Con Un Po’ Di Ritardo, Anche Se La Grande Musica Non Ha Scadenza! Tom Petty & The Heartbreakers – Kiss My Amps Live Vol. 2

tom petty kiss

Tom Petty & The Heartbreakers – Kiss My Amps Live Vol. 2 – Reprise/Warner LP

Sono riuscito a mettere le mani soltanto ora su questo vinile di Tom Petty & The Heartbreakers, una delle uscite di punta dell’ultimo Record Store Day dello scorso Aprile, e seguito del primo volume uscito nell’autunno del 2011 http://discoclub.myblog.it/2011/12/23/per-pochi-intimi-ma-comunque-sempre-grande-musica-tom-petty/ . Ma, con tutto il rispetto per il primo Kiss My Amps, qui siamo su un altro pianeta: intanto quello era poco più di un EP mentre questo con i suoi dieci brani può essere considerato a tutti gli effetti un album (anche se con Petty dal vivo vorrei sempre avere minimo un triplo), e poi perché là su sette pezzi totali ben sei provenivano da Mojo, un disco che anche a distanza di qualche anno non riesco a considerare tra i più riusciti di Tom, mentre qui la scelta delle canzoni è più eterogenea e ci sono anche quattro cover decisamente interessanti. Che Petti ed i suoi Spezzacuori (Mike Campbell, Benmont Tench, Ron Blair, Scott Thurston e Steve Ferrone) dal vivo fossero una macchina da guerra non lo si scopre certo oggi, insieme alla E Street Band sono probabilmente la migliore live band al mondo, in grado di suonare qualsiasi cosa e renderne la versione definitiva: il loro cofanetto The Live Anthology è sicuramente uno dei box set da isola deserta, ed il loro concerto a Lucca di qualche anno fa è uno dei migliori show a cui ho assistito in vita mia. In conseguenza, anche questo secondo Kiss My Amps è un live album bellissimo, con i nostri in gran forma che rivisitano una manciata di classici, qualche oscuro ripescaggio e, come ho già detto, alcune cover da urlo, il tutto suonato con il solito mix di feeling e bravura, al punto che alla fine della seconda facciata ci si dispiace che sia già finito. I dieci pezzi sono stati incisi tutti nel 2013, quattro al Beacon Theatre di New York, altrettanti al Fonda Theatre di Los Angeles e due al Festival Bonnaroo a Manchester (nel Tennessee, non in Inghilterra).

Il disco parte con una spedita e fluida So You Want To Be A Rock’n’Roll Star dei Byrds, un pezzo che Petty aveva già pubblicato nel suo primo live ufficiale Pack Up The Plantation: il brano non è tra i miei preferiti dell’ex gruppo guidato da Roger McGuinn, ma come apertura ci può stare benissimo e poi gli Heartbreakers sono subito in palla (e come pesta Ferrone). Quindi ecco una bella versione, molto rock’n’roll, di (I’m Not Your) Steppin’ Stone dei Monkees, che non esito a definire migliore dell’originale, con l’organino di Tench a mantenere il sapore anni sessanta ma con il resto del gruppo che suona con un’energia quasi da punk band (e Campbell inizia ad arrotare da par suo). Il momento ad alto tasso elettrico prosegue con la potente Love Is A Long Road (tratta del million seller Full Moon Fever), non il brano più noto di quelle sessions ma di certo una delle rock song più coinvolgenti dei nostri, soprattutto dal vivo: gran ritmo, chitarre ruggenti e Petty che canta con la solita classe da rocker consumato. Two Gunslingers fa anch’essa parte del periodo Jeff Lynne di Tom, in origine un pop rock decisamente gradevole ed immediato, che qua si trasforma in una delicata ballata di stampo acustico (ma full band), una versione decisamente piacevole e diversa di un classico minore del nostro. Sinceramente non ricordavo When A Kid Goes Bad (era su The Last DJ, forse il disco meno bello della carriera di Petty), un uptempo rock tipico del nostro e niente male risentito in questo contesto, anche se già con Live At The Olympic gli Heartbreakers avevano dimostrato come sapevano trasformare on stage un album zoppicante in un grande disco. Ed ecco uno dei magic moments dell’album: Willin’ dei Little Feat è già di suo una delle più grandi canzoni di sempre, e vi lascio immaginare come può uscirne dopo il trattamento di Petty e soci, che mettono al centro del brano la splendida melodia di Lowell George rivestendola di sonorità da vera roots band (grandissimo BenmontTench, il Nicky Hopkins dei giorni nostri), una rilettura sontuosa che meriterebbe di essere pubblicata più su larga scala, pelle d’oca pura.

Il lato B si apre con una stupenda ballata tratta da Southern Accent: The Best Of Everything è un meraviglioso slow profondamente influenzato da The Band (ed infatti l’originale era prodotto da Robbie Robertson), un pezzo che ci conferma che il Petty balladeer non è di certo inferiore al rocker, e la band, guidata ancora dal pianismo liquido di Tench, suona alla grande (ma questo lo si sapeva); negli anni Tom ha spesso e volentieri suonato dal vivo brani dei Traveling Wilburys (a differenza dei suoi ex compagni nel supergruppo), prima Handle With Care, poi End Of The Line, mentre qui abbiamo una formidabile versione di otto minuti di Tweeter And The Monkey Man, uno dei più coinvolgenti e divertenti pezzi di Bob Dylan (ma Petty ha collaborato alla stesura del brano): Tom conduce la canzone con piglio sicuro, dylaneggiando alla grande, mentre il resto del gruppo è un treno. Anche questa tra gli highlights del disco. Il live termina con due scintillanti versioni di altrettanti classici del nostro, una rilettura elettroacustica di Rebels, che in origine aveva uno dei più bei riff di chitarra del repertorio degli Spezzacuori, ma qui diventa una ballata pianistica purissima, e la cavalcata elettrica di A Woman In Love (It’s Not Me), il brano più vintage tra quelli presenti, puro Heartbreakers sound.

Dopo il bellissimo secondo lavoro dei Mudcrutch (per chi scrive disco dell’anno finora) http://discoclub.myblog.it/2016/05/16/i-ragazzi-promettono-bene-anteprima-anniversario-mudcrutch-mudcrutch-2/ , un altro album da non perdere da parte di Tom Petty (& The Heartbreakers): vale la pena fare un po’ di fatica per trovarlo.

Marco Verdi

Novità Di Giugno, Prima Decade. Paul Simon, Spain, Train, Dexys, Boo Hewerdine, Joan Baez, Shawn Colvin & Steve Earle, William Bell, Eli Paperboy Reed, Band Of Horses, Rolling Stones, Van Morrison

rolling stones totally stripped european versionvan morrison it's too late 3cd+dvd

Torna la rubrica delle anticipazioni sulle novità. Queste sono le più importanti ed interessanti tra quelle previste per il 3 e 10 giugno. Dei cofanetti dedicati ai Rolling Stones, Totally Stripped e a Van Morrison, It’s Too Late To Stop Now…Volumes II, III, IV & DVD vi ho già riferito nelle settimane scorse, basta andare a cercare a ritroso nel Blog e trovate tutte le informazioni. Vediamo le altre uscite.

paul simon stranger to stranger

Nuovo album per Paul Simon Stranger To Stranger, il secondo che esce per la Concord/Universal dopo il buono ma non eccelso (per chi scrive) So Beautiful Or So What del 2011 http://discoclub.myblog.it/2011/04/10/temp-d60b04cfdc8f0c74be0a93f5c8899c81/ , mentre nel 2012 è uscito l’eccellente CD+DVD Live In New York City. Anche il nuovo lavoro, da quello che ho sentito e da quello che ha detto chi ha ascoltato l’album nella sua interezza, è un buon lavoro, eclettico e ricco di spunti musicali, con mille generi fusi insieme: però il terzetto di brani con l’artista electro-dance italiano Clap! Clap!, presente in tre brani in modo per fortuna non troppo invasivo (ovvero non si sente troppo) è bilanciato dal ritorno del produttore storico di Simon, Roy Halee (quello dei dischi più belli di Simon & Garfunkel e di Graceland). Nel disco confluiscono anche elementi di musica africana, folk peruviano, ritmi flamenco (grazie alla presenza in alcuni brani di alcuni ballerini usati a mo’ di percussione) e anche elementi quasi “contemporanei” grazie alla presenza di strumenti provenienti dal repertorio di Harry Partch. Ci sono anche un paio di brani strumentali e l’immancabile versione Deluxe, singola e molto costosa, con cinque tracce extra: 2 brani Live, un altro strumentale, un inedito e il duetto con Dion New York Is My Home, tratto dal disco di quest’ultimo. Al solito poi ne parliamo con più calma dopo l’uscita ufficiale, prevista per il 3 giugno.

