Un Disco Acustico “Elettrizzante”! Duke Robillard – The Acoustic Blues & Roots Of

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Duke Robillard – The Acoustic Blues & Roots Of – Dixiefrog/Stony Plain/Ird 

Duke Robillard, senza che ce lo stiamo a ricordare tutte le volte, ma giusto per rimarcare il fatto, è uno dei principali chitarristi blues americani, in pista da una cinquantina di anni, anche se l’esordio discografico con i Roomful Of Blues risale “solo” al 1978 e quello da solista al 1984. Da allora, abbastanza regolarmente, pubblica all’incirca un album all’anno, perlopiù Blues, ma ha anche provato strade più jazzate, swing, senza dimenticare tutte le altre sue passioni musicali, che come ci ricorda lui stesso nelle note di questo nuovo album sono molteplici: ragtime, Appalachian music, country, honky tonk, folk, soul, R&B, rock and roll, musica di New Orleans, tutti elementi che è possibile rilevare nei suoi album passati e ora anche in questo The Acoustic Blues & Roots Of, che come ci ricorda il titolo, per la prima volta esplora un suono più acustico e più raccolto. Però, essendo Robillard quello che è, non siamo di fronte al classico disco solo chitarra acustica e voce. Questi elementi sono ovviamente presenti e preminenti: sin dallo strumentale per sola chitarra acustica https://www.youtube.com/watch?v=xPUpSNVykUo , una versione della celebre My Old Kentucky Home di Stephen Foster, Robillard assume uno spirito (quasi) filologico alla Ry Cooder, quello che caratterizzava i dischi del grande Ryland negli anni ’70.

Big Bill Blues è proprio un blues anni ’20 di Big Bill Broonzy, con l’acustica di Duke affiancata dal piano di Matt McCabe, dal contrabbasso di Marty Ballou e dalla batteria di Mark Teixeira. Nella successiva I Miss My Baby In My Arms, che sembra sempre un brano di quell’epoca gloriosa, ma è un brano originale di Robillard, si aggiunge per una maggiore originalità anche il clarinetto di Billy Novick, ed il risultato è delizioso, molto old fashioned https://www.youtube.com/watch?v=1rllvlPBDqA . In Jimmie’s Texas Blues dalla sua variopinta collezione di strumenti estrae anche una vecchia chitarra dei primi del ‘900 e un dobro slide per interpretare un classico del grande Jimmie Rodgers, e per l’occasione si lancia anche in quello che assicura sarà l’unico tentativo di Yodel della sua carriera. Backyard Paradise, di nuovo con Novick al clarinetto vira verso un ragtime volutamente languido, mentre Evangeline, a parte i suoi, è l’unico brano che non ha almeno una cinquantina di anni, si tratta proprio del classico scritto da Robbie Robertson, famoso anche per la interpretazione di Emmylou Harris in Last Waltz, e quale migliore occasione per Duke, che si cimenta nuovamente a dobro e chitarra, con l’aggiunta di mandolino, basso e concertina, per (ri)proporci i talenti vocali della sua pupilla Sunny Crownover, molto efficace e calata nella parte della cantante country. Per Left Handed si torna al blues puro e al gruppo unplugged di Robillard si aggiunge l’armonica di Jerry Portnoy https://www.youtube.com/watch?v=ewoir8InkNA  e nella successiva I’d Rather Drink Muddy Water, altro blues anni ’30, il nostro suona tutti gli strumenti, con l’eccezione del contrabbasso con l’archetto che si produce in un assolo particolare.

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I’m Gonna Buy Me A Dog, di nuovo con Portnoy, viene da una registrazione Live effettuata per un DVD e nel sottotitolo ironico recita (To Take The Place Of You) https://www.youtube.com/watch?v=S4u10KpoZAc .Nashville Blues dei fratelli Delmore ci introduce ai talenti di Mary Flower, ottima interprete della lap steel e vocalist di pregio in un duetto delicato https://www.youtube.com/watch?v=mIKym2h1Ozc , Saint Louis Blues è proprio il celeberrimo brano di W.C. Handy che hanno fatto tutti, da Louis Armstrong in giù, quindi il buon Duke ha pensato, perché anche non io? Fa molto jazz, ma non guasta per nulla. Come la successiva What Is It That Tastes Like Gravy, un brano di Tampa Red, che profuma di blues pre-war e come le successive Someday Baby e Take A Little Walk With Me, era apparsa come bonus track nella versione europea dell’album Blues Mood, insieme ad altre quattro già citate, per un totale di sette tracce. In mezzo c’è Let’s Turn Back The Years, un brano di Hank Williams, che con il suo arrangiamento per mandolino, dobro ed acustica alza decisamente la quota country del’album  https://www.youtube.com/watch?v=Rs8fEc7GFXw . Che si avvia alla conclusione, con una divertente Santa Claus Baby, già apparsa in un CD natalizio, e cantata dalla bravissima Maria Muldaur, seguita da un omaggio al suono di Charlie Christian con una Profoundly Blues che è l’occasione per un duetto con il grande jazzista Jay McShann al piano e per concludere una brevissima Ukulele Swing, che ci conferma che Duke Robillard è un grande virtuoso a qualsiasi strumento a corda gli capiti tra le mani. Come sapete lo preferisco elettrico, ma questo dischetto è veramente piacevolissimo!

Bruno Conti

Uno Dei Tanti “Piccoli Segreti” Musicali Americani, Può Sbagliarsi John Fogerty? Bob Malone – Mojo Deluxe

bob malone mojo deluxe

Bob Malone – Mojo Deluxe – Delta Moon 

Un altro dei tanti piccoli “segreti” della scena musicale indipendente americana: si chiama Bob Malone, è nato nel New Jersey, ha studiato al Berklee College Of Music e vive in California, suona le tastiere nella band di John Fogerty dal 2010, ha già otto album solisti al suo attivo, compreso questo Mojo Deluxe. Che altro? Ah, il disco è assolutamente delizioso, quegli album dove si mescolano Rhythm & Blues, soul, rock, uno stile da cantautore a tutto tondo, con tocchi “indolenti” alla Randy Newman, Dr. John o il miglior AJ Croce, uniti al gusto per le belle canzoni, un florilegio di tastiere, piano elettrico Wurlitzer e clavinet, piano a coda, organo Hammond, se serve la fisarmonica: in più è in possesso di una voce espressiva, duttile e vibrante, in grado di districarsi tanto in una morbida ballata, quanto in un rock tirato, o in un blues sporco e cattivo https://www.youtube.com/watch?v=GQUYRVsM2m8 . Non bastasse tutto questo si circonda di ottimi musicisti, a partire da Kenny Aronoff, batterista dal tocco poderoso e compagno di avventura nella band di Fogerty, presente solo nell’iniziale Certain Distance, un bel rock deciso a trazione blues con in evidenza la chitarra, anche slide, del produttore Bob De Marco, che è l’altro grande protagonista del disco e potrebbe essere il Lowell George della situazione, di fronte al Bill Payne impersonato da Malone (perché c’è anche questo aspetto Little Featiano nel suono, in piccolo e con i dovuti distinguo, ma c’è).

Oltre ad Aronoff  sullo sgabello del batterista troviamo l’ottimo Mike Baird, un veterano che ha suonato con tutti, (dai Beach Boys a Joe Cocker e persino nella colonna sonora di Saturday Night Fever e anche una veloce comparsata con Dylan in Silvio), Jeff Dean e Tim Lefebvre si dividono il compito al basso, Stan Behrens (War e Tom Freund) con la sua armonica aggiunge un tocco bluesy alle procedure e, di tanto in tanto, una sezione fiati e un nutrito gruppo di voci femminili aggiungono un supporto speziato al variegato suono del disco. Che è uno dei tanti pregi del disco: dal vivace e tirato rock-blues dell’iniziale Certain Distance, con Aronoff che picchia di gusto, armonica, chitarre e tastiere si dividono gli spazi solisti, la voce di Malone è grintosa e ben supportata dalle armonie vocali di Lavone Seetal e Karen Nash, per un notevole risultato d’insieme. Ambiente sonoro blues confermato nella successiva Toxic Love, più felpata e d’atmosfera, con piano elettrico, un dobro slide e l’armonica che creano sonorità molto New Orleans, sporcate dal rock. Anche le scelta delle cover è quasi “scientifica”: Hard Times di Ray Charles, oscilla sempre tra il classico ondeggiare del “genius” e ballate pianistiche à la Randy Newman, con De Marco che ci regala un breve e scintillante solo di chitarra e Malone che canta veramente alla grande. Anche I’m Not Fine, va di funky groove, con piani elettrici ovunque e il solito bel supporto vocale delle coriste, e De Marco e Malone che aggiungono tanti piccoli ricercati particolari sonori.

