“Puro” Country-Rock Anni ’70! Pure Prairie League – My Father’s Place, Roslyn, New York 1976

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Pure Prairie League – My Father’s Place, Roslyn, New York 1976 – Live Wire 

I Pure Prairie League sono stati una delle formazioni migliori di country-rock nel periodo d’oro del genere nella prima metà inoltrata degli anni ’70, e su questo non ci piove. Hanno pubblicato dieci album tra il marzo 1972 quando usciva il primo omonimo LP e il febbraio 1981 quando veniva pubblicato Something In The Night, i primi otto per la RCA, gli ultimi due per la Casablanca. Ma i migliori sono i primi quattro, fino a If The Shoe Fits, il disco uscito nel gennaio del 1976 e che la band promuove in questo broadcast trasmesso dalla WLIR di New York, un concerto tenuto nello storico locale newyorkese My Father’s Place, con la seconda miglior formazione in assoluto della band, senza più Craig Fuller, che aveva dovuto abbandonare i PPL nel 1972 per strani problemi con la giustizia, dopo l’uscita del secondo album Bustin’ Out, quello per intenderci che conteneva Amie, la loro canzone più famosa, che però era diventata un successo solo nel 1975, a 3 anni dalla data di uscita originale. Poi Fuller, eccellente cantante, avrebbe avuto una buona carriera, prima con gli American Flyer, nel duo Fuller & Kaz e infine nei riformati Little Feat, a cavallo degli anni ’80-’90, da allora se ne sono un po’ perse le tracce anche se guida oggi i riformati Pure Prairie League con cui ha inciso l’ottimo All In Good Time del 2005, e che totalizzano ancora un centinaio di concerti ogni anno.

In questo concerto del 1976 Larry Goshorn è il nuovo chitarrista, entrato in sostituzione di Fuller dal 1974, mentre il leader e voce solista è George Ed Powell, con John David Call a pedal steel, dobro e banjo, che è il punto di forza della band, e Michael Connor alle tastiere, Michael Reilly al basso e Billy Hinds alla batteria, a completare la line-up. Diciamo che proprio a voler essere obiettivi al 100% i PPL,  per chi scrive, sono stati comunque un gradino al di sotto di formazioni come Poco, Flying Burrito, i primi Eagles, New Riders, Ozark Mountain Daredevils, New Riders e Nitty Gritty, ma secondo la critica americana, Bustin’ Out (per AllMusic il miglior disco country-rock di sempre) soprattutto e Two Lane Highway (per Rolling Stone alla pari con Sweetheart Of The Rodeo dei Byrds, una gemma assoluta nel genere) vengono considerati tra i migliori album in assoluto di country-rock nel periodo d’oro del genere e questo concerto non ha comunque nulla da invidiare al Live ufficiale Takin’ The Stage, uscito l’anno successivo, anzi il suono è più ruspante e meno “lavorato”.


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Le armonie vocali di Call, Reilly, Goshorn e Powell sono eccellenti, John Call alla pedal steel è eccezionale, alla pari con Rusty Young, Buddy Cage, Sneaky Pete e gli altri virtuosi dello strumento, mentre il repertorio ha anche sussulti di classico rock americano alla Doobie Brothers o Little Feat, momenti di bluegrass, e cavalcate chitarristiche, ma anche ampio uso di tastiere, come nella lunga e conclusiva You’re Between Me, uno dei brani scritti da Fuller o nella travolgente Aren’t You Mine con Call e Goshorn al proscenio https://www.youtube.com/watch?v=BX4XdAE30gk , per non parlare di Two Lane Highway un brano che non ha nulla da invidiare ai migliori Poco o Eagles https://www.youtube.com/watch?v=5WzBurY41_A , o la bellissima Amie, sempre di Craig Fuller, una delle più belle country-rock songs di sempre. Ottime anche Kansas City Southern un brano di Gene Clark guidato dalla incalzante steel di Call, le cover di I’ll Fix Your Flat Tire, Merle, scritta da Nick Gravenites, a tempo di western swing e il R&R classico firmato Buddy Holly di That’ll Be The Day. Come pure una Country Song estratta dal primo album, che tiene pienamente fede al proprio titolo, sempre sulle ali della steel di Call, veramente travolgente https://www.youtube.com/watch?v=JFcC6YCh-hE , e anche Harvest un brano di Goshorn che esplora il lato più rock della band, un po’ alla Loggins And Messina, per non parlare di ballate suadenti come Sun Shone Lightly https://www.youtube.com/watch?v=ClwYh84326c . La qualità sonora è più che buona, il contenuto merita e la band ci mette del suo, un buon documento degli anni dorati del country-rock, da non perdere.

Bruno Conti

Questi Signori Non Fanno Un Disco Brutto Neanche Per Sbaglio! Los Lobos – Gates Of Gold

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Los Lobos – Gates Of Gold – Savoy Jazz/Fontana/Proper CD

Nel mondo della musica rock in pochi possono vantarsi di non avere mai sbagliato un disco, neppure mostri sacri del calibro di Bob Dylan, Paul Simon, Neil Young e John Fogerty (che pure fa un album ogni morte di Papa, ma Eye Of The Zombie era una mezza ciofeca), ma quasi nessuno, forse nemmeno Van Morrison o Richard Thompson riescono a mantenere uno standard alto come i Los Lobos. Infatti, in più di trent’anni di carriera (mi riferisco all’esordio mainstream con l’EP And A Time To Dance del 1983, in realtà gli anni sono quasi quaranta) il quintetto proveniente da East L.A. (al nucleo storico formato da David Hidalgo, Cesar Rosas, Louis Perez e Conrad Lozano si è aggiunto l’ex Blasters Steve Berlin, l’unico non ispanico, a metà anni ottanta) quasi mai ha pubblicato un lavoro che scendesse sotto le fatidiche quattro stelle di giudizio: a parte i divertissements, come il tributo alle canzoni dei film di Walt Disney o il disco di canzoni per bambini inciso insieme a Lalo Guerrero, solo una volta a mio parere sono scesi di mezzo punto, e cioè col pur valido This Time del 1999 (ma quell’anno Rosas aveva tenuto le cartucce migliori per il suo ad oggi unico album solista, Soul Disguise).

