Che Grinta La Ragazza! Stacie Collins – Roll The Dice

stacie collins roll the dice

Stacie Collins – Roll The Dice – Rev/Blue Rose/Ird 

Questo disco è pura dinamite. Di Stacie Collins, rocker originaria dell’Oklahoma (è di Muskogee, luogo citato in uno dei brani più celebri e controversi del suo idolo Merle Haggard) avevo già ascoltato il disco precedente, Sometimes Ya Gotta, che era già una discreta bombetta, ma con questo Roll The Dice (il suo quinto album) Stacie fa anche meglio, consegnandoci un lavoro di puro rock’n’roll chitarristico, infuocato, vibrante, diretto come un pugno nello stomaco. Stacie nutre la stessa passione sia per Buck Owens che per Sonny Boy Williamson (è anche un’ottima armonicista) e ciò si riflette nella sua musica, che ha elementi country e blues equamente divisi, ferma restando una base rock vigorosa come poche, il tutto cantato con una grinta fuori dal comune. La band che accompagna la Collins in Roll The Dice è un treno in corsa: oltre al marito Al Collins, bassista, produttore del disco e songwriting partner della ragazza, abbiamo come punta di diamante l’ex Georgia Satellites Dan Baird alla chitarra solista, doppiato da Audley Freed (che ha suonato con i Black Crowes e Jacob Dylan) ed alla batteria da Brad Pemberton (Ryan Adams, Willie Nelson), un combo che suona in maniera potente e senza fronzoli, aiutato anche dalla produzione limpida e diretta che mette sempre le chitarre in primo piano.

Non c’è molto altro da dire, se non mettersi seduti e godersi quasi quaranta minuti di sano e corroborante rock’n’roll, a partire da Lost And Found, una frustata, un brano che va spedito come un missile, con Stacie che dimostra di avere le palle, musicalmente parlando, nonostante il suo aspetto fisico più che gradevole. King Of Rock è roccata come da titolo, piuttosto dura e con qualche elemento blues, ed ottimi interventi della ragazza all’armonica e di Baird alla sei corde https://www.youtube.com/watch?v=d7x1SMqzwjc ; Gonna Fly risulta leggermente più distesa ma con la ritmica sempre pressante (Stacie non ha dimestichezza con le ballate), con basso e batteria che pestano duro e chitarre e voce che fanno il resto. It’s Over è meno frenetica, il ritmo è più insinuante anche se l’approccio chitarristico è sempre elevato: una rock song a tutto tondo, dura il giusto e cantata con il solito feeling, con una performance finale delle due chitarre da applausi https://www.youtube.com/watch?v=R0DrWNudLCU . Heart On My Sleeve cambia registro, i suoni sono sempre decisi ma il motivo richiama le canzoni romantiche degli anni sessanta, con la fisarmonica (Michael Webb) che dona un sapore messicano, un brano da gustare da cima a fondo; Jani è puro guitar rock, tra Tom Petty e Stones (più il primo), un altro pezzo di intensità notevole, mentre Can’t Do Without You è un hard blues che anche uno come Bonamassa approverebbe, una vera esplosione elettrica (e che grinta la ragazza). L’album si chiude con l’irresistibile Keep Rollin’, piccola parentesi elettroacustica di stampo country, con l’influenza di John Fogerty molto presente, il bluesaccio tendente al rock Later Than You Think, con ottimi spunti di armonica, e Blood Moon, gran finale con un brano che parte in sordina per finire in uno spettacolare crescendo elettrico.

Play it (very) loud!

Marco Verdi

40° Anniversario Per Un “Piccolo Classico” Del Rock. Steve Miller Band – The Joker Live In Concert

steve miller band the joker live

Steve Miller Band – The Joker Live In Concert – Edsel 

Da qualche anno a questa parte è invalsa l’usanza delle serate concertistiche dedicate alla ripresa di un album completo della discografia degli artisti più disparati: lo hanno fatto Springsteen e Patti Smith, Tom Petty e gli Stones, poi ci sono le jam bands che fanno i dischi degli altri, Gov’t Mule e Phish, a Halloween e Capodanno, sono maestri in questo, ora si aggiunge anche la Steve Miller Band, che in occasione del 40° anniversario dell’uscita di The Joker ha voluto festeggiare con un concerto quello che forse non è il più bello o di maggiori vendite album della propria discografia ( titolo che spetta rispettivamente a Fly Like An Eagle e Book Of Dreams, e al Greatest Hits) ma sicuramente uno dei più divertenti e piacevoli, come conferma questa riproposizione Live, uscita in origine solo per il download digitale lo scorso anno e ora pubblicata in versione fisica dalla Edsel.

Sono solo 9 pezzi per poco più di 40 minuti di musica, non nella stessa sequenza del disco originale, ovviamente The Joker, il brano più conosciuto conclude in bellezza l’esibizione, ma tutti da gustare, con la versione più recente della band di Miller, Kenny Lee Lewis, Gordy Knudtson, Joseph Wooten, Sonny Charles e Jacob Petersen, oltre alle ospitate di Gary Mallaber e Lonnie Turner che suonavano nel disco originale. I brani mantengono la freschezza dell’album del 1973, con in più lo spirito e l’improvvisazione della esibizione dal vivo, a partire dalla apertura, con tanto di finta puntina che scende sul disco, e la versione di Come On In My Kitchen di Robert Johnson, che era comunque Live anche nel disco di allora, e ci permette di gustare le radici blues del nostro, che iniziò appunto come Steve Miller Blues Band, e si conferma, per tutto il disco, fior di chitarrista. The Lovin’ Cup, con florilegio di chitarre acustiche, perfettamente riprodotte anche nella dimensione dal vivo, si avvale pure di organo e armonizzazioni vocali in puro stile sixties, grazie anche alla presenza di Sonny Charles, che sostituisce pure all’armonica il compianto Norton Buffalo, mentre Something To Believe In, che con le sue armonie country chiudeva la seconda facciata del disco originale, e dove la pedal steel era suonata da Sneaky Pete Kleinow, illustra un lato poco noto della musica di Miller https://www.youtube.com/watch?v=aZd0Y3W9BKY , che torna a colorarsi delle classiche 12 battute, con il sinuoso slow Blues Evil, non il pezzo di Howlin’ Wolf, bensì una composizione di Steve, una morbida ballata, ma con la solita chitarra solista in bella evidenza https://www.youtube.com/watch?v=qsGlhTGYUlo .

