Comunicazione Di Servizio: Fargo In Concerto, Mercoledì 24 Febbraio 2016, Salumeria Della Musica Milano

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Parafrasando un vecchio spot, due locandine is meglio che one. Il contenuto è lo stesso, cambia il formato. Sono degli amici del Blog (e miei personali), però sono anche bravi, della categoria “italiani per caso”, per cui quando c’è qualche novità sulla loro attività mi permetto di informarvi. In questo caso si tratta di un concerto alla Salumeria della Musica di Milano, 24 febbraio 2016, che sarà anche l’occasione per ascoltare alcuni brani del nuovo album dei Fargo Invisible Violence, che è in dirittura d’arrivo, quasi pronto ma non ancora. I due “capi”, Fabrizio Fargo Friggione, cantante, autore della musica, chitarrista e arrangiatore e Massimo Monti, paroliere ed eminenza grigia, mi annunciano trattarsi, in their own words, di ” testi un po piu’ duri per non dire incazzati  contro una societa’ dove nessuno si assume le proprie le responsabilita’ e girano tutti la faccia dall altra parte per non vedere”, mentre musicalmente il disco è stato rifinito in California, come testimonia il video che è un piccolo teaser dell’album…

La touring band è la solita: Nik Taccori drums, Paolo Legramandi Bass in “prestito” dalla Gnola Blues Band, Ermanno Fabbri guitar, Chris Lavoro guitar, Davide Dave Rossi Keyboards.

Per gli amanti del rock mi annunciano qualche nuova cover inserita nel repertorio live (per stare sul vago mi si parla di Dylan, Petty, Counting Crows, Sinatra) poi chi verrà, vedrà! Se amate il rock classico americano, con ampie spruzzate di pop britannico, qualche tocco blue eyed soul e una serie di canzoni di ottimo spessore, potrebbe essere un’ottima occasione per avvicinarvi a questa eccellente formazione milanese. Per chi vuole approfondire ecco quanto scritto sul Blog in passato http://discoclub.myblog.it/2015/03/24/fargo-eccoli-nuovo-concerto-special-edition-small-world-black-and-white/, con all’interno relativi links dei post precedenti. Per chi vuole avere una idea veloce di cosa vi aspetta, questo è il primo video della band, quando si chiamavano ancora Psychic Twins, in giro per Milano, così fate un ripasso, di loro e della città.

Per tutti gli altri, andate a vedervi il concerto, buona musica https://www.youtube.com/watch?v=RSv8SU9Xkxw , ricchi premi e cotillons (non credo), mercoledì prossimo, prendete un appunto!

Bruno Conti

Dal Vivo A “Casa” Di Bruce. Nils Lofgren – Back It Up…Live ’85

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Nils Lofgren – Back It Up…Live ’85 – Echoes 2 CD

Nils Lofgren ha pubblicato una quantità di album dal vivo impressionante nel corso della sua carriera: il più recente come uscita, di cui avete letto ottime cose sul Buscadero del mese di gennaio, è stato UK 2015 Face The Music Tour, documentazione del tour che il chitarrista della E Street Band ha tenuto in Terra d?Albione lo scorso anno. In quel caso si trattava di un disco acustico, registrato in coppia con il bravo Greg Varlotta, mentre questo doppio di cui andiamo a parlare lo vede in veste elettrica, con una ottima band, dove accanto a Nils troviamo il fratello Tom Lofgren e Stuart Smith, entrambi a chitarre e tastiere, Wornell Jones al basso e il bravissimo Johnny “Bee” Badjanek, il vecchio batterista di Mitch Ryder, con e senza Detroit Wheels. Siamo al 1° novembre del 1985, circa 30 anni fa quindi, al termine del tour per promuovere Born In The Usa con Springsteen, e reduce dall’avere pubblicato il buon album Flip, di cui vengono eseguiti ben sei brani, e siamo proprio nella tana del leone, al leggendario Stone Pony di Asbury Park, teatro di moltissime esibizioni casalinghe del Boss, il tutto viene mandato in onda dalla emittente radiofonica della zona di New York che mi pare nell’occasione festeggi i venti anni di attività, e quindi la qualità della registrazione è molto buona. Se tutto questo vi ricorda qualcosa è perché lo stesso concerto fu pubblicato nella serie Archive Alive nel 1997, anche se in quel caso si trattava solo di una selezione di quattordici brani e non dell’intera serata.

Nelle note “ballerine” e non informatissime del CD si parla di Nils Lofgren’s solo performance e quindi uno poteva pensare ad un album acustico, ma la band c’è e si sente. Sin dall’iniziale Beggars Day, il brano che Lofgren scrisse per il primo album dei Crazy Horse, si percepisce un  sound solido e tirato, dove chitarre e tastiere ben si amalgamano (anche se queste ultime ogni tanto denotano la provenienza anni ’80 del disco), ma la versione, che nel corso degli anni è diventata sorta di eulogia per lo scomparso Danny Whitten, non ha nulla da invidiare a quella che era presente nel famoso doppio dal vivo del 1977 Night After Night che all’epoca sancì il momento di maggior successo della carriera del nostro, e che era pure molto bella. Ma anche in questo concerto la chitarra di Lofgren è guizzante e presente come nelle sue migliori serate, e molto più libera di esprimersi rispetto allo spazio che ha nella E Street Band. Secrets In the Streets è il singolo del momento tratto da Flip, un classico esempio di rock americano da FM, melodica il giusto ma anche con la grinta delle esibizioni live e un filo di esagerazione nel sound quasi prog o AOR delle tastiere. Anche Dreams Die Hard viene dal nuovo album, un incalzante pezzo rock, mentre Little Bit Of Time è una bella ballata elettroacustica che se non sbaglio sarebbe uscita solo anni dopo su Silver Lining, con The Sun Hasn’t Set On This Boy Yet si torna al primo album solista del 1975., una versione non particolarmente memorabile.

A questo punto parte uno dei brani più belli di Lofgren, Code Of The Road, oltre dieci minuti di rock in puro stile Nils con la chitarra libera di viaggiare nella seconda parte, e niente male anche la vigorosa Rock And Roll Crook, sempre tratta dal primo album solista, come pure Cry Tough, che era la title-track del suo disco in studio di maggior successo, quello prodotto da Al Kooper, ottimo rock ancora, anche se le tastiere a tratti rompono, la chitarra, in questo caso slide, viaggia alla grande. Molto buona anche la tirata No Mercy, mentre la ballata Big Tears Fall sembra un pezzo degli Ultravox, e non è un complimento. La seconda parte si apre con una sentita cover di Any Time At All dei Beatles, seguita da Empty Heart che nella versione live è sempre gagliardamente chitarristica, Like Rain e Moon Tears, vengono dai tempi dei Grin, la seconda altro ottimo esempio del Nils rocker, poi ribadito nella lunga Sweet Midnight, sempre da Flip, come la successiva title-track. I Don’t Want To Talk About It, la bellissima ballata scritta da Danny Whitten, fa parte ancora oggi del repertorio dal vivo di Lofgren, come puree Back It Up, grande rock poi ribadito in una versione fantastica di oltre dodici minuti di Shine Silently, altro cavallo di battaglia di Nils, che qualche canzone bella nella sua carriera l’ha pure scritta e a concludere i bis l’eccellente I Came To Dance. Bel concerto e gran chitarrista.