La carriera dei Lupi si può dividere in due parti: la prima, con tutta una serie di grandi dischi che hanno contribuito a creare un genere che oggi chiamiamo per brevità Americana, culminata nel 1992 con la pubblicazione dello straordinario Kiko (un cinque stelle da qualunque parte lo si guardi), e tutti i lavori successivi fino ad oggi, nei quali la band ha cominciato ad affiancare alle composizioni negli abituali stili rock, folk, mexican, blues e R&B anche una marcata vena psichedelica e sperimentale, ed alimentando il tutto con esibizioni dal vivo che definire infuocate è persino riduttivo. Una serie di CD di altissimo spessore e con sempre tre-quattro canzoni ciascuno degne di entrare in qualsiasi best of: personalmente, a parte This Time che ho già citato, li giudico tutti (visto che siamo in ballo) da quattro stelle, con punte di merito (i + che si danno a scuola) per Good Morning Aztlan e The Town & The City. Gates Of Gold è il nuovissimo album dei Lupi, che giunge a cinque anni dal precedente Tin Can Trust, e dopo un paio di ascolti posso già metterlo insieme ai loro lavori post-Kiko più riusciti, un disco che in undici canzoni (niente versioni deluxe stavolta) riesce mirabilmente ad esplorare tutto il microcosmo musicale del combo di origine messicana, con l’aiuto di un suono scintillante (si occupano loro stessi della produzione): c’è di tutto in Gates Of Gold, ma i nostri sono diventati una macchina talmente ben oliata che riescono a rendere tutto amalgamato alla perfezione, e a far diventare interessanti anche gli episodi più ostici e meno “radiofonici”. Come al solito, suonano quasi tutto loro (con l’aggiunta di David Hidalgo Jr., figlio di cotanto padre, alla batteria, in pratica il rimpiazzo di Victor Spinetti), con l’aiuto di pochi collaboratori tra i quali spiccano la nota cantautrice Syd Straw alle armonie vocali in un brano ed il loro ex produttore Mitchell Froom che suona qualche tastiera qua e là.

Apre l’album Made To Break Your Heart, una rock song elettrica dal suono pieno e con una solida melodia, che ricorda alla lontana certe cose di Neil Young: la parte centrale, con un potente assolo chitarristico, fa salire di brutto la temperatura. When We Were Free è poco immediata, ma per chi conosce i Lupi direi che è quasi tipica del loro modo di concepire la musica a 360 gradi: percussioni in grande evidenza, la canzone ha un andamento particolare, una via di mezzo tra un errebi sghembo ed un funky ubriaco, con Hidalgo che canta in modo quasi “scazzato” e la parte finale, una mini-jam dove gli strumenti vanno ognuno per conto suo, ha momenti quasi cacofonici. Di sicuro non uscirà come singolo. Mis-Treater Boogie Blues è, per contro, un…indovinate…boogie blues molto diretto e trascinante, con il classico giro chitarristico già sentito mille volte ma sempre coinvolgente, che ci fa capire subito che anche Rosas è in gran forma https://www.youtube.com/watch?v=mFK83BXYOH8 ; There I Go è ancora ermetica e “strana”, e più che ai Lupi mi fa pensare agli esperimenti dei Latin Playboys (l’ex gruppo dopolavoristico formato da Hidalgo e Perez con Froom e Tchad Blake), con gli strumenti che apparentemente vagano senza meta ma alla fine ci si accorge che è tutto un caos programmato.

Too Small Heart è invece puro rock, potente e diretto, un suono quasi da garage band ed una grinta che dopo tutti questi anni resta immutata: dal vivo pezzi come questo possono fare scintille; finora il disco è stato asciutto, teso, elettrico, in certi momenti fruibile ed in altri meno, ma con Poquito Para Aqui inizia la fiesta, con una deliziosa cumbia dal ritmo irresistibile e con la fisarmonica (Josh Baca) in primo piano, un brano decisamente ballabile che vorrei vedere in classifica al posto di quelle porcherie spacciate per musica latina ma che in definitiva sono solo disco music cantata in spagnolo https://www.youtube.com/watch?v=kakHGqVvGmY . La title track fa emergere il lato solare dei Lupi, un brano cadenzato e godibile che rimanda al suono pre-Kiko (sembra un’outtake di The Neighborhood), La Tumba Sera El Final, unico traditional del CD, è la classica ballata messicana che non può mancare in un disco di Hidalgo e soci, ma che fa sempre un gran piacere ascoltare. Song Of The Sun è un’altra bella canzone sullo stile di By The Light Of The Moon: oggi I Lupi amano fare dischi in cui toccano tutti gli stili musicali del loro passato (remoto e prossimo), ma non nascondo che mi piacerebbe ascoltare ancora un album intero solo con brani in stile Americana, come questo https://www.youtube.com/watch?v=zIzds1ZyafI . Gates Of Gold si chiude con I Believed You So, un blues elettroacustico quasi canonico, ma che in mano ai nostri ha sempre quel quid in più, e con la splendida Magdalena, una sontuosa rock ballad, forse il brano più bello del CD, un pezzo che anche su Kiko avrebbe fatto la sua figura, con una parte strumentale superba.

Un altro grande disco: e pensare che ancora oggi in tanti credono che i Los Lobos siano solo quelli di La Bamba https://www.youtube.com/watch?v=fumljcFyvzY .

Marco Verdi

Se Fosse Anche Inciso Bene Sarebbe Perfetto! Quicksilver Messenger Service – New Year’s Eve 1967

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Quicksilver Messenger Service – New Year’s Eve 1967 – Cleopatra 

Ho contato almeno otto CD (più l’Anthology Box, e non credo sia finita la serie) pubblicati dalla Cleopatra Records e relativi a prezioso materiale d’archivio dei Quicksilver Messenger Service, la prodigiosa band californiana che giustamente viene considerata uno dei capisaldi del rock psichedelico ed acido che imperava sulla costa occidentale americana tra la fine anni ’60 ed i primi anni ’70. In effetti la storia inizia ancora prima, nel 1965, quando Dino Valenti, John Cipollina e il cantante e armonicista Jim Murray, uniscono le forze con Gary Duncan, David Freiberg e Greg Elmore, per iniziare una avventura che raggiungerà il suo apice tra il ’68 ed il ’69 quando usciranno i due capolavori, l’omonimo Quicksilver Messenger Service e l’epocale Happy Trails. Ma questa è una storia raccontata mille volte ed in ogni caso molte cose sono successe prima e dopo questi due dischi: da qualche anno a questa parte, oltre alla Cleopatra anche altre etichette, più o meno ufficiali, hanno pubblicato materiale dal vivo proveniente da quel periodo, spesso annunciato come proveniente dagli archivi di Gary Duncan, ma altrettanto spesso di qualità sonora non proprio memorabile.

