gusto il sound, ed ecco quindi scorrere Next Big Thing https://www.youtube.com/watch?v=0ruxKTx5lKU , Sticks And Stones, un country-rock energico che non ha nulla da invidiare allo Steve Earle del periodo di Copperhead Road, ma anche a formazioni attuali come i Reckless Kelly, e ancora Creek Don’t Rise, con il violino guizzante di Glenn Duncan che aggiunge una patina bluegrass alle procedure https://www.youtube.com/watch?v=GMnMeKVzVk8 .

Ottima anche la title-track Ringling Road, con il suo arrangiamento più complesso, ricco di sfumature blues, con le solite chitarre sempre bene in evidenza e Green che conferma di essere in possesso di una voce espressiva e “polverosa”, mentre il brano ha quel suono che ricorda un qualcosa di già sentito molte volte, ma senza cadere nel puro plagio. Fool Me Once è un buon mid-tempo con elementi di pop-rock mainstream, ma inseriti con giudizio, senza sbracare troppo e sempre con quel suono chitarristico che è una delle caratteristiche vincenti dell’album, ribadite nella grinta della vibrante Sympathy e nelle avvolgenti melodie della bella Hey Sarah https://www.youtube.com/watch?v=FHL2sg4gMFY , dove torna a farsi sentire la steel guitar di Dan Dugmore, presente nuovamente nella successiva Old Fashioned, altra costruzione “vecchia maniera”, con richiami ad Austin e LA, Houston e Tennessee https://www.youtube.com/watch?v=rJcHaR4F290 , sia nel testo come nella musica, il vecchio country-rock texano e californiano incontra il contemporary country ed il risultato, senza essere trascendentale, è comunque abbastanza piacevole.

Bruno Conti  

Il Ritorno Di “Icepick”. James Harman – Bonetime

james harman bonetime

James Harman – Bonetime – Electro-Fi

Un gradito ritorno, a dodici anni dall’ultimo album, Lonesome Moon Trance, torna il vecchio “Icepick”, nomignolo con il quale è conosciuto l’armonicista e cantante James Harman, una delle piccole leggende del blues e del rock californiano. Anche se Harman viene da Hanniston, Alabama, la sua carriera si è svolta soprattutto sulla West Coast, dopo un periodo iniziale a Chicago: non dimentichiamo che nella prima James Harman Band, quella di fine anni ’70, militavano Phil Alvin, Bill Bateman e Gene Taylor, che poi sarebbero tutti confluiti nei Blasters e che nella sua band sono passati anche Hollywood Fats https://www.youtube.com/watch?v=h_h659w9Vjg  e Kid Ramos come chitarristi, a riprova della buona qualità che si è sempre potuta trovare nei dischi del barbuto musicista. Ora anche Harman ha i suoi annetti, e con la lunga barba bianca vista in alcune foto e filmati dell’ultimo periodo sembra Babbo Natale (a parte il capello, perfettamente tinto), ma la grinta e la classe, a giudicare da quello che si sente in questo album, non sembrano essere diminuite con il passare degli anni.

james harman 1

Lui ricorda che in questi ultimi anni ha continuato a fare tour in giro per il mondo (29 paesi diversi), mentre a livello discografico ricordo un paio di collaborazioni con altri “barbudos” di classe come gli ZZ Top, in Mescalero e La Fortuna del 2012, oltre a partecipazioni ai dischi di Mannish Boys, Candye Kane, Nathan James, Mark Hummel, Walter Trout e moltissimi altri. Questo Bonetime inaugura un nuovo contratto con la indie canadese Electro-Fi ed è uno “strano disco”, nel senso che si tratta di materiale estratto da oltre 150 brani dell’archivio di incisioni personali di James Harman, ma a sentirlo non si direbbe, il disco è fresco e pimpante, con una bella infornata di amici (alcuni scomparsi anche da anni, come lo storico contrabbassista di Icepick, Buddy Clark, morto già nel 2009) che si alternano nei vari brani ed un classico sound tra blues elettrico, swingato e ricco anche di derive R&R: la voce è ancora brillante e l’armonica, quando serve, non manca di potenza e versatilità.

Registrato nel corso degli anni in vari studi della California i dodici brani scelti sono una bella fotografia del classico West Coast Blues del nostro amico: dall’energica title-track Bonetime, con le soliste di Junior Watson e Kirk Fletcher a duettare con brio, mentre James soffia con gusto nella sua armonica e la sezione ritmica non perde un colpo, si passa alla divertente e scatenata (I Am The) World’s Badluckest Man, dove il piano indiavolato del vecchio pard Gene Taylor e la slide di Nathan James ci intrattengono a tempo di boogie woogie e R&R, con Icepick che declama con classe il suo blues https://www.youtube.com/watch?v=OKARXqEQbmU . Ain’t it crazy è quasi classico Chicago Blues, con la slide ficcante dell’ottimo Jeff Turmes a dividersi gli spazi solisti con la mouth harp di Harman, mentre Candye Kane è vocalist aggiunta nel refrain del brano. Niente male anche Coldfront Woman, uno slow di quelli tosti, con Fletcher di nuovo alla solista e un brillante Sonny Leyland al piano https://www.youtube.com/watch?v=ETF0PIglZuA , mentre James gigioneggia da par suo. Big Bonned Gal con il ritorno del vecchi amico Kid Ramos alla chitarra Resophonic (ma potrebbe essere anche materiale molto vecchio, pensate che nei testi di alcuni brani si parla ancora di fax e lire, marchi e franchi, come se social networks, euro ed altro non fossero ancora stati inventati) e un ennesimo pianista nella figura di Thomas Mahon, è uno strano blues dall’andatura molto percussiva, mentre Bad Feets/Bad Hair, introduce anche una sezione fiati (tutti suonati da Turmes) per una divertente incursione nello jump blues, esemplificato anche dalla presenza di tre voci femminili di supporto, guidate ancora da Candye Kane.

“Trucchetto” ripetuto anche nella successiva Just A Game Goin’ On, dove Jeff Turmes si raddoppia a sax e slide e l’atmosfera profuma di New Orleans https://www.youtube.com/watch?v=YaTik77DAuA . Insomma, in questi anni in cui ci eravamo persi di vista, il buon James non ha perso il vizio di fare del buon blues, eclettico ed old style quanto basta per essere apprezzato sia da abituali frequentatori come da novizi delle 12 battute: non manca il latin/R&B/blues di Blue Stretchmark Tattoo https://www.youtube.com/watch?v=LU-zbp_47oc  e quello super classico di  Yo’ Family (Don’t Like Me) dove sono di nuovo l’armonica e il piano di Gene Taylor a farla da padroni, con Leavin’ Fire l’unica traccia dove un mood più acustico e “buio” caratterizza il sound e Skirt, più ritmata e mossa con i fiati, il piano, l’armonica e la slide, tutti insieme appassionatamente. Chiude The Clock Is Tickin’, solo armonica, percussioni e washboard guitar (prego?), con lo “stregone” Harman a guidare le danze tribali di questo ossessivo blues.

Bruno Conti