spain carolina

Tornano anche gli Spain di Josh Haden che, sempre il 3 giugno, pubblicheranno il loro ottavo album (compreso il best), ma quinto effettivo di studio, intitolato Carolina, sempre su etichetta Glitterhouse in Europa (in America è su Diamond Soul Recordings), con la produzione di Kenny Lyon, che nel disco suona di tutto, chitarre elettriche ed acustiche, tastiere, piano, banjo, lap e e pedal steel. Josh Haden ha scritto i dieci brani, suona il basso ed è affiancato dalla sorella Petra Haden al violino e alle armonie vocali, e dall’altro nuovo componente del gruppo, Danny Frankel batterista newyorkese in pista già agli albori del CBGB e poi con Lou Reed, Kd Lang, Rickie Lee Jones, Fiona Apple, John Cale, Laurie Anderson e mille altri. Il disco è stato registrato ai Gaylord Studios di Los Angeles, di proprietà di Lyon, nell’edificio di fronte al club dove il padre di Josh, Charlie Haden guardava Ornette Coleman inventare il suo jazz. Il genere della band è stato definito Alternative, Indie Rock, slowcore, ma secondo me fanno semplicemente buona musica, al di là delle etichette http://discoclub.myblog.it/2014/02/25/i-notturni-josh-haden-spain-sargent-place/ . E questo Carolina lo conferma ancora una volta.

train does led zeppelin II

Di solito (le jam band soprattutto) capita che gruppi importanti eseguano nei concerti di Halloween o di Capodanno, album importanti e storici nella loro interezza, penso a band come Phish Gov’t Mule, ma è raro che un gruppo pubblichi un intero album di studio dedicato ad un disco specifico del passato, però in questo caso il titolo non lascia dubbi Train Does Led Zeppelin II. 

E i Train Led Zeppelin II lo fanno davvero bene, forse fin troppo fedele all’originale, ma a giudicare dai brani che potete ascoltare sopra, magari vale la pena di fare un ripasso. 1. Whole Lotta Love 2. What Is and What Should Never Be 3. The Lemon Song 4. Thank You 5. Heartbreaker 6. Living Loving Maid (She’s Just a Woman) 7. Ramble On 8. Moby Dick 9. Bring It On Home https://www.youtube.com/watch?v=PwhF_LkSJqo Non ho sentito le versioni di Whole Lotta Love Heatrbreaker, ma il resto non è male e Pat Monahan conferma di avere una gran voce. Sempre il 3 giugno la data di uscita, etichetta Crush/Atlantic (la stessa degli Zeppelin).

dexys let the record show

Nel 2014 Kevin Rowland aveva pubblicato un voluminoso (e costoso) cofanetto, soprattutto nella versione in 4 DVD + 2 CD, ma esistevano anche le versioni divise in 3 CD o 2 DVD, il tutto intitolato Nowhere Is Home era la riproduzione di un concerto al Duke Of York’s Theatre, dove si ripercorreva il meglio della sua storica band dei Dexys (una volta anche Midnight Runners) http://discoclub.myblog.it/tag/kevin-rowland/ . Il gruppo, nella prima tribolata incarnazione, si era diviso intorno alla metà degli anni ’80, dopo averci regalato una breve serie di ottimi album, che fondevano soul, o meglio celtic soul alla Van Morrison, rock, musica irlandese, pop di grande qualità, R&B e molto altro, in dischi come Searching For TheYoung Soul Rebels, Too-Rye-Ay e il sottovalutato, ma splendido, Don’t Stand Me Down. Poi le manie di grandezza di Rowland e un evidente calo di ispirazione avevano posto fine alla storia. La storia venne ripresa nel 2012 con l’ottimo One Day I’m Going To Soar ed ora con questo album che riprende un progetto che avrebbe dovuto essere il quarto album di studio della band, Let The Record Show: Dexys Do Irish and Country Soul. Mi piacciono questi titoli dove si capisce subito il contenuto del disco.

Esce per la Warner Music in varie edizioni e contiene classici della musica irlandese e del country (ma non solo, direi che la peraltro bellissima Both Sides Now di Joni Mitchell difficilmente appartiene alle due categorie), ma comunque ecco la lista completa dei contenuti del disco, che esce anche in una versione tripla Deluxe, forse superflua, ma non essendo particolarmente costosa un pensierino si può fare, dove c’è un secondo CD di versioni accapella solo voce o brani strumentali, e un DVD con il consueto Making Of.

Tracklist 1. Women Of Ireland 2. To Love Somebody 3. Smoke Gets In Your Eyes 4. Curragh Of Kildare 5. I’ll Take You Home Kathleen 6. You Wear It Well 7. 40 Shades Of Green 8. How Do I Live 9. Grazing In The Grass 10. The Town I Loved So Well 11. Both Sides Now 12. Carrickfergus [Deluxe Edition Bonus CD2] 1. To Love Somebody (Solo Vocal) 2. Smoke Gets in Your Eyes (Solo Vocal) 3. Curragh of Kildare (Solo Vocal) 4. I’ll Take You Home Again, Kathleen (Solo Vocal) 5. How Do I Love (Solo Vocal) 6. Grazing in the Grass (Solo Vocal) 7. The Town I Loved So Well (Solo Vocal) 8. Carrickfergus (Solo Vocal) 9. How Do I Live (Instrumental) 10. Grazing in the Grass (Instrumental) 11. Both Sides Now (Instrumental) [Deluxe Edition Bonus DVD] 1. 50 Minute Film

A giudicare dalla cover della Mitchell e di Carrickfergus il CD promette molto bene!

boo hewerdine born ep

Boo Hewerdine è un artista di culto, un “beautiful loser” che piace molto agli estensori di questo Blog, soprattutto al sottoscritto. Una carriera iniziata negli anni ’80 con i misconosciuti Bible, poi collaborazioni con un altro “piccolo grande artista” come Darden Simth, e con molti dei migliori talenti del nuovo folk anglosassone, Kris Drever, Eddie Reader, Heidi Talbot, John McCusker, gli State Of The Union e altri. Ogni tanto pubblica un album nuovo, l’ultimo Open, lo scorso anno. Ora esce, per l’etichetta Reveal, un nuovo EP Born, che dovrebbe essere preludio ad un album intero.

Io ve lo segnalo sempre, perché secondo me merita, poi non so se questo EP con cinque brani, tiratura limitata di 1.000 copie, in uscita il 3 giugno, sarà recuperabile, ma i fans sono avvisati.

joan baez 75th celebration

Quest’anno oltre a Bob Dylan un’altra icona della musica americana ha festeggiato il suo 75° compleanno, parliamo di Joan Baez, la quale, a differenza del menestrello di Duluth, ha deciso di festeggiare l’evento in pompa magna, con un mega concerto registrato al Beacon Theatre di New York il 27 gennaio scorso. Ora la Razor & Tie pubblica, il 10 giugno, questo 75th Birthday Celebration in vari formati. C’è il doppio CD, il DVD, o la versione deluxe 2 CD+DVD e il contenuto è fantastico, sia per la scelta dei brani che per ospiti presenti alla serata. Vedete un po’ chi c’era e cosa hanno cantato:

God is God – Joan Baez
There But For Fortune – Joan Baez
Freight Train – Joan Baez and David Bromberg
Blackbird – Joan Baez and David Crosby
She Moved Through the Fair – Joan Baez and Damien Rice
Catch the Wind – Joan Baez and Mary Chapin Carpenter
Hard Times Come Again No More – Joan Baez and Emmylou Harris
Deportee (Plane Wreck at Los Gatos) – Joan Baez, Emmylou Harris, and Jackson Browne
Seven Curses – Joan Baez
Swing Low, Sweet Chariot – Joan Baez
Oh Freedom / Ain’t Gonna Let Nobody Turn Me Around – Joan Baez and Mavis Staples
The Water Is Wide – Joan Baez, Indigo Girls, and Mary Chapin Carpenter
Don’t Think Twice, It’s All Right – Joan Baez and Indigo Girls
House of the Rising Sun – Joan Baez, Richard Thompson, and David Bromberg
She Never Could Resist A Winding Road – Joan Baez and Richard Thompson
Before The Deluge – Joan Baez and Jackson Browne
Diamonds & Rust – Joan Baez and Judy Collins
Gracias a la Vida – Joan Baez and Nano Stern
The Boxer – Joan Baez and Paul Simon
The Night They Drove Old Dixie Down – Joan Baez
Forever Young – Joan Baez
 

shawn colvin & steve earle

Altra formidabile ed imprevedibile accoppiata, Shawn Colvin & Steve Earle pubblicano il 10 giugno il loro disco di duetti Colvin & Earle per la Fantasy del gruppo Universal. Per i misteri della discografia internazionale, la versione singola, ma Deluxe, con tre brani in più, già di per sé fin troppo costosa, uscirà solo per il mercato americano (niente Europa ed Italia), quindi pure di difficile reperibilità.

