Southern Stories: Prima E Dopo I Lynyrd Skynyrd, Ma Per Un Breve Periodo…Rossington Collins Band – Live In Atlanta 1980

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Rossington Collins Band – Live In Atlanta 1980 – 2CD Air Cuts

Due cose per iniziare: come al solito siamo alle prese con un doppio “fasullo”, o quasi, in quanto il primo CD dura 68 minuti, ma c’è una lunga introduzione dei due DJ che presentano il broadcast radiofonico, e se togliamo quella e qualche dialogo tra un brano e l’altro, probabilmente l’unica canzone del secondo dischetto, anche lui ammorbato da otto minuti di chiacchiere che 36 anni dopo l’evento non hanno molto senso, avrebbe potuto starci tutto in un unico CD. Ok, l’unico brano del secondo disco è una lunghissima ed epica versione strumentale di Free Bird, oltre 17 minuti (anche qui un paio di minuti di “chiacchiere” e festeggiamenti compresi) ed è naturalmente il momento più emozionante del concerto, ma per il resto, e veniamo al secondo appunto, che ne contiene un terzo, la qualità sonora del concerto è buona, senza essere eccelsa, come pure la qualità musicale. La Rossington Collins Band, anche se loro ai temp loi negavano, in fondo sono praticamente i Lynyrd Skynyrd del 1977, meno Steve Gaines, il terzo chitarrista, e Ronnie Van Zant, e qui però sta la non “piccolissima” differenza.

All’epoca poi non fece parte del gruppo neppure Artimus Pyle, il batterista che si fratturò una gamba poco prima dell’inizio della prove del tour e del primo disco, e fu sostituito da Derek Hess, ma il bassista era comunque sempre Leon Wilkeson e il tastierista Billy Powell, con l’aggiunta di Barry Harwood alla terza chitarra, e qui sta la grossa differenza, Dale Krantz, ex vocalist aggiunta dei 38 Special e futura signora Rossington, non era Van Zant. Una buona band rock mainstream, il cui primo album Anytime, Anyplace, Anywhere arrivò fino al 16° posto delle classifiche americane, e i cui 9 brani, seppure in un’altra sequenza costituiscono l’intero contenuto dello show. L’altra particolarità è che il concerto si tenne al Fox Theater di Atlanta, Georgia il 31 dicembre del 1980, quindi fu anche lo spettacolo dell’ultimo dell’anno, e infatti all’interno della registrazione dei brani ogni tanto si sentono dei botti e altri rumori, che all’inizio non mi spiegavo, ma che provengono dai festeggiamenti per l’evento. Il concerto, come pure i dischi di studio, come ho ricordato poc’anzi è buono, ottimo a tratti, senza essere eccelso, la Krantz canta bene, ma anche lei, come altre colleghe, quando urla tende ad essere questa controparte femminile di Robert Plant (e l’originale è pur sempre meglio) oppure la cantante di qualche gruppo AOR o heavy metal.

A parte, devo dire, in alcuni pezzi di impronta southern: per esempio l’ottima ballata mid-tempo Misery Loves Company o la tirata One Good Man, e le lunghe Getaway, con un eccellente Billy Powell al piano, e un bellissimo blues come Three Times As Bad, del tutto degno del vecchio repertorio originale. Per il resto Gary Rossington e Allen Collins, sono spesso letali con le loro twin guitars, e, il fatto non è trascurabile, i ragazzi, dopo la lunga pausa in seguito all’incidente aereo, suonavano ancora alla grande. Come dimostrano in fondo in quella versione monstre di Free Bird, che è una delle più belle che mi sia mai capitato di sentire, e che forse giustifica ulteriormente l’acquisto di questo Live In Atlanta 1980. Poi nel 1982 sarebbe morta anche la moglie di Collins causando lo scioglimento del gruppo, dopo un onesto secondo album This Is The Way, la breve storia della Allen Collins Band e l’incidente del 1986, che in seguito porterà alla morte anche di Allen Collins, avvenuta nel 1990. Gli altri torneranno in vari periodi nei Lynyrd Skynyrd, di cui Rossington è tuttora l’unico membro originale vivente. Ma quella è un’altra storia, o forse no!