Anche questo New Year’s Eve 1967 non sfugge alla regola: registrato al Winterland di San Francisco la notte del 31 dicembre del 1967, e quindi, come tutto il materiale proveniente dai locali di proprietà di Bill Graham, presente anche negli archivi di Concert Vault, e pubblicato diverse volte pure come bootleg, il concerto è formidabile per i contenuti musicali, ma la qualità sonora è “scarsina”, a voler essere magnanimi. La formazione è quella classica, il quartetto Cipollina, Duncan, Freiberg e Elmore, che da lì a poco avrebbe pubblicato Quicksilver Messenger Service e Happy Trails, quindi non c’è più Jim Murray alla voce e all’armonica, ma il repertorio comprende ancora molti dei brani del primissimo periodo: ed ecco quindi scorrere un ignoto Instrumental senza nome che fluisce, già iniziato, come prima traccia del concerto, la batteria è in cantina, il basso ha una buona presenza, il suono delle chitarre sfugge di tanto in tanto, ma la qualità sonora è comunque accettabile, mentre le improvvisazioni bluesy delle soliste di Cipollina e Duncan, sono all’altezza delle giornate migliori (non dimentichiamo che in quella serata i Quicksilver dovevano duellare con i Jefferson Airplane e i Big Brother di Janis Joplin che dividevano con loro il palco nell’occasione).

Quindi partenza ottima, poi rafforzata da una eccellente e vibrante versione di Pride Of Man, il brano che sarebbe stato uno dei punti di forza del disco di esordio (qui il suono va e viene, la voce si intuisce e la batteria è purtroppo microfonata male), ma la musica è sempre potente, come nella successiva Who Do You Love (la versione nel video è di due giorni prima), che non è ancora quella “corazzata” da oltre 20 minuti che sarebbe divenuta su Happy Trails, ma l’inconfondibile riff non manca e l’interplay tra le due soliste e la sezione ritmica è già magnifico, il brano è più breve e compatto, “solo” dieci minuti scarsi, ma la magia (anche con gli inconvenienti tecnici ricorrenti nella registrazione) del brano è già presente. Non male pure la bluesata If You Live (Your Time Will Come), cantata da Gary Duncan e che si anima nelle parti improvvisate, mentre It’s Been Too Long è uno dei brani meno conosciuti della band, un classico pezzo psych-garage. Altro discorso per la lunghissima, e ricca di jam chitarristiche, versione di Smokestack Lightning, il classico di Howlin’ Wolf che illustra il lato blues dei Quicksilver visto attraverso l’ottica intrippata di quei tempi e anche Babe I’m Gonna Leave You (quando il suono non sparisce a tratti) illustra il sound acido che condividevano con le altre band di San Francisco dell’epoca. Gold And Silver, con un lungo assolo di batteria nella parte centrale, è sempre quella perfetta fusione tra chitarre rock acide e ritmi jazz alla Dave Brubeck, anche se il livello sonoro è pessimo.

Dino’s Song lascia intuire le evoluzioni soliste del mitico John Cipollina, che poi le reitera in un’ottima Back Door Man e nel lungo medley, Bo Didley goes psych, di improvvisazione Mona/Maiden Of The Cancer Moon. Sono già i Quicksilver della leggenda acida di Haight-Ashbury, se fosse anche inciso bene sarebbe perfetto.

Bruno Conti

Un Disco Maturo, Tra Folk E Psichedelia! Kurt Vile – B’lieve I’m Goin’ Down

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Kurt Vile – B’lieve I’m Goin’ Down  – Matador CD

Fino a qualche anno fa ero convinto che Kurt Vile, musicista originario della Pennsylvania, fosse un bluesman, non so in base a cosa, forse l’aspetto fisico. Poi ho approfondito, e ho scoperto un cantautore raffinato, autore di una miscela intrigante di folk, rock e psichedelia, con influenze che vanno dalla musica che si faceva nei primi anni settanta nel Laurel Canyon a Syd Barrett, passando per Nick Drake. Recentemente ho ascoltato l’ultimo album di Israel Nash, Silver Season http://discoclub.myblog.it/2015/10/14/altro-figlio-del-laurel-canyon-israel-nash-israel-nashs-silver-season/ , e devo dire che tra i due ci sono diverse similitudini, anche se l’approccio di Vile è meno bucolico e più rock, mentre Gripka è maggiormente influenzato da Neil Young ed in generale le sue sonorità sono più eteree.

B’lieve I’m Goin’ Down è il suo sesto lavoro, e giunge a due anni da Wakin’ On A Pretty Daze, che aveva ottenuto un ottimo successo di critica ed aveva anche venduto discretamente: Kurt è accompagnato dalla sua abituale band, The Violators (Rob Laakso, Kyle Spence e Jesse Trbovich), e tutti collaborano alla produzione insieme a Rob Schnapf (già alla consolle con Elliott Smith e Beck). Dodici brani (sedici nell’immancabile edizione deluxe), tutti, tranne uno, con una discreta lunghezza che va dai quattro minuti ai sette: canzoni fluide, meditate, talvolta sognanti e altre volte più rock e dirette, accenni psichedelici qua e là ed una vena intimista piuttosto accentuata, dovuta anche al timbro vocale particolare del nostro (molti hanno definito questo disco il più personale di Kurt: io non avendo ascoltato tutti i suoi CD non posso né confermate né smentire, e quindi mi limito a godermi le canzoni).

B’lieve I’m Goin’ Down fa chiaramente parte del percorso di crescita di Vile, percorso che non è ancora concluso, ed è un’evoluzione ed una maturazione rispetto al già pur valido album precedente: l’iniziale Pretty Pimpin’ dimostra il buon livello sia della sua scrittura che della tecnica strumentale, un rock abbastanza diretto e chitarristico, contraddistinto dalla voce pacata del nostro ed una ritmica vivace, un pezzo che può avere persino qualche velleità radiofonica. In I’m An Outlaw fa capolino un banjo, ed il brano è un’intrigante miscela di western e psichedelia, in quanto l’andamento ha un non so che di ipnotico, anche se nell’insieme ci troviamo davanti ad una canzone molto gradevole e per nulla ostica; Dust Bunnies inizia con un bel riff di chitarra (le parti chitarristiche in questo disco mi piacciono molto), subito doppiato da un piano elettrico, per un brano saltellante e decisamente piacevole, in cui Kurt canta un po’ alla maniera di Lou Reed; That’s Life, Tho (Almost Hate To Say) è più acustica ed intima, la chitarra arpeggiata, la melodia discorsiva, quasi parlata ed un’atmosfera agreste formano un insieme di grande fascino.Wheelhouse è ancora lenta, ma si apre a poco a poco, in coincidenza con l’ingresso dei vari strumenti: Kurt ha anche qui un modo di cantare un po’ monotono, ma funzionale all’esito del brano (in ogni caso sei minuti sono un po’ tanti), Life Like This vede il piano in evidenza, mentre le voci che si incrociano e l’uso delle tastiere danno un sapore barrettiano al tutto, un pezzo indubbiamente creativo anche se in questo caso meno immediato.