Il disco, prodotto da Buddy Miller e registrato nel suo studio privato e casalingo, consta di dieci brani nella versione standard, sei scritti dalla coppia Earle e Colvin, più quattro cover, un brano di Emmylou Harris, uno di Sylvia Fricker, Tobacco Road Ruby Tuesday degli Stones. Tredici i brani della Deluxe edition: 1. Come What May 2. Tell Moses 3. Tobacco Road 4. Ruby Tuesday 5. The Way That We Do 6. Happy & Free 7. You Were on My Mind 8. You’re Right (I’m Wrong) https://www.youtube.com/watch?v=QnUktPxUxbU 9. Raise the Dead 10. You’re Still Gone Deluxe Edition Bonus Tracks: 11. Someday 12. That Don’t Worry Me Now 13. Baby’s in Black

Nel disco suonano anche Fred Eltringham alla batteria, Chris Wood (Medeski, Martin & Wood Wood Brothers) al basso e Richard Bennett alle chitarre. Ottimo ed abbondante!

william bell this is where i live

William Bell è stato uno dei primi artisti ad essere messo sotto contratto dalla Stax: il suo primo singolo You Don’t Miss Your Water, una splendida soul ballad, risale al 1961, e il suo ultimo album per l’etichetta di Memphis al 1974. Ora, 42 anni dopo e all’età di 76 anni ritorna su etichetta Stax per questo bellissimo This Is Where I Live.

  https://www.youtube.com/watch?v=dbXMYJSvddk

Dodici brani di soul music senza tempo: 1. The Three Of Me 2. The House Always Wins 3. Poison In The Well 4. I Will Take Care Of You 5. Born Under A Bad Sign 6. All Your Stories 7. Walking On A Tightrope 8. This Is Where I Live 9. More Rooms 10. All The Things You Can’t Remember 11. Mississippi-Arkansas Bridge 12. People Want To Go Home

Le note del disco sono firmate da Peter Guralnick, uno dei decani e tra i più grandi giornalisti musicali americani e nell’album, prodotto da John Leventhal, appaiono brani scritti appositamente per l’occasione da Rosanne Cash, Marc Cohn, Cory Chisel Scott Bomar, oltre che da Leventhal che ha scritto molto dei brani con lo stesso Bell. Oltre ad una ripresa del suo super classico Born Under A Bad Sign, scritta ai tempi insieme a Booker T Jones per Albert King e suonata anche dai Cream. Per gli amanti della soul music che godranno come ricci, sono solo tre parole: gran bel disco!

eli paperboy reed my way home

Un altro che fa grande soul music, “bianca”, mista a rock, è questo signore di belle speranze Eli Paperboy Reed, di cui ,i era piaciuto moltissimo il terzo album http://discoclub.myblog.it/2010/04/29/soul-music-con-l-a-nima-maiuscola-eli-paperboy-reed-come-and/, meno il successivo Night Like This uscito per la Warner Bros nel 2014, dove la voce e le canzoni c’erano ma il suono era drasticamente cambiato. Ora il nostro amico passa alla Yep Rock per questo nuovo My Way Home, in uscita il 10 giugno e sembra avere messo di nuovo la testa a posto. con un disco solido e ben suonato.

Ecco i brani contenuti: 1. Hold Out 2. Your Sins Will Find You Out 3. Cut Ya Down 4. Movin’ 5. Tomorrow’s Not Promised 6. My Way Home 7. Eyes On You 8. The Strangest Thing 9. I’d Rather Be Alone 10. A Few More Days 11. What Have We Done

E un altro estratto, strepitoso, questa volta dal vivo, dal nuovo disco. Dimensione Live dove emerge il suo talento veramente notevole, sentite che roba.

band of horse why are you ok

Nuovo album anche per i Band Of Horses dopo l’interessante Live At the Ryman del 2014 http://discoclub.myblog.it/2014/02/17/cavalli-razza-versione-unplugged-band-of-horses-acoustic-at-the-ryman/, uscito per una etichetta indipendente, tornano ad una major la Interscope/Universal che pubblica loro il nuovo album Why Are You Ok, prodotto da Jason Lyttle dei Grandaddy, e con la supervisione esecutiva di Rick Rubin (che sarà anche il produttore del nuovo Avett Brothers in uscita il 24 giugno), oltre al mixaggio di Dave Fridmann dei Mercury Rev.

Questi i titoli delle canzoni: 1. Dull Times/The Moon 2. Solemn Oath 3. Hag 4. Casual Party 5. In A Drawer 6. Hold On Gimme A Sec 7. Lying Under Oak 8. Throw My Mess 9. Whatever, Wherever 10. Country Teen 11. Barrel House 12 Even Still

E comunque anche l’ultimo disco del 2012 Mirage Rock aveva avuto un ottimo produttore nella persona di Glyn Johns e pure quelli precedenti, con Phil Eck (Fleet Foxes, Modest Mouse, Shins). Il disco sembra buono ad un veloce ascolto. Sempre ottimi dal vivo https://www.youtube.com/watch?v=xEFGGChcivg

Direi che è tutto, alla prossima lista di uscite.

Bruno Conti

P.s Scusate, ma c’era stato nei giorni scorsi un problema tecnico nella impaginazione di questo Post, ora risolto.

I Traveling Wilburys Del Country! Johnny Cash, Waylon Jennings, Kris Kristofferson & Willie Nelson, The Highwaymen – Live: American Outlaws

higjwaymen live american outlaws

The Highwaymen – Live: American Outlaws – Sony Legacy 3CD/DVD – 3CD/BluRay

Anzi, se proprio vogliamo fare un parallelo con il mondo del rock, gli Highwaymen sono anche qualcosa di più dei Wilburys: con tutto il rispetto per Harrison, Orbison e Lynne immaginatevi un gruppo formato da Bob Dylan, Tom Petty, Bruce Springsteen e John Fogerty ed avrete un paragone sensato con quello che il quartetto di cui mi accingo a parlare rappresenta per la musica country. Correva l’anno 1985 quando quattro vere e proprie leggende viventi decisero di unire le forze per un album: Johnny Cash, Willie Nelson, Kris Kristofferson e Waylon Jennings (il solo pensiero di trovarseli tutti e quattro davanti fa tremare le gambe) diedero alle stampe il bellissimo Highwayman, un disco composto per nove decimi da cover di brani altrui, un lavoro eccellente che vedeva i quattro in forma smagliante; le vendite furono sorprendentemente soddisfacenti, e servirono a rilanciare le carriere dei quattro, in quel momento piuttosto claudicanti (Nelson a parte, dato che il texano continuava a vendere bene pur sfornando dischi che erano uno la fotocopia dell’altro): Cash stava per essere lasciato a piedi dalla Columbia dopo decenni di militanza, lo stesso era appena successo a Jennings con la RCA, mentre Kristofferson in quegli anni non aveva neppure una carriera musicale attiva (e comunque il periodo non era il massimo per tutto il country in generale, le cose sarebbero cominciate a cambiare l’anno successivo con gli esordi di Dwight Yoakam e Steve Earle).

I quattro si diedero appuntamento cinque anni dopo per dare alle stampe il seguito di quel disco, 2, sempre di buon livello anche se inferiore al predecessore, e nel 1995 per il terzo ed ultimo lavoro in studio, The Road Goes On Forever, di qualità intermedia tra i primi due. Il supergruppo però, nel 1990 (dopo il secondo album dunque) riuscì anche ad andare in tour, ed ora finalmente la Sony ripara ad una mancanza durata più di 25 anni, pubblicando questo sontuoso cofanetto di tre CD più un DVD (o BluRay), intitolato Live: American Outlaws, una preziosa testimonianza di un evento irripetibile, quattro colossi della musica insieme dal vivo. I primi due CD documentano un intero concerto registrato al Nassau Coliseum di Uniondale, nello stato di New York, il 14 Marzo del 1990 (e lo stesso in formato video nel DVD, in parte decisamente ridotta già uscito nel 1991 in VHS), mentre il terzo dischetto audio contiene dieci canzoni registrate nel corso dei Farm Aid del 1992 e 1993, più una chicca in studio che vedremo. Ma la parte centrale del box è indubbiamente la performance di Uniondale, che vede i quattro in forma strepitosa tenere il palco con classe e carisma per ben più di due ore, accompagnati da una superband (Reggie Young e J.R. Cobb alle chitarre, Mike Leech al basso, Gene Chrisman alla batteria, Mickey Raphael all’armonica, Bobby Emmons, Danny Timms e Bobby Wood alle tastiere, Robby Turner alla steel): quattro icone che mostrano di divertirsi come fossero dei ragazzini, scherzando tra loro ed intrattenendo alla grande il pubblico, ma fanno maledettamente sul serio quando è ora di cantare. I brani dei loro primi due album in gruppo ci sono ma non occupano la parte principale, che è invece appannaggio dei classici dei quattro, nei quali molto spesso tutti collaborano vocalmente, dando così un sapore nuovo a pezzi immortali. Oltre alla qualità stratosferica della performance, abbiamo poi la perfezione del suono, quasi come se il concerto fosse della settimana scorsa (ed anche la definizione video è eccellente).