Paris è una bellissima ballata pianistica, malinconica e sognante, con il tocco della fisarmonica sullo sfondo, contrabbasso e archi a colorare il suono, elettrica con e-bow e percussioni ad ampliare lo spettro sonoro, e la voce vissuta di Malone a navigare sul tutto, un gioiellino. Eccellente anche Looking For The Blues, di nuovo New Orleans style con fiati scuola Dr.John, ma anche quei pezzi movimentati tra R&B e rock del vecchio Leon Russell o di Joe Cocker, e la slide, questa volta nelle mani di Marty Rifkin, è il tocco in più, oltre alle solite scatenate ragazze ai cori. E anche Rage And Cigarettes, con i suoi sette minuti il brano più lungo, ha sempre quel mélange di R&B, rock e blues, tutti meticciati insieme dalla vocalità quasi nera di Malone che al solito divide gli spazi strumentali con l’ottima chitarra di De Marco https://www.youtube.com/watch?v=iSOdsWsVwqo . Il “vero” blues è omaggiato in una rilettura notturna della classica She Moves Me, solo piano, armonica, contrabbasso e percussioni, per un Muddy Waters d’annata.

Don’t Threaten Me (With A Good Time) di nuovo con un funky clavinet e una sezione fiati pimpante, oltre alla solita chitarra tagliente e al pianino folleggiante di Malone, ricorda di nuovo quello stile in cui erano maestri i citati Leon Russell e Joe Cocker una quarantina di anni fa, rock blues and soul. Di nuovo tempo di ballate con Watching Over Me che potrebbe essere uno dei brani meravigliosi dell’Elton John “americano”, delizioso, quasi una outtake da Tumbleeweed Connection. Chinese Algebra, un boogie rock strumentale scatenato, potrebbero essere quasi i Little Feat in trasferta a New Orleans, con il vorticoso pianismo di Malone in primo piano e per concludere in bellezza un’altra ballatona ricca di pathos come Can’t Get There From Here, altra piccola meraviglia di equilibri sonori come tutto in questo sorprendente album. Grande voce, ottimi musicisti, belle canzoni, che volete di più?

Bruno Conti  

Tre Album Belli Di Fila Non Sono Un Caso, Ormai E’ Uno Dei “Nostri”! Tom Jones – Long Lost Suitcase

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Tom Jones – Long Lost Suitcase – Virgin/EMI CD

Thomas Jones Woodward, meglio conosciuto come Tom Jones, a settant’anni suonati (75, per la precisione) si è finalmente deciso a fare musica come si deve. Per più di cinque decenni infatti il cantante gallese ha messo la sua formidabile voce al servizio di canzonette pop di poco conto ( non sempre), che hanno sicuramente contribuito a portare il suo conto in banca a livelli notevoli, ma lo hanno sempre reso indigesto ai veri music lovers, perdendo poi anche una buona parte di dignità a inizio secolo con il suo comeback nelle classifiche grazie allo strepitoso successo della pessima Sex Bomb, dopo che ormai buona parte del pubblico lo riteneva artisticamente sepolto in quel cimitero degli elefanti che può essere per certi artisti Las Vegas. Poi, nel 2010, il clamoroso colpo di coda con l’ottimo Praise & Blame, un bellissimo disco nel quale Tom esplorava le sue radici folk, blues e gospel con un suono spoglio ed in gran parte acustico, con Ethan Johns (figlio del grande Glyn) in cabina di regia: un disco in cui il nostro dava nuova linfa a brani della tradizione più profonda, ai quali affiancava covers (Tom è sempre stato un interprete più che un autore) di gente come Bob Dylan, Billy Joe Shaver e Pops Staples.

Una metamorfosi che aveva dell’incredibile, con Johns nei panni di quello che Rick Rubin è stato per Johnny Cash nell’ultimo periodo della carriera dell’Uomo in Nero (che però non aveva mai smesso di fare buona musica, ma veniva soltanto da uno sfortunatissimo periodo alla Mercury, dopo essere stato lasciato a casa negli anni ottanta dalla Columbia) e, in parte, per Neil Diamond (gli album 12 Songs e Home Before Dark), che invece non aveva mai avuto un problema di vendite o di bontà nel songwriting, ma semmai di arrangiamenti gonfi e ridondanti e attitudine da superstar (del tipo “Io sono Neil Diamond e voi non siete un c****!”). La reazione a Praise & Blame fu tale che Tom nel 2012 bissò con l’altrettanto valido Spirit In The Room, che con lo stesso tipo di arrangiamenti essenziali prendeva in considerazione più che altro autori contemporanei (ancora Dylan, Tom Waits, Leonard Cohen, Paul McCartney, Paul Simon, Richard Thompson) ed anche talenti più recenti del calibro di Joe Henry e dei bravi Low Anthem. Ora Tom completa quella che può sembrare una trilogia con l’eccellente Long Lost Suitcase (che viene proposto come il CD di accompagnamento alla nuovissima autobiografia del gallese), un nuovo, bellissimo lavoro che dopo appena un paio di ascolti si rivela perfino superiore ai due precedenti.

Sempre prodotto da Johns Jr., Long Lost Suitcase vede il solito schema, cioè Jones che riprende classici del presente e del passato che hanno avuto una qualche influenza su di lui, ma stavolta con una maggiore propensione elettrica e diversi omaggi al blues (ma folk e anche qualcosa di country non mancano). Tom ha sempre una voce straordinaria nonostante i 75 anni (e l’età gli ha conferito anche un feeling che, repertorio commerciale a parte, in passato non aveva mai palesato), ha ormai trovato la sua dimensione ideale in queste interpretazioni, e Johns è il suo perfetto alter ego: in questo CD c’è molto blues come ho già accennato, ma anche più chitarre ed una sezione ritmica che si fa sentire in misura maggiore rispetto ai due album precedenti, decisamente più folk oriented. I musicisti presenti nel disco non sono molti: a parte Johns, che suona un po’ di tutto, abbiamo l’ottimo Fiachra Cunningham al violino, il noto chitarrista Andy Fairweather-Low (Eric Clapton, Roger Waters, ecc.) alla ritmica, Jeremy Stacey alla batteria, mentre al basso si alternano Ian Jennings e Dave Bronze.

L’album si apre con un pezzo poco noto di Willie Nelson, Opportunity To Cry (era su Pancho & Lefty, il disco del 1983 con Merle Haggard): la melodia è tipica del barbuto countryman texano, e l’arrangiamento spartano non fa che rendere giustizia al brano, con Tom che vocalmente si allinea alle performance da brivido di Willie. Honey Honey è la prima scelta sorprendente, un brano dei Milk Carton Kids, riproposto come se fosse un bluegrass di quando Tom aveva sì e no dieci anni, con banjo e violino a dettare legge e la brava irlandese Imelda May alla seconda voce; Take My Love (I Want To Give It) è il primo blues del CD (di Little Willie John), un giro classico, cantato in maniera potente dal gallese e la band che lo accompagna in maniera tesa ed elettrica, con un bel assolo centrale di Ethan. La nota Bring It On Home (Sonny Boy Williamson, ma anche Led Zeppelin) mantiene il disco in territori blues, con il gruppo che qui è molto più discreto e lascia campo libero alla voce di Tom, il quale si comporta come il più consumato dei bluesman; Everybody Loves A Train è un’altra bella scelta trasversale, un brano poco noto dei Los Lobos (era su Colossal Head, forse il disco più ermetico dei Lupi): Tom con la voce fa ciò che vuole, inizia parlando, quasi gigioneggia, poi nel refrain si lascia andare in tutta la sua potenza, mentre la band commenta in maniera quasi sporca, in pieno stile Lobos.