Mary Lou è un divertente funky R&B che oltre a Miller hanno anche inciso Ronnie Hawkins, Bob Seger, Gene Clark e Frank Zappa, tra i tanti, con Steve alle prese con un minaccioso wah-wah e, Shu Ba Da Du Ma Ma Ma Ma, che come il titolo fa il paio con quelli più “sciocchini” scritti da Sting, che ha un riff e un ritornello quasi memorabile tipo quello della title-track, con la band che si diverte e trascina il pubblico, come la Steve Miller Band dei tempi d’oro. E anche Your Cash Ain’t Nothi’ But Trash rientra nel ristretto novero delle canzoni più coinvolgenti del gruppo, di nuovo con il wah-wah a menare le danze, per proseguire nella festa del riff con una “ululante” Sugar Babe, sempre condotta con un irresistibile groove che era appannaggio della band allora come oggi, quando la senti non puoi non esclamare “ma è Steve Miller” https://www.youtube.com/watch?v=nCPW56RFEKg ! A maggior ragione con uno dei brani che ha uno dei riff e ritornelli più riconoscibili della storia del rock, quella The Joker che per la prima volta li portò alle vette delle classifiche americane, che è l’occasione per riunire lo “Space Cowboy” e il “Gangster of Love” ancora una volta con i suoi amici, cinque minuti di puro divertimento, come peraltro tutto il resto dell’album: non sarà un capolavoro ma il disco, pure in questa versione dal vivo rivisitata, è un vero piacere da (ri)ascoltare.

Bruno Conti

Un “Eroe Non Celebrato”! Albert Lee – Highwayman

Albert Lee Highwayman

Albert Lee – Highwayman – Palm Bridge 

Albert Lee è uno di quei rari personaggi che si è soliti definire “unsung heroes” (l’italiano “eroi non celebrati” è forse troppo epico): spesso confuso con il quasi omonimo Alvin Lee “Ah, ma è quello dei Ten Years After”! Però a ben guardare il nostro è già in azione dai primi anni ’60, all’inizio nella band R&B dei Thunderbirds che accompagnava il giovane Chris Farlowe (e dove verrà sostituito da Richie Blackmore, che ne ha più volte magnificato le doti, e se guardate bene, nella versione in studio di Gemini Suite di Jon Lord, c’era proprio Lee alla chitarra). Nello stesso periodo forma gli Heads, Hands & Feet, una grandissima band country-rock che era la risposta europea ai Flying Burrito Brothers e alla Nitty Gritty (purtroppo, o per fortuna, gli anni passano, fate voi, li ho anche visti dal vivo ai tempi, fantastici), poi si trasferisce negli USA, dove suona prima con i Crickets e in seguito nella Hot Band di Emmylou Harris, sostituendo James Burton (uno dei suoi eroi musicali, con cui recentemente ha registrato un disco live di cui vi ho parlato su queste pagine virtuali http://discoclub.myblog.it/2015/06/02/piccolo-ripasso-nella-storia-della-chitarra-elettrica-james-burton-albert-lee-amos-garrett-david-wilcox-guitar-heroes-making-history/); dal 1978 e per cinque anni entra nella band di Eric Clapton, con cui registra anche Just One Night, il doppio dal vivo in Giappone e Money & Cigarettes, dove c’è pure Ry Cooder. Nello stesso anno, 1983, diventa il chitarrista ufficiale nella reunion degli Everly Brothers (andatevi a sentire il bellissimo doppio dal vivo registrato quell’anno), con  i quali rimarrà per oltre 20 anni, alternando quel lavoro con la sua carriera come solista (il primo album Hiding, è solo del 1979) e come leader degli Hogan’s Heroes, un gruppo dalla formazione fluttuante, tutt’ora in attività.

Quindi stiamo parlando di uno dei chitarristi più stimati dai colleghi, conosciuto a livello di culto dagli amanti della buona musica, un vero virtuoso dello stile fingerpicking e flatpicking elettrico, famoso soprattutto per una canzone, la fantastica Country Boy https://www.youtube.com/watch?v=GGEtrEYklzo , anche se la lista delle sue partecipazioni è quasi infinita, soprattutto in ambito country-rock, rockabilly e dintorni, pur se il nostro è in grado di eccellere, nel suo modo discreto e mai invadente, in qualsiasi tipo di musica, il perfetto gregario di lusso. Ma a 70 anni passati Albert Lee decide inaspettatamente di registrare un album tutto acustico in solitaria (salvo pochi brani), questo Highwayman, dove il chitarrista inglese rivisita alcuni dei brani più celebri in cui ha suonato, insieme ad alcune delle sue canzoni preferite. Il risultato, manco a dirlo, è buono, anche se forse non memorabile: Lee è un buon cantante, in possesso di una voce gentile e suadente, ben intonata, ma come ce ne sono tante, si districa bene anche al piano e, ovviamente, è anche un buon chitarrista acustico. Quindi un disco di ballate, canzoni folk e country, brani celebri e meno noti: Bye Bye Love, è quel capolavoro assoluto degli Everly Brothers che ha spinto Simon & Garfunkel a darsi alla musica, qui in una bella versione, con la partecipazione di Mike Berry alla seconda voce e chitarra, il brano lo richiede, e devo dire che Albert si dimostra in ottima forma vocale. Dimming Of The Day per molti è il capolavoro assoluto di Richard Thompson, una canzone di stampo folk, meravigliosa, cantata quasi alla Christy Moore (o alla Luka Bloom se preferite, sempre in quella famiglia siamo), con le ottime armonie vocali di Freddy Schloemer che la rendono ancora più affascinante.