Dopo una breve versione strumentale di Mystery Train di Elvis Presley da parte della backing band ecco che entrano i quattro nel tripudio generale e piazzano subito una fluida versione della title track del loro “esordio”, la splendida canzone di Jimmy Webb che i quattro hanno reso loro al 100%; il primo a prendere in mano il pallino è Waylon, con ben cinque brani che messi uno di fila all’altro fanno venire la pelle d’oca: la mitica Mammas Don’t Let Your Babies Grow Up To Be Cowboys (in duetto con Willie, naturalmente), una potente Good Hearted Woman, ancora con Nelson, la solida Trouble Man, la dolce Amanda ed il duetto con Cash nell’energica There Ain’t No Good Chain Gang, nella quale il nostro dimostra di destreggiarsi molto bene anche alla chitarra. E’ quindi la volta di due pezzi da novanta di Johnny, Ring Of Fire e Folsom Prison Blues, che non hanno bisogno di commento, e Willie che ci delizia con l’intensa Blue Eyes Crying In The Rain, tratta dal suo capolavoro Red Headed Stranger; neanche il tempo di pensare che non abbiamo ancora sentito Kristofferson che subito il cantautore/attore piazza un poker da urlo, iniziando con Sunday Morning Coming Down (insieme a Cash), proseguendo con Help Me Make It Through The Night (sempre grande), e finendo con le emozionanti The Best Of All Possible Worlds e Loving Her Was Easier (quest’ultima con Willie). Il primo CD si chiude con Nelson che giganteggia con la splendida City Of New Orleans di Steve Goodman e con la romantica Always On My Mind (l’ha fatta anche Elvis, ma la finezza di Willie è imbattibile), ed ancora con Kris che, come se niente fosse, fa venire giù il teatro con Me And Bobby McGee, senza dubbio il suo capolavoro, in una versione strepitosa e quasi rock’n’roll.

Il secondo dischetto inizia con quattro pezzi tratti dai due album del gruppo, le discrete Two Stories Wide e Living Legend, l’ottima Silver Stallion (un classico di Lee Clayton, un grande autore purtroppo dimenticato) e la corale The Last Cowboy Song, scritta da Ed Bruce (lo stesso di Mammas Don’t Let…eccetera); di nuovo Kris con la coinvolgente The Pilgrim: Chapter 33 e la fluida They Killed Him (dedicata ai leader assassinati), e finalmente Cash, poco utilizzato finora, con l’arciclassica I Still Miss Someone e la coinvolgente (Ghost) Riders In The Sky, entrambe in duetto con Willie (e fra le due purtroppo la retorica Ragged Old Flag, infarcita di stucchevole patriottismo: ma con il popò di repertorio che aveva l’Uomo In Nero proprio questa doveva scegliere?). Waylon propone la mossa Are You Sure Hank Done It This Way, alla fine della quale rilascia un breve ma intenso assolo, mentre Willie piazza una versione a dir poco magnifica di Night Life, molto bluesata e raffinata e con uno strepitoso assolo della sua Trigger; tutti insieme appassionatamente per una rilettura di The King Is Gone (So Are You), un successo di George Jones, la meravigliosa Desperados Waiting For A Train di Guy Clark, uno dei momenti più intensi della serata, e la spedita Big River (è di Cash, ma ognuno ne canta un pezzo). Gran finale con un brano a testa: l’umoristica A Boy Named Sue per Cash, la vibrante Why Me per Kris, la cadenzata Luckenbach, Texas per Waylon ed il prevedibile commiato con On The Road Again di Willie, da sempre posta in chiusura anche nei concerti del barbuto texano.

Nel terzo CD dei dieci brani incisi al Farm Aid otto sono ripetizioni di pezzi inclusi anche nei primi due (in versione diversa, chiaramente): fanno eccezione I’ve Always Been Crazy di Jennings e la meno nota Shipwrecked In The Eighties di Kristofferson; nei primi sei brani però il gruppo è ridotto a trio per l’assenza di Cash, e la sua strofa nella canzone Highwayman è cantata dal suo autore, Jimmy Webb, ospite speciale. Come bonus finale, una bellissima versione in studio di One Too Many Mornings di Bob Dylan, parzialmente inedita, nel senso che è stata presa la rilettura presente nell’album Heroes, inciso in duo da Cash e Waylon nel 1986, alla quale sono state aggiunte le voci di Willie e Kris registrate nel 2014, uno splendido omaggio ai due quarti del gruppo che non sono più tra noi.

Un cofanetto da non lasciarsi sfuggire, dato che ci troviamo di fronte a quattro veri e propri giganti della musica americana, e non solo country, catturati in un momento di grazia: sicuramente tra i live migliori del 2016.

Marco Verdi

Ecco Un Altro Che Di Dischi Brutti Non Ne Fa Uno! Christy Moore – Lily

christy moore lily 1

Christy Moore – Lily – Sony CD

Per proseguire con il concetto del titolo, direi che li fa quasi sempre belli! In Irlanda, Christy Moore è una sorta di leggenda vivente: cantautore ed interprete raffinato, personaggio di grande carisma e rettitudine morale, attivamente impegnato socialmente e politicamente. Uomo di sinistra, ha avuto anche diversi problemi a causa dei testi delle sue canzoni, che sono state oggetto di censura ed indagine da parte della polizia irlandese, anche per il suo controverso appoggio alla causa dell’IRA (in seguito rinnegato), mentre dal punto di vista strettamente musicale le sue canzoni folk cantautorali hanno accompagnato diverse generazioni di abitanti dell’isola verde smeraldo, sia come solista (dal 1969), che come membro prima dei Planxty e poi dei Moving Hearts, riuscendo anche a vendere parecchio nella sua patria, un caso molto particolare per un artista che ha sempre parlato solo con la sua musica e senza svendere il proprio suono e la propria immagine. Personalmente l’ho scoperto tardi, all’inizio degli anni novanta (l’album King Puck), ma mi sono affezionato subito a questa figura di grande carattere nonostante l’aspetto fisico pacioso, è soprattutto cantautore (ed anche interprete di molti brani di altri) di grande forza ed espressività: un valido esempio in tal senso può essere lo splendido Graffiti Tongue del 1996, un album inciso dal nostro in completa solitudine ma talmente denso e pieno di feeling che non ci si accorge dell’assenza di una band.

Moore mancava all’appuntamento dal 2011, anno di Folk Tale (ma in mezzo è uscito il fantastico triplo Where I Come From, una retrospettiva parte in studio e parte dal vivo, con tutti i suoi classici incisi di nuovo per l’occasione), silenzio finalmente interrotto da Lily, una nuovissima collezione di canzoni (dieci) che conferma l’incapacità di Christy di fare dischi di livello medio: anzi, ad ascolto ultimato devo dire che Lily è forse uno dei più belli fatti uscire dal nostro negli ultimi vent’anni. Prodotto come al solito dal fido Declan Sinnott, Lily contiene un solo brano originale (la title track) e ben nove cover divise tra contemporanei e tradizione, il tutto suonato dal consueto manipolo di amici e fidati collaboratori (oltre al nostro e a Sinnott alle chitarre e bodhran, abbiamo Jimmy Higgins alle percussioni, Seamie O’Dowd al mandolino e chitarra, Martin O’Connor alla fisarmonica, Cathal Hayden al banjo e violino e Vicky Keating ed Andy Moore ai controcanti): tra gli autori abbiamo nomi poco noti come Paul Doran, Tony Small e Declan O’Rourke ed altri molto famosi come Peter Gabriel.

Mandolin Mountain ci fa ritrovare subito la voce intensa e riconoscibilissima del nostro, chitarra, mandolino ed una melodia profonda e toccante, ancor di più dopo due minuti grazie all’ingresso di uno struggente violino: subito grande musica. The Tuam Beat è più mossa, c’è una leggera percussione, e Christy canta con sicurezza un allegro motivo che sembra quasi una filastrocca, molto piacevole: dopo il primo ascolto vi ritroverete a canticchiarne il ritornello; The Gardener è una ballata da pelle d’oca, una di quelle per le quali Moore è famoso (anche se non è sua), con uno splendido motivo centrale impreziosito dalla seconda voce femminile, mentre Lily è un brano autobiografico (infatti è l’unico originale), una folk song straordinaria condotta da Christy con un pathos incredibile se si pensa che c’è solo la sua voce con tre strumenti in croce. Wallflower è il pezzo di Gabriel, ma Moore la spoglia di tutte le caratteristiche tipiche dell’ex Genesis e la fa diventare sua al 100% (ed il testo, che parla di prigionieri politici, è perfetto per il musicista irlandese), una qualità tipica dei grandi, ancora con la voce forte ed espressiva del leader a dominare un brano di grande valore; Oblivious, testo di Mick Blake a sfondo sociale (tratta infatti dei problemi dell’Irlanda contemporanea), è profonda ed evocativa, ancora con il nostro circondato dagli strumenti a corda ed il solito refrain emozionante, mentre The Ballad Of Patrick Murphy (del songwriter John Spillane) ha una melodia tipicamente Irish, un tipo di brano che Moore canta anche sotto la doccia ma che non mi stancherò mai di ascoltare, e l’intensità quasi si tocca con mano tanto è concreta: uno dei pezzi più belli del CD. Ottima anche Lighning, Bird, Wind, River Man, specie nel ritornello corale sottolineato dal malinconico violino di Hayden, e non è certo da meno il traditional Green Grows The Laurel, lenta, discorsiva, con la sua melodia d’altri tempi; l’album si chiude con un reading, una poesia di Dave Lordan intitolata Lost Tribe Of The Wicklow Mountains, recitata con un leggero suono in sottofondo ed un coro a bocca chiusa, e Christy che riesce ad emozionare anche parlando.