Nella sua biografia Jones darà sicuramente spazio anche ad Elvis Presley (nel booklet del CD è ritratto insieme a lui e Priscilla), ma invece di scegliere un brano del King opta per Elvis Presley Blues di Gillian Welch, offrendone un’interpretazione sofferta, drammatica, quasi alla Odetta, con Johns che lo circonda con una chitarra vibrata al limite della distorsione: quasi impensabile pensare che stiamo parlando dello stesso personaggio che cantava Delilah. Ed eccoci all’high point del disco (a mio parere): He Was A Friend Of Mine è un pezzo inciso da molti in passato, soprattutto in ambito folk (di Dave Van Ronk la versione più nota, ma anche Dylan la cantava spesso nelle coffeehouses del Village), e qui troviamo solo Tom ed Ehtan con la slide acustica, con il nostro che tira fuori una performance da pelle d’oca, al limite della commozione, sentire per credere. Factory Girl è proprio quella dei Rolling Stones, e qui Jones rispetta la melodia originale (ma che voce) e Johns la riveste di sonorità decisamente bucoliche, mentre con I Wish You Would (Billy Boy Arnold) si torna al blues ruspante, con una versione spedita e roccata, molto anni sessanta, ed una serie di assoli quasi ipnotici.

‘Til My Back Ain’t Got No Bone (di Eddie Floyd, l’ha fatta anche Albert King) rimane in zona blues, ma in maniera più tranquilla, con la solita voce che si staglia imperiosa; Why Don’ You Love Me Like You Used To Do? è un noto brano di Hank Williams, che vede Tom divertirsi con una interpretazione gioiosa e solare, in linea con l’originale, dandoci una delle prove più godibili del disco, quasi non avesse fatto altro che country nella sua carriera. L’album si chiude con la famosa Tomorrow Night (Lonnie Johnson, ma anche Elvis e Dylan), qui in veste jazz afterhours, molto raffinata, e con la deliziosa e countreggiante Raise A Ruckus, un traditional che hanno rifatto in mille, da Jesse Fuller a Uncle Earl, passando per Bill Kirchen e gli Old Crow Medicine Show.

Tom Jones è definitivamente rinsavito (meglio tardi che mai), e Long Lost Suitcase è indubbiamente uno dei dischi più belli del 2015.

Marco Verdi

Serata Ad Alta Gradazione, In Tutti I Sensi! Johnny Winter – My Father’s Place, Old Roslyn, NY, September 8th 1978

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Johnny Winter – My Father’s Place, Old Roslyn, NY, September 8th 1978 – 3 CD Air Cuts

Alcune veloci considerazioni. Johnny Winter ha avuto per alcuni anni una propria Bootleg Series, che sembra essersi interrotta dopo la morte avvenuta lo scorso anno. La serie, curata da Paul Nelson, non ha mai brillato né per l’accuratezza delle note e neppure, spesso, per la qualità sonora dei dischi http://discoclub.myblog.it/2014/10/05/anche-la-morte-prosegue-serie-infinita-johnny-winter-live-bootleg-series-vol-11/ . E in ogni caso, negli anni, sono stati (ri)pubblicati vari dischi dal vivo ufficiali fenomenali, penso al Woodstock completo, al concerto del Fillmore East del 1970 http://discoclub.myblog.it/tag/johnny-winter-and/  e al Rockpalast del 1979 http://discoclub.myblog.it/2011/04/12/non-c-il-due-senza-il-tre/ . I rappresentanti della categoria “bootleggers roll your tapes”, come li chiamava il nostro vecchio caro Boss, si sono interessati pure alla produzione dell’albino texano, con risultati altalenanti, ma questo concerto del 1978 al My Father’s di New York è veramente interessante. Intanto siamo di fronte ad un concerto completo in 3 CD, e non ci sono fregature. Quando ho visto l’involucro esterno con la scritta tre CD, poi ho letto la lista dei brani, tredici, compresi i credits finali, mi sono detto, andiamo bene, altro “finto” cofanetto! E invece la durata media dei brani è sui 20 minuti a brano, con un paio “solo” sui 15 e un medley che supera la mezz’ora. Tra l’altro il concerto, registrato per l’emittente radiofonica WLIR-FM di New York, è inciso decisamente bene, qualche problema tecnico qui e là, ma qualità sonora notevole, migliore di molti dischi ufficiali.

Ma dove sta l’inghippo allora, perché è impossibile non ci sia? Come dicono gli americani, con termine elegante, il buon Johnny Winter è “inebriated”, e anche noi italiani abbiamo il termine adatto, “ubriaco perso”, però niente paura perché il musicista texano suona lo stesso alla grandissima, l’unico problema è che tra un brano e l’altro, e ogni tanto anche all’interno dei brani, infila lunghi discorsi sconnessi di parecchi minuti che fanno scendere la tensione del concerto, senza pregiudicarne il valore storico che rimane notevole. I tipi della Air Cuts annunciano orgogliosamente nel retrocopertina che all’interno del CD ci sono cospicue note e rare foto: ora se vogliamo considerare come note un articolo del NME, peraltro del dicembre 1977, e le due foto sono quelle fronte e retro, il tutto corrisponde alla verità. Comunque alla fine, come diceva Totò, sono “quisquilie e pinzillacchere”, perché il concerto è veramente notevole: intanto sappiamo (e nelle bootleg series non era mai riportat)o che in questo concerto abbiamo Jon Paris, a basso, armonica e voce, e Bobby Torello alla batteria, la serata è per promuovere il recentissimo album White, Hot & Blue, appena pubblicato ad agosto del 1978. Ed il repertorio è di prima scelta: prima una lunghissima versione, fantastica, di Hideaway, lo strumentale di Freddie King, con Winter che esplora in lungo e in largo la sua chitarra con classe ed inventiva, poi un altro brano sempre di King, Sen-sha-sun, riportato sulla copertina come Sensation, ma quello è, sempre con Johnny ai vertici assoluti del blues e del rock, poi, a seguire, dopo una presentazione sconnessa, un’altra lunghissima perla come Last Night, brano dal repertorio di Howlin’ Wolf che era sull’album appena uscito, blues allo stato puro con Jon Paris all’armonica che aggiunge autenticità e pathos a questa lunga versione che sfiora i venti minuti, discorsi a vuoto compresi e con un’improvvisa scomparsa della musica verso gli undici minuti del brano, che sfuma e poi riappare.

Sempre nel primo CD c’è una versione formidabile di Bony Maronie, presentata come la più lunga mai registrata, ma anche una delle più selvagge e variegate, anche qui sfumata e poi ripresa al volo (nessuno è perfetto). Secondo CD aperto da una chilometrica Susie Q, con Winter che nonostante le quantità ingerite di alcol tiene benissimo il palco e suona come solo lui sa fare, poi nel finale sbarella leggermente (per usare un eufemismo) ma si riprende per Come On My Kitchen di Robert Johnson, dove è tempo di slide, e qui si apprezza tutta la maestria del maestro del bottleneck. Sempre da White, Hot And Blue una Walking By Myself, di nuovo con Paris all’armonica, che è un altro classico del blues. L’ultimo CD si apre con Wipe Out dei Surfaris, divisa in due parti, con assolo di batteria di Torello annesso, prima di passare il microfono a Paris per un altro classico del R&R come Rave On, solo quattro minuti. A seguire una scintillante Everyday I Have The Blues, dove a un certo punto Winter si perde nella nube alcolica (e questo è il guaio della serata), ma si riprende per concludere il tutto con un Country Blues Medley che totalizza oltre 31 minuti e comprende Mississippi Blues, Kind Hearted Woman e Me And The Devil, che viene portato a termine, nonostante varie divagazioni, con buoni risultati. “Esagerato”, ma assai interessante, nel complesso.