Hey Doll Baby è un altro brano minore degli Everly Brothers, mentre The Highwayman è la celeberrima canzone di Jimmy Webb, resa famosa da quei quattro signori (Cash, Jennings, KristoffersonNelson https://www.youtube.com/watch?v=hi94mMed6EQ ) l’unico brano dove appaiono anche tastiere, batteria e archi per una versione sorprendentemente complessa ed affascinante con Albert Lee che si rivela anche fluente pianista. Skip Rope Song è un altro gioiellino pianistico dal repertorio di Jesse Winchester, con una atmosfera che ricorda il primo Elton John, anche per gli arrangiamenti orchestrali del produttore e factotum Steve Mann. Like Strangers e Sleepless Nights vengono dalla famiglia Felice Boudleaux Bryant, grandi autori, altri esempi di country-folk vocale d’autore. Till I Gain Control Again è quella bellissima canzone scritta da Rodney Crowell per Emmylou Harris, e Albert suonava nella versione originale, qui trasformata in una ballata pianistica, mentre Keep a Knockin’ è il capolavoro R&R di Little Richard, una rara occasione per ascoltare il virtuosismo all’acustica di Albert che eccelle anche in Eighteen Yellow Roses di Bobby Darin, e poi rende omaggio a Buddy Holly in una deliziosa Well Alright. Per concludere un album piacevolissimo, e in fondo, per certi versi, sorprendente, una ultima ballata pianistica scritta da Glenn Campbell, A Better Place.

Bruno Conti

Se Fosse Anche Inciso Bene Sarebbe Perfetto, 2! Stevie Ray Vaughan & Double Trouble – Live…Texas ’87

stevie ray vaughan live...texas '87

Stevie Ray Vaughan & Double Trouble – Live…Texas ’87 2CD Rox Vox 

Un altro? Ebbene, pare di sì, ormai questi CD relativi a broadcast radiofonici paiono spuntare come funghi, e i concerti di Stevie Ray Vaughan sono tra i più gettonati da queste etichette fantasma. Comunque, finché dura, gli appassionati e i fans hanno di che gioire, soprattutto quando la qualità, musicale e in parte sonora, è di questo spessore. Prendiamo il dischetto, anzi i dischetti in questione: per prima cosa il concerto è completo, fatto abbastanza raro in queste (ri)pubblicazioni, la qualità sonora è buona, sia pure con un po’ di statica e soffio della trasmissione radiofonica, ma soprattutto il contenuto è veramente notevole. Siamo al 1° febbraio del 1987, Majestic Theatre di San Antonio, Texas, SRV quindi gioca in casa, è il tour relativo a Live/Alive, il doppio album ufficiale della sua discografia, pubblicato nel 1986 dalla Columbia, ma siamo nella seconda parte di quella tournée, il nostro amico sembra essersi liberato dai suoi problemi di dipendenza da alcol e droghe e suona in modo superbo, nettamente superiore al contenuto del doppio Columbia. In effetti il concerto, trasmesso dall’emittente texana KZEP-FM, è veramente fantastico: accompagnato dai soliti Double Trouble, Layton, Shannon e Wynans, Vaughan dà vita ad una delle migliori esibizioni che mi è capitato di sentire, sia da dischi ufficiali, come da bootleg, e probabilmente i due compact meriterebbero anche, in una ipotetica valutazione, una mezza stelletta in più, se fossero incisi meglio, per quanto…

Dopo l’introduzione dell’emittente radiofonica che racconta brevemente il ritorno del figliol prodigo a casa sua e la presentazione sul palco dal MC della serata, ci tuffiamo a capofitto in una versione vorticosa dello strumentale Scuttle Buttin’, seguita dall’orgia wah-wah di Say What, più hendrixiana che mai. Poi, a seguire, una grandissima e lunghissima versione, oltre tredici minuti, dello slow blues Ain’t Gone’N’Give Up On Love, veramente ispirata dallo spirito dei grandi chitarristi che lo hanno preceduto. Lookin’ Out The Window è solo normale, ma Look At Little Sister, pur con qualche problema tecnico nella registrazione, è decisamente sopra alla media, come pure una ferocissima Mary Had A Little Lamb, dove Stevie Ray strapazza la sua Fender in modo quasi delicato, prima di lanciarsi in una inconsueta, ma non rarissima e gagliarda, rilettura, del classico di Freddie King Hideaway.

Pausa, e il secondo dischetto riparte con la sua versione di Superstition, sempre tiratissima, prima di lanciarsi in una fantasmagorica Willie The Wimp, veramente “cattiva” e nello slow blues intensissimo di Dirty Pool, per non parlare di una Cold Shot da antologia, una altrettanto eccellente cavalcata nel rock-blues leggendario di Couldn’t Stand The Weather, anche questa presa dal libretto di istruzioni, “come suonare, quasi, come Jimi Hendrix”. Non manca una lunghissima versione di Life Without You, che era tratta da Soul To Soul, il disco allora più recente, e che dal vivo era diventata uno dei nuovi cavalli di battaglia del suo repertorio, mentre Testify. che conclude il concerto, è/era uno dei suoi brani migliori in assoluto, qui in una versione scintillante con SRV e i Double Trouble, presentati a fine canzone, al meglio delle loro possibilità. Breve intermission radiofonica e si torna per i bis: Come On Part III, il brano di Earl King ma che tutti conosciamo nella versione di Hendrix e una scoppiettante Love Struck Baby (peccato per la qualità sonora che qui peggiora leggermente) che conclude degnamente una serata memorabile.