Senza dubbio Lily è uno dei dischi folk dell’anno (e non solo).

Marco Verdi

Ancora Del Buon Blues-Rock Chitarristico, Dal Vivo! Lance Lopez – Live In NYC

lance lopez live in nyc

Lance Lopez – Live In NYC – Cleopatra Blues

Negli anni successivi alla pubblicazione del suo ultimo album da solista Salvation From Sundown, Lance Lopez aveva suonato parecchio dal vivo e molti gli avevano parlato di questo produttore e bassista italiano, Fabrizio Grossi, come un ottimo candidato alla guida di quello che avrebbe dovuto essere il suo settimo album di studio. In effetti i due avevano deciso di iniziare una collaborazione per questo nuovo album, incidendo anche alcuni brani, ma poi Billy Gibbons degli ZZ Top, che conosceva Lopez fin da ragazzino, entrambi provenienti dal Texas (anche se Lance è nativo di Shreveport, Louisiana), disse ai due che avrebbero dovuto mettere in piedi un gruppo, e registrare l’album come una band: cosa che è avvenuta, con l’aggiunta di Kenny Aronoff alla batteria, nascono i Supersonic Blues Machine, un power trio che con l’aiuto di molti amici chitarristi all’inizio di questo 2016 ha pubblicato un buon disco di esordio, West Of Flushing, South Of Frisco, http://discoclub.myblog.it/2016/02/26/rock-blues-buoni-risultati-esce-febbraio-supersonic-blues-machine-west-of-flushing-south-of-frisco/

Veniamo a questo Live in NYC che viene presentato come un “nuovo” album del vivo (ma non c’è troppo da meravigliarsi essendo una produzione di quei geni della Cleopatra, che per l’occasione inaugura l’etichetta Cleopatra Blues): nello scarno libretto del CD non ci sono informazioni, a parte i nomi dei musicisti, con Lance Lopez troviamo Mike Nunno al basso e Chris Reddan alla batteria, quindi diversi da quelli che avevano suonato nei precedenti album. In teoria questo sarebbe il secondo album dal vivo della sua discografia http://discoclub.myblog.it/2011/12/13/il-ritorno-della-personcina-lance-lopez-handmade-music/  (ma il precedente Salvation From Sundown conteneva, nella versione Deluxe, anche un Live al Rockpalast, dove il corpulento texano si presentava con un completino alla Zorro, che date le sue dimensioni ricordava più il sergente Garcia): ma al di là delle faccende sartoriali, sia la parte in studio che quella dal vivo evidenziavano l’ottima tecnica chitarristica di Lopez, che oltre che ai texani Stevie Ray Vaughan e Billy Gibbons, di cui è un buon epigono, si ispirava anche all’opera di Jimi Hendrix. E ovviamente anche a Johnny Winter; e qui torniamo a questo Live in NYC, di cui sul CD non è riportata la data del concerto, ma il vostro “Sherlock Holmes ha indagato”, e  il locale in cui è stata effettuata la registrazione è il B.B. King’s Blues Club a Times Square, il giorno è il 23 febbraio del 2014, in cui si festeggia il 70° compleanno di Winter, in una serata in cui, oltre all’albino texano, sono presenti anche Debbie Davies, Joe Louis Walker, Mike Zito e Popa Chubby.

Proprio con l’omone di New York ho sempre riscontrato le maggiori affinità di Lopez, i due sembrano una sorta di gemelli (diversi) separati alla nascita, un simile timbro di voce, rauca e vibrante, stessa tecnica chitarristica, eccellente, più o meno le stesse influenza musicali, ricordate poco sopra, e il fatto che entrambi hanno la migliore resa nella dimensione Live. Il concerto in questione (la parte di Lopez almeno) è da parecchio disponibile in rete, lo vedete qui sopra, quindi non è sicuramente nuovo, ma è comunque un buon concerto per gli amanti del rock-blues, brani che già si trovano nei precedenti album, in ottime rese dal vivo. Dalla poderosa apertura con Come Back Home, che nel suo ondeggiare tra Stones, Blues e R&R sembra presa da Johnny Winter And Live, all’aggressiva Prime Time con i suoi riff texani che potrebbero venire da qualche album degli ZZ Top, passando per Get Out And Walk ancora tra Winter e il rock-blues di band “britanniche” come Humble Pie, Bad Company o Foghat. Poi c’è Traveling Riverside Blues che più che dal grande bluesman nero, sembra venire dalle rocciose reinterpretazioni di gente come Led Zeppelin, Allman, Cream e Co., con tutti i musicisti che picchiano come disperati, ma non senza costrutto. Ottima la lunga Lowdown Ways, uno slow blues intenso che riprende le cavalcate di Winter in brani come It’s My Own Fault, grande tecnica chitarristica, Tell The Truth è un altro pezzo rock di quelli che non prendono prigionieri e la lunga conclusiva El Paso Sugar un altro brano dove le influenze di Lance Lopez, da Hendrix a Winter, agli ZZ Top, vengono alla luce, in un lungo tour de force dove strapazza alla grande la sua chitarra.

Bruno Conti   

Country-Gospel D’Altri Tempi! Wade Bowen – Then Sings My Soul

wade bowen then sings my soul

Wade Bowen – Then Sings My Soul: Songs From My Mother – Bowen Sounds CD

Wade Bowen da Waco, Texas, è uno dei più fulgidi esempi di country rocker appartenenti al cosiddetto movimento Red Dirt. Attivo dal 2002, ha prodotto circa una mezza dozzina di album, tutti di fattura più che buona: l’ultimo lavoro, pubblicato lo scorso anno, è stato l’ottimo Hold My Beer, Vol. 1, un perfetto sampler di puro Texas country inciso in coppia con Randy Rogers. Ma questo Then Sings My Soul: Songs For My Mother già dal titolo lascia presagire un qualcosa di diverso: infatti l’album è una collezione di brani della tradizione gospel (ma c’è anche qualcosa di più moderno), un sentito omaggio che Wade sente di dovere a sua madre, che ringrazia nelle note interne con una commossa dedica. Ed il disco, quaranta minuti circa di durata, è una delle cose più belle della discografia del nostro, il quale non affronta i brani presenti con piglio da texano, magari ri-arrangiandoli in chiave country-rock, ma rispetta il loro suono tradizionale e ci consegna un lavoro puro ed incontaminato, dove una bella serie di grandi canzoni brillano di nuova luce grazie all’interpretazione intensa del leader, il quale si circonda di pochi strumenti per dare maggior spazio alle melodie, e come ciliegina sulla torta usufruisce del supporto delle McCrary Sisters ai cori. Un lavoro fatto con passione, che originariamente era stato previsto solo per la vendita online ma, date le richieste, si è deciso di rendere disponibile su larga scala.

https://www.youtube.com/watch?v=qx8M5RoJvUQ

L’album si apre con uno dei classici assoluti del genere, cioè Amazing Grace, che viene proposta in maniera canonica, con un inizio lento per solo piano (ed organo sullo sfondo), Wade che intona con grande partecipazione la ben nota melodia, e la strumentazione che si arricchisce man mano che il brano prosegue (con un bell’assolo di slide, molto alla Cooder). I’ll Fly Away, un inno gospel tra i più conosciuti, è più spedita, ritmo sostenuto, un banjo in sottofondo, motivo cristallino ed orecchiabile ed arrangiamento da country song d’altri tempi; Softly And Tenderly, un pezzo composto addirittura nel 1880, è riproposta come una languida honky-tonk ballad, con l’organo a fornire l’elemento soul: già dalla resa di queste tre canzoni traspare l’amore con cui Bowen ha affrontato questo progetto. Splendida anche Just Over In The Gloryland, altro brano antico (lo hanno fatto anche Bill Monroe e gli Stanley Brothers), con un bel botta e risposta tra voce e coro, melodia tipicamente gospel ed accompagnamento decisamente sudista, un pezzo da godere nota per nota; In The Garden (Tennessee Ernie Ford, Elvis Presley, Willie Nelson e Johnny Cash fra gli altri) è ancora uno slow per voce e poco altro, ma tanta anima, mentre la celeberrima How Great Thou Art (ancora Elvis e Willie, passando per gli Statler Brothers e Dolly Parton) è arrangiata come una moderna country ballad, ma la purezza e la bellezza del brano restano intatti.

https://www.youtube.com/watch?v=ya–crRPkZc

Ed ecco un terzetto di standard famosissimi, che vantano decine di versioni: Farther Along, con un semplice arrangiamento bucolico che esalta la stupenda melodia, molto vicina a quella dei Byrds, un grande brano rifatto splendidamente, Peace In The Valley, lenta, languida, con chitarra acustica e piano a guidare il noto motivo reso celebre ancora da Elvis ma inciso anche da Cash e da Loretta Lynn, e Precious Memories (oltre ai soliti noti, anche J.J. Cale, Emmylou Harris e Bob Dylan), rifatta in maniera vivace e solare, anche se la strumentazione di base rimane acustica. Old Rugged Cross è ancora puro country-folk, ed è impreziosita da un bel controcanto femminile, e prelude ad una sorprendente rilettura di Saved, proprio la title-track del tanto criticato album del 1980 di Bob Dylan, con il nostro che non ne modifica per nulla il potente arrangiamento gospel-rock, riproponendola quasi in maniera calligrafica: non male ma a questo punto meglio l’originale, anche perché in quel periodo Dylan cantava alla grande.