Bruno Conti    

Vecchie Glorie Alla Riscossa! Dion – New York Is My Home/Jack Scott – Way To Survive

dion new york is my home

Dion – New York Is My Home – Instant CD

Jack Scott – Way To Survive – Bluelight CD

Questo post fa parte della serie “due al prezzo di uno”, in quanto questi due arzilli vecchietti appartenenti alla “golden age of rock’n’roll” (per dirla con Ian Hunter, che anche lui ha i suoi annetti) hanno pubblicato quasi in contemporanea i loro due nuovi lavori e, se il primo è sempre stato molto attivo durante tutta la sua carriera, il secondo ritorna a sorpresa dopo una lunghissima assenza dalle scene.

https://www.youtube.com/watch?v=xuqI7yid3ew

Dion Di Mucci, 77 anni a Luglio, non ha mai smesso di fare dischi, dagli esordi newyorkesi (è del Bronx) con i Belmonts, gruppo con il quale mosse i primi passi ed ebbe i primi successi di classifica, fondendo elementi di rock and roll, doo-wop e rhythm’n’blues, passando per i primi anni sessanta (il momento di maggior fama), con singoli di grande popolarità quali Runaround Sue, Ruby Baby e The Wanderer, per poi attraversare lunghe fasi con poche soddisfazioni commerciali, nelle quali si reinventò folksinger, si fece produrre da Phil Spector (Born To Be With You, 1975) e, in seguito ad un’importante crisi mistica, incise anche diversi album a sfondo religioso. Nel 1989 il clamoroso comeback con lo splendido Yo Frankie!, un disco che ci faceva ritrovare un rocker tirato a lucido e ancora capace di fare grandi cose (e con ospiti come Lou Reed e Paul Simon, altri newyorkesi doc e suoi grandi fans); da allora, Dion non ha mai smesso di pubblicare album, tutti di livello dal discreto al buono, con un progressivo avvicinamento negli ultimi anni a sonorità più blues (e ben tre CD dedicati alla musica del diavolo).

New York Is My Home è il suo album nuovo di zecca, un disco che, come suggerisce il titolo, è un sentito e sincero omaggio alla sua città, da lui sempre amata e mai abbandonata: otto nuove canzoni e due cover, il tutto cantato con la solita voce giovanile (davvero, non sembra un quasi ottantenne) e suonato in maniera diretta da una manciata di musicisti tra i quali spicca Jimmy Vivino, grande chitarrista (e pianista), già collaboratore di vere e proprie icone quali Al Kooper, Phoebe Snow, Levon Helm, Laura Nyro, Johnnie Johnson e Hubert Sumlin, e coadiuvato da Mike Merritt al basso, James Wormworth alla batteria e Fred Walcott alle percussioni. Un buon disco, che ci conferma il fatto che Dion ha ancora voglia di fare musica e non ci pensa minimamente a tirare i remi in barca, anche se qualche calo durante i 38 minuti di durata c’è (pur non scendendo mai sotto il livello di guardia) e, cosa strana dato che è nelle mani dell’esperto Vivino, la produzione è un po’ troppo statica e rigida, laddove alcuni brani avrebbero beneficiato di una maggiore profondità del suono.

Aces Up Your Sleeve apre il disco con un rock urbano diretto e potente, una chitarrina knopfleriana e la solita voce chiara e limpida del leader, un bell’inizio; Can’t Go Back To Memphis è un rock-blues solido e chitarristico, con un gran lavoro di Vivino alla slide e Dion (che non è mai stato un bluesman) che risulta convinto e convincente. Ed ecco la tanto strombazzata title track, brano in cui il nostro duetta con Paul Simon, e sinceramente date le attese pensavo a qualcosa di meglio: la canzone è sinuosa, fluida e ben suonata, ma è priva di una melodia che rimanga in testa e, nonostante la voce inconfondibile di Paul, fa fatica ad emergere. The Apollo King è puro rock’n’roll, e anche se non è un brano epocale ha ritmo e groove a sufficienza; Katie Mae è un blues di Lightnin’ Hopkins, uno shuffle di buona fattura, forse un tantino scolastico (anche se uno come Vivino è nel suo ambiente naturale), mentre I’m Your Gangster Of Love torna su territori rock, un brano gradevole e con un’ottima chitarra, anche se è in pezzi come questo che sarebbe servito un maggior lavoro di produzione.

La grintosa e rocciosa Ride With You, un altro rock’n’roll tutto ritmo e slide, precede I’m All Rocked Up, altro saltellante rock tinto di blues, non male; chiudono il CD la bella Visionary Heart, una ballata elettrica molto ben costruita ed evocativa, un pezzo che ci fa ritrovare per un attimo il Dion di Yo Frankie!, e I Ain’t For It (un classico di Hudson Whittaker alias Tampa Red), jumpin’ blues divertente e spigliato, tra i più riusciti del lavoro. Non il miglior disco di Dion quindi, ma un album più che discreto che ci fa comunque apprezzare nuovamente un artista che dovremmo ringraziare solo per il fatto che continui a fare dischi e non sia andato in pensione come altri suoi coetanei ancora in vita.

jack scott way to survive

In pensione era invece dato Jack Scott, rock’n’roller canadese che con Dion condivide le origini italiane (si chiama infatti Giovanni Domenico Scafone), il quale ebbe il suo momento d’oro tra il 1959 ed il 1964, periodo in cui pubblicò sei album ed una serie di singoli che ebbero un buon successo (My True Love, What In The World’s Come Over You, Burning Bridges, oltre alla bellissima The Way I Walk, della quale ricordo una cover strepitosa di Robert Gordon con Link Wray https://www.youtube.com/watch?v=WBa1JPXuWAE ) e che gli fecero guadagnare il soprannome di “miglior cantante rock’n’roll canadese di tutti i tempi” (anche perché Ronnie Hawkins era americano di origine). Oggi, a 80 anni suonati, ed a più di cinquanta dall’ultimo LP (solo pochi singoli negli anni 60/70), Scott torna a sorpresa con un nuovo lavoro, un disco intitolato Way To Survive, che ci riporta un artista dimenticato ma ancora in grado di dire la sua, con una voce calda ed estremamente giovane (altro punto in comune con Dion), ed una serie di canzoni (perlopiù covers) gradevoli e suonate con classe da un manipolo di musicisti sconosciuti ma validi (l’album è inciso in Finlandia, dove a quanto pare Jack è ancora popolare, con sessionmen locali di cui non dico i nomi anche perché sono più degli scioglilingua che altro). Un disco raffinato e volutamente old fashioned, nel quale spiccano maggiormente le ballate, vero punto di forza per Scott anche in gioventù, ma dove non mancano di certo i pezzi più mossi e rock, anche se in molti momenti si respira una piacevole atmosfera country.