Bruno Conti

E’ Tempo Di Cambiamenti Per Una Moderna “Indie Rock” Band ! Alberta Cross – Alberta Cross

alberta cross - alberta cross

Alberta Cross – Alberta Cross – Dine Alone/Caroline International Records

A distanza di tre anni dall’interessante Songs Of Patience (12), e dopo la partenza del co-fondatore Terry Wolfers, gli Alberta Cross sopravvivono grazie al talento dell’altro co-fondatore, il cantante, chitarrista e compositore svedese Petter Ericson Stakee, dotato di una voce languida, sinuosa, ma non troppo melanconica, capace di cavalcare tutte le note della scrittura rock. Facciamo un passo indietro: il gruppo, dopo una serie di EP (il migliore The Thief & The Heartbreaker (07), esordisce con The Broken Side Of Time (10), disco che li ha indicati fra le gradite sorprese del genere “indie-rock” contemporaneo, conferma avvenuta con un altro delizioso EP The Rolling Thunder (11), e poi con il già citato ultimo lavoro in studio, un disco graffiante e incredibilmente suggestivo per suoni e atmosfere.

Quale sia stato il motivo dello scioglimento del duo non è dato a sapere, quello che sappiamo con certezza è che Petter Ericson Stakee, rimasto solo, si è chiuso al Dreamland di Woodstock (una chiesa antica trasformata in studio) e aiutato da alcuni musicisti del Village newyorkese (su tutti Pete Remm e Jason Abraham Roberts) ha dato anima e corpo (suonando quasi tutto da solo) per questo quarto progetto Alberta Cross, dove, a differenza del passato, trovano spazio e utilizzo anche altri strumenti, tra i quali trombe, violini e mandolini, dando al lavoro una nuova struttura musicale.

Dopo la breve e introduttiva You’ll Be Fine, si passa all’attuale singolo Ghost Of Santa Fè e a Western State, brani con una robusta sezione fiati inserita ad inaugurare il “nuovo corso”, passando poi a ballate ipnotiche come Easy Street e Water Mountain, intercalate dalla fischiettante e solare Isolation. Dopo una prima parte suggestiva per suoni e atmosfere, si passa al rock melodico di Heavy Words, ad una ballata sperimentale come Beneath My Love (che potrebbe uscire dai solchi di Kid A dei Radiohead), al suono folk di una maestosa Get Up High, a cui fanno seguito due ballate acustiche, Shadow Of Mine e Smoky Lake, con melodiosi “tocchi” di pianoforte, andando a chiudere con quello che è forse il punto più alto del disco, una meravigliosa It’s You That’s Changing, sorta di moderna, dolce e tenue ninna-nanna.

Come sempre, a parere di chi scrive, gli Alberta Cross non deludono le aspettative, e lo fanno con canzoni dall’impianto arioso (à la My Morning Jacket), e Petter Ericson Stakee,  con un tipo di voce che in qualche modo mi ricorda vagamente David Gray più orientata sulle note alte, riesce a sviluppare una musica che nel percorso del disco non mostra alcun segno di cedimento, avallando l’inizio di una nuova vita (infatti si potrebbe considerare il suo primo disco da solista) e di nuove stagioni musicali con il marchio Alberta Cross. Per me promosso!

Tino Montanari

Finalmente Il Giusto Riconoscimento! Darlene Love – Introducing Darlene Love

darlene love introducing

Darlene Love – Introducing Darlene Love – Sony CD

Un paio di anni fa è uscito un bel film-documentario intitolato 20 Feet From Stardom https://www.youtube.com/watch?v=F9PXdv3mLhc , che si occupava di dare il giusto tributo ad una lunga serie di cantanti femminili che avevano sempre, o quasi, lavorato come backing vocalist di artisti famosi, vivendo quindi all’ombra di qualcun altro e dunque a pochi passi dalla celebrità: tra i volti noti e meno noti (tra i primi, Merry Clayton e Lisa Fisher) una delle protagoniste del film era indubbiamente Darlene Love. Nata Darlene Wright 74 anni fa, la cantante di colore ha avuto una carriera abbastanza particolare: all’inizio degli anni sessanta figurava nel roster di artisti patrocinati da Phil Spector, con il quale incise diversi singoli a suo nome, o come componente dei Blossoms e di Bob B. Soxx & The Blue Jeans, anche se il suo più grande successo, He’s A Rebel, fu commercializzato a nome delle Crystals, che con la canzone non c’entravano un tubo ma, avendo un nome molto più famoso, promettevano vendite maggiori (in quei tempi succedevano anche queste cose).

Il suo momento migliore la Love lo ebbe comunque nel 1963, quando uscì il mitico A Christmas Gift For You, album stagionale che presentava il meglio della “scuderia Spector” alle prese con materiale tradizionale a tema natalizio https://www.youtube.com/watch?v=9k7RBkOMNOY , e nel quale Darlene interpretava ben quattro brani come solista e due con Bob B. Soxx (tra cui la celebre Christmas (Baby Please Come Home), unico pezzo originale della raccolta). Dagli anni settanta, la stella di Darlene iniziò ad eclissarsi, e lei cominciò una lunga carriera come backup singer (per, tra gli altri, Elvis Presley, Aretha Franklin e Frank Sinatra) e più avanti anche come attrice (nella serie di Arma Letale era la moglie di Danny Glover, poliziotto collega di Mel Gibson), senza però pubblicare alcunché a suo nome: pensate che il suo primo album, Paint Another Picture, risale al 1988 (non male per una che ha iniziato nel 1961), e non è che dopo abbia continuato ad incidere con continuità. Darlene non ha comunque mai smesso di avere molti estimatori anche tra i suoi colleghi: tra questi c’è Steven Van Zandt, più noto come Little Steven, che già la volle nel 1985 nel supercast coinvolto per il singolo Sun City (ottima iniziativa, pessima canzone), e che ora l’ha riportata in studio per farle incidere finalmente l’album della vita, il giusto tributo ad una carriera vissuta nelle retrovie, dal titolo significativo di Introducing Darlene Love, quasi come se questo fosse il suo primo vero disco (devo dire la verità: quando ho letto il titolo per la prima volta ho pensato all’ennesima antologia. *NDB. Anch’io!)