Visto che non ci sono in rete video o audio del 1978 ho inserito un paio di concerti di potenziale interesse che se non sono già usciti vedo bene come candidati per future pubblicazioni semiufficiali (entrambi con Torello e Paris); bello anche il Muddy Waters a Chicago del 1981, con ospite Johnny Winter.

Bruno Conti

Regalo Ai Fans O Precisa Strategia Commerciale? Intanto E’ Sempre Grande Musica! The Decemberists – Florasongs EP

decemberists florasongs

The Decemberists – Florasongs EP – Capitol CD

Uno dei dischi più belli del 2015 è senz’altro What A Terrible World, What A Beautiful World dei Decemberists http://discoclub.myblog.it/2015/01/20/piu-che-terribile-bellissimo-il-disco-decemberists-what-terrible-world-what-beautiful-world/ , un album che, nonostante sia uscito nell’ormai lontano mese di Gennaio, di sicuro ritroveremo in molte classifiche dei dieci album dell’anno (vi do un’anteprima: nella mia ci sarà). Il quintetto di Portland, Oregon, guidato dal geniale Colin Meloy (ricordo doverosamente anche gli altri: Chris Funk, Jenny Conlee, Nate Query e John Moen) è infatti ormai diventata una band sulla quale puntare, e con buone probabilità di sicurezza che ogni loro uscita discografica sarà un must. Il gruppo infatti cresce di lavoro in lavoro, e con What A Terrible World (eccetera) ha, a mio giudizio, trovato il giusto equilibrio tra rock, pop, folk e Americana, migliorando ulteriormente il già ottimo The King Is Dead del 2011 , e anche il pubblico americano ha tributato al gruppo il meritato successo mandando il disco nella Top Ten (ma il CD precedente aveva fatto ancora meglio, arrivando addirittura al numero uno). Il suono scintillante, la perfetta intesa tra i membri del gruppo, le armonie vocali e l’abilità di Meloy come songwriter hanno fatto dei Decemberists una delle band che meritano l’acquisto a scatola chiusa, e personalmente sono stato molto felice quando è uscito questo Florasongs, un EP di cinque canzoni partorite nelle stesse sessions del disco uscito a Gennaio (e prodotto anch’esso dai nostri con Tucker Martine). In realtà, come insinuo nel titolo del post, comincio a pensare che ci sia una strategia dietro a pubblicazioni come questa: non dimentichiamo infatti che anche nel 2011 a The King Is Dead era seguito nello stesso anno il mini CD Long Live The King http://discoclub.myblog.it/2011/11/06/la-band-dell-anno-the-decemberists-long-live-the-king/ , e con le stesse tempistiche (disco a Gennaio, EP in autunno), per non parlare del fatto che anche nel 2005 era successa la stessa cosa (Picaresque il CD, Picaresqueties l’EP); siccome due uscite separate nello stesso anno costano ben più di un solo CD con magari più canzoni…a pensar male si fa peccato, ma…

A parte queste considerazioni a sfondo mercantile, ciò che conta è il contenuto, ed il contenuto di Florasongs è davvero sublime, con almeno quattro quinti dei brani che non solo non avrebbero sfigurato all’interno di What A Terrible World, ma ne avrebbero addirittura aumentato il già alto valore: Meloy e soci sono ormai diventati una macchina da canzoni quasi perfetta, e con Florasongs ci regalano una ventina di minuti di grande musica nel loro stile, con l’unico problema che alla fine del mini CD ne vorremmo sentire ancora. Why Would I Now? è un limpido folk-rock con le tipiche melodie ad ampio respiro del quintetto, con accenni byrdsiani ed un suono che sembra appartenere più a The King Is Dead che all’ultimo CD. Splendida, e avrebbe dovuto stare sull’album. Riverswim ha un inizio molto evocativo, dove spiccano la chitarra acustica ed una calda fisarmonica, ed il brano è uno slow dal grande pathos, nel quale anche il pianoforte assume un ruolo importante (per non parlare del delizioso finale strumentale): anche questa è ben più di una outtake.

Fits And Starts cambia decisamente registro, un rock’n’roll molto elettrico e dal ritmo sostenuto, con sonorità quasi garage: non i Decemberists che siamo abituati a sentire, ma il risultato è comunque credibile e dà la giusta scossa di adrenalina; The Harrowed And The Haunted è stupenda, una canzone di grande impatto, che propone quella miscela di Americana e pop in cui i nostri stanno diventando dei maestri, con una melodia straordinaria ed un refrain emozionante: sicuramente il brano migliore dell’EP, ma forse lo sarebbe stato anche su What A Terrible WorldStateside chiude il dischetto (peccato non poterne ascoltare di più) con una nota malinconica, un pezzo che si basa solo sulla voce di Meloy e sulla sua chitarra elettrica, circondate da rilassanti rumori ambientali.

Un piccolo grande disco, che se possedete già What A Terrible World, What A Beautiful World diventa indispensabile.

Marco Verdi

E’ Una Delle “Girls With Guitars”, Ma Suona Il Basso! Heather Crosse – Groovin’ At The Crosse Roads

heather crosse - groovin' at the crosse roads

Heather Crosse – Groovin’ At The Crosse Roads – Ruf Records/Ird 

Heather Crosse è al suo secondo album del 2015, il primo è uno sforzo di gruppo, come componente delle Girls With Guitars – Blues Caravan 2015, con l’italiana Eliana Cargnelutti e la compatriota Sadie Johnson, che sono le due vere “ragazze con le chitarre”, per Heather dovremmo dire “girl with bass”, in quanto siamo di fronte ad una bassista, e pure di quelle brave, oltre che ottima cantante dalla voce duttile e molto adattabile a generi diversi. Nel disco in trio il sound è decisamente più rock, oltre ai pezzi firmate dalle tre ragazze ci sono cover di Tush degli ZZ Top https://www.youtube.com/watch?v=gENAaIDwlkI , brani di Dave Mason (la celeberrima Feelin’ Alright) e Joan Jett, mentre nel primo album solista di Heather Crosse (sempre prodotto da Jim Gaines, che come sapete chi scrive non ama alla follia, ma in questo caso ha fatto un ottimo lavoro) si vira decisamente sul blues, ma sempre tenendo conto di una forte componente soul e R&B. La nostra amica è nata in Louisiana, ma ormai da qualche anno vive a Clarksdale, Mississippi, una delle culle del blues, dove da otto anni con la sua band Heavy Suga’ & the SweeTones accompagna artisti come Bob Margolin, Guitar Shorty, Jody Williams e James “Super Chikan” Johnson, quando passano in città.

Questo Groovin’ At The Crosse Roads, undici brani, 40 minuti di musica, è un bel biglietto da visita per la musicista americana: accompagnata dalla sua band abituale, Lee Williams alla batteria, Mark Yacovone (conoscevo Seth Yacovone, ma quello è un chitarrista) alle tastiere e  Dan Smith alle chitarre, gente di valore che ha suonato con BB King, Kenny Brown, Maria Muldaur, Anson Funderburgh, Smokin’ Joe Kubek e altri, con un repertorio che comprende cinque brani composti da Heather e sei cover di brani non celeberrimi ma che illustrano anche il suo passato di appassionata, oltre che di blues anche di musica Motown (forse da lì la decisione di diventare una bassista) oltre che di soul music e R&B, con pezzi scelti per esempio dal repertorio di Etta James, una gagliarda Damn Your Eyes, un bel esempio di buona musica soul sudista, con basso e batteria essenziali ma di gran classe, ma anche un raffinato lavoro di chitarra solista, piano e organo Hammond che evidenziano le componenti blues, mentre Heather dà tutto quello che ha nel reparto vocale (ovviamente la James e le grandi cantanti soul hanno ben altro spessore ma la ragazza si difende con onore). Ogni tanto si sfiora il plagio, Steppin’ Up Strong, firmato dalla Crosse ha un giro di accordi che ricorda molto quello di People Get Ready, ma si sa le note sono sette e comunque l’arrangiamento, con una chitarra limpida e sgargiante che ricorda il miglior Mark Knopfler degli inizi, oltre all’organo sudista e ai coretti deliziosi, fanno sì che il tutto si ascolti con gran piacere e poi lei canta veramente bene, mi ricorda un poco la texana Toni Price (che non fa dischi da tempo, ho controllato oggi, siamo sempre fermi al 2010, in attesa dell’originale un buon surrogato) con la giusta grinta e un cantato essenziale ma di spessore.