Anzi, diciamo pure che Way To Survive è quasi un country album, a cominciare dalla fluida I Just Came Home To Count The Memories (scritta da Glenn Ray ed incisa, tra gli altri, da Bobby Wright e in anni recenti da John Anderson), per proseguire con la splendida Ribbon Of Darkness (Gordon Lightfoot), arrangiata alla maniera di Johnny Cash, il classico di Hank Williams Honky Tonk Blues, il rockabilly Hillbilly Blues (Little Jimmy Dickens) e l’oscura ma bella You Don’t Know What You’ve Got (unico successo di Ral Donner, un misconosciuto rocker dei primi anni sessanta). Sul versante rock abbiamo l’iniziale Tennessee Saturday Night, un vivace pezzo suonato alla Jerry Lee Lewis (che pure l’ha incisa in passato), il remake di Wiggle On Out, un boogie che Jack aveva già pubblicato in passato, ed una versione di Trouble molto vicina a quella più famosa ad opera di Elvis Presley, anche se più rallentata. Per chiudere con il brano più bello del CD, la sontuosa Woman (Sensuous Woman), di Don Gibson, una fantastica country ballad suonata e cantata alla grande, con un evocativo coro alle spalle di Jack ed una melodia toccante.

In definitiva, due dischi gradevoli, anche se siamo lontanissimi dal capolavoro: meglio Jack Scott di Dion (che però ha scritto quasi tutte le canzoni di suo pugno), e ci mancherebbe dato che ha avuto 50 anni di tempo!

Marco Verdi

Poi Sarebbe Scomparso Nel Nulla Anche Lui! Jeremy Spencer (With Fleetwood Mac)

jeremy spencer jeremy spencer

Jeremy Spencer – Jeremy Spencer – Real Gone Music/Ird

Jeremy Spencer era uno dei due chitarristi della formazione originale dei Fleetwood Mac, i primi, quelli di Peter Green e del boom del british blues, noto soprattutto ai tempi per la sua passione sfrenata per lo stile bottleneck di Elmore James, di cui era un eccellente praticante nei primi due album della band, fino a che l’arrivo di Danny Kirwan nel 1968, lo mise un po’ in un angolo, anche se rimase nel gruppo fino al 1971, prima di “sparire nel nulla” per moltissimi anni con gli evangelici Children Of God (con i quali condivide tuttora il proprio credo religioso, e a causa del quale Spencer sostiene di essere stato accusato di abusi sui minori e pedopornografia). Ma la sua grande passione erano anche il R&R e la musica oscura melodica degli anni ’50 e ‘60 in generale, di cui, spesso sotto lo pseudonimo di Earl Vince & The Valiants, offriva accurate ricostruzioni di quel sound, in uno stile che era per metà omaggio e per metà affettuosa presa in giro. Proprio nel 1969, mentre la band stava registrando quello che sarebbe stato il loro album più rock fino a quel momento (lo splendido Then Play On, come sapete sono un patito di Peter Green, che considero uno dei dieci più grandi chitarristi della storia del rock) in contemporanea, anche su sollecitazione di Mike Vernon, il loro produttore,  pure lui appassionato di sonorità vintage come Spencer, venne deciso di registrare, sempre con i Fleetwood Mac come backing band, un EP di materiale costruito intorno alla passione di Jeremy per quel tipo di musica, dischetto che avrebbe dovuto essere allegato all’album come bonus.

Poi non ne se fece nulla e le registrazioni non vennero utilizzate, ma il germe dell’idea era stato gettato e i cinque ( con Green solo in un brano), tutti comunque più o meno appassionati di quello stile (Kirwan più orientato verso Beatles e Cream), decisero di registrare un intero album con questo tipo di musica, che comunque suonavano spesso all’interno del loro repertorio, quando Jeremy Spencer assumeva la guida della band nelle sezioni di dischi e concerti in cui Green si faceva da parte per concedere spazio al suo pard. Il disco quindi venne registrato, con l’aiuto di Steve Gregory (sassofonista che aveva suonato con l’Alan Price Set e in Honky Tonk Women degli Stones) e Dick Heckstall-Smith dei Colosseum, aggiunti ai fiati in un paio di brani, e con la presenza di quasi tutto materiale originale firmato dallo stesso Spencer, oltre a tre oscure cover pescate nel repertorio amato dal nostro, il tutto però rigorosamente legato a quel tipo di suono, anche se non mancano alcune derive decisamente più blues dove il nostro amico può dare fondo alla sua passione per Elmore James. Diciamo subito che l’album non è imprescindibile, discreto  ma non eccelso, con Jeremy, che oltre che buon chitarrista slide, ribadisce anche le sue doti già conosciute di pianista e si conferma cantante sempre in bilico tra il divertito e il divertente, con la giusta dose di british humor, mescolata al suono tipicamente americano.

Così possiamo ascoltare il R&R alla Buddy Holly dell’iniziale Linda (che ha qualche parentela con Peggy Sue), The Shape I’m In, una delle cover, anche se era stata scritta da Otis Blackwell, quello di Great Balls Of Fire e mille altri successi, era stata cantata da tale Johnny Restivo, ma sembra un pezzo di Elvis, e pure di quelli belli, anche grazie all’assolo di sax nella parte centrale, mentre Mean Blues, è appunto uno dei rari blues duri e puri, con i Fleetwood Mac in gran spolvero, soprattutto Kirwan alla solista, e presentazione dove si prendono in giro da soli, ma poi suonano come loro sapevano fare  https://www.youtube.com/watch?v=4N2pUu8dpuQ. String-a-long, la seconda oscura cover, è un delizoso doo-wop alla Sha Na Na con Peter Green al banjo (?!?) https://www.youtube.com/watch?v=yDZ1UYdz57o , mentre Here Comes Charlie (With His Dancing Shoes On), è nuovamente un grintoso R&R alla Rave On e Teenage Love Affair, sempre una delle canzoncine dei primi teen idols. Jenny Lee, leggera leggera e cantata con quella aria da presa per il culo, sembra uno dei romantici brani dei primi Dion o Ricky Nelson, con Don’t Go Please Stay, che viceversa pare un brano di B.B. King, se fosse stato un praticante della arte della slide come Jeremy Spencer https://www.youtube.com/watch?v=8So2t8Kd9j8 . You Made A Hit, la terza cover, è un pezzo di Charlie Rich, di quando faceva R&R con la Sun, ed è nuovamente deliziosamente retrò. Dopo un paio di rutti (giuro), parte una Take A Look Around Mrs. Brown, che potrebbe essere Give Peace A Chance come l’avrebbe cantata la Bonzo Dog Doo-Dah Band, con tanto di finto sitar da Summer Of Love. Surfin’ Girl, non è il brano dei Beach Boys, ma il genere è quello, e If I Could Swim The Mountain, è una ballata strappalacrime alla Presley, sempre ai limiti, e anche oltre, della parodia https://www.youtube.com/watch?v=o2UtqJnSQmY . Cè pure, come bonus track, Teenage Girl, che era il singolo dell’epoca, uscito nel 1970, come d’altronde il resto dell’album. Se volete passare poco più di 35 minuti di puro divertimento, in tutti i sensi.

jeremy spencer coventry blue

Ma poi è riapparso, a livello musicale https://www.youtube.com/watch?v=UQRTxZTYGhc !