Per questo album sono state fatte le cose in grande: Van Zandt stesso, oltre a produrre ed arrangiare il tutto, ha scritto tre canzoni nuove di zecca, e lo stesso ha fatto gente del calibro di Bruce Springsteen (due brani), Elvis Costello (idem), l’ex Four Non Blondes Linda Perry ed il grande Jimmy Webb (un pezzo a testa), e si è riformata persino (come songwriting team, in quanto nella vita privata sono ancora sposati) la leggendaria coppia composta da Barry Mann e Cynthia Weil per Sweet Freedom; il resto sono covers. Infine, Steven ha fatto un gran lavoro di produzione, rivestendo l’ancora grande voce della Love con sonorità decisamente spector-oriented, utilizzando (come faceva Phil) una serie infinita di musicisti, ma mantenendo un equilibrio ed una leggerezza invidiabili, e mettendo al centro l’ugola potente di Darlene, senza mai dare l’impressione di lascarsi scappare il suono dalle mani: il risultato è un disco al quale inizialmente davo poco credito, ma già al primo ascolto mi ha letteralmente conquistato, nonostante la durata superiore all’ora.

L’album è stato preceduto dal singolo Forbidden Nights (scritta da Costello), una splendida e solare pop song dal feeling spectoriano, accompagnata da un divertente video nel quale, oltre al suo autore e a Van Zandt, compaiono Springsteen con la moglie Patti Scialfa, Joan Jett, un David Letterman barbuto ed il suo (ex) direttore musicale Paul Schaffer (che suona nel disco, ma non in questa canzone). Among The Believers, di Little Steven, apre l’album: uno scintillante errebi, pieno di ritmo e con un feeling rock neanche troppo nascosto, e l’orchestrazione usata in maniera intelligente https://www.youtube.com/watch?v=8qbQQf_DrOY . Anche Love Kept Us Fooling Around non è da meno, un delizioso soul dal mood coinvolgente ed accompagnamento di gran classe: sorprende il fatto che sia scritta dalla Perry. Little Liar, cover di un brano del 1988 di Joan Jett, cambia registro, le sonorità sono un po’ da power ballad AOR anni ottanta, ma il ritornello epico e maestoso ci fa perdonare qualche eccesso. Still To Soon To Know è l’altro pezzo di Costello (che suona anche la chitarra), e vede Darlene duettare con Bill Medley (il titolare dei Righteous Brothers con Bobby Hatfield), uno slow da mattonella con una melodia toccante, due grandi voci ed un feeling enorme: un plauso a Little Steven, che ha fatto un lavoro davvero notevole come arrangiatore. Who Under Heaven è un lento pianistico tipico del suo autore (Jimmy Webb), con un refrain di grande impatto emotivo e la solita orchestrazione dal sapore sixties.

Night Closing In è il primo dei due brani di Springsteen, e suona come se Spector avesse deciso di produrre la E Street Band: aggiungeteci una melodia di valore assoluto ed avrete uno dei pezzi più belli del CD. Painkiller è un pezzo di Michael Des Barres, un rock-pop-funky ben eseguito ma di valore inferiore alle precedenti canzoni, anche se un calo ci può stare (e comunque la prestazione vocale di Darlene è super); Just Another Lonely Mile è il secondo brano del Boss, e si sente, un brano rock veloce e godibile che starebbe bene anche in un disco del rocker del New Jersey, uno di quelli che dal vivo fanno saltare tutti. Last Time (Van Zandt) è una rock ballad potente e fluida nello stesso tempo, ed è l’unica in cui l’arrangiamento orchestrale è forse superfluo; ed ecco una travolgente versione del classico di Ike & Tina Turner River Deep, Mountain High, molto più roccata dell’originale, ma che ne mantiene intatto lo spirito: grande cover https://www.youtube.com/watch?v=qyjnnTjiNGY . La già citata Sweet Freedom è un perfetto rhythm’n’blues dal gran ritmo, ottimi cori e suonato con una grinta da rock’n’roll band; Marvelous, un veccho brano del gospel singer Walter Hawkins, mantiene intatta l’anima dell’originale, ma che voce e che classe! Il CD si chiude alla grande con il terzo pezzo scritto da Steven, Jesus Is The Rock (That Keeps Me Rollin’), un trascinante gospel-rock che ci proietta all’istante in una chiesa del sud degli Stati Uniti, quasi impossibile tener fermo il piede, un finale strepitoso.

Era ora che qualcuno si ricordasse di Darlene Love, e questo disco è il modo migliore per celebrarla.

Marco Verdi

Se Ne E’ Andata Anche Una Delle Leggende Di New Orleans: E’ Morto A 77 Anni Allen Toussaint Per Un Attacco Di Cuore!

allen_toussaint_promo_photo_2 article_Allen_Toussaint

E’ morto nella notte tra lunedì 9 e martedì 10 novembre Allen Toussaint. Il fatto luttuoso è avvenuto a Madrid, dove il musicista di New Orleans aveva appena tenuto un concerto al Teatro Lara della città spagnola. Toussaint aveva avuto un primo infarto nella sua camera d’albergo ma i medici erano riusciti a rianimarlo, poi mentre lo trasportavano in ambulanza all’ospedale ne ha avuto un secondo che è stato fatale. Il grande artista della Big Easy, una delle leggende della scena locale e non solo, avrebbe dovuto tenere ai primi di dicembre un concerto benefico nella sua città, in compagnia di Paul Simon, per raccogliere fondi per l’associazione “New Orleans Artists Against Hunger and Homelessness“, un ente benefico che aiutava gli artisti della città della Louisiana.

Per ricordarlo, questi sono due filmati proprio tratti da quell’ultima esibizione…

Toussaint è stato ovviamente uno dei più grandi rappresentanti della musica americana tout court, non solo della scena di New Orleans: dai suoi inizi nella scena locale della sua città, dove era nato il 14 gennaio del 1938, alle sue canzoni tra cui ricordiamo Working in the Coal Mine, Mother-in-Law, Fortune Teller,Southern Nights, Sneakin’ Sally Through the Alley, Get Out of My Life, Woman, ma anche Holy Cow, incisa da Lee Dorsey e poi dalla Band (in italiano era Qui e Là di Patty Pravo). Proprio con il gruppo di Robbie Robertson ha avuto una delle collaborazioni più proficue, prima arrangiando i fiati nell’album Cahoots e poi nel famoso Live Rock Of Ages e a quel periodo, prima metà anni ’70. risalgono i suoi dischi migliori: From A Whispet To A Scream del 1970, l’omonimo Toussaint del 1971, Life, Love And Faith del 1972 e Southern Nights del 1975, fulgidi esempi del miglior funk e R&B usciti dagli stati del Sud.

