Erano Proprio Un Gran Bel “Complessino”! Rolling Stones – From The Vault: The Marquee Live In 1971

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Il terzo capitolo della serie From The Vault,  registrato nel 1971, l’annata in cui esce Sticky Fingers, ma anche il periodo in cui il gruppo è “costretto” per motivi fiscali a lasciare l’Inghilterra. Prima di andarsene, e per salutare i fans, gli Stones organizzano un Farewell Tour, che si svolge tra il 4 e il 14 marzo, in locali decisamente più piccoli delle Arene e dei Palazzi dello sport della tournée precedente: un paio di date sono state immortalate nella recentissima edizione Super Deluxe di Sticky Fingers https://www.youtube.com/watch?v=hj04ed1uWUs e https://www.youtube.com/watch?v=Ih2EzG-uiIg . Ma il 26 marzo, come appendice al breve tour, viene registrato uno special televisivo per la BBC, che servirà anche da promozione per l’imminente uscita proprio di Sticky Fingers, prevista per il 23 aprile. Il tutto viene ripreso allo storico Marquee di Londra, un locale piccolissimo (ormai non esiste più, ma chi c’è stato sa di cosa stiamo parlando) dove hanno suonato tutti i grandi della musica rock, con il pubblico a pochi centimetri dai musicisti, il classico club dove si poteva gustare la presenza degli artisti in tutta la propria dirompente carica. Per l’occasione non c’è Nicky Hopkins al piano, che aveva partecipato alle altre dati ufficiali, ma Ian “Stu” Stewart, mentre sono presenti, in alcuni brani, Bobby Keys al sax e Jim Price alla tromba. Lo spettacolo, che andò in onda su Lion TV venne chiamato Ladies And Gentlemen, The Rolling Stones (ma niente paura, nulla in comune con il DVD dallo stesso titolo pubblicato nel 2010), che era l’annuncio ufficiale in apertura dei concerti degli Stones, e la registrazione proviene da quelle che vengono definite dress-rehersals, le prove, senza presenza di pubblico, il cui rumore verrà poi aggiunto in fase di mixaggio. Non è un concerto molto lungo, meno di quaranta minuti, più 4 versioni alternative, due di I Got The Blues e due di Bitch, ma la qualità sia sonora, audio e video, che dell’esecuzione, sono elevatissime: come dico nel titolo i Rolling Stones in quell’epoca era proprio un gran bel “complessino”!

Mick Taylor e Keith Richards alle chitarre, Bill Wyman al basso, Charlie Watts alla batteria, Mick Jagger, gran cerimoniere, alla voce e all’armonica (più gli ospiti citati) erano un gran bel sentire all’epoca, la miglior incarnazione di sempre del gruppo e “The Greatest Rock’n’Roll Band In The World” (anche se gli Who e i Led Zeppelin contendevano loro lo scettro): un suono nudo e crudo, puro R&R, ma con ampie spruzzate di blues e qualche dose di country, scoperto dopo la frequentazione con Gram Parsons. Il risultato che otteniamo in questo Live At The Marquee è eccitante e straordinario, i Rolling Stones al loro apogeo, l’unico appunto è la durata, ma allora i concerti, con l’eccezione di poche bands, non erano ancora le maratone rock che sarebbero diventate con lo scorrere del tempo. Si parte con Live With Me, uno dei classici “minori” degli Stones, apparso in origine su Let It Bleed, con Bobby Keys che replica l’assolo di sax dell’originale, le chitarre di Taylor e Richard subito indaffaratissime, il pianino di Stu ad alzare la quota R&R e Mick Jagger in gran voce. Mick che, già slacciato il bolerino glitterino molto sobrio che indossa, ci regala una versione bellissima di Dead Flowers, con le armonie vocali, in questo caso, di un leggermente barbuto Keith Richards, mentre Mick Taylor pennella una serie di assoli brevi e concisi che rendono alla perfezione il tono country di questa canzone, che sarebbe apparsa solo un mese dopo su Sticky Fingers, mentre I Got The Blues, anche questa all’epoca nuova, è una stupenda ballata blues, come forse solo gli Stones dell’epoca sapevano fare , con fiati e piano, valore aggiunto, ad intrecciarsi alle perfezione con le chitarre taglienti e un Jagger sempre in grande serata.

Let It Rock sarebbe stato il lato B di Brown Sugar nella versione inglese del singolo (mentre per gli Stati Uniti era Bitch) ed è un omaggio ad uno dei maestri assoluti dei Rolling, quel Chuck Berry di cui Keith Richards credo tenga ancora il santino vicino al letto, la perfezione del R&R di Berry unita alla potenza di tiro degli Stones dell’epoca, due minuti e mezzo di pura goduria https://www.youtube.com/watch?v=tqjoW5eC3YU . A questo punto del concerto, più corto del solito, è già tempo di Midnight Rambler, Mick Jagger estrae l’armonica e l’altro Mick, Taylor, affila la sua chitarra, per uno dei momenti clou della serata, e di tutta la carriera degli Stones, reinserita di prepotenza nel repertorio live della band di recente (con il ritorno proprio di Taylor) ma già allora occasione per il biondo chitarrista, e il gruppo tutto, di mettere in luce tutta la loro maestria di “geni” del rock and roll, nonché una delle punte assolute di tutti i concerti. I pochi presenti alla serata riconoscono subito il riff di una (I Can’t Get No) Satisfaction, per quanto “mascherata” in una versione più consona al suono dell’epoca del gruppo, più sanguigno e fiatistico, non mancano ovviamente le rullate di Watts e i riff di Keith. Segue Bitch, altro brano nuovo e altro esempio del R&R perfetto che gli Stones avevano creato in quel momento magico, potenza e classe, ribadite poi in Brown Sugar, uno dei riff più conosciuti della storia del Rock, qui in versione già perfettamente formata, con tutta la banda che rocca e rolla come se la loro vita dipendesse da questo, ma che ve lo dico a fare, già lo sapete tutti, fine del concerto.

In coda sono aggiunte un’altra versione di I Got The Blues, sempre con la classica presentazione di Jagger “for you, you, you” e forse più bella di quella definitiva, poca differenza ma significativa, seguita dalla seconda versione alternata, senza presentazione e accorciata nel finale, quindi leggermente più breve, ma sono differenze minime, magari non fondamentali per chi non è un fan sfegatato. Stesso discorso per le due versioni extra (molto simili tra loro, quasi identiche) di Bitch, sempre con il classico suono potenziato dai fiati, tipico degli Stones di Sticky Fingers, quindi tra le migliori edizioni di sempre. Per concludere, disco (o CD, Blu-Ray, DVD, come preferite) forse non imperdibile, ma indispensabile questo sì, da mettere lì, tra Get Yer Ya-Ya’s Out e Some Girls: Live In Texas ’78 (oltre ai due box quadupli in DVD degli anni 2000 e al ricordato Ladies And Gentlemen, sempre in DVD) tra i migliori live in concerto dei Rolling. I giapponesi, che sono furbi, nella confezione Deluxe, uscita solo per il loro mercato, hanno aggiunto anche i due CD del Brussels Affair (Live 1973), uno dei più belli di sempre, diversamente disponibile solo per il download. Naturalmente il box giapponese costa un botto e supera di parecchio i cento euro a cui dovete aggiungere tasse e spese doganali.