Rockin’ Chair è stato un successo del soul morbido di metà anni ’70 per Gwen McRae, un brano solare e leggero dal ritmo irresistibile, veramente adorabile con le sue chitarrine choppate, coretti pre-disco e organo hammond d’ordinanza, e pure Hurryin’ Up To Relax ha questa aria laid-back che ti predispone al buon umore, piano elettrico e organo perfetti e poi sempre con quella chitarrina che si insinua sotto pelle. Ma anche quando Heather Crosse vira sul blues i risultati sono assolutamente all’altezza: My Man Called Me era un vecchio pezzo del repertorio di Big Mama Thornton e anche se quei livelli sono lontani, lo spirito del blues non manca in questa versione molto swingata. E pure quando si cimenta con pezzi propri, come nell’ottima Walkin’ In Their Shoes si sente che la Crosse ha il blues nel sangue e Yacovone alle tastiere e Smith alle chitarre, anche slide, sono musicisti di indubbio valore https://www.youtube.com/watch?v=xiOzkZeLmDw . Non manca anche l’autoironia come nella divertente e ritmata Why Does A Woman Need A Bass Guitar, dove dimostra pure la propria abilità allo strumento. Nella parte blues da ricordare ancora una decisa Clarksdale Shuffle che tiene fede al titolo, una Bad Boy Kiss virata funky, un altro shuffle deciso come Call On Me e You Don’t Move No More altro pezzo dal songbook della Thornton, dove la Masse estrae il meglio dalla sua ugola con risultati decisamente confortanti.

Bruno Conti

Il Ritorno (E Forse Commiato) Di Un Grande! Donnie Fritts – Oh My Goodness

donnie fritts oh my goodness

Donnie Fritts – Oh My Goodness – Single Lock CD

Donnie Fritts, ultrasettantenne musicista dell’Alabama, è un pezzo di storia della musica. Sessionman, tastierista, autore, Fritts è stato, dalla fine degli anni sessanta in poi, tra i maggiori responsabili del mitico Muscle Shoals Sound, dal nome dei famosi studi di Sheffield (Alabama) dai quali è passata la crema del rock americano e non, insieme a luminari del calibro di Dan Penn, Billy Sherrill, David Briggs, Robert Putnam, Jerry Wexler, Spooner Oldham, Tony Joe White, David Hood e Barry Beckett, solo per citare i più noti, un suono caldo con marcati elementi soul ed un grande uso dell’organo, con variazioni talvolta funky, talvolta quasi country, sound che all’epoca diventò un vero marchio di fabbrica. Come pianista ed organista il suo nome è legato a doppio filo a quello di Kris Kristofferson, per il quale ha suonato per circa quarant’anni, mentre come autore ha scritto, da solo o in coppia con altri, alcuni brani diventati dei veri e propri classici, tra cui Adios Amigos (Arthur Alexander), Breakfast In Bed (Dusty Springfield) e soprattutto, insieme a Troy Seals (un’altra mezza leggenda), We Had It All, incisa per primo da Waylon Jennings ma in seguito anche da gente come Ray Charles, Willie Nelson, Rolling Stones (è nella ristampa deluxe di Some Girls https://www.youtube.com/watch?v=4mJ6aZ3Bj7c ), Rod Stewart e Dolly Parton, oltre ad essere stata suonata dal vivo per una trentina di volte da Bob Dylan durante la sua tournée con Tom Petty negli anni ottanta.

Fritts non ha inciso molto a suo nome, solo tre dischi in quaranta anni (Prone To Lean nel 1974, l’ottimo Everybody’s Got A Song nel 1997, con ospiti del calibro di John Prine, Willie Nelson, Waylon, Kristofferson, Tony Joe White e Delbert McClinton, e One Foot In The Groove nel 2008), e pertanto questo nuovissimo Oh My Goodness, uscito un po’ a sorpresa, è da considerarsi un piccolo evento, impreziosito dal fatto che il disco risulta decisamente buono. Donnie ha prodotto l’album insieme al tastierista Ben Tanner ed a John Paul White, ex dei Civil Wars https://www.youtube.com/watch?v=GYBaUU34iy4 , il quale ha fatto un lavoro eccelso, mettendo la voce di Fritts (non perfetta, ma particolare e comunicativa sì) al centro di tutto, e rivestendola con pochi e selezionati strumenti, lasciando uscire quindi l’essenza delle canzoni. Un disco composto per lo più da ballate, arrangiate in maniera semplice e classica, e che mette spesso da parte l’elemento sudista (sempre comunque presente) in favore di un’atmosfera più intimista, risultando certamente tra i lavori di Donnie quello più personale (i brani sono quasi tutti scritti da lui, alcuni decenni fa e alcuni oggi, ma c’è spazio anche per qualche selezionata cover).

Anche gli ospiti speciali (e ce ne sono: John Prine, Brittany Howard degli Alabama Shakes, le Secret Sisters, ovvero Laura e Lydia Rogers, Jason Isbell ed il chitarrista Reggie Young) non si prendono mai il centro della scena, ma si mettono a completa disposizione delle canzoni, rendendo il giusto omaggio ad un musicista d’altri tempi. L’album si apre con Errol Flynn, una canzone poco nota di Amanda McBroom, una toccante ballata dall’arrangiamento spoglio ma di grande effetto, solo un wurlitzer, la chitarra acustica, qualche fiato e la voce vissuta di Donnie https://www.youtube.com/watch?v=4Fj5NXCQJy0 . La splendida If It’s Really Gotta Be This Way, di Donnie e Arthur Alexander https://www.youtube.com/watch?v=4ELdcxo9Px0 , rivive in questa nuova versione, con la melodia eccellente che spicca in mezzo ad un arrangiamento di grande impatto emotivo, con un bel quartetto d’archi che aggiunge il giusto pathos. Memphis Women And Chicken è un noto brano di Fritts e Dan Penn, e qui il caldo suono dell’Alabama fa finalmente la sua comparsa, un country-blues elettrico dal timbro decisamente sudista e con la chitarra “paludosa” di Bryan Farris; The Oldest Baby In The World, scritta dal nostro insieme a Prine (che suona anche l’acustica) è una folk ballad pura, che ha il passo e lo stile del grande cantautore di Chicago, alla quale il piano elettrico di Donnie aggiunge l’”Alabama touch”.

Tuscaloosa 1962 è una gustosa rock song rurale, sullo stile delle ultime cose di Levon Helm, con graditi interventi di Isbell alla slide; Them Old Love Songs, solo voce, piano, basso e le sorelle Rogers, è un altro lento pieno d’anima, cantato con feeling dalla voce quasi spezzata del nostro, mentre Foolish Heart (di Jesse Winchester), sempre guidata dal wurlitzer di Donnie, è trasformata in un pezzo quasi dixieland grazie al sapiente uso dei fiati. Lay It Down è la signature song del semisconosciuto Gene Thomas (ed incisa tra gli altri da Waylon e dagli Everly Brothers), ed è un’ altra emozionante slow tune: è anche il brano tra tutti con più strumenti (chitarre, archi, fiati), ma usati con senso della misura e grande classe https://www.youtube.com/watch?v=gtmfPKwgKmg ; la mossa Good As New dà un po’ di verve ad un album che predilige i ritmi lenti (ottima qui la parte strumentale); Temporarily Forever Mine, una canzone del bravo Paul Thorn, è un altro slow suonato in punta di dita e cantato in maniera diretta. Il CD si chiude con la grintosa e ritmata Choo Choo Train (*NDB: si tratta del celebre brano dei Box Tops di Alex Chilton, scritta con Eddie Hinton) e la toccante title track, solo Donnie alla voce ed il vecchio compare Spooner Oldham al piano, un finale di sicuro effetto.