Bruno Conti

Altro Chitarrista Da Appuntarsi Sul Taccuino O Nello Smartphone, O Dove Volete. Tas Cru – You Keep The Money

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Tas Cru – You Keep The Money – Self-released 

Ufficialmente questo album è uscito negli ultimi giorni del dicembre 2014, ma poi la reputazione del disco è cresciuta nel corso del 2015, tanto da meritarsi l’inserimento tra i migliori dischi blues dell’anno in alcune classifiche di settore americane (per la precisione tra Buddy Guy e Shemekia Copeland, con Robert Cray il migliore, tutti regolarmente recensiti sul Blog). Tas Cru, come si può evincere dalla copertina, non è più un giovanotto di belle speranze, ha una lunga carriera discografica alle spalle, con sei album, compreso questo, pubblicati dalla proprie etichette, più uno didattico per bambini, molto piacevole, Even Bugs Sings The Blues (e un altro in arrivo). Il nostro amico vive e opera musicalmente nella zona di New York, dove è uno dei musicisti più rispettati nell’ambito east-coast blues, e propone un blues elettrico che si rifà ai grandi del passato, partendo dal suono della Sun Records che ammira moltissim, un tocco appena accennato di Chicago Blues, il southern boogie, per ottenere infine un rock-blues che cita i grandi chitarristi del passato e lo avvicina a gente come Tom Principato, Tinsley Ellis, Duke Robillard e soci, a cui mi sentirei di accostarlo, forse un gradino sotto.

Accompagnato da una buona band che consta, tra gli altri, di Dick Earl Ericksen all’armonica, Ron Keck percussioni, Dave Olson batteria e Bob Purdy, basso, oltre ad alcune voci femminili di supporto e le tastiere di Chip Lamson, piano e Guy Nirelli, organo. Questo disco, dicono, nasce dall’incontro su un palco con il nipote del grande musicista del Delta, T-Model Ford e si avvale di dodici composizioni originali dello stesso Cru, partendo dalla title-track che ha un sapore latineggiante, vagamente alla Santana, con le due vocalist Mary Ann Casale e Alice “Honeybea” Ericksen che aggiungono pepe alla buona voce di Tas (non una cosa da ricordare negli annali delle 12 battute, ma un cantante più che adeguato), con armonica, organo e percussioni, e, perché no, un basso funky e rotondo che fornisce un adeguato sfondo per le evoluzioni chitarristiche di Cru. Niente male A Month Of Somedays, un ballata blues, che ci porta dalle parti di Ronnie Earl o Duke Robillard, con il preciso raccordo tra la solista di Tas che ci regala un bel solo, nitido e ricco di feeling, con l’organo sullo sfondo a “scivolare” con gran goduria https://www.youtube.com/watch?v=7VFtNkHPYX8 . Half The Time, tra country, rock, boogie e un pizzico di blues, mi ha ricordato un incrocio tra il solismo del primo Knopfler nei Dire Straits e certe cose degli ZZ Top, sempre con voci di supporto, organo, armonica e percussioni a rendere più ricco un suono ben arrangiato.

La Belle Poutine, è uno strumentale d’atmosfera, a metà strada tra Gary Moore e Ronnie Earl, con piano elettrico e organo che sottolineano l’ottimo lavoro d’insieme https://www.youtube.com/watch?v=66u-30wLUAo , mentre Heart Trouble vira decisamente verso un funky marcato, sempre con la chitarra protagonista. A Little More Time, ancora con qualche traccia santaneggiante, di quello balladeer, anche per l’uso dell’organo, poi vira verso un sound tra pop e easy jazz, molto piacevole, con Bad Habit, uno shuffle che è forse quello più vicino al blues classico, sempre comunque con uno spirito birichino nell’uso delle voci femminili. Take Me Back To Tulsa, fin dal titolo e dall’introduzione acustica, ci rimanda a certe canzoni di JJ Cale o Clapton, quando il ritmo accelera e in Count On Me siamo di nuovo nel blues duro e puro, molto efficace, come al solito, il lavoro della solista, per poi tornare ad una bella ballata di impronta sudista, come l’eccellente ed elettro-acustica Holding On To You https://www.youtube.com/watch?v=bg45jkc7kbI . In Bringing Out The Beast qualcuno ha visto influenze alla Little Feat, anche se la voce di Tas Cru qui mi sembra troppo forzata e il brano non decolla del tutto, forse una bella elettrica al posto dell’acustica avrebbe fatto più al caso. Acustica che rimane, più a proposito, a duettare con l’armonica, nel country-rock della conclusiva Thinking How To Tell Me Goodbye. Altro nome da segnarsi sul taccuino.

Bruno Conti

Ma Un Bel Bootleg Series Ufficiale Dedicato A Questo Tour No? Bob Dylan & Tom Petty – Live On The Radio ’86

dylan & petty live on The radio 86

Bob Dylan & Tom Petty – Live On The Radio ’86 – RoxVox CD

Di solito non mi occupo di bootleg (perché i concerti radiofonici questo sono, nonostante per la legge inglese siano perfettamente legali), in primis perché ne escono troppi e già faccio fatica a star dietro ai dischi ufficiali, e poi perché molto spesso la qualità di registrazione lascia alquanto a desiderare. Ogni tanto però qualche eccezione la faccio, come nel caso di questo Live On The Radio ’86 intestato a Bob Dylan e Tom Petty, che documenta un concerto registrato a Sydney durante la tournée dei due insieme agli Heartbrakers che, tra il 1986 ed il 1987, toccò tutti i continenti, ottenendo un grandissimo successo di critica e pubblico, e fu eletto uno dei tour di maggior impatto di tutti gli anni ottanta.