Bruno Conti

Il “Lato Duro” Del Southern Rock: Fall To June

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Fall To June – Fall To June – Southern Son Music/Ballistic Audio

Vengono dalla Florida, incidono per la Southern Son, tutto potrebbe autorizzarci a pensare che facciano rock sudista. Ed in effetti siamo da quelle parti, sia geograficamente che come tipo di sound, ci troviamo comunque, non dico sul “lato oscuro della forza”, ma su quello duro forse sì. I giovanotti, Fall To June, che esordiscono con questo disco omonimo (dalla lunga gestazione), in effetti tra i loro riferimenti, ovvero band da cui provengono, loro ed i musicisti aggiunti, ma anche il produttore, Stan Martell, pure chitarrista nel disco, gravitano intorno al filone hard-rock del genere, con gruppi come Cold, Shinedown, Fuel (che ammetto di non conoscere) che vengono citati come fonte di parte del modello, vogliamo dire prototipo, del suono che ascolteremo in questo CD. Leggendo le note del compact (sport non sempre praticato, ma utile per capire) troviamo come nucleo della band un terzetto, Ben Badger, cantante, Nate Yant, batterista e Jeremy Marshall, bassista, ma nessun chitarrista. Ohibò, e come mai, direte voi, e ho pensato anch’io? Niente paura, tra gli additional musicians di chitarristi ne troviamo ben sei, uno è il produttore citato, altri due alla solista, uno alla resonator, uno alla 12 corde acustica e perfino un banjoista, nessuno, peraltro, tra quelli riportati sul sito come membri fissi della formazione o della touring band.

Comunque sin dalla iniziale Redemption, rock ad alta tensione chitarristica è quello che esce dalle casse, siamo dalle parti di 38 Special, Point Blank, Blackfoot, Molly Hatchet, i gruppi, se vogliamo, più duri del filone southern, ma Badger ha una buona voce e anche se la produzione predilige un suono piuttosto ruvido, carico, molto riffato, il risultato non è disprezzabile, si percepisce una certa predilezione per la melodia, sia pure sepolta sotto almeno due chitarre soliste (perché quelle non mancano), ad esempio nella tirata Curtain Call o nella vibrante Super Angel, dove fanno capolino anche chitarre acustiche e spunti più gentili, in mezzo alle indaffaratissime elettriche e con la voce di Badger che si fa portatrice sana di vecchio rock sudista. I brani non sono mai molto lunghi, tra i tre e i quattro minuti, quindi niente eccessi o canzoni tirate troppo per le lunghe (anche se questo ci priva del lato jam del genere), ogni tanto si vira verso un AOR radiofonico, come in Rain, dove fanno capolino anche delle tastiere.

Ma in Delta Breakdown, tra acustiche, banjo e slide resonator accarezzate, si percepisce anche un certo talento per canzoni dalla scrittura più complessa, sempre con le soliste pronte a guizzare, magari in modalità wah-wah; non saranno bravi come Blackberry Smoke o Whiskey Myers, manca decisamente l’elemento country tra le componenti sonore, e forse una certa varietà, anche se una ballata mid-tempo come Closer non dispiace e Barbed Wire Trees, quasi a smentirmi, con i suoi arpeggi chitarristici acustici è una ballata ad ampio respiro, sia pure sempre con un afflato vagamente radiofonico che stempera le folate più dure della band. Unbreakable, con le chitarre che si rispondono dalle casse dello stereo, ha quell’approccio quiet/loud di certo grunge melodico (ma esiste?) e The Chance, in conclusione, vira di nuovo verso un suono più duro e senza compromessi, ma neppure ricchissimo di spunti interessanti. Però in conclusione ci lasciano con una bonus track come la versione “acustica” di Delta Breakdown, che, nuovamente tra chitarre acustiche, banjo e il cantato maturo di Badger, lascia scorgere futuri sviluppi sonori potenzialmente interessanti. Chi segue il genere sudista ed è sempre alla ricerca di nomi nuovi si appunti il nome, non saranno memorabili, ma comunque in grado di accontentare gli adepti meno nostalgici dei grandi nomi.

*NDB In rete ci sono pochi video del gruppo (o meglio, sul loro Facebook ce ne sono moltissimi, ma di tipo culinario!?!), quindi accontentatevi.

Bruno Conti

Il Più Grande “Gregario” Della Storia del Rock’n’Roll? Kentucky Headhunters With Johnnie Johnson – Meet Me In Bluesland

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Kentucky Headhunters With Johnnie Johnson – Meet Me In Bluesland – Alligator/Ird

Senza voler essere irrispettosi, con una ardita metafora, mi pare cheultimamente nella musica sia come per il maiale, non si butta via niente. In questa epoca di ristampe e riscoperte clamorose, ogni giorno viene pescata dagli archivi qualche chicca che era rimasta nascosta nelle pieghe del tempo. Nel caso specifico si tratta di una session di tre giorni, registrata nel gennaio del 2003, che univa la famosa formazione southern (e country) dei Kentucky Headhunters con Johnnie Johnson, il leggendario pianista di Chuck Berry. Il tutto venne registrato senza una previsione di pubblicazione immediata, poi nel 2005 Johnnie morì, per cui il progetto fu accantonato e cadde quasi nel dimenticatoio. Ora, in questa epoca dove le case discografiche sono alla perenne ed affannosa ricerca di qualcosa di nuovo (o di vecchio) da (ri)pubblicare, era quasi inevitabile che questi nastri, visto che sono molto buoni, vedessero finalmente la luce. Una vecchia volpe come Bruce Iglauer, il boss della Alligator, non poteva lasciarsi sfuggire questa occasione, considerando anche che il materiale contenuto nell’album è molto vicino alla, chiamiamola, linea editoriale della etichetta di Chicago. Non ci sono classici del blues o del R&R, a parte una gustosa cover di Little Queenie di Chuck Berry, ma il suono è molto vicino a quegli stilemi. D’altronde Johnson ed i Kentucky Headhunters erano spiriti affini, avevano già collaborato per un album, attribuito ad entrambi; That’ll Work, uscito nel 1993 per la Elektra/Nonesuch https://www.youtube.com/watch?v=VT3FPA6_kw8 , la stessa che l’anno prima aveva pubblicato Johnnie B. Bad, il suo esordio per una major, disco dove partecipavano anche Keith Richards, Eric Clapton e gli NRBQ, Stevie Jordan alla batteria e Bernie Worrell alle tastiere https://www.youtube.com/watch?v=ZMcOX2uAzwI .