I brani ricordati sopra sono stati incisi nel corso degli anni da gente come Jerry Garcia, Ringo Starr, Little Feat, Robert Palmer, gli Yardbirds, Glen Campbell, Bonnie Raitt, la Band ricordata prima, Warren Zevon, i Rolling Stones e moltissimi altri. Tra le sue altre celebri collaborazioni quelle con i Wings, Paul Simon e le Labelle, di cui produsse Lady Marmalade. E ancora, in anni più recenti, nel 2006, il bellissimo The River In Reverse, registrato in coppia con Elvis Costello, che era un suo fan sfegatato e lo invitò come ospite anche nella sua trasmissione televisiva Spectacle, in una serata memorabile in cui c’erano anche Ray LaMontagne, Levon Helm, Nick Lowe, Richard Thompson, Larry Campbell https://www.youtube.com/watch?v=uyXOjiVhH5U .

allen toussaint songbook

Negli ultimi anni della sua vita aveva pubblicato ancora due album formidabili come The Bright Mississippi del 2009, dedicato alla sua terra https://www.youtube.com/watch?v=qNAp0igLZIs e Songbook del 2013, una confezione CD+DVD dove rivisitava con classe sublime il meglio del suo repertorio, seduto al suo pianoforte Steinway.

Tra l’altro la BBC gli ha dedicato un bellissimo documentario The Allen Toussaint Touch che potete vedere qui sotto, se volete capire a fondo la grande personalità di questo musicista che rimane uno dei più grandi della musica nera americana e scusate se insisto!

Rest in Peace, Mister Music Allen Toussaint!

Puro Pop Britannico Non Adulterato! Squeeze – Cradle To The Grave

squeeze cradle to the grave

Squeeze – Cradle To the Grave – Love Records/Virgin/Universal 

Come dissero efficacemente, non volendolo, i discografici americani, in un momento di profonda ed involontaria bigotteria, quando rinominarono il primo disco americano di Nick Lowe da Jesus Of Cool a Pure Pop For Now People, nel lignaggio dei musicisti inglesi, a partire dai Beatles e dai Kinks (ma ce ne sono altre decine), passando per i 10cc e gli ELO di Jeff Lynne, poi giù giù fino a Costello, Dave Edmunds, Nick Lowe ed i loro Rockpile, gli stessi Squeeze, c’è tutta una stirpe di musicisti che si sono dedicati alla difficile arte della creazione della perfetta musica pop. Chris Difford e Glenn Tilbrook, che sono da circa 40 anni depositari del marchio Squeeze, sono tra i più ostinati praticanti di detta arte: partiti sul finire dell’epopea “pub rock”, mentre si trasformava in punk-rock e poi in new wave, la band inglese, sin dal primo singolo Take I’m Yours e il primo EP del 1977, hanno creato una lunga serie di canzoni che era sempre alla ricerca di quella difficile forma. Attraverso tre diversi periodi, con scioglimenti e riformazioni del gruppo, più o meno ogni decade, con o senza Jools Holland, storico sodale e pianista originario della band, non presente nell’ultima incarnazione degli Squeeze, quella che li vede di nuovo sotto la vecchia ragione sociale dal 2007, ma che discograficamente aveva prodotto solo un disco nel 2010, Spot The Difference, dove avevano re-inciso i vecchi successi, finalmente approdano, dopo oltre cinque anni di preparazione, al primo album di materiale nuovo, questo Cradle To The Grave, che fa seguito a Domino, uscito nel lontano 1998 e che francamente era stato una mezza delusione.

Ovviamente nel pop degli Squeeze ricorrono tutte le anime del pop britannico ricordate sopra, e anche molte influenze musicali americane, ma il loro stile compositivo in coppia risente soprattutto della lezione di Lennon/McCartney, nel loro caso ancora più “perfezionata”, perché, almeno agli inizi, Difford, scriveva solo i testi e Tilbrook le musiche, poi negli anni hanno deciso di scrivere “words and music” by Difford & Tilbrook. Il  pop-rock dei due è stato sempre abbastanza orecchiabile e in fondo anche commerciale (non è il male assoluto), e questo nuovo album non fa nulla per cambiare l’approccio, ma c’è sempre quel guizzo di genialità, sia nelle musiche che nei testi, che li pone un gradino sopra gli altri e li rende comunque una istituzione della musica britannica: dodici nuove canzoni, circa 45 minuti di delizie di “puro pop”, da quello scanzonato e divertente dell’iniziale title-track, con tanto di ukulele, pianino da music hall, le solite armonie vocali (questa volta anche vagamente gospel), da sempre loro marchio di fabbrica e un’aria da fine dell’impero britannico, passando per i vaghi ritmi disco (ma giusto un tocco) di Nirvana, “nobilitata” da arrangiamenti di archi e da una chitarra-sitar che profuma di anni ’60, oltre a strati di tastiere sognanti e lo voci spesso sovrapposte dei due, Difford un tono più basso e Tilbrook più giovanile e spensierato https://www.youtube.com/watch?v=0fidOiAFXK0 .