Dai ringraziamenti stampati nel libretto interno al disco sembrerebbe che Oh My Goodness possa essere l’ultimo lavoro per Donnie Fritts (ed è credibile vista l’età e la regolarità con cui incide): se così fosse, sarebbe il migliore dei commiati.

Marco Verdi

Novità Di Fine Ottobre, Inizio Novembre, Una Selezione. Drive By Truckers, Cowboy Junkies, Natalie Merchant, Tributo A Ewan MacColl, Billy Gibbons, Steve Forbert

cowboy junkies notes falling slow

Eccoci allo sguardo periodico sulle uscite più interessanti del periodo che già non sono state oggetto di spazi specifici a loro dedicati (vedi Dylan, Van Morrison, i box di Otis Redding, Aretha Franklin, Paul Butterfield, i due dei Velvet Underground, Beatles, Bruce Springsteen, Lou Reed, Ryan Adams), di cui potete leggere andando a ritroso cronologicamente nei Post. Molte novità sono trattate, di volta in volta, con dovizia di particolari e recensioni approfondite, ma queste anticipazioni rimangono una delle rubriche più lette del Blog. Partiamo con il cofanetto dei Cowboy Junkies Notes Falling Slow.

Si tratta di un box di quattro CD, ma, come ci ha già abituato Michael Timmins in passato (vedi le Nomad Series) si tratta di materiale già pubblicato, vale a dire i tre album Open, One Soul Now, At The End Of Paths Taken,  a cui si aggiunge un quarto album di canzoni composte durante la lavorazione di quei dischi, ma registrate appositamente per questo progetto. Quindi ancora una volta si corre il rischio di ricomprare per l’ennesima volta CD che uno già possiede per avere l’unico disco inedito. Diciamo che il lato positivo è che il cofanetto dovrebbe costare (da quello che ho visto) poco più di un disco singolo, massimo un doppio, anche se la reperibilità non sarà massima: esce il 30 ottobre su Latent in Canada e su Razor And Tie negli Stati Uniti (in Europa Cooking Vinyl). Comunque questo è il contenuto, così controllate quello che già avete e decidete se fare l’investimento:

Tracklist
[CD1] Open
1. I Did it All For You
2. Dragging Hooks, River Song Trilogy, Part III ft. Michael Timmins, Margo Timmins, Alan Anton
3. Bread and Wine
4. Upon Still Waters ft. Michael Timmins, Alan Anton
5. Dark Hole Again
6. Thousand Year Prayer
7. I’m So Open
8. Small Swift Birds
9. Beneath The Gate
10. Close My Eyes

[CD2] One Soul Now
1. One Soul Now
2. Why This One
3. My Wild Child
4. From Hunting Ground To City Street
5. The Stars Of Our Stars
6. Notes Falling Slow
7. No Long Journey Home
8. He Will Call You Baby
9. Simon Keeper
10. The Slide

[CD3] At The End Of Paths Taken
1. Brand New World
2. Still Lost
3. Cutting Board Blues
4. Spiral Down
5. My Little Basquiat
6. Someday Soon
7. Follower 2
8. It Really Doesn’t Matter Anyway
9. Blue Eyed Saviour
10. Mountain
11. My Only Guarantee

[CD4]
1. Also One
2. Shrike
3. Morning Cried
4. Cold Evening Wind
5. So They Say
6. Three Wishes
7. The Slide
8. Done Your Time
9. Ikea Parking Lot

drive-by truckers - it's great to be alive

 

Sempre il 30 ottobre è in uscita questo sfavillante triplo CD dal vivo dei Drive-by Truckets, titolo It’s Great To Be Alive, etichetta ATO Records. Registrato allo storico Fillmore di San Francisco (non l’originale) in tre diverse serate nel novembre del 2014, prodotto come al solito da Dave Barbe, 35 brani che ripercorrono il meglio della loro carriera, con qualche sorpresa:

[CD1]
1. Lookout Mountain
2. Where the Devil Don’t Stay
3. Sink Hole
4. Made Up English Oceans
5. The Righteous Path
6. Women Without Whiskey
7. The Living Bubba
8. Primer Coat
9. Mercy Buckets
10. Marry Me
11. Tornadoes
12. Sounds Better in the Song

[CD2]
1. Used to Be a Cop
2. Shit Shots Count
3. Runaway Train
4. A Ghost to Most
5. Goode’s Field Road
6. Uncle Frank
7. Putting People on the Moon
8. First Air of Autumn
9. Box of Spiders
10. When the Pin Hits the Shell
11. A World of Hurt

[CD3]
1. Get Downtown
2. Ronnie and Neil
3. Gravity’s Gone
4. Pauline Hawkins
5. Birthday Boy
6. Girls Who Smoke
7. Three Dimes Down
8. Hell No, I Ain’t Happy
9. Shut Up and Get on the Plane
10. Angels and Fuselage
11. Zip City
12. Grand Canyon

joy of living a tribute to ewan maccoll

E per completare le uscite del 30 ottobre (le altre interessanti sono comprese nella lista ad inizio post) esce anche questo bel doppio tributo dedicato a uno dei padri della canzone popolare britannica, Ewan MacColl Joy Of Living, Cooking Vinyl in Europa, Compass Records negli States.

Con una lista di partecipanti veramente notevole:

Tracklist
[CD1]
1. Schooldays Over (Damien Dempsey)
2. I’m Champion At Keeping ‘Em Rolling (Martin Carthy)
3. Cannily, Cannily (The Unthanks)
4. The Shoals Of Herring (Seth Lakeman)
5. The Exile Song (Marry Waterson)
6. The Young Birds (Jack Steadman & Jamie MacColl – Bombay Bicycle Club)
7. Jamie Foyers (Dick Gaughan)
8. Thirty-Foot Trailer (Eliza Carthy)
9. My Old Man (Chaim Tannenbaum)
10. Dirty Old Town (Steve Earle)
11. The Battle Is Done With (Jarvis Cocker)

[CD2]
1. The First Time Ever I Saw Your Face (Paul Buchanan)
2. Freeborn Man (Paul Brady)
3. Moving On Song (Norma Waterson)
4. The Terror Time (Karine Polwart)
5. The Father’s Song (Martin Simpson)
6. The Compañeros (Christy Moore)
7. Kilroy Was Here (Billy Bragg)
8. Sweet Thames, Flow Softly (Rufus & Martha Wainwright)
9. Alone (Kathryn Williams)
10. The Joy Of Living (David Gray)

natalie merchant paradise is there

Il 6 novembre uscirà Paradise Is There, The New Tigerlily Recordings di Natalie Merchant. Per una volta il titolo dice tutto: in pratica di tratta del famoso album di debutto solista del 1995, re-inciso ex novo, con nuove versioni, nuovi arrangiamenti, nuovi musicisti, ma le stesse undici canzoni del disco originale.

1. San Andreas Fault
2. Beloved Wife
3. Carnival
4. River
5. The Letter
6. Where I Go
7. I May Know the Word
8. Seven Years
9. Cowboy Romance
10. Jealousy
11. Wonder

L’etichetta sarà la Nonesuch, e, per fortuna, alla edizione CD + DVD e a quella in vinile, in zona Cesarini si è aggiunta anche la versione CD semplice, singolo, senza aggiunte, perché, diciamolo chiaramente, quasi 30 euro da sborsare per la versione Deluxe mi sembravano francamente troppe, oltre a tutto considerando che il DVD è un documentario che ripercorre la storia del vecchio album attraverso interviste, filmati, materiale d’archivio, oltre ad alcuni video ripresi durante il corso delle nuove registrazioni, che però, da quanto ho capito, non sono completi, ma solo brevi presentazioni di alcune canzoni, o così ho intuito dai filmati in rete, non essendo chiarissimo https://www.youtube.com/watch?v=svQvi30dJLk .