johnnie johnson johnnie b bad johnnie johnson that'll work

Stranamente, sono andato a verificare, entrambi gli album non erano stati accolti benissimo dalla critica americana, ma il sottoscritto li ricorda come dischi vivaci e pimpanti, certo non dei capolavori. Nel 2003, in occasione di una visita di Johnson ai suoi amici Stones, per un concerto in Texas, era stata organizzata una partecipazione del grande pianista alla registrazione dell’album Soul dei Kentucky Headhunters, poi effettivamente uscito quell’anno https://www.youtube.com/watch?v=MB9ftKMlFQM , ma nell’occasione della registrazione di quel disco ai Barrick Studios di Glasgow (nel Kentucky però) i partecipanti alle sessions avevano deciso di lasciare andare i nastri ed i risultati erano stati poi accantonati (ma non dimenticati) per venire usati in seguito: quando nel 2005, alla comunque rispettabile età di quasi 81 anni, il vecchio pard di Chuck Berry ci lasciò, il progetto rimase lì nel limbo. Ora, con il titolo di Meet Me In Bluesland, abbiamo tra le mani il risultato di quell’incontro, e anche se, nuovamente, non si può parlare di capolavoro, il CD è una solida e riuscita fusione tra le matrici southern e rock dei Kentucky Headhunters e il R&R e il blues dell’uomo di Fairmont, che si conferma uno dei pianisti più versatili e creativi della storia del rock, anche in questa occasione, con le mani che spesso volano sulla tastiera con evidente piacere ed abbandono. I Kentucky Headhunters vengono ancora ricordati soprattutto per il primo album, Pickin’ On Nashville, comunque  nel corso degli anni hanno registrato molti altri album, l’ultimo Dixie Lullabies del 2011, alcuni anche dal vivo, dove hanno confermato questa loro vena di rockers, ma forse il migliore in assoluto, primo escluso, potrebbe essere proprio questo Meet Me In Bluesland.

Si respira una bella aria stonesiana (da sempre grandi ammiratori di Johnson), con brani come l’iniziale Stumblin’ che ricordano anche il sound dei vecchi Faces di Rod Stewart, riff di chitarra alla Keith Richards (o se preferite, alla Chuck Berry), pianino indiavolato e le voci di Doug Phelps e Richard Young che si alternano alla guida dei brani https://www.youtube.com/watch?v=yQhGSPfwbDs , il secondo nei pezzi più blues, come il Chicago sound di Walking With The Wolf, dove la slide tira la volata al solito ispiratissimo piano di Johnson. Little Queenie non ha nulla da invidiare alle versioni di Berry e degli Stones https://www.youtube.com/watch?v=Rj32T1ecj2g , She’s Got To Have It, è una delle rare occasioni per ascoltare il vocione di Johnnie, Party In Heaven è un altro R&R di quelli tosti e cialtroni https://www.youtube.com/watch?v=9B-qymVlYxM . Non manca uno slow blues intenso e ad alta gradazione pianistica come la title-track, ma per il resto del disco prevale il rock di brani divertenti e tirati come King Rooster o il boogie velocissimo della strumentale Fast Train https://www.youtube.com/watch?v=0cJj_HpcJaQ , senza dimenticare il groove pigro e ciondolante di Shufllin’ Back To Memphis https://www.youtube.com/watch?v=zYmr6tCk7Hk  e Sometime, due facce della stessa medaglia. Conclude Superman Blues, un altro gagliardo esempio di blues elettrico, come facevano i grandi musicisti della Chess dei tempi che furono https://www.youtube.com/watch?v=aguwrysWQ84 , e Johnnie Johnson era uno di loro, come disse la rivista Rolling Stone, in uno dei suoi rari momenti di lucidità, “the greatest sideman in rock and roll”!

Bruno Conti  

Pagine “Antiche” E Nuove Di Rara Bellezza ! Thea Gilmore – Ghosts & Graffiti

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Thea Gilmore – Ghosts & Graffiti – Full Fill Records –CD o 2 LP Deluxe Edition

Dal suo esordio (a soli 18 anni) con Burning Dorothy (98), Thea Gilmore ha pubblicato da allora 14 album (13 in studio e 1 live), quattro EP e numerosi singoli (oltre a brani in vari album “tributo” assortiti), e oggi, all’alba dei 36 anni, sposata e madre di 2 figli, raggiunge quota quindici con questa sorta di raccolta, Ghosts & Graffiti, dove rivisita il suo catalogo inserendo quattro canzoni nuove, sei brani con nuove versioni di vecchio materiale, rarità e pezzi radiofonici, e collaborazioni con artisti del calibro di Joan Baez, Billy Bragg, Waterboys, King Creosote, Joan As Policewoman, I Am Kloot e John Cooper Clarke (poeta inglese e cantante punk-rock).

Nei 25 brani della Deluxe Edition in vinile, gli album più saccheggiati sono Strange Communion, Avalanche, Don’t Stop Singing http://discoclub.myblog.it/2011/11/20/forse-non-come-l-originale-ma-sempre-un-ottima-cantautrice-m/  , Murphy’s Heart, Rules For Jokers e Regardless (recensito da chi scrive http://discoclub.myblog.it/2013/06/08/la-piu-americana-folk-singer-inglese-thea-gilmore-regardless/ ), mentre le canzoni nuove (o precisamente mai apparse prima) partono con l’iniziale mid-tempo di Copper https://www.youtube.com/watch?v=UW9aWc0FPyE , il singolo Coming Back To You con i suoi svolazzi di violoncello e violino, il country-folk di un’ariosa Live Out Love e il blues paludoso di una intrigante Wrong With You.