Bruno Conti

Ma Non Si Era Ritirato? Per Fortuna Che Almeno In Studio “Lo Fa Ancora”! Eric Clapton – I Still Do

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Eric Clapton – I Still Do – Bushbranch/Surfdog CD

Lo scorso anno Eric Clapton ha annunciato il ritiro dall’attività live, almeno per quanto riguarda le tournée vere e proprie (un mese fa si è però esibito in una serie di cinque concerti al mitico Budokan di Tokyo), celebrando l’evento con lo splendido Slowhand At 70, registrato nella sua location preferita, la Royal Albert Hall (e infatti noi come avevamo titolato? http://discoclub.myblog.it/2015/11/30/speriamo-che-ci-ripensi-eric-clapton-slowhand-at-70-live-at-the-royal-albert-hall/ . Per fortuna Clapton non sembrerebbe intenzionato ad interrompere anche il suo cammino per quanto riguarda gli album in studio (anche se le ultimissime dichiarazioni lascerebbero presagire il contrario, ma non ci voglio credere), ed ecco quindi arrivare fresco fresco I Still Do, nuovo lavoro del chitarrista inglese e titolo che è tutto un programma. Dopo almeno 25 anni di passaggi a vuoto, Eric si è rimesso a fare dei bei dischi dal 2010 (Clapton) http://discoclub.myblog.it/2010/09/10/provare-per-credere-eric-clapton-clapton/ , almeno per quanto riguarda i lavori “normali”, escludendo quindi i live, gli album a tema blues (From The Cradle, Me & Mr. Johnson) ed i CD in duo con altri, come quello con B.B. King o The Road To Escondido con J.J. Cale: in tutti questi casi infatti il nostro non aveva mai deluso, mentre nei lavori composti da materiale originale (anche se in tutti i suoi dischi si trovano sempre diverse cover) sembrava che si fosse inceppato qualcosa, fino appunto a sei anni fa. I Still Do, nel quale Eric torna a collaborare con il leggendario produttore Glyn Johns (già con lui nel mitico Slowhand e anche nel successivo Backless), è un buon disco, che alterna come al solito qualche brano originale, alcuni blues e diverse ballate, un lavoro suonato con la consueta classe e maestria che ogni tanto sconfina un po’ nella routine e nel mestiere. Ma Clapton ormai è un musicista che non deve dimostrare più niente, ha raggiunto un’età ed uno status che gli consentono di fare la musica che vuole e come vuole, e non siamo certo noi a dovergli dire che direzione prendere.

I Still Do è in ogni caso un CD che si ascolta con indubbio piacere e, anche se a mio parere è inferiore di uno scalino rispetto sia a Clapton che a The Breeze (nel quale comunque il nostro era aiutato da gente del calibro di Tom Petty, Mark Knopfler e Willie Nelson) e di due scalini al bellissimo Old Sock http://discoclub.myblog.it/2013/03/16/manolenta-va-ai-caraibi-eric-clapton-old-sock/ , è comunque di gran lunga superiore a dischi pasticciati ed altalenanti come Pilgrim, Reptile e Back Home. Il suono è splendido, ed Eric è coadiuvato dal solito manipolo di fuoriclasse, tra cui spiccano i fedelissimi Andy Faiweather-Low alla chitarra ritmica, Paul Carrack all’organo, Simon Climie alle chitarre e tastiere e Chris Stainton al piano (un fenomeno), con l’aggiunta della batteria di Henry Spinetti, del figlio di Johns, Ethan, alle percussioni, delle voci di Michelle John e Sharon White, e soprattutto, in molti brani, di Dirk Powell alla fisarmonica, uno strumento non usuale per Clapton, ma che dona un sapore diverso alle canzoni.