Beautiful Game, sempre con i ricchi arrangiamenti e le melodie semplici delle loro migliori canzoni, Glenn che suona praticamente qualsiasi tipo di strumento, nel caso, oltre alle chitarre, anche un vecchio Mini Moog che arricchisce e caratterizza il tono del brano; in Happy Days, altra gioiosa costruzione di puro McCartney sound, Tilbrook ci regala un piccolo solo di chitarra che oscilla deliziosamente tra jazz e R&R per poi tornare nel finale al sitar guitar e ai coretti gospel reiterati https://www.youtube.com/watch?v=-lDZfjSBcy0 . Piacevolissime pop songs anche Open e Only 15, con armonie vocali e ricchi arrangiamenti che pescano dal songbook di Beatles e Beach Boys, ma anche da quel pop revivalistico di fine anni ’70. Top Of The Form, nei testi si rifà a Ray Davies e nella musica al loro vecchio produttore Elvis Costello, mentre Sunny è praticamente Eleanor Rigby parte due, solo archi e qualche tocco di Moog, per un brano che cita Hendrix nel testo ed è composito e letterario come molti parti della fantasia di Difford, autore assai raffinato https://www.youtube.com/watch?v=JKn4B2vBpo8 . Haywire, con la sua pedal steel aggiunta, miscela sonorità americane ed inglesi come usavano fare i vecchi Brinsley Schwarz https://www.youtube.com/watch?v=ue7nMMHYkwo  e Honeytrap, di nuovo con moog e chitarre acustiche che convivono pacificamente, è piacevole ma innocua, meglio allora l’avvolgente e beatlesiana Everything, un mid tempo malinconico, tipico di questa geniale band inglese, che poi conclude l’opera con Snap, Crackle And Pop, altra variegata e raffinata costruzione di pop stratificato, ricco nei particolari sonori, con il consueto ritornello cantabile e quelle armonie vocali immancabili. Probabilmente un album non imperdibile o memorabile, ma se amate certo pop-rock di qualità qui c’è parecchio materiale da gustare.

Bruno Conti    

Una Serata Da Ricordare! John Lee Hooker & Friends – The House Of Blues

john lee hooker house of blues 2

John Lee Hooker & Friends – The House Of Blues – Klondike 

Il titolo potrebbe essere fuorviante, perché in effetti John Lee Hooker appare solo negli ultimi tre pezzi, ma il concerto è veramente fantastico. Si tratta della registrazione di una serata alla famosa House Of Blues di West Hollywood, Los Angeles, uno dei locali della catena di proprietà di Elwood Blues (ovvero Dan Aykroyd, qui impegnato solo come presentatore, vista la presenza di un paio di armonicisti niente male, di cui tra un attimo): siamo nel giugno del 1995, il concerto viene trasmesso dall’emittente radiofonica WLUP-FM e dovrebbe far parte anche della serie TV Live From House Of Blues che andò in onda sulla TBS (il network di Ted Turner) per 26 puntate e un paio di anni e di cui recentemente hanno festeggiato il 20° Anniversario. Da non confondere con un DVD con lo stesso titolo John Lee Hooker And Friends che però riporta, sempre in modo non ufficiale, una serata con Ry Cooder e Bonnie Raitt. Intanto diciamo che il CD è pubblicato dalla Klondike (due diverse copertine), ma secondo me guardando le grafiche più o meno identiche del retro dei vari dischetti relativi ai broadcast più disparati, non solo per questo concerto, li fa tutti la stessa casa, usando nomi diversi: dicevo comunque che il CD questa volta non è inciso solo abbastanza bene, è perfetto, come un disco ufficiale, la particolarità che lo contraddistingue come “Historic Radio Recordings” (o così è scritto) è il fatto che si tratta proprio della registrazione completa della trasmissione radiofonica, con tanto di presentazioni, annunci, perfino qualche sponsor, riportati nell’esatta sequenza in cui ascoltarono il concerto alla radio in quel lontano 1995.

john lee hooker house of blues 1

Ed è un gran bel ascoltare: la house band della serata è quella di Duke Robillard, in gran forma e in uno dei suoi migliori periodi a livello discografico, quello degli album per la Point Blank/Virgin, particolare che lo unisce ad altri partecipanti della serata, oltre al festeggiato John Lee Hooker, anche John Hammond e Charlie Musselwhite, incidevano tutti per la stessa etichetta. Ovviamente il fatto, anche se significativo, non inficia o eleva la qualità del concerto: si parte, dopo l’introduzione di Elwood Blues, con Zakiya Hooker, la figlia del grande Hook, alle prese con una poderosa Look Me Up, una ballata soul mid-tempo di ottimo spessore, e Robillard scalda subito l’attrezzo (la chitarra, cosa avete capito!) che rimane incandescente con una scintillante versione di Too Hot The Handle, il brano che dava il titolo al suo disco di esordio, con Duke che all’epoca era veramente in gran forma, ragazzi se suonava! E anche l’omaggio a Albert Collins con una lunga e sofferta Dyin’ Flu è da manuali del perfetto bluesman, un lento di quelli da sballo. La band rimane per accompagnare uno degli “originali” come Lazy Lester che propone una pimpante Sugar Coated Love, il suo successo per la Excello del 1958, che anche i Fabulous Thunderbirds avevano in repertorio la voce è ancora quella dei vecchi tempi e anche l’armonica viene soffiata con vigore.

John Hammond poi sale sul palco per proporre una versione fantastica di Come On In My Kitchen, solo voce e chitarra bottleneck acustica e si unisce con la band di Duke Robillard per proporre una Found Love che avrebbe trovato posto nel disco registrato insieme e che verrà pubblicato da lì a poco, ottimi gli interventi di Hammond all’armonica e di Duke alla solista. Altro armonicista incredibile è Charlie Musselwhite, ottimo anche il suo segmento di concerto con Blues Overtook Me e con una stellare rilettura di Help Me, il celeberrimo brano di Sonny Boy Williamson, oltre otto minuti di grande blues. A questo punto arriva Taj Mahal, pure lui in grande serata, prima da solo, accompagnato da una tastiera, propone una divertente e salace Big Leg Mama, poi con la Duke Robillard Band altri lati del suo enorme talento, la jazzata Strut dove si concede anche qualche accenno di scat e infine una versione di She Caught The Katy, dal suo capolavoro The Natch’l Blues, che lo mette in concorrenza con Otis Redding e non so chi vince. Nel disco originale alla chitarra suonava Jesse Ed Davis, ma in precedenza Taj aveva diviso i palchi con Ry Cooder che a questo punto sale sul palco con la sua slide per accompagnare John Lee Hooker in una magica versione di Crawling King Snake, fantastica l’intensità della accoppiata con il Maestro, in gran forma con il suo vocione che incita Ry a estrarre dalla sua chitarra l’essenza del blues, poi riproposta in una versione full band più la slide di Cooder, di nuovo con Robillard e soci, del classico One Bourbon One Scotch One Beer e a concludere i poco più di  dodici essenziali minuti della presenza di Hooker non poteva mancare una esplosiva Boom Boom, fine, titoli di coda, grande serata, assolutamente da avere!