La folk song All In A Daze Work mi piace di più, anche se il mood malinconico ed interiore rimane, ma il fatto che ci sia solo Kurt con la sua chitarra la rende degna di nota; Lost My Head There è la più lunga del CD, ma è anche una delle più riuscite: piano in primo piano (scusate il bisticcio), voce un po’ distante, ritmo mosso e soluzioni sonore in sottofondo che la rendono un po’ bizzarra ma intrigante, ed il crescendo finale decisamente psichedelico completa l’opera. Stand Inside è folk-rock con qualche sensazione onirica, e ha una melodia circolare, mentre Bad Omens è la più breve del disco (meno di tre minuti), ed è uno strumentale guidato dal piano e con una chitarra distorta sullo sfondo, senza una vera e propria melodia, quasi fosse una lunga introduzione per una canzone che non c’è; l’album “normale” (non sono in possesso della versione deluxe) volge al termine con l’intensa Kidding Around, ancora tra folk e psichedelia, forse il brano in assoluto più simile allo stile di Gripka, e con Wild Imagination, ancora piano e chitarra acustica in evidenza per una delle canzoni più dirette, che chiude in maniera positiva un disco piuttosto buono e che non deluderà chi già ha apprezzato i lavori precedenti di Kurt Vile.

Marco Verdi

Di Nuovo Dalla Danimarca Con Furore! Thornbjorn Risager & The Black Tornado – Songs From The Road

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Thorbjorn Risager & Black Tornado – Songs From The Road – CD/DVD Ruf 

Certamente la Danimarca non è il primo paese a cui si pensa quando si tratta di Blues, ma siccome sono le eccezioni che confermano le regole Thorbjorn Risager con i suoi Black Tornado è un perfetto esempio di questo assunto. Dalla patria di Amleto, degli Aqua e dei Michael Learns To Rock (idoli dei filippini), ma anche di Lars Ulrich, il batterista dei Metallica: forse l’unico contributo alla musica rock, potrebbe essere quello dei Burnin’ Red Ivanohe, band rock progressiva in azione dal finire degli anni ’60, e tutt’ora in attività. Invece Risager e soci si inseriscono a pieno diritto nel filone blues, vincitori più volte come miglior band danese, ma anche segnalati da riviste europee, inglesi ed americane tra i migliori rappresentanti del Blues continentale, con una decina di album al loro attivo, tra cui un paio di live, fautori di uno stile che privilegia l’uso di una formazione abbastanza ampia, con tre fiatisti, sezione ritmica, un tastierista, un chitarrista e lo stesso Risager, all’altra chitarra, solista e ritmica, e per la registrazione di questo Songs From The Road, anche un paio di voci femminili di supporto, quindi dieci musicisti sul palco che creano un sound completo e soddisfacente che spazia tra le classiche 12 battute,  con echi soul & R&B, boogie e R&R, la classica revue di stampo americano.

Conoscevo già alcuni album precedenti di Thorbjorn Risager, distribuiti in Europa dalla Dixiefrog, anche se è con il disco dello scorso anno, il primo per la Ruf, Too Many Roads, che si sono fatti conoscere e da cui proviene gran parte del materiale presente in questo Live, anche se un paio di canzoni erano su Track Record, il disco del 2010 in cui li avevo sentiti per la prima volta e che mi aveva colpito http://discoclub.myblog.it/2010/07/25/temp-c9257c271ae90042d8fcdbe2ad63bdbf/ . Ovviamente il punto focale della band è Risager, cantante dalla voce potente e duttile, un timbro basso e baritonale che potrebbe ricordare quello di altri bianchi che hanno cantato il blues, come Chris Farlowe o David Clayton-Thomas, fatte le dovute proporzioni, ma comunque un frontman più che adeguato alla bisogna. Intorno a lui ruota una formazione dove la chitarra di Peter Skjerning e le tastiere di Emil Balsgaard sono spesso alla ribalta, insieme alla sezione fiati, utilizzata non solo in funzione di accompagnamento ma anche con ampi spazi solisti dei singoli componenti, e con lo stesso Risager, ottimo chitarrista, spesso in primo piano con la sua Gibson che non lo abbandona mai nel concerto. Per darci un riferimento potremmo essere dalla parti dei Roomful Of Blues, anche se lì si viaggia più sullo stile swing-jump da big band e qui su un blues venato di rock più elettrico, ma i punti di contatto ci sono. CD e DVD (questo con tre brani in più) replicano lo stesso concerto registrato nell’aprile di quest’anno all’Harmonie di Bonn, venue preferita dalle band sotto contratto per l’etichetta di Thomas Ruf.

Come prima impressione mi sembra che il concerto non decolli immediatamente, o forse in base agli ascolti passati le mie aspettative erano maggiori, ma poi quando la band inizia a carburare è un vero piacere ascoltarli, per certi versi ricordano anche una versione maschile, per la leadership vocale, dei Sister Sparrow di Arleigh Kincheloe http://discoclub.myblog.it/2015/07/13/piu-sparviero-che-passerotto-sister-sparrow-and-the-dirty-birds-the-weather-below/ . Tutti i brani, con l’eccezione di tre cover mirate, portano la firma di Risager, che comunque opera nell’ambito delle variazioni sui canoni classici del blues e dintorni: China Gate era nelle colonna sonora di un vecchio film di Sam Fuller dallo stesso titolo, mentre Baby Please Don’t Go e Let The Good Times Roll le conosciamo tutti in mille versioni. Molti componenti in giacca e cravatta formali, tanti cappelli che nascondono gli anni che passano, ma la grinta di Risager e soci è evidente sin dall’apertura della poderosa If You Wanna Leave, con il vocione di Thorbjorn subito sul pezzo in un vorticare di organo, assoli di sax, chitarre e armonie vocali delle due coriste a sostenerlo con energia, Paradise è più atmosferica e ricercata, ma gli elementi sonori sono quelli, Drowning introduce elementi quasi jazzati da ballata notturna, mentre Baby Please Don’t Go viaggia tra R&R e blues come richiede il copione.