Il CD inizia in maniera potente con Alabama Woman Blues, un classico di Leroy Carr, un blues del tipo che Eric mastica a colazione, ma eseguito con classe immensa e con il gruppo che suona da Dio (Stainton su tutti, ed anche la fisa inizia a farsi sentire), e poi il sound è spettacolare. Can’t Let You Do It è l’omaggio che ormai non può mancare a J.J. Cale, con Eric che adotta il tipico stile vocale e chitarristico laidback del vecchio amico, un pezzo che non avrebbe sfigurato su The Breeze…ed il ragazzo alla sei corde ci sa sempre fare! I Will Be There è un brano del songwriter iralndese Paul Brady, e vede alla seconda chitarra e voce il fantomatico Angelo Mysterioso: tutti subito a pensare ad una vecchia collaborazione lasciata nei cassetti con George Harrison, dato che lo stesso soprannome era stato dato all’ex Beatle (ma con la “i” al posto della “y”) nella versione originale di Badge dei Cream. Clapton però si è affrettato a smentire, e dall’ascolto non sembra neppure il figlio di George, Dhani, come qualcuno aveva ipotizzato: a monte di tutto la canzone è molto bella, fluida, rilassata, e suonata al solito molto bene, con un tempo leggermente reggae, un genere che non amo particolarmente ma qui ci sta. Spiral (il primo dei due brani originali) è il primo singolo, un rock-blues lento ed abbastanza attendista, con la chitarrona in evidenza e gran lavoro di Carrack all’organo, anche se dal punto di vista compositivo non è tra le migliori, mentre Catch The Blues, secondo ed ultimo pezzo scritto da Eric, sembra quasi un brano di Santana per il suo gioco di chitarra e percussioni, Manolenta canta in maniera rilassata e la canzone risulta raffinata ma non stucchevole.

Con Cypress Grove (un brano antico di Skip James) Enrico torna al sound robusto di quando suona blues elettrico, un pezzo dal sapore tradizionale ma dalla strumentazione decisamente rock, anche se qui affiora una certa routine; Little Man, You’ve Had A Busy Day è un oscuro brano del passato, inciso anche da Elsie Carlisle e Sarah Vaughn, una versione elettroacustica che vede il nostro affrontare un tipico motivo d’altri tempi con notevole classe ed una punta di mestiere. Sembra strano che esistano ancora dei brani di Robert Johnson che Eric debba ancora affrontare, ma è questo il caso di Stones In My Passway (che però veniva eseguito nel DVD incluso in Sessions For Robert J.), un blues suonato in maniera abbastanza canonica, nobilitato comunque dall’utilizzo della fisarmonica e dalla voce grintosa del leader. Nel corso della carriera Eric ha inciso più volte brani di Bob Dylan, passando dal famosissimo (Knockin’ On Heaven’s Door) al meno noto (Born In Time) o addirittura all’inedito (Walk Out In The Rain, If I Don’t Be There By Morning): I Dreamed I Saw St. Augustine non è tra le più famose di Bob, ma è una scelta da intenditori (era su John Wesley Harding), ed è eseguita in maniera molto diversa dall’originale, con la fisa che è quasi lo strumento guida (mai usato così tanto da Eric), con il nostro che canta da par suo e costruisce un ottimo arrangiamento da rock ballad classica, con un coro alle spalle a dare il tocco gospel. I’ll Be Alright è un traditional nelle quali Clapton assume le vesti del folksinger (il brano è incredibilmente simile a We Shall Overcome, anche nel testo), e lo fa con risultati egregi: un pezzo di grande pathos, bel gioco di voci tra Eric ed il coro e solita chitarra super, un Clapton diverso ma di indubbio fascino.

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Somebody’s Knockin’, ancora JJ Cale, è una via di mezzo tra il classico stile del musicista dell’Oklahoma ed un blues alla Clapton, con Eric che canta bene e suona meglio; l’album si chiude con I’ll Be Seeing You, uno standard jazz interpretato ancora con classe e finezza, un brano quasi afterhours con il piano a guidare le danze ed Eric che smette i panni della rockstar per fare il crooner. Pensavate non ci fosse anche l’edizione deluxe? E invece c’è, ed è pure costosissima, un cofanetto rivestito in tessuto jeans e con all’interno, tra le altre cose, una USB a forma di “vacuum-tube”, ovvero la valvola degli amplificatori, e, a livello musicale, “ben” due bonus tracks, Lonesome e Freight Train (che ad oggi non sono ancora disponibili per l’ascolto).

Quindi un altro buon album da parte di Eric “Manolenta” Clapton, anche se non il migliore della sua discografia, ma un CD piacevole, ben fatto, ottimamente suonato e che alla fine dei conti è destinato a venire inserito tra i suoi più positivi degli ultimi anni.