Le rielaborazioni partono con This Girl Is Taking Bets https://www.youtube.com/watch?v=E1wm58dpKCk , una specie perfetto “rockabilly” con la chitarra di Robbie McIntosh, che vede Thea condividere la voce con la brava Joan Wasser (Policewoman) al pianoforte , e proseguono con la scintillante Glistening Bay (tratta dall’album dedicato alla grande Sandy Denny Don’t Stop Singing) che la vede accompagnata dall’attuale incarnazione dei grandi Waterboys, che danno al brano un suono più corposo https://www.youtube.com/watch?v=YK6zUnLziwM . Poi arrivano in sequenza il giro di chitarra di una Razor Valentine (una storia d’amore con Billie Holidayhttps://www.youtube.com/watch?v=TuRo17BVs2M , eseguita con il gruppo I Am Kloot (e la voce del cantante John Bramwell), con in sottofondo il sax di Pete McPhail, l’eccellente ballata Old Soul, cantata da Thea con violini e violoncelli a sostegno, l’atmosfera molto diversa di Don’t Set Foot Over The Railway Track, che non poteva che essere declamata dal leggendario poeta-punk John Cooper Clarke (su un tessuto di tastiere), e il lento valzer Inverigo eseguito con il cantautore scozzese King Creosote, dalla melodia molto “dylaniana”. Da segnalare inoltre il pop alla Indigo Girls di una gioiosa Start As Mean To Go On, una canzone politica come My Voice cantata con il censore più politico anglosassone Billy Bragg e il banjo del compagno di vita Nigel Stonier, con un’altra stupenda ballata in duetto con la sempre giovane Joan Baez Inch By Inch, su un tessuto di pianoforte e fisarmonica https://www.youtube.com/watch?v=jj-ysx4_r8w , i suoni spettrali di una sussurrata Avalanche https://www.youtube.com/watch?v=caNh-GklCZU , le scorribande folk di Juliet, e le atmosfere natalizie delle note di That’ll Be Christmas https://www.youtube.com/watch?v=Ep2ilaIU8g8 , che chiudono per ora un percorso di una carriera lunga 17 anni, vissuta tra alti (tanti) e bassi (pochi), ma sempre con grande coerenza.

Per chi scrive Thea Gilmore, con Jude Johnstone e Angie Palmer, si gioca lo scalino più alto del podio come  migliore songwriter inglese “sconosciuta” dell’ultima generazione, con un cocktail musicale che spazia dal folk al pop, attraverso il rock di chiara matrice americana, e tutto questo lo deve  ai suoi genitori Irlandesi che l’hanno cresciuta in un villaggio (da favola) nella campagna inglese dello Oxfordshire, dove è stata “abbeverata” con una solida colonna sonora di base, composta da Dylan, Beatles, Hendrix, e Fairport Convention. Per chi ama il genere un lavoro e una raccolta superba!

Tino Montanari

Doppi Dal Vivo Classici! Needtobreathe – Live From The Woods At Fontanel

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Needtobreathe – Live From The Woods At Fontanel – 2CD Atlantic

Christian rock, che diavolo (scusate il piccolo gioco di parole) di genere è? Come certo saprete negli Stati Uniti hanno la mania di catalogare e suddividere tutti i tipi di musica, spesso le sfumature di differenza sono veramente impercettibili. Naturalmente la musica religiosa è da sempre presente nella musica popolare, soprattutto quella nera: gospel e spiritual sono tra gli originatori del soul, del R&B, ma sono anche musiche a sé stanti, personaggi come Sam Cooke, Aretha Franklin, i “reverendi” Solomon Burke e Al Green, hanno sempre oscillato tra sacro e profano, insieme a mille altri artisti, spesso la discriminante risiede soltanto nei testi, ma sul finire degli anni ’60, tale Larry Norman, definito “il padre del Christian Rock, ha dato un deciso impulso al genere, che peraltro già nasceva nella decade precedente, pubblicando un disco che conteneva il brano Why Should the Devil Have All the Good Music?, bella domanda! Forse perché il R&R è trasgressione, azzardo?  Diciamo che in quegli anni, soprattutto in ambito country, cominciavano ad apparire e/o a convertirsi vari solisti e gruppi: per citare qualcuno di quelli bravi, Mylon LeFevre (con e senza Alvin Lee), i fratelli Talbot, dopo lo scioglimento dei Mason Proffit, Richie Furay, dopo la fuoriuscita dai Poco, Barry McGuire, Cockburn, vengono inseriti nel filone, che poi produrrà gente come Amy Grant, i metallari Stryper, e altri che vogliamo dimenticare.

Arriviamo ai giorni nostri e a questi Needtobreathe, la band di Seneca, South Carolina, con già cinque album di studio in carniere, gli ultimi due, The Reckoning e Rivers In Wasteland, entrambi molto buoni. Se poi vogliamo, anche per la collocazione geografica, la band dei fratelli Rinehart farebbe del sano southern rock, con ampie spruzzate di alternative e country, come lascia intendere questo Live From The Woods At Fontanel, se aggiungiamo Nashville, Tennessee alla location del concerto. Per gli album di studio sono stati avanzati anche arditi paragoni con The Band, mentre questo nuovo disco, anche grazie alla dimensione Live, accentua la componente southern e di improvvisazione. Classica formazione sudista, con due chitarre, basso, batteria e tastiere, nei CD scorrono i migliori brani della band, con un suono più tirato rispetto ai dischi di studio di solito più “lavorati”: si parte con la tirata State I’m In, un brano che coniuga rock sudista e sonorità celtic rock, quasi alla Big Country, con i begli intrecci vocali del gruppo e notevoli folate chitarristiche. “Bear” Rhinheart III, il maggiore dei fratelli, ha un voce potente ed espressiva, e in Wanted Man, con la sua andatura galoppante, le tastiere in evidenza e una bella melodia, la mette a buon frutto negli oltre sette minuti del brano, tra pause e ripartenze, i soliti coretti, ruffiani ma efficaci, che culminano nel finale travolgente. Senza soluzione di continuità ci tuffiamo in Drive All Night, un brano che grazie alla presenza di mandolino, piano e organo potrebbe ricordare gli Avett Brothers più energici, molto coinvolgente. Tutti brani tratti dagli ultimi due album, come Difference Maker, la prima ballata della serata, un brano arioso, tra i primi Mumford And Sons e i Counting Crows, forse più semplice, ma molto piacevole all’ascolto, anche Multiplied viene da Wasteland e come i brani precedenti ha un che di innodico (non per niente fanno christian rock) nel suo incedere maestoso, con tutto il pubblico che canta https://www.youtube.com/watch?v=UwMG-P2KSwY ,  mentre Oh Carolina, dedicato alla loro regione di origine, dai tre minuti della versione di studio, si espande in una lunghissima versione oltre i nove minuti https://www.youtube.com/watch?v=-KrkbxVSUoA , con lunghe parti jam dove la band lascia andare gli strumenti, soprattutto la slide, mentre la conclusione della prima parte, affidata a Wasteland, un’altra bella ballata di stampo acustico, ci mostra di nuovo il loro lato più riflessivo e raffinato, con inevitabile finale in crescendo estatico.

La seconda parte si apre con due dei loro cavalli di battaglia, Keep Your Eyes Open e Washed By The Water (oltre gli otto minuti), dove la tensione rock sale nuovamente https://www.youtube.com/watch?v=lk-mrsesL6A , prima dell’elettroacustica e corale Something Beautiful, seguita da un peana allo stato che li ospita Girl Named Tennesse, con immancabile ovazione del pubblico e un sound che vira decisamente verso un country-rock energico e divertente, Brother fa parte dell’intermezzo acustico, mentre The Heart, di nuovo oltre i sette minuti, ci riporta al rock coinvolgente e da stadio della band, The Outsiders è un altro esempio del lato più intimista del gruppo, nella parte iniziale, ma poi si scatena nella parte centrale e finale. Ancora una bellissima ballata come More Heart, Less Attack e gran finale boogie-southern con Feet Don’t Fail Me Now https://www.youtube.com/watch?v=Xzg1KDoXhz8 , prima di chiudere definitivamente con una Devil’s Been Tallkin’, altro esempio del loro christian-country-southern.alternative-rock, per sintetizzare il disco in un solo termine: bello!