Too Many Roads è classico blues urbano, sulle ali della slide malandrina di Skjerning, mentre in China Gate è Risager il solista per un blues di nuovo dalle atmosfere sospese e ricercate, da paludi della Louisiana. Rock’n’Roll Ride e la lunghissima Let The Good Times Roll spargono ritmo e sudore sui convenuti alla serata, ma il nostro sa incantare anche con ballate soul suadenti come Through The Tears o la dolcissima I Won’t Let Down, con uno struggente assolo di tromba e non manca neppure una stonesiana High Rolling. A chiudere Opener (?1?), un’altra esplosione ritmica di voci, fiati, chitarre e tastiere in libertà, e tutto il resto della band non è da meno!

Bruno Conti    

Il Ritorno Dell “Aquila” Texana! Don Henley – Cass County

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Don Henley – Cass County – Capitol CD – Deluxe Edition

Don Henley, batterista, cantante e co-leader, insieme a Glenn Frey, degli Eagles, cioè una delle band più popolari del pianeta, da solista non è mai stato molto prolifico: solo cinque dischi (compreso l’ultimo) in 35 anni, cioè da quando le Aquile si sono separate (prima della reunion del 1994), e ben quindici anni lo separano dal precedente Inside Job. Di Cass County (titolo che deriva dal luogo da cui proviene Don, in Texas) si vociferava ormai da un paio d’anni, ed ora è finalmente disponibile in due versioni, normale con dodici brani e deluxe con sedici (che è quella di cui vado a parlarvi), e se Inside Job era un buon disco di rock californiano, qui indubbiamente siamo su un livello superiore.

 

La caratteristica principale di Cass County è di essere un disco di musica country, ma non country-rock alla maniera delle Aquile, proprio country classico: una serie di ballate perlopiù lente, dove dominano chitarre, piano e steel (oltre alla voce sempre bellissima di Henley), suonate, come si suole dire, in punta di dita, da un manipolo di veri e propri fuoriclasse, tra cui l’ex Heartbreaker Stan Lynch (che produce il disco e scrive con Don la maggior parte delle canzoni), Glenn Worf, Gregg Bissonette, l’ottimo chitarrista Steuart Smith (che nella live band degli Eagles ha preso il posto di Don Felder), Jerry Douglas, Greg Morrow e Dan Dugmore, mentre Don non suona nessuno strumento, neppure la batteria, occupandosi soltanto di cantare, riuscendoci piuttosto bene. Neppure gli Eagles avevano mai fatto un disco tutto di country, eppure Don non solo se la cava come il più consumato dei country singers, ma porta a termine un lavoro che si pone tra i più riusciti del genere in tutto il 2015: oltre alle canzoni una segnalazione la merita il suono, davvero scintillante, e, come ulteriore ciliegina, una quantità di ospiti d’onore veramente impressionante (che nominerò man mano), artisti che danno lustro ad un disco che però avrebbe retto benissimo anche senza di loro.

L’album parte con una cover di Tift Merritt, scelta sorprendente se consideriamo la statura di Henley rispetto alla pur brava musicista texana: Bramble Rose è una dolce country ballad, lenta e meditata, dall’ottimo impatto emotivo e nobilitata dalle voci (cantano una strofa a testa) di Miranda Lambert e soprattutto di sua maestà Mick Jagger (anche all’armonica), che con tutto il rispetto per Henley quando apre bocca fa salire la temperatura. The Cost Of Leaving vede la partecipazione di un’altra leggenda, cioè Merle Haggard, ma il brano, uno slow intenso e toccante, si regge sulle sue gambe, anche se Hag aggiunge carisma; No, Thank You, con la voce e la chitarra di Vince Gill, è invece un gustosissimo rockin’ country, elettrico e decisamente coinvolgente. Waiting Tables (con Jamey Johnson e Lee Ann Womack), è un perfetto country-rock di stampo californiano, un pezzo solare che più degli altri starebbe bene in un disco delle Aquile https://www.youtube.com/watch?v=9jNA5pLMjEs , mentre Take A Picture Of This è una ballata ad ampio respiro, con un deciso sapore sixties ed una melodia ben costruita. Too  Far Gone (scritta da Billy Sherrill e portata al successo da Lucille Starr), che vede ancora Johnson alle armonie, stavolta con Alison Krauss, è un puro honky-tonk d’altri tempi, con il piano in evidenza ed uno stile figlio di George Jones; That Old Flame (in duetto con Martina McBride) ha un ritmo pulsante ed un ottimo crescendo, un pezzo meno country e più rock, anche se torniamo subito in zona ballad con una cover bucolica e cristallina del classico di Jesse Winchester, The Brand New Tennessee Waltz, con Don che canta come sa e regala emozioni a palate.

Siamo appena a metà CD, ma il resto prosegue sullo stesso livello: Words Can Break Your Heart ospita Trisha Yearwood, ed il brano è una rock ballad solida e vibrante, subito seguita da When I Stop Dreaming, un classico dei Louvin Brothers, nel quale il nostro divide il microfono con Dolly Parton, e la canzone, un country che più classico non si può, è uno dei più riusciti del lavoro. L’intensa Praying For Rain è un chiaro esempio di songwriting maturo che trascende i generi, Too Much Pride è ancora honky-tonk deluxe, mentre She Sang Hymns Out Of Tune, una hit di Harry Nilsson scritta da Jesse Lee Kincaid, è uno scintillante valzerone texano che Don canta con l’ausilio di due terzi delle Dixie Chicks, cioè le sorelle Martie Maguire ed Emily Robison, dette anche Court Yard Hounds https://www.youtube.com/watch?v=4QHkhiWEUyg . Non avevamo ancora incontrato Lucinda Williams, ed ecco che la troviamo armonizzare con la sua caratteristica voce nella fluida Train In The Distance; l’album termina con la gentile A Younger Man, suonata e cantata con la consueta classe, e con Where I Am Now, elettrica e potente, in assoluto la più rock del disco. (NDM: esiste una versione del CD in esclusiva per la catena Target con due brani ancora in più, che però non ho ascoltato: It Doesn’t Matter To The Sun (con Stevie Nicks) https://www.youtube.com/watch?v=jKe7AusIgo4  e Here Comes Those Tears Again).

