Neil Young + Promise Of The Real – The Monsanto Years – Reprise CD
Nel mondo musicale (e non solo) le etichette appiccicate addosso ad un determinato artista sono dure a morire, anche a distanza di decenni. Neil Young non è mai stato esattamente considerato un cantante di protesta, a differenza del collega ed amico Bob Dylan: se poi andiamo a vedere nel dettaglio, il buon Bob ha basato sulle cosiddette topical songs appena un paio di album ad inizio carriera (Freewheelin’ e The Times They Are A-Changin’, tra l’altro neppure nella loro interezza), riservando poi il privilegio a poche canzoni sparse tra anni settanta ed ottanta (a memoria ricordo George Jackson, la veemente Hurricane, Slow Train, Union Sundown e Neighborhood Bully), ma il momento era quello giusto (i primi anni sessanta, il folk revival), tanto che ancora oggi qualcuno pensa che Dylan sia uno che ha fatto successo cantando canzoni sulla guerra in Vietnam (conflitto invece mai neppure citato direttamente). Invece il rocker canadese, pur scrivendo testi di una profondità rara, non ha mai fatto della denuncia sociale il suo cavallo di battaglia, ma c’è da dire che, quando ne ha avuto l’occasione, non si è mai tirato indietro, bastonando duro e facendo quasi sempre nomi e cognomi. Il caso più celebre è senz’altro Ohio, singolo inciso nel 1971 con Crosby, Stills & Nash, nel quale incolpava direttamente Nixon dei quattro studenti uccisi dalla polizia durante i disordini alla Kent Univesity, ma in seguito (molti anni dopo) c’è stato il caso, trattato con molta più leggerezza ed ironia, di This Note’s For You, nella quale Neil se la prendeva con i colleghi che prestavano la loro voce alla pubblicità di prodotti commerciali.
In anni più recenti clamoroso è stato il caso di Living With War, album del 2006 nel quale il nostro martellava l’amministrazione Bush Jr., in particolare la sua politica estera, fatto ancora più sorprendente dato che negli anni ottanta spesso Neil si era trovato d’accordo con le posizioni repubblicane dell’allora presidente Ronald Reagan. Dischi così corrono il rischio di risultare datati (negli argomenti, non nella musica) dopo pochi anni dalla loro uscita, ma Young chiaramente se ne fotte (come sua abitudine) ed ora torna tra noi, a pochi mesi di distanza dall’ottimo Storytone http://discoclub.myblog.it/2014/11/16/il-bisonte-sbaglia-due-volte-fila-neil-young-storytone/ , con un altro topical record, chiamato The Monsanto Years. Come suggerisce il titolo, il disco è un’invettiva lunga nove brani contro la Monsanto, multinazionale specializzata in biotecnologie agricole ed OGM, ma anche produttrice di sostanze tossiche utilizzate in guerra: in sostanza Neil (che se la prende anche con altri colossi come Starbucks, Walmart e Chevron) conduce una mini-crociata in favore dei contadini americani (da lui difesi da sempre, bisogna riconoscere) e del loro diritto di coltivare prodotti naturali, senza imposizioni esterne. Sinceramente a noi europei, cinicamente se volete, importa poco o niente di questo tipo di battaglia tutta americana (tra l’altro condotta da un cittadino canadese che neppure vota negli USA), ma come al solito ci interessa la musica che, fortunatamente, è di ottimo livello e sicuramente ispirata
L’album è stato inciso al Teatro Theater di Oxnard, in California (lo stesso luogo dove Willie Nelson e Daniel Lanois partorirono lo splendido Teatro), insieme ai Promise Of The Real, che non è altro che la band formata da uno dei figli di Willie, Lukas Nelson, assieme al bassista Corey McCormick, al batterista Anthony Logerfo ed al percussionista Tato Melgar (come chitarrista aggiunto troviamo anche Micah Nelson, fratello di Lukas, che però non fa parte del gruppo). E The Monsanto Years mostra fieramente il lato più rock, aggressivo ed “incazzato” di Young, e non solo dal punto di vista dei testi, con la sezione ritmica che pesta che è un piacere ed il nostro che fa ululare la sua old black come sui dischi con i fidi Crazy Horse, con l’aggiunta della solista di Lukas che tende a stemperare qua e là l’atmosfera irruenta data dal chitarrismo del bisonte. I brani, aldilà del contenuto polemico (che in America ha già attirato più di una critica), sono musicalmente classici, nel senso che ti danno l’idea di averli già sentiti su qualche altro disco del canadese sotto altri titoli, ma forse è proprio questo che ci si aspetta quando si mette nel lettore un CD di Neil Young, cioè niente sorprese ma un suono “amico” che, in definitiva, è il suo marchio di fabbrica.