Bruno Conti

Di Nuovo Effetti Slide! Ron Hacker & the Hacksaws – Goin’ Down Howlin’

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Ron Hacker & the Hacksaws – Goin’ Down Howlin’ – Ron Hacker

Nell’ultimo periodo, puntuale, ogni due anni circa, Ron Hacker si (ri)presenta con un nuovo album, e noi, altrettanto tempestivi, ve ne diamo conto. Dopo gli ultimi, notevoli, Filthy Animal e Live In San Francisco http://discoclub.myblog.it/2013/01/12/l-arte-della-slide-ron-hacker-live-in-san-francisco/ , il musicista della Bay Area (ma originario di Indianapolis, 70 anni quest’anno) ci propone, nella consueta formula del trio, la sua personale visione del Blues, e lo fa rivisitando, in questo Goin’ Down Howlin’, molti classici delle 12 battute, invertendo il programma tipico delle sue esibizioni, concertistiche e discografiche, dove abitualmente si ascoltava una serie di brani della stesso Hacker, arricchita da alcun cover, scelte con cura nel repertorio sterminato del blues. Per l’occasione il vecchio Ron apre il nuovo album con due brani che portano la propria firma e poi rilegge una serie di canzoni famose di Sleepy John Estes, due brani, Little Walter, Jimmy Reed, Fred McDowell, Chuck Berry, St. Louis Jimmy Oden, e Chester Burnett (aka Howlin’ Wolf), a cui si ispira il titolo del CD. Come ricorda nelle note la figlia Rachell (con due l, così chiamata in onore del mentore di Hacker, Yank Rachell), la musica di questi musicisti è stata la colonna sonora della sua vita, fin dall’infanzia, e se agli altri bambini cantavano ninne nanne, lei si trovava a canticchiare Miss You Like The Devil di Slim Harpo, un brano composto quasi 100 anni prima. Quindi le sembra giusto e doveroso che il babbo abbia voluto rendere omaggio ai grandi musicisti blues che lo hanno preceduto.

Armato della sua immancabile chitarra d’acciaio e di un bottleneck, come riporta la foto di copertina, aiutato da Artis Joyce al basso e da Ronnie Smith alla batteria, e con la sua inconfondibile voce vissuta, Ron Hacker ci regala dieci perle di blues classico (una in due versioni), con due brani acustici, posti in apertura e chiusura, che incapsulano questo disco, tra i migliori della sua discografia. Si apre con Evil Hearted Woman, solo voce e chitarra, e poi si comincia a rollare, con il boogie scatenato di Big Brown Eyes, dove la slide del titolare inizia a macinare note con la consueta grinta e maestria. La prima cover è un adattamento dello stesso Hacker di Hate To See You Go, un brano di Little Walter, dalla classica costruzione sonora, che conferma l’impressione che per l’occasione Ron abbia trattenuto la sua proverbiale furia sonora, brani più brevi del solito, al solito infarciti di soli, però meno selvaggi e irrefrenabili del solito. Impressione confermata nella successiva Axe Sweet Momma, il primo dei brani a firma Sleepy John Estes, qui reso in una versione elettrificata dove si apprezza, come sempre, la slide del titolare, mentre Baby What You Want Me To Do è uno dei brani più famosi di Jimmy Reed e del blues tutto, eccellente la versione presente nell’album, come pure quella di You Got To Move, brano di Fred McDowell, già apparso in altri dischi di Hacker, per esempio in Filthy Animal, dove era attribuito a Memphis Minnie, per l’occasione in versione solo voce e chitarra slide.

Nadine, di Chuck Berry ovviamente, richiede una veste elettrica più tirata e il nostro Ron non si tira indietro, anche se fino a che non si scatena al bottleneck, la prima parte sembra un poco con il freno a mano tirato. Come ricorda il titolo, Goin’ Down Slow, è uno dei grandi “lenti” del blues, prima in versione elettrica, eccellente, e poi in chiusura, acustica, brano famoso anche nella versione di Howlin’ Wolf, e che nel corso degli anni hanno suonato tutti, da B.B. King agli Animals, i Canned Heat, gli stessi Led Zeppelin la suonavano live nel medley di Whole Lotta Love, come riportato nel bellissimo How The West Was Won, ma anche Duane Allman, Eric Clapton, Jeff Beck, tutti i grandi chitarristi l’hanno suonata, poteva mancare la versione di Ron Hacker? Che poi rende omaggio anche all’appena citato Chester Burnett con una sapida Howlin’ For My Darlin’ e chiude con una scoppiettante Goin’ To Brownsville che più che a Sleepy John Estes sembra appartenere ad Elmore James per la sua profusione di effetti slide.

Bruno Conti  

Una Conferma Di Grande Livello Per Una Bravissima Cantautrice ! Dar Williams – Emerald

dar williams emerald

Dar Williams – Emerald – Bread And Butter Music

Di Dar Williams mi sono innamorato, musicalmente parlando, nel lontano ’95, attraverso una bellissima rivista americana The Leak (con CD accluso) allora edita stagionalmente per gli amanti del cantautorato americano, che il mio amico Nello Leandri, storico negoziante pavese, da poco scomparso (celebrato nell’EP dei Lowlands, San Diego Serenade) http://discoclub.myblog.it/2015/04/18/nel-record-store-day-made-italy-anche-cd-mini-lowlands-san-diego-serenade-ep-for-nello/ . puntualmente mi procurava e mi consegnava quando passavo nel suo negozio di dischi (punto di raccolta di tante “belle persone” appassionate di musica).