Bruno Conti

Tra I Capostipiti Delle Jam Band, Ancora In Gran Forma! Widespread Panic – Street Dogs

widespread panic street dogs

Widespread Panic – Street Dogs – Vanguard/Concord

Come ricordavo in una recensione per un vecchio Live della band http://discoclub.myblog.it/2013/07/20/dagli-archivi-della-memoria-widespread-panic-oak-mountain-20/ , i Widespread Panic sono uno dei gruppi storici del filone jam band, tra i capostipiti del genere, in azione da oltre 25 anni, con “solo” dodici album di studio all’attivo, compreso questo Street Dogs, ma con decine, forse centinaia, di pubblicazioni, in vari formati, di materiale dal vivo, le ultime, sia in CD che DVD, vertevano sul tour per Wood. E, non casualmente, per questo nuovo album, che esce a cinque anni di distanza dall’ottimo Dirty Side Down, il gruppo ha voluto applicare per la prima volta la formula del “live in studio”, ovvero tutti i musicisti insieme in sala di registrazione agli Echo Mountain Studios di Asheville, NC, sotto la guida del produttore storico John Keane, per cercare di catturare la magia di una esibizione in concerto, mantenendo il loro approccio libero e ricco di improvvisazione anche nel caso di materiale nuovo (poi, se andiamo ad esaminare attentamente, possiamo vedere che alcuni di questi brani facevano già parte del repertorio concertistico da qualche tempo): e direi che ci sono riusciti pienamente. La formazione è quella classica, con Jimmy Herring che ormai da alcuni anni affianca John Bell come chitarra solista, John Hermann, tastierista e secondo vocalist in alcuni brani, Domingo S. Ortiz con le sue scatenate percussioni che conferiscono quel elemento latineggiante, molto alla Santana, al suono, Dave Schools, il bassista, impegnato anche con gli Hard Working Americans, si porta da quel gruppo Duane Trucks, il batterista che sostituisce momentaneamente Todd Nance, assente per problemi familiari.

Il risultato è eccellente, i brani sono quasi tutti lunghi, ma non lunghissimi, c’è ampio spazio per le loro jam immancabili, ma tutte le canzoni hanno una struttura ben definita, con la consueta miscela di rock classico, anche southern, in fondo vengono da Athens, Georgia, non mancano spunti blues e derive santaniane, evidentissime per esempio in un brano come Cease Fire, e qui entriamo nel vivo, un pezzo che sembra una loro versione, riveduta e corretta, di Song Of The Wind, il bellissimo strumentale di Caravanserai, con le sue chitarre soliste sinuose e libere di improvvisare, soprattutto Herring, l’organo di Hermann e le percussioni di Ortiz a rendere ancora più avvolgente il suono e tanti piccoli particolari che rendono particolarmente affascinante la canzone. Ma il disco parte subito bene, con una scoppiettante cover di Sell Sell, brano già nel loro repertorio live, si trovava nella bellissima colonna sonora di O Lucky Man di Alan Price (tratta dall’altrettanto bello e omonimo film dei primi anni ’70 di Lindsay Anderson, con Malcolm McDowell, da vedere e sentire, nei rispettivi formati, fine della digressione): un brano ricco di groove funky, con la chitarra wah-wah di Jimmy Herring, ben sostenuta ancora una volta dall’organo di Hermann e con la sezione ritmica di Schools, Trucks e Ortiz presente in modo massiccio, soprattutto Schools, fantastico al basso https://www.youtube.com/watch?v=fZCJTiAGV5s . Notevole anche Steven’s Cat che gioca sul titolo per citare fuggevolmente frammenti di brani di Cat Stevens, mentre le due chitarre, spesso al proscenio con soli ficcanti e variegati, sostenute dalle  tastiere, girano su un mood sudista ben evidenziato anche dalla voce di Bell, che è cantante più che adeguato.

Il pezzo, come gli altri originali del disco, è scritto collettivamente dalla band, spesso creato all’impronta in studio, come nella lunga, pigra e sognante Jamais Vu (The World Has Changed), quasi jazzata nelle variazioni del piano, mentre Angels Don’t Sing The Blues, è un’altra tipica jam song della band, con continui cambi di tempo, soli a profusione delle chitarre e Bell che tenta anche un leggero falsetto https://www.youtube.com/watch?v=OqHuu9n2Www . Honky Red è una cover del canadese Murray McLachlan (che per oscuri motivi sul libretto è riportato come McLaughlin), una bella ballata che diventa un potente blues- rock chitarristico quasi alla Gov’t Mule, anche nei loro concerti, come pure Tail Dragger, il vecchio brano di Willie Dixon, con Herring anche alla slide e che sembra quasi un pezzo dei vecchi Cream, duro e cattivo quanta basta. The Poorhouse Of Positive Thinking, più laid-back, ricorda i passaggi più country del vecchio southern à la Marshall Tucker ed è cantata da Hermann, che ci regala tocchi geniali di piano https://www.youtube.com/watch?v=_Xod0sOeJR4 , con Welcome To My World, dove il produttore Keane aggiunge chitarra e voce, per un boogie sudista innervato dalla slide di Herring e dal piano che ci portano verso territori cari ai Lynyrd Skynyrd, grande brano. E anche la conclusiva Streetdogs For Breakfast https://www.youtube.com/watch?v=6uqm851dBNY , rimane in modalità boogie sudista, meno southern-rock e più bluesata, con Herring ancora una volta sugli scudi.

Bruno Conti