Dylan in quegli anni, se discograficamente parlando stava affrontando il suo periodo peggiore, dal vivo era invece in forma smagliante, ed aveva trovato negli Spezzacuori la sua backing band ideale (ma lo sarebbero per chiunque, tranne che per Bruce Springsteen che ce l’ha già): purtroppo anche all’epoca per godere di queste performances ci si doveva rivolgere ai bootleg, in quanto l’unica pubblicazione ufficiale fu un video VHS, splendido ma troppo breve (dieci canzoni, meno di un’ora!) intitolato Hard To Handle, anch’esso tratto dai concerti di Sydney e mai ristampato in DVD o BluRay. Quindi giudico con estrema benevolenza questa pubblicazione ad opera della RoxVox (?!?), che comprende 14 brani (10 di Bob, 4 di Tom), innanzitutto per la bontà della registrazione, davvero spettacolare, meglio di tanti CD ufficiali (voce centrale, suono forte e cristallino, strumenti ben definiti), ma soprattutto per la qualità della performance, a dir poco strepitosa: Petty ed i suoi erano già una macchina da guerra, e Dylan, allora in ottima forma di suo, era praticamente costretto a cantare in maniera rigorosa, con risultati eccellenti. Alcuni di questi brani ricevono infatti la loro versione live a mio parere definitiva, ed è un peccato non poter ascoltare il concerto completo (ma in questo caso il CD doveva essere almeno doppio), anche perché non c’è quasi più stata occasione negli anni a venire di poter sentire Dylan cantare così bene. Quattro pezzi sono nella stessa versione presente su Hard To Handle, ma la qualità sonora è decisamente superiore (la videocassetta aveva un suono un po’ ovattato): apre il concerto la splendida Positively 4th Street (questo è l’unico tour in cui questo brano veniva suonato con continuità), introdotta in maniera potente dagli Heartbreakers, che però rispettano la melodia originale, e Dylan fa subito sentire di essere in palla con una vocalità molto nasale ma decisamente forte ed intonata. Segue All Along The Watchtower, in una versione più rallentata del solito ma anche per questo ancora più inquietante ed apocalittica, con la band che suona alla grande (e Benmont Tench si dimostra un pianista eccezionale, così come Mike Campbell alla chitarra); Masters Of War è ancora molto rock, con un riff che si ripete e Dylan aggressivo, mentre I’ll Remeber You, uno dei brani di punta di Empire Burlesque (all’epoca il disco nuovo di Bob) perde le sonorità un po’ finte della versione in studio ad opera di Arthur Baker e si rivela per quello che è, una sontuosa ballata che Dylan canta con rigore assoluto.

Ed ecco uno degli highlights del CD: I Forgot More Than You’ll Ever Know è un vecchio successo delle Davis Sisters (e Dylan lo aveva già inciso su Self Portrait), e qui viene proposto con uno splendido arrangiamento country, con Petty alla doppia voce e Bob che canta come raramente ho avuto modo di sentire. Versione imperdibile, quasi commovente. E’ la volta di due brani di Tom Petty (durante lo show Dylan faceva sempre un paio di pause lasciando il palco a Tom), una travolgente e molto rock’n’roll Bye Bye Johnny (Chuck Berry) ed il solito singalong della sinuosa Breakdown; torna Dylan, ed è la volta di una Just Like A Woman davvero favolosa, nella quale gli Heartbreakers si superano e Bob sembra anche divertirsi un mondo, tanta è la passione e convinzione con cui canta. Anche Blowin’ In The Wind è sorprendente: un inno che ho sentito fare con mille arrangiamenti diversi, ma questa rilettura country-rock proprio non me l’aspettavo, trascinante è dir poco (e dal punto di vista vocale ancora super); That Lucky Old Sun è uno standard che Bob ha pubblicato lo scorso anno su Shadows In The Night, ma questa versione è chiaramente più rock, anche se forse le quattro vocalist di colore (le Queens Of Rhythm) sono un po’ invadenti.

Ancora Petty, con una solida So You Want To Be A Rock’n’Roll Star dei Byrds ed una curiosa Spike, più una scusa per interagire col pubblico che una canzone vera e propria, per poi finire alla grande ancora con Dylan e due versioni mostruose e definitive di Like A Rolling Stone e Knockin’ On Heaven’s Door, un muro del suono rock la prima ed una magica e fluida ballata la seconda, con piano e chitarre sugli scudi, due pezzi leggendari trattati dal suo autore con il dovuto rispetto.

Un dischetto da non perdere, e pazienza se non è ufficiale.

Marco Verdi

Supplemento Della Domenica: Bruce Springsteen, Sempre E Comunque Un Grandissimo Performer! Il Punto Sugli Archivi Live Del Boss.

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Con questo post, che meditavo da diverso tempo, ho voluto affrontare un argomento che non ho visto trattato in nessuna recensione, cartacea oppure online, italiana o estera, ed il fatto è abbastanza inspiegabile in quanto si sta parlando degli archivi live di quello che è forse il più grande performer vivente: Bruce Springsteen (& The E Street Band).  La spiegazione che mi sono dato è che questa serie di CD (è nata per il download, ma si possono ordinare anche i dischetti, ad un prezzo più che ragionevole e con un incisione eccellente, mentre la grafica è alquanto spartana e le note assenti, titoli dei brani a parte) è in vendita esclusivamente online in una sezione del sito del Boss, e quindi manca di una distribuzione capillare, a differenza per esempio dei live pubblicati di recente dai Rolling Stones (questi ultimi anche in versione video).

Inizialmente la serie era nata per documentare le ultime tournée di Bruce con la formula degli instant live (sono ordinabili tutti i concerti del tour australiano ed americano di High Hopes, ed anche il River Tour che il nostro sta portando in giro in USA proprio in questi giorni, e che quest’estate toccherà anche l’Italia per due concerti a Milano e Roma), ma poi, con cadenze variabili, si è deciso di mettere a disposizione dei fans anche alcuni concerti più o meno storici provenienti dalle varie fasi della carriera del rocker del New Jersey, una scelta a mio parere vincente in quanto chiunque ami la musica di Bruce aveva sempre desiderato un giorno poter godere delle sue migliori performance dal vivo, ed alcuni tra i dischi pubblicati sono a mio parere davvero imperdibili.

Qui di seguito vorrei fare un rapido elenco rispettando l’ordine di pubblicazione e non cronologico (la serie è cominciata nella seconda metà del 2014), e faccio presente che tutti questi concerti sono ancora disponibili per l’acquisto fisico oppure scaricabili in vari formati.

bruce springsteen apollo theatre 2012 bruce springsteen the agora 1978 bruce springsteen upper darby 1975

Apollo Theater, New York, NY, March 9th 2012: un concerto di riscaldamento prima dell’inizio del tour di Wrecking Ball, registrato nel tempio del soul e rhythm’n’blues. Un concerto più breve delle solite maratone del Boss (infatti sta tutto su due CD), con parecchi pezzi tratti dal nuovo album (a mio parere il suo migliore dai tempi di The Rising, Seeger Sessions escluse), ma anche chicche come l’antica The E Street Shuffle, la sempre toccante Mansion On The Hill e, in omaggio alla location, due coloratissime versioni di The Way You Do The Things You Do (hit dei Temptations) e di Hold On, I’m Coming (Sam & Dave), oltre alla classica Tenth Avenue Freeze Out che è sempre stato un grande brano errebi.

The Agora, Cleveland, OH, August 9th 1978: uno dei concerti più leggendari di Bruce, più volte documentato in passato da bootleg di qualità variabile, ma spesso con i brani interrotti dalla voce del presentatore radiofonico. Ora finalmente viene pubblicato in veste ufficiale, ed è inutile ribadire che qui ci troviamo di fronte al miglior performer degli ultimi quarant’anni nel suo momento di forma più smagliante. Non serve citare un brano piuttosto che un altro, tutta la performance è sbalorditiva, dall’iniziale Summertime Blues al gran finale di Twist & Shout. Se proprio devo fare dei nomi, qui abbiamo le migliori Jungleland, 4th Of July, Asbury Park (Sandy) e Backstreets di sempre, oltre ad una potente Sherry Darling in largo anticipo rispetto a The River.