Ai tempi la “signorina”, originaria di New York, dopo aver studiato a Boston e aver iniziato a fare la folk-singer nel Massachusetts, entrava nel circuito delle “Coffee Houses” americane (pub alternativi), facendosi conoscere dagli addetti ai lavori e trovando nella etichetta Razor & Tie (specializzata in folksingers urbani e ristampe di qualità, da Willie Nile a Elliott Murphy), il trampolino di lancio per esordire con The Honesty Room (95), a cui farà seguire Mortal City (96), End Of The Summer (97), e il progetto Cry, Cry, Cry (98), realizzato in compagnia di due bravi cantautori come Lucy Kaplansky e Richard Shindell, disco che ne ha accresciuto la popolarità. Negli anni a seguire entra regolarmente in sala di registrazione per incidere The Green World (00), l’ottimo Out There Live (01), The Beauty Of The Rain (03), My Better Self (05) con una versione “spaziale” di Comfortably Numb dei Pink Floyd, cantata in coppia con Ani DiFranco https://www.youtube.com/watch?v=SqQFWXWVBNA  , un magnifico elettro-acustico DVD Live At Bearsville Theater (07), Promised Land (08), l’intrigante Many Great Compamions (10) dove le sue più amate composizioni vengono rilette in forma prevalentemente acustica, sotto la produzione di Gary Louris dei Jayhawks, e conl’aiuto di Mary Chapin Carpenter, Patty Larkin, Sara e Sean Watkins dei Nickel Creek, il recente In The Time Of Gods (12), recensito regolarmente su queste pagine dall’amico Bruno http://discoclub.myblog.it/2012/05/03/difficilmente-ne-sbaglia-uno-dar-williams-in-the-time-of-god/ , fino ad arrivare a questo ultimo lavoro Emerald, dove Dar Williams (ormai diventata signora) è riuscita a portare in sala di registrazione artisti (e amici) del calibro di Richard Thompson, Jim Lauderdale, Jill Sobule, Lucy Wainwright e sua madre Suzzy Roche, componenti degli Hooters e dei Milk Carton Kids, con l’apporto di valenti musicisti come David Lilley al dobro, il redivivo Jonny Polonsky (mediocre cantante, ma buon chitarrista), la pianista Heidi Breyer, il chitarrista acustico Will Ackermann (proprio il fondatore della Windham Hill), e altri, per un disco di ballate folk-rock che riflettono sui temi della solitudine e sulle relazioni umane nel mondo.

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Data l’importanza e la bellezza del lavoro, mi è sembrato giusto e opportuno sviluppare un commento ai brani “track by track”:

 Something To Get Through –  Tipica ballata folk-rock, stile cha da anni accompagna il repertorio di Dar, con un suono cristallino della lap-steel di Josh Kaler (che suona anche la maggior parte degli altri strumenti), accompagnato dalle pregiate armonie vocali di Courtney Jaye e Tom Whall.

 FM Radio – Brillante inno power-pop dalla melodia e ritornello “assassino” , che si avvale delle chitarre di Jonny Polonsky e Jill Sobule, anche alle armonie vocali, con il contributo determinante delle brave coriste Olivia e Vanessa Wood.

Empty Plane – Un piano inquietante introduce questa splendida ballata, suonata in punta di dita dalla chitarra di Trevor Gordon Hall, e cantata sommessamente dalla Williams.

Emerald – La virtuosa chitarra di Richard Thompson e il basso di Stance Mason danno corpo ad una melodia in stile “madrigale”, dove la voce rapisce il cuore e l’anima. Soave!

Slippery Slope – Questo brano scritto e cantato in coppia con Jim Lauderdale è una dolce carezza acustica, con un’armonia deliziosa che accompagna una moderna ninna-nanna..

Here Tonight –  Un piacevole arrangiamento pop-rock elettrico, vede ancora in evidenza il polistrumentista Josh Kaler, con il contributo della co-autrice Angel Snow alle armonie.

Girl Of The World –   Le note del piano di Heidi Breyer, il cello di Eugene Freisen, la chitarra acustica di Will Ackeman, e la voce sofferta e dolente della Williams, creano un’atmosfera magica e celestiale che rapisce.

Mad River – L’impatto della crisi politica e economica sulle nuove generazioni è il tema che affronta questa canzone, dove ritroviamo Jonny  Polonsky alla chitarra elettrica, con un bel impasto vocale di Joey Ryan e Kenneth Pattengale, ovvero i Milk Carton Kids, che danno al brano una impronta  cristallina.

Weight Of The World – Arriva la prima cover del disco a firma di Kat Goldman (ispirata da una visita in un orfanotrofio in Honduras), eseguita con Lucy Wainwright e Suzzy Roche e l’apporto del violino di David Mansfield. Commovente!

Johnny Appleseed –  Una certa sorpresa è la scelta di questo brano (dedicato a tale John Chapman, ambientalista e agronomo statunitense), un brano che viene dal repertorio di Joe Strummer nel periodo Mescaleros, dove fanno la loro “sporca figura” Eric Bazilian e Rob Hyman degli Hooters (di cui nel 2012 era uscito un cofanetto economico di 4 CD per ricordare il 30° della band, ad un prezzo vergognosamente basso e che vi consiglio), che danno il tocco di vivacità da sempre marchio di fabbrica del gruppo.

New York Is A Harbor – Si chiude con il pianoforte di Bryn Roberts e la voce melodiosa di Dar Williams, con un sentito e passionale omaggio alla “Grande Mela”, che dimostra ancora una volta il riconoscimento e l’appartenenza del popolo americano verso la sua città simbolo.

Nonostante una carriera più che ventennale, Dar Williams non ha mai sfondato nel nostro paese  (pur avendo  collezionato album sufficienti per farla conoscere), e questo Emerald, suonato in modo perfetto (e non poteva essere altrimenti, visti gli ospiti) potrebbe essere veramente la svolta per una raffinata, ispirata e creativa “singer songwriter” , un’artista che registra sempre dischi godibili e intelligenti, ed è davvero un peccato che rimangano a conoscenza solo di pochi, ma anche questo album, finanziato con il sistema del crowdfunding e distribuito da una piccola etichetta inglese difficilmente potrà cambiare lo stato delle cose.

Tino Montanari

*NDT: Per quelli che se lo possono permettere, fra poco partirà nel Regno Unito un tour di Dar Williams con Lucy Wainwright Roche. Se siete da quelle parti non mancate!

Uno Stevie Ray Vaughan D’Annata! Live At The Spectrum, Philadelphia 23rd May 1988

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Stevie Ray Vaughan – Spectrum, Philadelphia 23rd May 1988 Echoes

Nel 1988 Stevie Ray Vaughan, inconscio di tutto ciò, si avvicinava a grandi passi agli ultimi anni della sua breve vita (sarebbe scomparso, all’età di 35 anni, nel tragico incidente di elicottero del 27 agosto 1990 a East Troy, nel Wisconsin), ma nello stesso tempo, per la prima volta da lunga pezza, era libero dai fantasmi della tossicodipendenza, o almeno così si diceva e si legge nelle sue biografie. Però chi vi scrive si ricorda di essere stato presente ad una delle due date milanesi che SRV tenne al Palatrussardi di Milano nel luglio di quell’anno, ed in particolare, il 7, la serata in cui si esibì insieme a Pogues e Los Lobos. Ora, forse, la memoria mi inganna, sono passati 27 anni, ma non mi pare di ricordare un concerto memorabile, al di là della solita acustica orrida del palazzetto milanese, quella che doveva essere una serata eccezionale per la presenza contemporanea di tre grandi formazioni, alla fine non fu tale. O così ricordo io: Shane MacGowan era l’ombra di sé stesso e anche il musicista texano non fece un set fantastico (altri ricordano diversamente), forse penalizzati dall’acustica pessima e per il tempo ridotto, Los Lobos esclusi, nessuno mi parve all’altezza della propria fama.