Chiude il CD Take My Hand Precious Lord, ancora un pezzo dal grande pathos e proposto in maniera spoglia ma efficace: un piccolo grande disco, siamo sicuri che la mamma di Wade Bowen da lassù apprezzerà con convinzione.

Marco Verdi

Tra Presente E Passato Del Rock And Roll! The Wild Feathers – Lonely Is A Lifetime

wild feathers lonely is a lifetime

The Wild Feathers – Lonely Is A Lifetime – Warner Bros

Parlando del precedente omonimo album dei Wild Feathers http://discoclub.myblog.it/2013/09/15/ho-visto-il-futuro-del-rock-n-roll-e-il-suo-nome-e-the-wild/ , uscito tre anni fa nel 2013, scherzando, ma non troppo, avevo parlato di futuro e presente del R&R optando poi per un salomonico: “ho visto una band tra presente e passato del rock and roll, si chiamano le Piume Selvagge”! E per quel album, grazie alla sua fusione di suoni che ricordavano, senza essere troppo pedissequi, gente come Allman Brothers, Tom Petty, la Band, Jayhawks, Stones, Neil Young e molti altri, ci stava. Perché poi il sound era fresco e piacevole, gli intrecci vocali riusciti, anche grazie alla brillante produzione di Jay Joyce  e quindi il tutto, senza sfiorare il plagio diretto, aveva una piacevole sensazione di déja vu, o già sentito. Ma poi l’album ha faticato ad arrivare nei primi 100 posti delle classifiche di Billboard, non riuscendoci, e la band (texana, ma di stanza a Nashville), incidendo per una major come la Warner e dovendo affrontare “il difficile secondo album” ha ceduto un po’ al compromesso, schiacciando in alcuni brani il pedale su un mix di suoni più aggressivi, quell’insieme più “bombastico” da alternative-indie rock da classifica che impera sul mercato americano, e il produttore Joyce, che nel primo album era stato meno “commerciale”, ha indugiato troppo in sonorità più cariche di tastiere, tipo l’ultimo Zac Brown Band, Carrie Underwood o Eric Church, che sono stati i suoi ultimi clienti.

Poi i nostri amici, in particolare Ricky Young, Taylor Burns e Joel King, che scrivono tutti i brani, e si alternano come voci soliste e armonizzano spesso anche insieme, con gusto e classe, sono comunque freschi e vivaci, e brani come l’iniziale Overnight, sono piacevolissimi e coinvolgenti, con un risultato che ricorda quello appunto dei Jayhawks più scanzonati o di gente come Toad The Wet Sprocket, Band Of Horses, Delta Spirit, i primi Kings Of Leon (ma a tratti anche gli ultimi), persino gli Avett Brothers più elettrici, i continui rilanci e soli di chitarre elettriche nel brano, sono, beh, “elettrizzanti”! Sleepers è già più “lavorata”, con quel big sound ricordato, tastiere avvolgenti, voci cariche di eco ed effetti, tipo anche gli ultimi Mumford And Sons, come pretende l’industria discografica, musica da macchina o da ascoltare sull’Ipod (se lo avete), ma che mantiene, a fatica, una sua certa dignità grazie agli ottimi intrecci vocali del gruppo, che non è uno di quelli creati a tavolino nei talent show. La lunghissima Goodbye Song, oltre 8 minuti, risolleva le sorti, con una bella intro di organo e chitarre acustiche, su cui si inserisce una pedal steel avvolgente, suonata da Preston Wimberly, un pezzo che ricorda le migliori cose, di nuovo, dei già citati Jayhawks, grazie all’eccellente lavoro vocale dei membri della band, e ai continui e ficcanti inserti chitarristici che hanno addirittura un retrogusto alla David Gilmour nella lunga parte strumentale, veramente bella, che ricorda pure i migliori Blue Rodeo.

Don’t Ask Me To Change, sempre godibile e frizzante, è più melodica e con inserti pop, ma di quello di buona grana, anche se a momenti si affacciano gli U2 o i Kings Of Leon più commerciali, ma c’è molto di peggio in giro, e comunque le chitarre sono sempre presenti a rivitalizzare le canzoni. Nell’alternanza tra brani più commerciali e pezzi più rock, Happy Again appartiene alla seconda categoria, un bel groove tirato, le solite chitarre che viaggiano e quell’aria country-rock, con rimandi a Petty, Ryan Adams e alla buona musica americana in generale. Niente male anche Leave Your Light On, sempre grintosa e “riffata”, per quanto con quei tocchi commerciali che rischiano di rovinare il tiro poderoso del sound, mentre la corale Help Me Out soccombe in parte al big sound più volte evocato, con la batteria che scandisce fin troppo il tempo, con la title-track, la dolce Lonely Is A Lifetime, solo voci e chitarre acustiche, che è un’oasi di tranquillità nei ritmi rock dell’album. Molto piacevole anche On My Way, sempre con quel suono a tratti troppo carico e forse più “omologato” rispetto al disco precedente. Gli ultimi due brani, Into The Sun, non brutta ma sentita mille volte e Hallelujah, con batteria e tastiere elettroniche ad affiancare una solitaria chitarra acustica, molto di maniera nel suo andamento pop, frenano gli slanci rockistici del resto dell’album. Diciamo promossi, ma con riserva: al di là del proclama “This Is Rock and Roll” con cui vengono pompati sul mercato americano!

Bruno Conti

Dopo Le Celebrazioni Poteva Mancare Un Bel Tributo Ai Grateful Dead? Various Artists. – Day Of The Dead. Giorno 2

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VV. AA. – Day Of The Dead – 4AD/Beggars 5CD Box Set 

Seconda parte, segue da ieri http://discoclub.myblog.it/2016/05/24/le-celebrazioni-poteva-mancare-bel-tributo-ai-grateful-dead-various-artists-day-of-the-dead-giorno-1/

CD3: ecco ancora i National alle prese con un’emozionante rilettura di Peggy-O, un traditional ripreso di sovente da Garcia e soci: la bravura del gruppo sta nell’approcciare la canzone nel loro tipico stile senza modificarne la struttura, bravi; Bryce Dessner si presenta da solo con il bizzarro strumentale Garcia Counterpoint, seguito dalla suite Terrapin Station, ripresa in maniera perfetta da Daniel Rossen e Christopher Bear dei Grizzly Bear (con i National come backing band), uno dei momenti top del cofanetto. Clementine Jam è uno strumentale da parte dell’Orchestra Baobab, tra jazz e samba, gradevole ma superfluo, mentre la lunga jam China Cat Sunflower/I Know You Rider (Stephen Malkmus & The Jicks) è perfettamente calata nello spirito dell’operazione, chiudete gli occhi e quasi vi sembrerà di sentire i Dead. Splendida anche Jack-A-Roe, ad opera di Kate Stables alias This Is The Kit, con la sua suggestive atmosfera western anche se forse sarebbe più adatta ad una voce maschile. Bill Callahan si impegna molto per rovinare Easy Wind e direi che ci riesce, mentre Wharf Rat, ad opera di Ira Kaplan degli Yo La Tengo, è lunga, fluida, psichedelica ed indubbiamente azzeccata; ecco arrivare anche Lucinda Williams alle prese con il classico Going Down The Road Feelin’ Bad: Lucinda come al solito rallenta il ritmo (proprio non riesce a farne a meno, riuscirebbe a rallentare anche gli Iron Maiden), personalizzandola totalmente e condendo il tutto con la sua tipica voce sgraziata (so che sulla bionda rockeuse della Louisiana sono una voce fuori dal coro, ma proprio non ce la faccio…). Chiusura ottima con And We Bid You Goodnight, rifatta dal folksinger Sam Amidon con voce e poco altro.