Tower Theater, Upper Darby, PA, December 31st 1975: altro grandissimo concerto, lo show di Capodanno 1976: questo è il tour nel quale Bruce diventa leggenda, con le sue performances infuocate nelle quali lui e la sua band diventano un tutt’uno. Strepitose riletture degli highlights dei primi tre album, ma anche cover imperdibili quali It’s My Life (The Animals), Pretty Flamingo  (Manfred Mann), Mountain Of Love (Faron Young, Johnny Rivers), oltre all’ormai mitico Detroit Medley. Da non perdere.

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Brendan Byrne Arena, East Rutherford, NJ, August 5th 1984: il tour di Born In The U.S.A. è stato senza dubbio uno dei più spettacolari e famosi del Boss, la cui popolarità in quel momento era veramente alle stelle, e se il disco aveva delle sonorità “paracule”, dal vivo la E Street Band era la solita macchina da guerra. Una sorta di greatest hits di Bruce con però anche alcune chicche (Used Cars, Growin’ Up), con una sequenza micidiale nel secondo set formata da Cadillac RanchSherry DarlingNo SurrenderPink Cadillac ed un finale pirotecnico con Traveling Band (Creedence) e Twist And Shout.

Nassau Coliseum, Uniondale, NY, December 31st 1980: un altro concerto di Capodanno: il tour di The River forse è stato il migliore della carriera di Springsteen, come dimostra il DVD/BluRay registrato a Tempe ed incluso nel recente box set, e questo concerto non fa che confermarlo (anche se non mi sarebbe dispiaciuto veder pubblicato il mitico Hallenstadion di Zurigo, dato che ne ho sempre solo sentito parlare)  (*NDB Qui mi tocca, io c’ero!). Comunque uno dei migliori live della serie, un concerto interminabile e con versioni strepitose di Because The Night, Thunder Road, Racing In The Street ed una Rosalita che supera il quarto d’ora. In più, finalmente abbiamo in una pubblicazione ufficiale del Boss la sua rilettura del classico di John Fogerty Who’ll Stop The Rain.

Shottenstein Center, Columbus, OH, July 31st 2005: un concerto diverso, tratto dal tour acustico di Devils & Dust, uno dei dischi più intimi e personali di Bruce, che qui troviamo tutto solo sul palco ma impegnato con vari strumenti (chitarre acustiche ed elettriche, armonica, piano acustico ed elettrico) e con una scaletta giocoforza molto differente. Oltre ai brani di punta di Devils & Dust (splendide la title track e Long Time Comin’) troviamo canzoni che difficilmente possiamo ascoltare tutte assieme nello stesso concerto: Reason To Believe, For You, State Trooper, One Step Up, la rara Cynthia, When You’re Alone, Lost In The Flood, fino alla conclusiva Dream Baby Dream dei Suicide. Uno Springsteen meno esplosivo ma sicuramente molto intenso.

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Sports Arena, Los Angeles, CA, April 23rd 1988: prima pubblicazione ufficiale dal tour di Tunnel Of Love, un tour che all’epoca venne criticato in quanto gli E-Streeters sembravano avere il freno a mano tirato e Bruce sul palco faceva gli occhi dolci a Patti Scialfa in puro stile Al Bano & Romina. Sentito oggi, devo dire che quelle critiche erano in parte ingiuste, anche se dare troppo spazio ai brani minori di Tunnel Of Love (Two Faces, Spare Parts, Ain’t Got You, la stessa title track) non giova al risultato generale. Però poi ci sono anche la stupenda Tougher Than The Rest, una You Can Look diversa dall’originale e due rare interpretazioni di Have Love, Will Travel (Richard Berry) e di Sweet Soul Music (Arthur Conley) a raddrizzare uno show discreto, ma non al livello dei precedenti.

Ippodromo Delle Capannelle, Rome, IT, July 11th 2013: si torna ai giorni nostri con il primo show della serie non registrato in terra americana, ed è proprio un omaggio alla nostra terra, da sempre molto amata da Bruce (che è italiano da parte di madre), un ottimo concerto che presenta però una qualità di registrazione inferiore allo standard (ma comunque più che accettabile). La chicca della serata è indubbiamente l’intensa sequenza di brani presi dal secondo album del nostro (The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle), formata da Kitty’s Back-Incident On The 57th Street-Rosalita-New York City Serenade e con la partecipazione dell’orchestra Roma Sinfonietta. E poi, concedetemi una digressione personale, dato che in scaletta troviamo anche la bellissima Lucky Town, un brano che ho sempre amato moltissimo e che Bruce non fa quasi mai.

ASU Activity Center, Tempe, AZ, November 5th 1980: sì, non avete le traveggole, è proprio il concerto pubblicato in formato video sul box di The River lo scorso Dicembre, ma non sono le stesse canzoni! Se ricordate, quello show era incompleto in quanto le telecamere avevano mancato di riprendere dieci canzoni, le stesse che compongono questo CD (che quindi è l’unico della serie ad essere singolo) che quindi va idealmente a completare la serata. Tutte grandi canzoni eseguite superbamente, per carità (in particolare mi ero dispiaciuto dell’assenza nel BluRay di The Ties That Bind, Wreck On The Highway e Point Blank), ma sinceramente mi sento di consigliarlo solo a chi ha già il box, in quanto preso come disco live a sé stante è alquanto monco. (* NDB2 Questo dovrebbe essere ancora in download gratuito sul sito http://live.brucespringsteen.net/live-music/0,13637/Bruce-Springsteen—The-E-Street-Band-mp3-flac-download-11-5-1980-ASU-Activity-Center-Tempe-AZ.html)

E qui si interrompe (per ora) la serie, senza indizi di quali possano essere le prossime uscite: all’appello mancano per esempio il tour di Human Touch-Lucky Town (nel quale però Bruce non era accompagnato da una grande band), il reunion tour con la E Street Band del 1999 ed i concerti con la Seeger Sessions Band (entrambi però già documentati ufficialmente sia in formato audio che video).

Staremo a vedere.

Marco Verdi

Sconosciuta La Popolazione, La “Creatura Misteriosa”, Ma Anche Il Disco! Mississippi Bigfoot – Population Unknown

MISSISSIPPI-BIGFOOT-POPULATION-UNKNOWN

Mississippi Bigfoot – Population Unknown – Silver Tongue 

Questi non li conoscevo proprio, ma girando in internet ogni tanto ti imbatti in un nome che ti colpisce, approfondisci e scopri che meritano https://www.youtube.com/watch?v=6BZV6Ls-VuQ . E’ il caso di questi Mississippi Bigfoot, una band “nuova”, nata nel maggio del 2015, anche se guardando le foto dei principali protagonisti del disco non sembrano proprio di primo pelo: la cantante si chiama Christina Vierra, viene da Boston, è sotto contratto per la Warner, e recentemente è stata utilizzata come “la voce” di Janis Joplin nel prossimo film biografico che uscirà per la Sony Pictures. Anche se, lo confesso, la prima volta che ho ascoltato il disco, non conoscendoli, mi sono detto; “ma che strana voce ha questo cantante?”, effetto straniante durato lo spazio di pochi istanti, ma che indica le peculiarità di una cantante sicuramente “strana” nel suo approccio vocale. Ashley Bishop, uno dei chitarristi, viene da Memphis, Tennessee, dove, ai famosi Ardent Studios, è stato registrato questo Population Unknown, e nella sua biografia si legge che ha suonato con i “famosi” Blind Mississippi Morris, Earl The Pearl e Big Gerry (chi cacchio sono?) e che si autodefinisce il Guardiano di Beale Street. Doug McMinn, anche da lui da Memphis, guida la sua blues band da una trentina di anni, suona l’armonica, la chitarra e canta, ma nella band è alla batteria e quando serve all’armonica, mentre Cade Moore, detto Mississippi Mud, viene da Clarksdale, dovrebbe essere il bassista e ha suonato con Cedric Burnside e Pinetop Perkins: questi li conosco! La chitarra solista la suona John Holiday e in alcuni video che si trovano in rete, spesso sono anche in sette sul palco https://www.youtube.com/watch?v=NxFcFy57mPU .