Stabilito quindi che Cass County è il miglior disco da solista di Don Henley, può essere giudicato il migliore solo album di un Eagle in assoluto? Direi di sì, anche se a dire il vero non ci voleva molto.

Marco Verdi

Una “ Piccola Gemma” Indie-Folk ! Ballroom Thieves – A Wolf In The Doorway

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Ballroom Thieves – A Wolf In The Doorway – Blue Corn Music

Sotto l’impulso dei (primi) Mumford & Sons si sono formate valide formazioni musicali come i Lumineers, un trio di Denver, gli islandesi Of Monsters And Men, e  i sorprendenti Bear’s Den (trovati occasionalmente girando un po’ in rete), come è capitato anche per questi Ballroom Thieves (dal nome bello e furfantesco, Ladri Delle Sale Da Ballo), un trio di musicisti provenienti da Boston, composto da Martin Earley alle chitarre, Devin Mauch alle percussioni, e la graziosa Calin Peters al cello. Dopo due EP sfornati (e accolti favorevolmente dalla stampa specializzata) Devil & The Deep (12) e l’omonimo The Ballroom Thieves (13), vengono messi sotto contratto dalla label indie Blue Corn,  e riescono a farsi conoscere a livello nazionale con questo A Wolf In The Doorway. Li aiutano in questo progetto musicisti di area “bostoniana” tra i quali Ariel Bernstein al piano, Dan Cardinal e Kirsten Lamb al basso, Bret Dale e George Woods alle chitarre elettriche, Abigate Reisman al violino, Mike Irvin alla tromba, e il bravissimo polistrumentista Charlie Rose, per una serie di canzoni folk profonde e suggestive, eseguite con perfette armonie vocali.

Si sale sulla pista da ballo con la tambureggiante Archers, una canzone perfetta per aprire le danze (e muovere i piedini), seguita dal vibrante violoncello che accompagna Lantern, mentre Bullett è un brano tipicamente irlandese, che inizia lentamente e poi si trasforma in una “giga”tutta da ballare. Con Saint Monica arriva la prima splendida ballata del disco, cantata da Devin con sentimento ed emozione, sulle note struggenti di un violino https://www.youtube.com/watch?v=Hhr-8qkNfWo , per poi passare alle atmosfere semi-acustiche di Wild Woman, al blues-folk di una Oars To The Sea con il suono di una bella chitarra “slide”, e tornare alle romantiche note di Bury Me Smiling, cantata con trasporto dalla brava Calin https://www.youtube.com/watch?v=WcrMjYrj2oM , e ricordare i migliori Mumford & Sons con una meravigliosa The Loneliness Waltz. Here. I Stand fa scoprire la parte più rock del gruppo, mentre un delizioso giro armonico accompagna la voce della Peters nella rilassante Anchors, a cui fanno seguito le note acustiche e melodiche di una sussurrata Oak,  infine si spengono le luci in sala sulle note struggenti di un violoncello per una intrigante Wolf, sostenuta da banjo, tromba e clarinetto, brano in cui i Ballroom Thieves ci portano verso il Sud dell’America.

In questi ultimi anni i ladri” si sono trovati ad aprire i concerti di gruppi affermati come i Railroad Earth, e di band abbastanza simili a loro quali Lone Bellow e Houndmouth, proponendo un suono molto distintivo che si basa primariamente sulle radici della musica popolare americana. A Wolf In The Doorway non sarà certamente il “disco dell’anno” (e neppure del mese), ma personalmente faccio fatica a trovare alcun difetto a questo lavoro, in quanto il suono è di prima qualità, le voci sono belle e armoniose, e le canzoni si fanno ascoltare piacevolmente. Consigliato a chi ama il genere, e in modo particolare a tutti quelli che sono rimasti delusi dai Mumford & Sons di Wilder Mind. Da tenere d’occhio !

Tino Montanari

Un Altro “Figlio” Del Laurel Canyon? Israel Nash – Israel Nash’s Silver Season

israel nash silver season

Israel Nash – Israel Nash’s Silver Season – Loose/Thirty Tigers CD

Israel Nash Gripka (il cognome si è perso per strada negli ultimi anni) è uno che, sia fisicamente che musicalmente, potremmo definire un’anima in pena. Nativo del Missouri, si trasferisce nel 2006 a New York (Brooklyn per l’esattezza), dove pubblica tre anni dopo un primo album, New York Town, che non ha molta fortuna. Quindi si sposta sulle Catskill Mountains (sempre nello stato di New York), ufficialmente in cerca di ispirazione, e la mossa funziona, in quanto Israel partorisce quello che ancora oggi per molti è il suo disco-manifesto, Barn Doors & Concrete Floors, un riuscito album di Americana, che segnala il nostro come uno dei nomi su cui puntare per il futuro del movimento roots http://discoclub.myblog.it/2011/04/04/e-questo-perche-l-ho-saltato-israel-nash-gripka-barn-doors-a/ . Ma Gripka non è ancora contento: si sposta quindi in Texas, ed invece di proseguire il discorso introdotto con il suo secondo lavoro, magari corroborandolo con elementi riconducibili al Lone Star State, decide di fare (stavolta solo in maniera figurata) un salto nella California dei primi anni settanta, pubblicando (nel 2013) Rain Plans, nel quale Israel adotta sonorità tipiche di quel momento storico, quando cioè il Laurel Canyon era il luogo più cool d’America e If I Could Only Remember My Name di David Crosby era il disco di riferimento dell’epoca. Un cambio a 360 gradi che però ha suscitato più ammirazione che critiche, tanto che Israel si è sentito in dovere di proseguire il discorso, ampliandolo, con il suo nuovissimo album Silver Season.

Un rock cantautorale con più di un accenno psichedelico, sonorità spesso sospese a mezz’aria, brani lunghi ed articolati ed atmosfere talvolta al limite dell’onirico: molti critici lo hanno giustamente paragonato al Neil Young più intimista e “triste” (quello di dischi come On The Beach e Tonight’s The Night), anche per il timbro vocale molto simile a quello del canadese, ed anche a Jonathan Wilson, con il quale ha obiettivamente più di un punto in comune. Ad un primo ascolto di Silver Season io aggiungerei qualcosa dei Pink Floyd (un gruppo decisamente sdoganato negli ultimi anni, si vedano anche le riproposte dal vivo dei loro brani da parte dei Gov’t Mule) e, in generale, un altro nome che mi viene in mente spesso è quello di Chris Robinson, sia per le sonorità che per lo stile delle copertine dei CD. Accompagnano Gripka i suoi soliti compagni di ventura (Eric Swanson, Joey ed Aaron McClellan, Josh Fleishmann) ed il produttore è Ted Young, da sempre partner di studio di Israel e di recente anche con Kurt Vile.