Questo non toglie che l’album, da quello che si sente, sarà bellissimo, uno dei migliori dell’anno a prescindere, ma come sapete io sono molto parziale quando si parla di Natalie Merchant!

billy gibbons perfectamundo

Qualche dubbio ce l’ho su quello che sarà il primo album solista di Billy Gibbons, mente e chitarrista degli ZZ Top, la svolta cubana, latino-americana, mista a rock, non mi entusiasma, ma vedremo come sarà questo Perfectamundo.

Esce il 6 novembre su Concord/Universal come Billy Gibbons & The BFG’s, (che sta per Billy F. Gibbons) prodotto dallo stesso Gibbons con Joe Hardy e registrato tra Houston, Los Angeles, Austin e Pontevedra, in Spagna.

Titoli dei brani:

1. Got Love If You Want It
2. Treat Her Right
3. You’re What’s Happenin’, Baby
4. Sal Y Pimiento
5. Pickin’ Up Chicks On Dowling Street
6. Hombre Sin Nombre
7. Quiero Mas Dinero
8. Baby Please Don’t Go
9. Piedras Negras
10. Perfectamundo
11. Q-Vo

Tra i musicisti il pianista Martin Guigui e Chino Pons. oltre alla band composta da Mike Flanigin, piano e organo, Alex Garza, basso e voce, Greg Morrow alla batteria, oltre allo stesso Hardy, anche lui tastiere, chitarre, basso e voce di supporto: ci sono un po’ cover (Got Love If You Want It, Treat Her Right, Baby Please Don’t Go). brani in spagnolo, anzi spanglish, molte percussioni, sentiremo, mah…ZZ Top goes Santana? Quasi, come detto non mi fa impazzire, però la chitarra viaggia sempre che è un piacere.

steve forbert compromised

 

Sedicesimo album di studio per Steve Forbert, si intitola Compromised, esce sempre il 6 novembre per la Rock Ridge, registrato tra Woodstock e Cape Cod, e prodotto dallo stesso Forbert con un grosso aiuto da parte del grande John Simon, che era stato il produttore di Jackrabbit Slim, il suo secondo album (quello con Romeo’s Tune per intenderci). Se il nome di John Simon vi dice qualcosa è perché ha prodotto Music From Big Pink, The Band Last Waltz della Band, Bookends di Simon & Garfunkel, Cheap Thrills di Janis Joplin con i Big Brother, Child Is Father To The Man, il primo dei Blood, Sweat And Tears, oltre a dischi di Leonard Cohen, Taj Mahal e decine di altri, quindi non proprio il primo che passa per la strada. Infatti il disco ha un sound più roots-rock vicino al Forbert dei primi album.

Tra i musicisti utilizzati ci sono anche Robbie Kondor che suonava le tastiere addirittura nel primo bellissimo Alive On Arrival, al basso c’è Joey Spampinato degli NRBQ e alla batteria Lou Cataldo dei Freeze, oltre a Kami Lyle, piano e tromba. Filmati del nuovo album non ce ne sono, quindi sono andato di classici…

Come si evince dalla tracklist la versione per il download ha dei brani in più (solo gli ultimi due), e questo mi fa girare le balle.

1. Compromise
2. A Big Comeuppance
3. When I Get To California
4. Drink Red Wine
5. Welcome The Rolling Stones
6. Rollin’ Home To Someone You Love
7. Send In The Clowns
8. I Don’t Know If You Know It
9. Devil (Here She Comes Now)
10. Time Seemed So Free
11. Whatever, Man
MP3 Bonus Tracks:
12. You’d See The Things That I See (The Day John Met Paul)
13. Devil (Here She Comes Now) (Americana Version)
14. When I Get To California (Americana Version)
15. Whatever, Man (Americana Version)
16. Rain And Sleet And Snow
17. Katherine

Sarà sicuramente bello, vado sulla fiducia come per Natalie Merchant.

Alla prossima con le novità dalla metà alla fine di novembre e comunque leggete sempre il Blog per le altre recensioni (nei prossimi giorni Donnie Fritts con Marco, mentre io sto preparando il nuovo Trey Anastasio in uscita il 30 ottobre, bel disco solista per il leader dei Phish, il bellissimo Wood Brothers Paradise, già uscito a inizio ottobre e altre chicche, basta trovare il tempo).

Bruno Conti

Un Grande Musicista “Cittadino Del Mondo” ! Joe Jackson – Fast Forward

joe jackson fast forward

Joe Jackson –Fast Forward – Ear Music / Edel

Questo signore ha iniziato a fare musica alla fine degli anni settanta, con un esordio a dir poco sfolgorante, Look Sharp (79), una miscela esplosiva di new wave, reggae, funky e pop. In quei tempi la musica inglese era estremamente vitale, con artisti del calibro di Elvis Costello, Graham Parker e un gruppo innovativo come i Police, e la musica  di Joe Jackson si collocava perfettamente in un simile contesto. Poi il buon Joe ha incominciato a cambiare idea sulla musica che doveva fare, era già stanco del rock ed ha progressivamente modificato il suo stile compositivo con i lavori seguenti, Jumpin’ Jive (un tributo a Louis Jordan) e alla musica jump-blues e swing, il capolavoro Night And Day (il suo album di maggiore successo, sia di critica che di vendite), i sottovalutati Body And Soul (con sfumature jazz e varie correnti musicali), e Big World (86). Poi è iniziato un periodo “strano” con l’esperimento di Will Power e la colonna sonora di Tucker, e a parte l’ottimo live Summer In The City (00), l’ultimo quarto della carriera di Jackson (tra sinfonie e musiche per la notte), si è perso in progetti un po’ troppo “cerebrali” per essere apprezzati. Adesso, a distanza di sette anni dall’ultimo lavoro in studio Rain (08), torna con questo ambizioso progetto Fast Forward,  un disco costituito da sessioni registrate in quattro città diverse (e con organici diversi): New York, Berlino, Amsterdam e New Orleans, i luoghi che hanno influenzato musicalmente la sua lunga carriera.

Il viaggio nel mondo parte da New York (dove Joe ha vissuto per diversi anni), registrando le quattro tracce con Bill Frisell alla chitarra, Brian Blade alla batteria, il suo bassista storico Graham Maby, e la brava violinista jazz Regina Carter, a partire dalla lunga title track Fast Forward, dove al pianoforte si risente il Jackson migliore, accompagnato dal violino magico della Carter, per poi passare al bel ritmo mosso di If It Wasn’t For You, intercalato dagli inconfondibili tocchi di chitarra di Frisell, una cover della “verlainiana” See No Evil  dal classico album Marquee Moon dei Television) https://www.youtube.com/watch?v=RjMngVhOjec , e un brano dalle sfumature un po’ jazz come King Of The City, che ripercorre atmosfere alla Donald Fagen https://www.youtube.com/watch?v=gau0w4gauKk .  La seconda “casa”, Amsterdam, si avvale di frequenti collaboratori come Stefan Kruger e Stefan Schmid della band Zuco 103 e dell’Orchestra del Concertgebouw per ariose ballate mid-tempo come A Little Smile, una Far Away con in evidenza la voce della quattordicenne Mitchell Sink, un gioiello a ritmo di mambo come So You Say, e una miscellanea di suoni diversificati nella crepuscolare Poor Thing.

Berlino è la terza “casa, e come la città il suono è più moderno e innovativo, e Joe Jackson utilizza musicisti americani di grande esperienza quali Greg Cohen (Tom Waits, Bob Dylan) al basso, e il batterista Hearl Harvin (Tindesticks), con la prima traccia Junkie Diva che si avvale di un riff trascinante (e di un testo che potrebbe ricordare cantanti “perdute” come Amy Whitehouse o Janis Joplin) https://www.youtube.com/watch?v=pc4aW7oJG6k , seguita dagli inserti di tromba raffinati di If I Could See Your Face, una canzone che si sviluppa su un tessuto sonoro orientale, mentre The Blue Time è una splendida ballata pianistica notturna https://www.youtube.com/watch?v=vyO1BOxUZwk , prima di arrivare ad una cover di un brano del 1930, la famosa Good Bye Jonny di Kurt Weill, cantata in versione cabaret. La quarta e ultima “casa”  è quella di New Orleans (una delle città preferite da Jackson), dove ha deciso di lavorare con musicisti locali, tra cui tre componenti del gruppo funk Galactic, il batterista Stanton Moore, il bassista Robert Mercurio, il chitarrista Jeff Raines, e una indispensabile sezione fiati guidata dal sassofonista Donald Harrison, settore che parte con le tastiere e il groove deciso di una vibrante Neon Rain, a cui seguono di nuovo le note di una tromba e i fiati in una intrigante Satellite, il ritmo saltellante e spavaldo di Keep On Dreaming, andando a chiudere con la sarabanda funky finale di Ode To Joy, tipica dei suoni che si respirano in una città piena di “umori” come la capitale della Louisiana.