Tutto abbastanza confuso ma il risultato finale pare comunque eccitante. Tra blues elettrico vibrante, heavy rock anni settanta (Led Zeppelin e ZZ Top, che hanno registrato puree loro ai vecchi Ardent Studios) e anni sessanta (la già citata Janis Joplin, ma qualcuno ha intravisto anche somiglianze con Mavis Staples, non chi scrive) non ci si annoia certo con questi Mississippi Bigfoot https://www.youtube.com/watch?v=OwscH6_5TgA  . Da una Burn That Woman Down che con la sua slide tangenziale si insinua nelle radici del blues-rock con influenze sudiste, attraverso la voce vissuta di Christina Vierra, che a tratti ricorda quella del vecchio Paul Rodgers nei primi Free, per poi esplodere in un finale parossistico tra Janis e Plant, passando per il downhill blues di una elettroacustica Mighty River che risale il Mississippi verso le radici del blues, e ancora il R&R misto a blues della scatenata Wag The Dog, dove l’armonica si aggiunge alle evoluzioni delle chitarre e della voce della Vierra. Per non parlare di una funky No Flesh In The Outerspace dove chitarre in modalità wah-wah e con strane sonorità ci riportano nuovamente al vecchio rock anni ’70, anche grazie alla potente voce della brava Christina, fino a lasciarsi andare in una serie di soli che profumano di vecchio rock classico.

La sferragliante Who’s Gonna Run This Town, tutta riff e grooves ci riporta dalle parti dei vecchi Zeppelin con un tocco hendrixiano, con Clarksdale guidata da una voce maschile duettante con quella della Vierra e da una armonica che ci riporta sulle rive del Mississippi. La lunga ballata pianistica You Did illustra il lato più delicato e vicino alla soul music della band, che non dispiace per nulla anche in questa veste più intima, grazie alla voce espressiva della bravissima Christina Vierra, la quale nel finale si scatena in un modo che mi ha ricordato la migliore Beth Hart. The Hunter a tempo di boogie e vicina al sound degli ZZ Top, è proprio il vecchio classico di Booker T. Jones che facevano anche i primi Free, Albert King e mille altri, qui in versione ad alta carica jopliniana. Si chiude con la corale e minacciosa Tree Knockin’ altro ottimo esempio di southern blues-rock di marca texana. Bravi, son bravi, spargiamo la voce https://www.youtube.com/watch?v=UwLSVt3Vsq4 , anche se il disco fiisico non è per nulla facile da reperire, per usare un eufemismo, se no, per una volta, ma non prendete l’abitudine, bisogna andare di download.

Bruno Conti

E Anche Questi Sono Bravi.Tra Blues E Rock, Una Nuova Promessa! The Record Company – Give It Back To You

the record company give it back to you

The Record Company – Give It Back To You – Concord/Universal 

E anche questi sono bravi! Sembra che le majors, stimolate da un mercato che è diventato strano, tornino a darsi da fare non solo con vincitori e partecipanti a talent vari, ma anche con musicisti di talento vero, se mi passate il piccolo bisticcio di parole, spesso con lunghe gavette alle spalle (ultimamente sembra che si ritorni in parte al vecchio periodo d’oro in cui si pubblicava tutto quello che si trovava e nel mucchio, spesso, si trovano piccole pepite d’oro). Come è il caso di questi The Record Company (visto che di case discografiche si parla): un trio di stanza a Los Angeles, dove operano e registrano la loro musica, ma le cui origini, almeno per Chris Vos, il leader, chitarrista, voce solista, armonicista, si fanno risalire ad una gioventù trascorsa in una fattoria di proprietà della sua famiglia nel Wisconsin, dove tra una mungitura di mucca, una raccolta di fieno e qualche giretto in trattore, il nostro indulge alla sua passione per la musica: blues classico, con un predilezione per Muddy Waters, John Lee Hooker, Jimmy Reed, ma anche per il rock di Stooges e Rolling Stones.

Nel 2010 si trasferisce a LA, dove non conoscendo nessuno, comincia a fare jam sessions con tutti quelli che incontra, finché non trova Alex Stiff, il futuro bassista dei Record Company, da Loz Feliz,  e dopo una notte di epifania passata ascoltando il disco di John Lee Hooker con i Canned Heat, decidono che è quello che vogliono fare e cominciano a registrare la loro versione di ciò che hanno sentito: il risultato viene spedito in giro a tutti quelli che hanno buone orecchie per sentire, e vengono subito invitati al Montreal Jazz Festival e ad un altro Festival in Canada, iniziano ad incidere i primi EP, tre, più un paio di singoli fino ad ora https://www.youtube.com/watch?v=iin9nxjpbpc , oltre ad avere i loro pezzi utilizzati in pubblicità varie e in alcune serie televisive, la più nota CSI: Scena Del Crimine, ma il colpo di fortuna arriva quando Off The Ground diventa la pubblicità della birra Miller Lite nel marzo del 2015.

A questo punto è fatta, la Concord li mette sotto contratto, li spedisce anche in tour come band di supporto dei Blackberry Smoke e questo Give It Back To You è il risultato finale: un esordio eccellente che non ha ceduto neppure una briciola dell’immediatezza delle prime registrazioni, Marc Cazorla, il batterista che nel frattempo si è unito al gruppo, se la cava anche al piano, Vos, ha un armamentario di chitarre, acustiche, elettriche, dobro, lap e pedal steel, spesso usate anche in modalità slide, Stiff ha una ottima padronanza del basso, sia acustico che elettrico, dove a tratti sembra di ascoltare proprio il mitico Larry Taylor dei primi Canned Heat. I due non hanno paura di sperimentare soluzioni sonore semplici ma anche geniali, per esempio nella iniziale Off The Ground, il brano che li ha fatti conoscere, Alex suona il suo basso elettrico in modalità slide, come il suo amico Chris Vos, anche lui impegnato al bottleneck, è il risultato è un brano dal groove ipnotico, dove rock e blues si fondono senza sforzo, con grande potenza, ma anche raffinatezza, grazie alle complesse armonie vocali, con Vos che si lancia anche in arditi falsetti prima di scoccare una serie di riff che ricordano quelli di Hound Dog Taylor, altro nume tutelare della band.