L’album presenta nove canzoni di lunghezza medio-alta (dai quattro minuti e mezzo a quasi sette), con una musicalità molto simile tra un brano e l’altro, tanto che si potrebbe tranquillamente ascoltare senza pause, come se fosse un brano unico: nonostante questo Silver Season è ricco di spunti interessanti e non ci si annoia mai. Intrecci chitarristici, sonorità eteree, voci spesso lontane ed un uso massiccio del mellotron (strumento ormai da considerare vintage), con soluzioni melodiche sempre intriganti e mai banali. Willow apre il disco in maniera lenta, poi entra la ritmica, la chitarra arpeggia ed una steel langue sullo sfondo, Israel inizia a cantare con la sua voce fragile, che in questo brano appare più come uno strumento aggiunto: infatti il pezzo, lungo e fluido, funzionerebbe alla perfezione anche come strumentale. Parlour Song ha un’atmosfera sognante, la psichedelia inizia ad insinuarsi anche se, dopo poco più di un minuto, il brano cambia registro e diventa una ballata younghiana al 100%, con suoni elettrici e strumenti che sembrano sospesi in aria: il tutto ha un indubbio fascino, e la parte strumentale centrale floydiana aggiunge ancora maggior spessore https://www.youtube.com/watch?v=ZlIcUb2MH04 .

Anche The Fire And The Flood ha diverse frecce al suo arco: voce suadente, solita bella steel e suono più vicino ad un certo country “cosmico” che aveva in Gram Parsons la sua figura centrale; L.A. Lately ha invece un avvio inquietante, ma poi il brano diventa una ballata bucolica di grande limpidezza, ancora con la figura del Bisonte canadese ben presente, ed un suono che potrebbe essere l’anello mancante tra Harvest e On The Beach: splendido poi il crescendo finale corale e chitarristico. Lavendula entra subito nel vivo, una rock ballad giusto a metà tra i Floyd più bucolici (il suono) e Young (la voce); Strangers è più meditata ed interiore, anche se la band fornisce il solito tappeto sonoro ricco e creativo. A Coat Of Many Colors (nonostante il titolo, non è il classico di Dolly Parton) è l’apoteosi del sound di Gripka, come se Young avesse Gilmour e Waters al posto di Sampedro e Talbot nella band, si può dire psych-country https://www.youtube.com/watch?v=RzB9SB1pxdM ? L’album volge al termine, il tempo di gustarsi Mariner’s Ode, in assoluto il pezzo più movimentato e diretto del CD, anche se qualcosa di ovattato nel suono rimane, e The Rag & Bone Man, languida, sognante, quasi crepuscolare, degna conclusione di un disco impegnativo e fruibile nello stesso tempo.

Marco Verdi

Il “Solito” Album Di Joe Louis Walker, Quindi Bello! Everybody Wants A Piece

joe louis walker everybody wants a piece

Joe Louis Walker –  Everybody Wants A Piece – Mascot/Provogue 

Joe Louis Walker, nelle biografie più o meno ufficiali, fa risalire l’inizio della sua carriera al 1964-1965, quindi all’età di circa 16 anni (essendo nato il giorno di Natale del 1949 a San Francisco, California), prima nella zona della Bay Area in gruppi locali, poi a contatto con i grandi, soprattutto Mike Bloomfield, insieme al quale forgia una amicizia che durerà fino alla scomparsa di Bloomfield nel 1981, e con cui condividerà anche una stanza negli anni più bui di Mike. Nei primi anni conosce e frequenta pure Hendrix, John Lee Hooker, Mayall, Willie Dixon e moltissimi altri, ma la sua carriera discografica, caratterizzata da una lunga gavetta (come usa nell’ambiente), non decolla fino al 1986 quando pubblica il primo disco. Da allora ha inciso per moltissime etichette, la Hightone all’inizio, poi la Universal quando si chiamava ancora Polygram, la Telarc, la Evidence, la JSP, di nuovo la Hightone, una prima volta con la Provogue, la Stony Plain ed infine la Alligator, dove pubblica gli ultimi due dischi, Hellfire e Hornet’s Nest, probabilmente, a parere di chi scrive, i migliori della sua carriera, entrambi prodotti da Tom Hambridge, che con il suo manipolo di abilissimi musicisti e sessionmen estrae il meglio da JLW, che comunque, bisogna dire, ha sempre mantenuto un livello qualitativo molto elevato in tutta la sua produzione http://discoclub.myblog.it/2014/02/07/nel-nido-del-blues-joe-louis-walker-hornets-nest/ .

Per il ritorno con la Provogue Walker si affida ad un altro produttore (e chitarrista) di vaglia come Paul Nelson, a lungo collaboratore di Johnny Winter nell’ultima parte di carriera, che negli studi Chop Shop di Philadelphia lo affianca con la sua touring band abituale, Lenny Bradford, Byron Cage la sezione ritmica e Phillip Young alle tastiere, con lo stesso Joe impegnato anche all’armonica, oltre che a chitarra e voce, e ancora una volta estrae il meglio dal musicista californiano. Walker, sempre secondo il sottoscritto, con Robert Cray (reduce da un live strepitoso uscito recentemente http://discoclub.myblog.it/2015/09/02/quattro-decadi-del-migliori-blues-contemporaneo-robert-cray-band-4-nights-of-40-years-live/ ) è probabilmente uno dei migliori rappresentanti del cosiddetto “black contemporary blues”, uno stile che ingloba il meglio del Blues del 21° secolo (ma anche di quello precedente): voce potente, duttile ed espressiva al tempo stesso, capace di calarsi anche nei meandri della soul music più raffinata, uno stile chitarristico al tempo stesso aggressivo e ricco di tecnica, con elementi rock e tradizionali che si fondono in un solismo da virtuoso, ricco di feeling, ma capace di sfuriate improvvise e reiterate. Tutti elementi contenuti anche negli undici nuovi brani che compongono questo Everybody Wants A Piece: dalle furiose sferzate chitarristiche dell’iniziale e tirata title-track, con sezione ritmica e organo a seguire in modo quasi telepatico le evoluzioni del leader https://www.youtube.com/watch?v=FOOgJ6Ngcf8 , passando per la claptoniana Do I Love Her, dove Walker sfodera anche una armonica pungente e puntuale, e ancora una Buzz On You dove si vira verso un boogie R&R quasi stonesiano, o meglio ancora alla Chuck Berry che è l’articolo originale, con Young che raddoppia anche al piano.