CD 4: il dischetto più “difficile”, che però parte bene con una fluida Ripple eseguita da The Walkmen, indie band di New York che affronta la splendida canzone con lo spirito giusto, mentre purtroppo Truckin’ è letteralmente distrutta dai Marijuana Deathsquad, una versione rumoristica senza capo né coda, inascoltabile; anche la Dark Star dei Flaming Lips non mi piace per niente, rilettura modernista e finto-psichedelica, cantata in maniera imbarazzante. Stella Blue non mi faceva impazzire neppure nella versione dei Dead, figuriamoci sentirla così stravolta e destrutturata da parte dei Local Natives, ed il CD non si risolleva neppure con la caotica Shakedown Street degli Unknown Mortal Orchestra (ma chi sono?), ma stavolta anche per la pochezza della canzone. Finalmente un po’ di buona musica, ancora con l’Orchestra Baobab che dona un bel sapore caraibico a Franklin’s Tower, rendendola irriconoscibile ma intrigante; Tal National, da non confondere con i padroni di casa (sono un gruppo del Niger, ma dove li hanno trovati?), rilegge in maniera solare Eyes Of The World, e funziona, mentre il famoso banjoista Bela Fleck propone Help On The Way in una interessante versione tra roots e tribale. Estimated Prophet nelle mani dei Rileys diventa quasi un canto propiziatorio indiano (nel senso di pellerossa), fin troppo strana per i miei gusti, mentre What’s Become Of The Baby nelle mani degli Stargaze si trasforma in uno strumentale cerebrale e poco immediato (in poche parole, due palle). L’americano di origine indiana (dell’India stavolta) Vijay Iyer sarà anche un grande pianista classico, ma la sua King Solomon’s Marbles per piano solo mi annoia assai, mentre Bonnie “Prince” Billy, sempre solo col pianoforte ma anche con la voce, riesce ad emozionare con If I Had The World To Give.

CD 5: ancora Phosphorescent con il suo consueto stile crepuscolare/etereo alle prese con la bella Standing On The Moon, ed il gruppo di Matthew Houck si dimostra una scelta vincente; i Tallest Man On Earth, band svedese, rilegge invece Ship Of Fools con pieno rispetto dell’originale ma con un tocco personale, e la canzone ne esce alla grande. Di nuovo Bonnie “Prince” Billy con Bird Song, altra bella rilettura, molto classica e con la melodia in primo piano. Brown-Eyed Women è una delle preferite in assoluto dal sottoscritto, e sono lieto che gli Hiss Golden Messenger la rispettino al 100%, versione ottima di un brano grandioso, tra le migliori del lavoro. Here Comes Sunshine è poco conosciuta, ed i Real Estate né danno una lettura molto seria e solida, armonizzando molto bene con le voci, mentre sulla confusa Cumberland Blues di Charles Bradley stenderei un velo, e così anche su Drums/Space (Man Forever, So Percussion e Oneida), intermezzo batteristico/lisergico che era già una palla colossale nei concerti dei Dead. Cream Puff War viene dal primo periodo del gruppo di Garcia, ma l’interpretazione tra rock e noise dei Fucked Up (bel nome…) mi lascia molti dubbi, anche per la voce molto trash metal del leader. Non mi ricordavo di Rosemary, ma Mina Tindle è fin troppo leggerina ed eterea per farmela apprezzare a fondo, mentre High Time trova nuova luce nell’interpretazione ancora del duo Rossen-Bear dei Grizzly Bear, partenza acustica e finale full band. Till The Morning Comes del duo australiano Luluc è soave e molto raffinata, ma mi piace, mentre Winston Marshall dei Mumford & Sons (assieme a Kodiak Blue e Shura) mostra di risentire del momento no della sua band, rilasciando una versione assolutamente piatta ed insipida dell’altrimenti bellissima Althea. Il monumentale box si chiude con Attics Of My Life, rivista da Angel Olsen quasi fosse un coro ecclesiastico, strana ma non da buttare, e con Bob Weir (sì, proprio lui), che prima coi Wilco (St. Stephen) e poi coi National (I Know You Rider), entrambe dal vivo, sigilla alla grande il cofanetto con due riletture potenti e intrise fino al collo dello spirito deaddiano.

In definitiva, a parte qualche incertezza fisiologica per un box quintuplo (e comunque in gran parte concentrate nel quarto CD), c’è una sola parola con la quale definire quest’opera: imperdibile. Anche perché, per una volta, il costo è decisamente contenuto.

Marco Verdi

Non Solo Non E’ Morto Da 35 Anni, Ma Oggi Ne Compie 75! Auguri A Bob Dylan!

bob dylan smiling 1 bob dylan smiling 2

In un 2016 nefasto e con una media di ben più di un necrologio al mese, finalmente una celebrazione: Bob Dylan, ovvero il più grande di tutti (e non lo dico io perché sono un fan, chiedete in giro o fatevi un tour su internet), oggi compie 75 anni, dei quali circa 55 passati a deliziare il mondo con le sue canzoni immortali. E Bob pare che non abbia nessuna voglia di rallentare, in quanto ha appena pubblicato un nuovo disco, Fallen Angels (http://discoclub.myblog.it/2016/05/18/male-morto-35-anni-bob-dylan-fallen-angels/) e ha già pronta una tournée americana di concerti.

bob dylan summer tour 2016

Io vorrei celebrarlo con una serie non di interpretazioni sue, ma di cover di suoi pezzi da parte di  colleghi, seguendo un criterio assolutamente personale (e non in ordine di preferenza), quindi alternando versioni famose e altre meno, e non basandomi soltanto sulla popolarità della cover (quindi non aspettatevi Knockin’ On Heaven’s Door dei Guns’n’Roses). E perdonatemi se mi dimenticherò qualcosa, magari il Bruno mi aiuterà integrando l’elenco. (*NDB Una avvertenza, abbiate pazienza mentre il Post si carica sul Blog, ci sono veramente tante belle canzoni da ascoltare)

Partiamo, per evitare equivoci, con la più inarrivabile di tutte. (Jimi Hendrix – All Along The Watchtower)

Ma anche la versione del Bisonte non era di molto inferiore! (Neil Young – All Along The Watchtower, live al “Bobfest” del 1992) *NDB. Il video in rete non c’è, accontentatevi del trailer.

E sempre dal vivo, non poteva mancare il Boss (Bruce Springsteen – Chimes Of Freedom)

Uno che Bob lo conosce bene (Tom Petty – Tweeter and The Monkey Man)

Una delle cover storiche, ma anche una delle più belle (Byrds – Mr. Tambourine Man)

Pure questa è “abbastanza” famosa (Manfred Mann – The Mighty Quinn)

Ed il grande Van “The Man” dove lo mettiamo? (Them – It’s All Over Now, Baby Blue)

Ed ecco, proseguendo per stereotipi, la Sacerdotessa (Patti Smith – Changing Of The Guards)

Questa scommetto che non ve la ricordavate, ma a me è sempre piaciuta assai (Judy Collins – Like A Rolling Stone)

E come potevamo dimenticarci del King (che poi è anche la cover preferita da Bob stesso)? (Elvis Presley – Tomorrow Is A Long Time)

Ed ecco due che di cover di Bob ne hanno incisa qualcuna, prima le donne (Joan Baez – Farewell Angelina)

E dopo loro (The Band – I Shall Be Released)

Lui, quando non fa la Pietra Rotolante, è un dylaniano doc (Ron Wood – Seven Days)

Ovviamente non può mancare anche il suo “complessino” (Rolling Stones – Like A Rolling Stone)

Ed eccone una di recente pubblicazione (The Highwaymen – One Too Many Mornings)

Questa è splendida, e poi c’è anche Bob nerl pezzo (Eric Clapton – Sign Language)

Altra cover storica, in francese stavolta (Fairport Convention – Si Tu Dois Partir)

E una in italiano no? Chiedo scusa a De Gregori ma scelgo questa (Fabrizio De Andrè – Avventura a Durango)

E’ un po’ che non parliamo dei Grateful Dead, scherzo, eccoli qua (Grateful Dead – Visions Of Johanna)

Abbiamo messo uno Stone, ecco quindi un Beatle (George Harrison – If Not For You)

Questa secondo me non se la ricorda neanche Bruno (Chuck Prophet – Abandoned Love)

Una delle più commoventi (Warren Zevon – Knockin’ On Heaven’s Door)

E finiamo con un po’ di sano cowpunk (Jason & The Scorchers – Absolutely Sweet Marie)

E, come bis, niente è più appropriato di questa (Bob Dylan & Friends – My Back Pages live Bobfest 1992)

Buon Compleanno!

Marco Verdi

*NDB Se volete questo Post lo teniamo “aperto”, per cui chi legge se vuole aggiungere o consigliare qualcosa è bene accetto, comunque noi ci riserviamo eventuali altre aggiunte future, in una sorta di “Never Ending Post”! E già che ci sono qualche cover “oscura” ma splendida ve la segnalo anch’io. Ripeto quanto detto all’inizio, se il Post fatica a caricare abbiate pazienza e troverete tanta buona musica.