Il buon Stevie, dopo la partenza fulminante con Texas Flood, e prima ancora con la esibizione al Festival di Montreux del 1982, dove venne peraltro contestato da alcuni dementi fondamentalisti del jazz festivaliero (ma il filmato in rete e il doppio CD con le due esibizioni dell’82 e dell’85, raccontano una storia diversa) e testimoniano di un musicista in forma strepitosa, poi replicata nel Rockpalast alla rocca di Lorelei dell’agosto del 1984, in una epoca in cui internet era ancora solo un’idea, l’esibizione venne mandata in Eurovisione, anche in Italia su Rai Tre, e permise a chi era rimasto folgorato dal suo primo album, da poco replicato con l’eccellente Couldn’t Stand The Weather, di godere la presenza scenica e sonora di questo “Zorro” della chitarra, un musicista fantastico che convogliava nella sua persona lo spirito di Jimi Hendrix, e di molti altri “eroi” della chitarra, bianchi e neri, che lo avevano preceduto. Non c’è né il tempo né lo spazio in questa breve recensione per ricordarlo, ma probabilmente Stevie Ray Vaughan è stato l’ultimo vero grande chitarrista della storia del rock, scomparso troppo presto, mentre avrebbe potuto dare ancora molto al mondo della musica. Comunque nel 1988, anno in cui viene registrato, e poi trasmesso nell’etere questo concerto radiofonico di Filadelfia, il nostro amico si sta preparando a registrare quello che sarà il suo ultimo album di studio, In Step, probabilmente il migliore della discografia insieme al primo, e regala ai fans accorsi allo Spectrum il 23 maggio del 1988, uno show nettamente superiore a quelli utilizzati per il doppio Live ufficiale Live Alive di due anni prima. La qualità del suono di questo CD è ottima, cruda ma bel delineata, così come il repertorio scelto per l’occasione: Vaughan, accompagnato dai fidi Double Trouble in versione quartetto, con Reese Wynans, Tommy Shannon e Chris Layton, sciorina, con nonchalance e classe immensa, undici brani di notevole spessore, che se non costituiscono un concerto completo, per le restrizioni di tempo applicate al broadcast radiofonico, cionondimeno rimangono un documento notevole del suo enorme talento di chitarrista.

Si parte con un medley di Dust My Blues che si riversa nell’inconfondibile riff di Love Struck Baby, per una versione fantastica, con Shannon che pompa sul basso come ne andasse della sua vita e Wynans e Layton travolgenti ai rispettivi strumenti, mentre Stevie strapazza la sua vecchia Fender e ne estrae citazioni di Johnny Be Goode e altre mirabilie del R&R e del blues. Look At Little Sister, il classico di Hank Ballard da Soul To Soul, è puro Rock’n’blues texano e anche You’ll Be Mine, dallo stesso album, è carica di una energia strabordante, poi veicolata nell’uno-due micidiale dell’accoppiata Mary Had A Little Lamb, dal repertorio di Buddy Guy e Texas Flood, entrambe in versioni dove le mani di SRV sembrano volare sul manico della sua chitarra; Superstition non raggiunge forse i vertici di quelle di Stevie Wonder e Jeff Beck, ma è sempre un bel sentire. Willie The Wimp è una rara esibizione dell’altrettanto raro singolo, scritto dall’amico di Austin Bill Carter, un rock verace e grintoso nella migliore tradizione texana, seguito da una vorticosa Cold Shot, con la sua ciondolante andatura, e poi dall’hendrixiana Couldn’t Stand The Weather, con i classici stop and go, e da una versione lunghissima, oltre i 9 minuti, di Life Without You, uno slow blues atmosferico e scintillante che anticipa la svolta dell’imminente In Step ed è seguita da una sontuosa Voodoo Chile (Slight Return) di mastro Jimi, solo Hendrix la faceva meglio. Grande concerto comunque, sarà anche un ex bootleg, ma che ci frega!

Bruno Conti

E’ Tempo Di Jam! Barry Waldrep – Smoke From The The Kitchen

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Barry Waldrep – Smoke From The Kitchen – Singular Recordings CD+DVD

Come diceva il compianto maestro Manzi, “Non è mai troppo tardi”! Anche per parlare di questo album di Barry Waldrep, in circolazione ormai da parecchio tempo, un anno e oltre, ma poco noto ai più, per cui come nuovo. Come poco conosciuto è il personaggio che lo ha confezionato (con l’aiuto dei produttori Brian Brinkerhoff e Paul Lani e di molti amici). Waldrep è una sorta di autorità nel genere Americana, bluegrass, country, southern, blues, non sono dei segreti per il nostro, sulla scena da fine anni ’60,  con decine di dischi realizzati, da solo, o nel gruppo dei Rollin’ In The Hay https://www.youtube.com/watch?v=z6914xrhQ1M . Soprattutto a cavallo della decade precedente, in pochissimi anni, ha inciso una quantità di tributi bluegrass impressionante, dedicati a chiunque, Allman Brothers, Widespread Panic, Phish, ma anche Clapton, Neil Diamond, Brooks & Dunn, oltre a quelli come Barry Waldrep Projects e il gruppo bluegrass or ora citato. E non ne ho sentito (ma neanche visto) neppure uno, anche se il nome mi era familiare https://www.youtube.com/watch?v=YN_y_QQlwTk , in quanto si trovava come membro aggiunto per esempio nel doppio dal vivo della Zac Brown, o nei dischi del cugino Charlie Starr, il cantante e chitarrista dei Blackberry Smoke https://www.youtube.com/watch?v=btVyC99-iqE .

Naturalmente le sue frequentazioni, unite al fatto che per anni ha suonato dal vivo nel circuito delle jam band, fanno sì che in questo interessante Smoke From The Kitchen, dove Waldrep, suona banjo ( di cui è un vero virtuoso), mandolino e chitarra acustica, appaiano moltissimi ospiti di pregio, oltre a Charlie Starr, che appare come cantante in tre brani, per un disco per il resto strumentale, ci sono Oteil Burbridge degli Allman Brothers al basso, Paul T. Riddle, il batterista della Marshall Tucker Band, Benji Shanks, chitarrista, anche lui del giro Blackberry Smoke, Coy Bowles, tastierista e altro della Zac Brown Band, che canta anche un brano, oltre a Chuck Leavell in due pezzi e David Grisman al mandolino, in un brano. Quindi, come vedete, motivi di interesse ce ne sono parecchi: si potrebbe catalogare come bluegrass/southern/country/Jam e nei dieci brani, più due interludi, si ascolta sempre della buona musica. Dalle vorticose improvvisazioni dell’iniziale Black Jack Mountain, dove il banjo si districa tra elettriche slide, soliste e organo, in un’orgia di virtuosismi continui, mentre Dig A Hole, un vecchio traditional arrangiato ad arte dai musicisti coinvolti, è un piacevole country-rock, energicamente cantato da Starr e con Waldrep che si produce anche al mandolino, con lo spirito sudista ben presente, nelle rasoiate della slide di Shanks.