Non manca Black & Blue, storia di un amore che cade a pezzi raccontata con un tempo incalzante, tra errebi ed eleganti atmosfere sospese che ricordano quelle tipiche del miglior Cray, ma anche le linee sinuose e moderne di Witchcraft, dove la solista di Joe Louis Walker comincia ad affilare gli artigli o le leggere derive hendrixiane di One Sunny Day, dove l’unisono voce-chitarra ricorda echi del grande Jimi https://www.youtube.com/watch?v=iF_RLwyMYYI . Ottimo anche il lungo strumentale Gospel Blues, un classico slow, dove la chitarra di Walker si avventura in tematiche care a Ronnie Earl, con un brano che è un giusto mix di tecnica sopraffina, feeling a palate e folate di grinta, un solo che avrebbe incontrato l’approvazione del vecchio amico Mike Bloomfield. E niente male anche il gospel soul dal profondo Sud di una ritmata Wade In The Water, così come pure il R&B fiatistico alla Sam & Dave della coinvolgente Man Of Many Words, con la chitarra comunque sempre pronta per improvvisazioni di grande spessore tecnico https://www.youtube.com/watch?v=YC9kRzEHJ18 . Gli ultimi due brani sono quelli più vicini al blues classico, Young Girls Blues è un tirato shuffle Chicago style, con pianino inevitabile di supporto, mentre per la conclusiva 35 Years Old JLW rispolvera l’armonica a bocca e aggiunge anche una slide malandrina che alza la quota di sonorità più vicine alle migliori tradizioni delle 12 battute. Quindi nuova etichetta ma per fortuna vecchio Joe Louis Walker, cioè ottimo, anche se i due dischi precedenti si fanno ancora preferire, di poco!

Bruno Conti

Uno Dei Migliori Live “Minori” Dell’Anno! Micky & The Motorcars – Across The Pond: Live From Germany

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Micky & The Motorcars – Across The Pond: Live From Germany – Blue Rose CD

Il titolo è un po’ un ossimoro, ma se escludiamo i mostri sacri della nostra musica, per i quali pubblicare un disco dal vivo epocale è sempre stato quasi un atto dovuto (facendo anzi notizia quando il risultato era deludente o appena normale), poche volte sono sobbalzato sulla poltrona ascoltando un live di un cosiddetto outsider (categoria comunque sempre molto numerosa) come nel caso di questo Across The Pond ad opera dei texani Micky & The Motorcars: di primo acchito mi ricordo soltanto il Live At Liberty Lunch di Joe Ely (all’epoca avevo 19 anni, quindi Joe per me era un totale sconosciuto) ed in anni più recenti il doppio Stay Alive! degli italiani Cheap Wine, che avevo fino a quel momento sempre apprezzato ma non al punto di pensarli capaci di suonare in maniera tanto infuocata su di un palco. Il combo guidato dai fratelli Micky e Gary Braun (fratelli a loro volta di Willy e Cody Braun dei Reckless Kelly, quindi una bella famiglia musicale, complimenti alla mamma!) mi aveva già colpito positivamente lo scorso anno con il riuscito Hearts From Above (sesta prova di studio dal 2003), un solido e vibrante CD di puro country-rock made in Texas, ma sinceramente non pensavo che i cinque (completano la band Dustin Schaefer alla chitarra solista, Joe Fladger al basso e Bobby Paugh alla batteria) avessero nelle corde un disco dal vivo di questa portata.

Registrato nel 2013 nelle città tedesche di Heilbronn e Stoccarda, Across The Pond è una superba collezione di canzoni elettriche e pulsanti, rock’n’roll allo stato puro con elementi country, tre chitarristi ed una sezione ritmica con le contropalle, che inoltre hanno in repertorio una serie di brani scritti in maniera perfetta, intensi ed orecchiabili nello stesso tempo, che rimandano in più punti allo Steve Earle dei primi album, anche per il timbro della voce di Micky. Un live album strepitoso, che mi farà a lungo compagnia nei prossimi mesi, e che sarebbe un delitto ignorare solo perché non è rilasciato da una band blasonata e famosa. Chitarre, batteria e basso formato macigno, chitarre, gran voce, ottime canzoni ed ancora chitarre: i fratelli Braun non inventano niente, ma al momento sono tra i migliori a fare quello che fanno. L’inizio è indicativo di come sarà il disco: Any Longer Anymore è una splendida rock’n’roll song venata di country, melodia limpida e ritmo galoppante, con le Motociclette che suonano alla grande un brano tutto da gustare.

Nobody’s Girl continua con la goduria, chitarre ruspanti, voce earliana e foga rockandrollistica figlia di band come i Rolling Stones e gli Heartbrakers di Tom PettySouthbound Street è un intenso honky-tonk elettrico, da assaporare fino all’ultima nota, meglio se con una birra ghiacciata in mano; Rock Springs To Cheyenne è puro Texas, consueta ritmica solida e spedita, ottimi fraseggi di slide e consueto refrain da applausi: il brano si fonde con la fluida Big Casino, con la quale ha più di un punto in comune, anche se qui Micky cede il microfono a Gary. Anche Raise My Glass è una grande canzone, dai toni quasi epici e suonata come al solito con precisione millimetrica; la grintosa Fall Apart ci fa immaginare macchine decappottabili e lunghe strade nel deserto, mentre Sister Lost Soul (scritta da Alejandro Escovedo) è un pezzo che si integra alla perfezione con il sound dei nostri, ed anche qui il ritornello è da urlo. La saltellante e deliziosa The Band Song precede la rocciosa Tonight We Ride, un rock’n’roll puro e semplice, ma diretto come un pugno nello stomaco; l’album si chiude con la vibrante St. Lucy’s Eyes, rock song solida e dallo script adulto, e con la roboante Bloodshot, irresistibile finale epico e chitarristico, tesa come una lama e con Micky decisamente sul pezzo vocalmente parlando https://www.youtube.com/watch?v=_HGNobmBrv4 .

Un live da non perdere, una band che in un mondo giusto se la batterebbe con i grandi, ed anche con i meno grandi ma decisamente più fortunati.

Marco Verdi