L’album si apre con il mid-tempo molto elettrico New Day For Love, dal bel ritornello corale e la prima serie di assoli pieni di feeling tipici del nostro, anche se il suono è un po’ grezzo, tipo buona la prima (ma tutto il disco è inciso in presa diretta, altro punto in comune con i lavori più classici di Young). Wolf Moon è l’unico pezzo acustico, con la band che si sente appena, e Neil che canta in una tonalità un filo troppo alta (ma la fragilità della sua voce è sempre stata un punto quasi di forza), un brano toccante impreziosito dai cori e dalla solita armonica evocativa. People Want To Hear About Love riprende il mood elettrico, ritmo alto, voci intonate e solita tensione chitarristica molto elevata: dal vivo farà di sicuro la sua figura; Big Box è la più lunga e sia per riff, che per assoli e melodia può essere tranquillamente assimilata ai grandi classici younghiani, otto minuti di puro godimento rock, sentire per credere.
La già conosciuta (il video è online da un paio di mesi) A Rock Star Bucks A Coffee Shop (che se la prende con la nota catena americana madre del Frappuccino, il cui nome è molto poco celato nel titolo) è uno dei classici brani elettrici e cadenzati del nostro, orecchiabili sin dal primo ascolto, dal ritornello memorabile e con lo spirito del Cavallo Pazzo in ogni nota (davvero, questo album poteva essere inciso con il trio Sampedro-Talbot-Molina che non cambiava niente). Workin’ Man è ancora più roccata, quasi punk, con Neil e Lukas che duellano alla grande con le loro sei corde: anche qui il refrain è godibilissimo, ancorché tipico del suo autore. La rabbiosa Rules Of Change, distorta e un po’ stonata, precede la lunga title track, un brano lento, disteso, fluido, sullo stile di Cortez The Killer (ma non a quel livello…), nel quale la performance vocale un po’ zoppicante e la melodia non eccelsa passano in secondo piano rispetto alle splendide digressioni “chitarrustiche”!
Chiude If I Don’t Know, ancora lenta, ma con uno script nettamente migliore ed una prova vocale più convincente da parte del Bisonte: gli spunti chitarristici di Nelson Jr., più puliti di quelli di Young, le danno poi una profondità maggiore. Degna conclusione di un disco che, aldilà delle tematiche più o meno condivisibili, ci mostra un Neil Young in piena forma, arrabbiato al punto giusto, ed i Promise Of The Real come un valido surrogato dei Crazy Horse. Non siamo ai livelli eccelsi di Psychedelic Pill, né sono in grado di giudicare se The Monsanto Years saprà superare la prova del tempo (un problema che ogni tanto i dischi di Young hanno, vedi il già citato Living WIth War o anche l’album inciso con i Pearl Jam, Mirror Ball), ma per il momento mi accontento alla grande. Esce ufficialmente il 30 giugno.
Marco Verdi
*NDB A volte ritornano (anche Young), ma nel caso mi riferisco all’amico Marco che dopo un periodo di assenza riprende la sua collaborazione con il Blog: sapendo i suoi gusti gli ho riservato questa anteprima del nuovo album di Neil Young!