Molto piacevole anche Melody, dove la presenza di Leavell al piano potrebbe rimandare ai Sea Level o alle scorribande strumentali degli Allman più country di Brothers And Sisters, con un banjo aggiunto. Sure Does Hurt è una bella e classica country song cantata nuovamente da Charlie Starr, mentre la title-track, quella con la presenza di Grisman, è un altro ottimo esempio della capacità jam di questi musicisti, sempre coinvolgenti nelle loro traiettorie sonore che profumano del miglior southern rock. Eccellente anche la lunga cover del vecchio blues Keep Your Lamp Trimmed And Burning, di nuovo con Starr alla voce solista e che nell’insieme non fa rimpiangere, anzi per certi versi è più tradizionale di quella degli Hot Tuna, quando parte il segmento strumentale sembrano quasi gli Old & In The Way. Georgia Breeze, dedicata allo stato sudista, è una bellissima ballata strumentale, con Starr alla pedal steel e Leavell al piano, mentre Waldrep si divide tra acustica e banjo https://www.youtube.com/watch?v=iv2jTEXtwY0  e This Ol’ Town, scritta e cantata da Bowles, vira di nuovo in territori southern, con un suono tra Marshall e Allman, con una fantastica coda strumentale elettrica dove Shanks si scatena alla solista. Assai gradevoli anche gli arpeggi raffinati della bucolica Morgan Valley Mile che potrebbero ricordare i brani più riflessivi di Bruce Hornsby con i Range. In conclusione Barry Waldrep passa al claw hammer banjo per Coal Dust revenge, dove lo spirito folk e tradizionale prevale sul resto, con Burbridge addirittura al banjo bass (?!?) https://www.youtube.com/watch?v=LMnoZ-T5-dE . Se avete tempo e pazienza il disco vale la ricerca e contiene anche un DVD di 40 minuti.

Bruno Conti       

Cantautrice E Rocker Di Spessore. Romi Mayes – Devil On Both Shoulders

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Romi Mayes – Devil On Both Shoulders – Factor Records/Romi Mayes Music

Romi Mayes viene da Winnipeg, Canada (dove è molto popolare, anche a livello critico) e dopo un esordio poco considerato e ancor meno ascoltato, The Living Room Sessions Vol.1 (05) ( *NDB Per la verità, tra il 1997 e il 2004, ne erano usciti altri tre, ormai irreperibili!), sotto la produzione di Gurf Morlix incide un ottimo album di folk-roots Sweet Somethin’ Steady (08), con chiari riferimenti a Lucinda Williams (e non poteva essere altrimenti), trovando l’attenzione degli addetti ai lavori e una forte dimensione di cantautrice di “culto”, confermata poi con il seguente Achin In Yer Bones (09), un lavoro duro e sofferto (sempre prodotto da Morlix), con una miscela di brani blues, rock e country, che vengono certificati dal successivo Lucky Tonight (11), registrato in presa diretta dal vivo  http://discoclub.myblog.it/2011/06/30/ci-vuole-coraggio-romy-mayes-lucky-tonight/  con un gruppo elettrico guidato dal chitarrista Jay Nowicki (membro anche della rockin’ blues band The Perpetrators) dove Romi inizia un nuovo percorso, e dopo un silenzio abbastanza lungo eccola tornare con una band elettrica al completo per questo nuovo disco Devil On Both Shoulders, affidandosi alla produzione di Grant Siemens (degli Hurtin’ Albertans, che ammetto di non conoscere).

La Mayes ha riunito nei Private Ear Studios del suo paese natio una band tosta, con componenti di “glorie locali” tra i quali il citato Grant Siemens alle chitarre, Damon Mitchell alla batteria, Bernie Thiessen al basso, Marc Arnould alla tastiere, e con il contributo alle armonie vocali delle brave Alexa Dirks e Joanne Rodriguez, dando seguito al questo nuovo percorso con un lavoro assolutamente intrigante.

E lo si nota subito dall’iniziale title-track Devil On Both Shoulders, un moderno blues chitarristico, una canzone da cantare nelle notti d’estate lungo il delta del Mississippi, seguita dalle svisate sempre bluesy di una grintosa Monkey Of A Man, lo spettacolare impatto di Let You Down (figlia bastarda degli Stones) con i graffianti “riff” della Telecaster di Grant Siemens https://www.youtube.com/watch?v=co2iDJwEVtA , che fa da preludio ad una ballata che sembra sbucare dai solchi di un disco di Lucinda Williams, una Gonna Miss Me con la splendida voce di Romi in evidenza; troviamo ancora un tagliente blues come Bee Sting, dove il buon Grant si supera con un lavoro di chitarra degno del miglior Ry Cooder https://www.youtube.com/watch?v=JqhwaX0S8Mc. Con Soul Stealer Romi propone una variazione al tema, una sorta di “garage-blues” tutto scossoni e rasoiate di chitarra, mentre con Make Your Move si torna alla ballata confidenziale, prima di approdare ad una Low Light Lady con un ritmo che non sentivo dai tempi eroici della Tina Turner di quarant’anni fa e oltre https://www.youtube.com/watch?v=qDLJBB05BmE , quelli con Ike (anche se Beth Hart ultimamente…), mentre con Wonder How si torna al blues grezzo con violente sventagliate di roots-rock, andando a chiudere il cerchio con la meravigliosa ballad pianistica Walk Away (fin d’ora una delle canzoni dell’anno), cantata con grazia e la voce appena incrinata di Romi (forse troppe sigarette bruciate) https://www.youtube.com/watch?v=1vtJTz8Ar3Y , un brano che a chi scrive ricorda una cantante di cui purtroppo ho perso le tracce, tale Chi Coltrane.

Questa signorina, nella sua pur breve, ma non troppo, carriera, ha condiviso il palco con artisti del calibro di Levon Helm, Derek Trucks, Ricky Sgaggs, Jim Cuddy, Guy Clark, Sue Foley, Fred Eaglesmith, Joe Ely, Blackie & The Rodeo Kings, e molti altri, e questo Devil On Both Shoulders (per i pochi che conoscono la Mayes), nel seguire il suo percorso, è il classico disco che mi aspettavo, duro, sofferto, bluesy, ma anche dall’anima tenera, con alcune canzoni indimenticabili. Chiunque abbia a cuore i percorsi della buona musica, farebbe bene a tenere in considerazione Romi Mayes, il suo talento e la sua voce parlano per lei. Vivamente consigliato!

Tino Montanari