Per esempio questa versione fenomenale di Going Going Gone, cantata da Robin Holcomb e con un assolo di chitarra stratosferico di Bill Frisell, uno dei più belli che abbia mai sentito.

Una cover di una band che mi è sempre piaciuta moltissima. il gruppo di Jimmy Barnes, Cold Chisel, alle prese con Knockin’ On Heaven’s Door nel 1980

Da Supersession, Bloomfield, Kooper And Stills alle prese con It Takes A Lot Laugh, It Takes A Train To Cry

E dalla colonna sonora di I’m Not There Stephen Malkmus & The Million Dollar Bashers eseguono una splendida Ballad Of A Thin Man

Sempre dallo stesso film, Willie Nelson e i Calexico alle prese con Senor Tales Of Yankee Power

Bruno Conti

Dopo Le Celebrazioni Poteva Mancare Un Bel Tributo Ai Grateful Dead? Various Artists. – Day Of The Dead. Giorno 1

day of the dead

*NDB Vista la lunghezza del Post, lo dividiamo in due parti, oggi il “Giorno Del Morto Riconoscente” 1, domani il 2. Buona lettura!

VV. AA. – Day Of The Dead – 4AD/Beggars 5CD Box Set

Sono ancora recenti i festeggiamenti per i 50 anni dei Grateful Dead, culminati lo scorso anno con la pubblicazione del monumentale box di 80 CD 30 Trips Around The Sun http://discoclub.myblog.it/2015/09/28/anteprima-mondiale-meno-male-che-gli-anni-trenta-grateful-dead-30-trips-around-the-sun/  e con i concerti tenuti dai membri superstiti confluiti poi nelle varie edizioni del live Fare Thee Well http://discoclub.myblog.it/2015/12/13/finalmente-cofanetto-dal-vivo-dei-dead-grateful-dead-thee-well-chicago-il-soldier-field/ , ecco che è di nuovo ora di parlare dell’ex gruppo guidato da Jerry Garcia, non solo per l’uscita proprio in questi giorni di un altro box dal vivo, July 1978 (“solo” 12 CD, ma c’è anche una versione tripla con il concerto al Red Rocks Amphiteatre, di cui leggerete la recensione più avanti), ma soprattutto per questo eccezionale tributo, intitolato Day Of The Dead, che presenta ben 59 canzoni della storica band californiana in cinque CD (ma ne esiste anche una versione limitata in vinile), un’iniziativa senza precedenti. Di tributi ai Dead in passato ne sono usciti più d’uno (ricordo lo splendido Deadicated del 1991, oggi purtroppo introvabile), ma mai di questa portata: l’esempio più vicino che mi viene in mente è il quadruplo omaggio dedicato a Bob Dylan uscito qualche anno fa, Chimes Of Freedom http://discoclub.myblog.it/2012/02/03/chimes-of-freedom-tributo-a-bob-dylan-per-i-50-anni-di-amnes/ (*NDB a proposito, auguri Bob, lo festeggiamo con un Post apposito a parte) , con la differenza che qui la qualità media è molto più elevata. Dietro al progetto Day Of The Dead ci sono i fratelli Aaron e Bryce Dessner, i due chitarristi del gruppo di Cincinnati The National, che hanno curato il tutto assumendo anche il ruolo di produttori (altra differenza con il tributo a Bob, dove tutte le performance erano slegate tra loro), un lavoro certosino ma di grande valore, per il quale i due musicisti hanno preferito rivolgersi a gruppi e solisti indipendenti, ed in molti casi abbastanza sconosciuti, piuttosto che contattare artisti famosi (anche se, come vedremo, ci sono diverse eccezioni): il tutto è stato patrocinato dalla Red Hot Organization, un’associazione benefica no profit che si occupa di combattere il virus dell’HIV, già responsabile in passato di numerosi album a tema, il cui più famoso è stato Red, Hot + Blue, anche se io vorrei ricordare il meraviglioso Red, Hot + Country.

Ebbene, come già accennato Day Of The Dead è un’opera sontuosa, un tributo splendido ad una delle più grandi band della nostra musica, con una qualità molto alta: ci sono alcuni momenti di livello inferiore (come in tutti i tributi), ma direi che almeno al 75% le performance qui incluse sono assolutamente riuscite, e nobilitano ulteriormente uno dei migliori songbook in circolazione. Infatti, i Dead sono passati alla storia principalmente per le loro esibizioni dal vivo, ma spesso ci si dimentica che Garcia (insieme al paroliere Robert Hunter) era anche uno straordinario autore di canzoni, ed anche Bob Weir ed occasionalmente Phil Lesh si difendevano alla grande. Qui c’è di tutto, dai grandi classici del gruppo di San Francisco ai pezzi più oscuri, oltre a qualche cover da loro spesso suonata dal vivo, e nonostante ciò i due fratelli Dessner hanno dovuto lasciar fuori qualcosa: particolarmente dolorose per il sottoscritto le assenze delle grandissime Mississippi Half-Step Uptown Toodeloo e Alabama Getaway…ma non si può avere tutto! Ma adesso lascerei lo spazio alle canzoni.

CD 1: il box inizia in maniera scintillante con i bravi The War On Drugs ed una solare e spedita versione della splendida Touch Of Grey (unico successo da Top Ten per i Dead), subito seguito da Phosphorescent (con Jenny Lewis) con una Sugaree cadenzata e molto diretta, arrangiamento classico e risultato anche superiore al brano precedente. La fluida Candyman vede un Jim James (leader dei My Morning Jacket) meno etereo del solito, con un suono più simile a The Band che ai Dead; bravissimi i Lone Bellow con una splendida Dire Wolf (una delle mie preferite) in un cristallino arrangiamento country-rock stile Byrds periodo Gram Parsons. Un inizio fulminante, da cinque stelle. Courtney Barnett affronta New Speedway Boogie con un approccio vocale alla Lucinda Williams, solo un filo meno strascicato, ma il brano ne esce bene comunque, mentre i Mumford & Sons confermano il loro momento difficile con una Friend Of The Devil gonfia e sovrarrangiata, sembrano quasi gli ultimi U2 (è non è inteso come un complimento). Meno male che c’è Bruce Hornsby (accompagnato dai DeYarmond Edison) che non sarà un fenomeno ma è un signor musicista ed una persona seria: Black Muddy River è una delle ballate più toccanti dei Dead, Bruce la tratta con amore e rispetto e ne esce alla grande. Ecco i National con l’inquietante (nel testo) Morning Dew, ma anche la loro interpretazione ha un non so che di minaccioso, ed è perfetto per una canzone che parla di una catastrofe nucleare; non ho mai sopportato la vocalità debordante di Anthony Hegarty (qui nella sua nuova identità, Anonhi), e quindi anche la sua Black Peter risente pesantemente del suo modo di cantare, meglio passare a Loser (Ed Droste dei Grizzly Bear con Binki Shapiro), suonata in maniera molto aderente ai Dead e pertanto riuscita; chiude il primo CD la stupenda To Lay Me Down, che Sharon Van Etten e Perfume Genius propongono in una toccante versione lenta e pianistica.

CD 2: il bravo Kurt Vile ci fa vedere (e sentire) quanto è bella Box Of Rain, dato che per decenni è stata massacrata dal suo autore, Phil Lesh: una delle migliori versioni nel box; Rubin And Cherise la conoscono in pochi, e Bonnie “Prince” Billy la suona proprio nello stile dei Dead (e anche la voce ricalca quella di Garcia), derivativa ma molto piacevole, mentre ecco ancora i bravissimi Lone Bellow con una spedita Me And My Uncle, un brano di John Phillips suonato spessissimo dai Dead nei concerti. Non mi convince molto la Cassidy poppettara di Moses Sumney, ma (molto) peggio fanno i Lucius, che rovinano letteralmente la mitica Uncle John’s Band (la più bella canzone dei Dead?) con un arrangiamento assurdo, per fortuna che Lee Ranaldo (con Lisa Hannigan) non folleggia e ci consegna una Mountains Of The Moon molto ben fatta e suonata come si deve. Dark Star, proposta dal vivo da Cass McCombs e Joe Russo, è decisamente deaddiana, anche se molto più contenuta nel minutaggio, mentre Nightfall Of Diamonds (ad opera dei Nightfall Of Diamonds, appunto) e la strana Transitive Refraction Axis For John Oswald (Tim Hecker) sono elettroniche e quasi rumoristiche, quindi evitabili. Il secondo dischetto termina ancora con Ranaldo, in compagnia di Tunde Adebimpe (? *NDB E’ il cantante dei TV On The Radio), che ci consegna una Playing In The Band molto diretta e godibile, e con Brokedown Palace, rifatta con buon piglio da Richard Reed Parry, Caroline Shaw e, udite udite, Garth Hudson, anche se l’originale era nettamente superiore.

End of part 1, continua…

Marco Verdi