Ho sempre pensato che questo “nomade” musicista fosse l’unico (di quella ondata citata all’inizio) ad avere le carte in regola per restare sulla cresta dell’onda, un artista dal talento “poliedrico”, con una voce che spazia dal pop al rock, dal soul al blues, dallo swing al jazz, il tutto ancora una volta certificato da questo ultimo lavoro Fast Forward, che riporta Joe Jackson ai livelli che gli competono, con canzoni di una qualità pari a quella che ha distinto i suoi momenti migliori, fatte anche di ritmo e tanta energia. Bentornato Mr. Jackson.!

Tino Montanari

La “Cura Jeff Lynne” Ha Fatto Bene Anche A Lui? Bryan Adams – Get Up!

bryan adams get up

Bryan Adams – Get Up! – Polydor CD

Chi frequenta abitualmente questo blog forse avrà notato la mia passione (proibita…insana?) per Jeff Lynne, grazie anche a Bruno che ospita le mie digressioni sui progetti che lo coinvolgono, sia come musicista che in cabina di regia. Infatti fin da quando, soprattutto a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta, il barbuto leader della ELO era il produttore “da avere”, ho iniziato a collezionare tutta una serie di dischi che vedevano Jeff in consolle, fosse anche solo in una canzone, e se in molti casi quegli album me li sarei accaparrati comunque (George Harrison, Tom Petty, Roy Orbison, Traveling Wilburys, Del Shannon, Randy Newman, Paul McCartney solo per citare i più noti), altre volte ho preso sulla fiducia lavori di (per me) perfetti sconosciuti, tipo Julianna Raye, Miss B Haven o Jimmy Nail, o altri che conoscevo, ma che in me suscitavano scarso interesse (Regina Spektor, Joe Walsh), solo per sentire un’altra volta il “Lynne touch”. Ora, giusto un mese dopo il suo ritorno sul mercato discografico con l’ottimo live registrato lo scorso anno a Hyde Park http://discoclub.myblog.it/2015/09/26/ritorno-grande-stilejeff-lynnes-elo-live-hyde-park/ , ed un mese prima del suo definitivo comeback come ELO leader e factotum (Alone In The Universe), Jeff è presente come produttore unico nel nuovo CD di Bryan Adams, Get Up!, che segue di un anno il controverso cover album del canadese, Tracks Of My Years e di ben sette l’ultimo lavoro con materiale originale, 11.

Adams, per quanto mi riguarda, rientra nell’ultima delle categorie che ho citato prima, cioè dei musicisti che mi interessano poco, e avrei fatto passare inosservato questo suo ultimo lavoro se non fosse stato per la presenza di Lynne: ho infatti sempre giudicato la proposta musicale del biondo canadese troppo annacquata e radio oriented per essere definita veramente rock, e d’altro canto troppo poco raffinata per farla ricadere nel campo dell’AOR, oltre al fatto che Bryan come songwriter è piuttosto ripetitivo e negli ultimi 25 anni non ha fatto altro che autoriciclarsi con poco costrutto (mentre, a suo favore, i primi dischi non erano malaccio, e soprattutto Cuts Like A Knife ed il million seller Reckless non sfigurerebbero in nessuna collezione che si rispetti). Invece, non so se grazie a Lynne o semplicemente per la sua lunga assenza discografica dalle scene, secondo me Get Up! è un buon disco, una proposta fresca e gradevole che, pur non essendo un capolavoro, si lascia ascoltare con piacere dall’inizio alla fine senza far rimpiangere i soldi spesi.

La mano di Jeff si sente eccome, in certi momenti sembra di ascoltare i Wilburys, ma le canzoni sono tutte di Bryan (scritte con il suo abituale partner Jim Vallance, tranne una con Lynne), e risultano le più fresche, genuine e godibili da molti anni a questa parte. Unico punto negativo non la durata esigua delle canzoni che anzi potrebbe essere quasi un pregio, ma il fatto che siano solo nove (vena inaridita? Nove brani in sette anni sono pochini), e che il brodo venga allungato con ben quattro versioni acustiche di pezzi già presenti (cosa che di solito si fa per le deluxe editions), mentre sarebbe invece bastato aggiungere un paio di covers oppure, dato che c’era Lynne a disposizione, scrivere una o due canzoni in più con lui, dato che non è proprio l’ultimo arrivato.

Ma, ripeto, a monte di tutto Get Up! è un bel dischetto, Lynne o non Lynne (che per me, sia chiaro, è la ciliegina sulla torta), che ci fa ritrovare un Bryan Adams finalmente in buona forma, un lavoro molto rock’n’roll e con tante chitarre: infatti, a parte Mr. ELO che suona anche tutto il resto (piano, basso e batteria, ma avrei preferito un vero batterista), nel disco troviamo solo chitarristi (oltre a Bryan, Jeff e Vallance, ci sono Phil Thornalley che si occupa degli assoli, Rusty Anderson, che è anche il lead guitarist della live band di McCartney, e Keith Scott, anch’egli da sempre a fianco di Adams). L’album si apre con la trascinante You Belong To Me, un rockabilly decisamente wilburyiano (sul genere di End Of The Line), con un ritmo ed una melodia convincenti: giustamente è stata scelta come primo singolo. Go Down Rockin’ è più roccata (appunto), ha un riff potente e chitarre dappertutto: come canzone in sé non è un masterpiece, ma ha il tiro giusto e centra il bersaglio; We Did It All è invece una buona ballad in cui Lynne si sente in ogni nota, tappeto di chitarre acustiche, chitarre elettriche twang, riverberi e melodia che piace al primo ascolto, mentre That’s Rock And Roll è esattamente come suggerisce il titolo, chitarre e ritmo a palla, musica just for fun ma fatta bene.

Don’t Even Try è invece uno dei pezzi migliori, e rivela più che mai il fatto che la presenza di Jeff qualche influenza su Bryan la deve aver pure avuta: infatti ci troviamo di  fronte ad un delizioso pop-rock molto sixties, con una melodia beatlesiana ed un arrangiamento vintage che ricorda Orbison, due influenze raramente palesate da Adams in passato; la gioiosa e solare Do What Ya Gotta Do è il brano scritto con Lynne, e si sente, in quanto l’occhialuto produttore qui è, come dicono in America, all over the place, ed anche la sua voce emerge quasi di più di quella di Bryan, praticamente un duetto. Thunderbolt è più rock, l’unico pezzo con assoli “cattivi”, anche se la canzone in sé non è niente di che (e qui si sente più che mai l’assenza di un vero batterista), mentre Yesterday Was Just A Dream è una squisita ballata elettrica avvolta da sonorità calde; l’album vero e proprio (che effettivamente è molto corto) si chiude con Brand New Day, una rock song a tutto tondo e forse quella più nello stile tipico di Adams, anche se il suono è palesemente figlio del signore che sta in consolle. Alla fine, come già detto, quattro versioni voce e chitarra di brani già ascoltati in precedenza (Don’t Even Try, We Did It All, You Belong To Me e Brand New Day, forse i migliori), che non aggiungono nulla se non minuti in più.

In definitiva, se siete fans di Lynne Get Up! è un gustoso antipasto nell’attesa del nuovo disco di “Mr. Blue Sky”, mentre se vi piace Bryan “Wilbury” Adams troverete un disco piacevole che riscatterà in parte le ultime prove opache del rocker dell’Ontario. E comunque io non riesco a smettere di canticchiare You Belong To Me.

Marco Verdi