Schioccare di dita e un giro di contrabbasso sono l’abbrivio di Don’t Let Me Get Lonely, un pezzo che mette in luce il loro amore anche per il rockabilly, ma quello primigenio, anni ’50, con chitarre acustiche ed armonica a sostenere il tema della canzone. Una batteria marziale e un basso insinuante e poderoso sono anche gli elementi portanti di Rita Mae Young, dove la slide di Vos ci porta sulle rive del Mississippi per un tuffo nel blues più canonico. L’armonica è lo strumento guida di On The Move, ma Stiff con il suo basso, quasi solista e Cazorla con la batteria,  sono micidiali nel dare grinta e sostanza ad un brano che ti colpisce dritto nel plesso solare. Hard Day, dalla costruzione elettroacustica, sempre con un handclapping quasi arcano a dare il ritmo, ha una struttura più rock, ma di quello sano delle radici, con l’armonica a legarla ai ritmi del R&R e del Blues.

Feels So Good accelera vorticosamente i ritmi verso il boogie, ma siamo sempre in quel mood alla John Lee Hooker, suonato da Thorogood o dai Canned Heat, con call and response dei vari componenti della band e la chitarra che sferraglia alla grande, alla fine stai proprio bene! A proposito del grande Hook, Turn Me Loose potrebbe essere qualche perla perduta del suo repertorio, ipnotica e ripetitiva come richiede il suo canone sonoro, mentre Give It Back To You, di nuovo con il basso micidiale di Stiff pare rievocare certe fucilate di giri armonici del giovane Andy Fraser nei primi Free, perché, nonostante le chitarre acustiche e l’armonica, questo è Rock’n’Roll, con Vos che canta come un disperato. Il momento Rolling Stones è riservato ad una sontuosa ballata come This Crooked City, che tra pedal steel, piano, chitarre acustiche e cori femminili avvolgenti ricorda gli Stones americani di Sticky Fingers, grande brano. Per concludere manca In The Mood, l’anello mancante tra gli Stooges di Iggy Pop, grazie alla voce volutamente distorta e ai ritmi sghembi, sguaiati ma incalzanti, e la quota blues, fornita dall’armonica spesso presente nei loro brani. Ripeto: questi sono bravi! Esce oggi.

Bruno Conti

Vecchio Ma Nuovo: Un Debutto Da “Bollino Blu”! Marlon Williams – Marlon Williams

marlon williams

Marlon Williams – Marlon Williams – Dead Oceans Records

Come detto in altre occasioni non sempre è facile accostarsi ai nomi “minori” e nuovi, la tentazione (ed il desiderio insieme), è quello di scoprire a tutti i costi la nuova speranza, e sottoporla al pubblico degli appassionati per farne l’ennesimo oggetto di “culto”, oltretutto, spesso, la difficile reperibilità degli autori di volta in volta scoperti (ma con le piattaforme in Internet la situazione è migliorata), fa aumentare la curiosità ed il gioco di complicità che ne scaturisce. Fatta dunque questa onesta e doverosa precisazione, vorrei caldamente consigliare l’ascolto di tale Marlon Williams, nato nel 1990 in un incantevole paesino portuale della Nuova Zelanda (si chiama Lyttelton per la precisione, vicino a Christchurch) con una chiara influenza “Maori” da parte del padre musicista (e si vede). I primi passi musicali Marlon li muove come frontman degli Unfaithful Ways, e in seguito collaborando con il cantautore country neozelandese Delaney Davidson nella triade Sad But True Vol. 1-2-3 (costituita da bellissime cover), poi si è trasferito a Melbourne in cerca di quella visibilità che gli permettesse di esordire in proprio con questo lavoro omonimo, prodotto in coppia con il tastierista Ben Edwards, reclutando un cast di musicisti e amici tra i quali Ben Woolley al basso, AJ Park alla batteria, John Egenes alla pedal steel, Anita Clarke al violino, l’amico Delaney Davidson alle chitarre, con il contributo della sua anima gemella Aldous Harding (emergente cantautrice neozelandese, *NDB Bellissimo anche il suo esordio https://www.youtube.com/watch?v=B3Wds4gDGRc ) alle armonie vocali, tutti riuniti  negli studi Sitting Room della natia Lyttelton.

La partenza è folgorante con Hello Miss Lonesome, una galoppata musicale che rimanda ai film western epici di John Ford (Furore, Ombre Rosse, Sentieri Selvaggi), a cui fa seguito il moderno country di After All, per poi passare alla lenta e bellissima ballata “noir” Dark Child (la prenoto come canzone dell’anno), e ancora una cover di una canzone portata al successo da Billy Fury I’m Lost Without You, rifatta in chiave “sixties” con un importante arrangiamento di archi, e il folk inglese di una dolce e delicata Lonely Side Of Her. Si prosgue con la melodia “assassina” di Silent Passage, pescata dal repertorio del canadese Bob Carpenter (unico album, ma in seguito a lungo collaboratore della Nitty Gritty Dirt Band), il gioioso country un po’ “retrò” di Strange Things, una superba e drammatica versione del tradizionale When I Was A Young Girl (una triste storia di passione e desiderio), uno dei cavalli di battaglia della grande Nina Simone https://www.youtube.com/watch?v=UfSopHrT-m4 , andando a chiudere con la straziante bellezza (solo chitarra e voce) di Everyone’s Got Something To Say, con il coro finale (una magia) che la tramuta in una preghiera.

Comincio a pensare che il cognome Williams nell’ambito musicale sia sinonimo di qualità (come le banane Chiquita), a partire dai titolari del “logo” Hank Williams e Lucinda Williams, e altri tra cui Victoria Williams (ex moglie di Mark Olson dei Jayhawks e prima di Peter Case), o i più giovani Holly Williams (nipote di Hank Williams, sorella di Hank III e figlia di Hank jr.), e Hayward Williams. Nominato a ben cinque New Zealand Music Awards, con questo brillante esordio Marlon Williams dimostra di saper scrivere canzoni che spaziano dal rock al folk al country, valorizzate da una voce notevole, che lo accomuna a tratti ad artisti del calibro di Johnny Cash, Roy Orbison e il buon Elvis, ma anche a Tim Buckley https://www.youtube.com/watch?v=TB_jcFax5kM .

Marlon è giovane, bello, ma quello che più conta ha un talento speciale, e mi sembra difficile che a breve non possa diventare un artista di “prima fascia”, per saperlo non resta che attendere il seguito di questo esordio da “bollino blu”. Il disco esce il 19 febbraio in Europa e negli States per la Dead Oceans (la stessa di Ryley Walker), ma in Nuova Zelanda era già disponibile dalla primavera dello scorso anno. Da qui il titolo del Post!

NDT: A certificare il talento di Marlon Williams, girano su YouTube molti video che lo vedono eseguire cover impegnative tra cui The First Time Ever I Saw Your Face di Roberta Flack (scritta da Ewan MacColl), Bird On A Wire di Leonard Cohen, e una superba Portrait Of A Man di Screamin’ Jay Hawkins.

Tino Montanari