Marco Verdi

Il Suo Primo Vero Disco Dal Vivo! Keb’ Mo’ – Live That Hot Pink Blues Album

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Keb’ Mo’ – Live That Hot Pink Blues Album – 2 CD Kind Of Blue Music 

Pur non essendo più un giovanissimo (compirà 65 anni ad ottobre) Kevin Moore, in arte Keb’ Mo’, a ben guardare non aveva mai pubblicato un vero album dal vivo: Live And Mo’ del 2009 mescolava materiale in studio e dal vivo, e prima ancora c’era stato Sessions at West 54th – Recorded Live in New York, uscito solo in DVD. Quindi ci mancava quel classico doppio dal vivo che ci si può aspettare da un ottimo performer quale è il buon Keb. Bastava dirlo, ed ecco manifestarsi questo Live That Hot Pink Blues Album, comunque un doppio per modo di dire. I dischetti sono due, niente da dire, ma ciascuno comprende 8 pezzi per circa 39 minuti, quindi un totale di neppure 80 minuti, poteva starci in un singolo CD. E come altrettanto spesso è usanza i brani non vengono da un unico concerto, ma sono stati pescati da diverse esibizioni di Keb’ Mo’ con la sua band.. Ma sono gli unici rilievi che mi sento di fare, per il resto la musica è ottima, blues elettrico, qualche pezzo funky, R&B e soul, il tutto innervato anche da una leggera patina gospel, grazie agli ottimi componenti della sua band, Michael B. Hicks alle tastiere, Stan Sargeant al basso e Casey Wasner alla batteria (anche produttore del tutto), a loro volta tutti eccellenti vocalist che supportano in modo egregio il nostro, con eleganti armonie vocali. Il repertorio è composto di brani originali, firmati da Kevin Moore, e se aggiungiamo che Keb’ Mo’ è un bravissimo chitarrista, sia all’elettrica https://www.youtube.com/watch?v=QhYAV5U7HjE , come all’acustica, spesso in modalità slide, ed è in possesso di una delle voce molto versatile, in grado di rivaleggiare con Robert Cray per le nuances soul del suo timbro, ma adatta anche a ballate morbide e melliflue, e cavalcate gagliarde nel blues più classico, con persino qualche detour in un ambito quasi da cantautore, come aveva dimostrato nel buon Bluesamericana del 2014 http://discoclub.myblog.it/2014/06/08/il-titolo-del-disco-dice-keb-mo-bluesamericana/ , dopo il non totalmente riuscito The Reflection del 2011 http://discoclub.myblog.it/2011/09/10/non-ci-ha-riflettuto-abbastanza-keb-mo-the-reflection/.

E nel live sono rappresentate tutte le facce del nostro: c’è l’intrattenitore “piacione” della leggera e ondeggiante Tell Everybody I Know, dove l’acustica di Keb e l’organo si disputano i piaceri del pubblico presente e di chi ascolterà l’album, il bluesman attizzato della potente Somebody Hurt You dove alla solista claptoniana del leader si aggiungono le armonie vocali perfette dei suoi tre soci, con Hicks che eccelle nuovamente all’organo, a suggellare la versatilità dei mood impiegati, c’è la delicata ballata elettroacustica che risponde al nome di Henry, dove la voce non esagera con il miele ma è comunque calda ed invitante, mentre la solista acustica aggiunge tocchi di classe. Life Is Beautiful, sempre guidata dall’acustica di Moore unisce “antico e moderno”, in una sorta di allegra promenade sonora, dove le tastiere forniscono anche una sezione archi avvolgente, mentre She Just Wants To Dance, con la slide in evidenza https://www.youtube.com/watch?v=QhYAV5U7HjE  ricorda molto lo stile di uno dei suoi maestri, quel Taj Mahal che ha sempre saputo unire generi diversi nelle sue canzoni, con il blues che poi ritorna nella leggermente funky The Worst Is Yet To Come, con un rotondo giro di basso e le backing vocals dei musicisti a portare il pezzo verso lidi soul/R&B, prima di lasciare spazio alla solista che si prende il suo tempo. Government Cheese è molto anni ’80, a metà tra un groove à la George Benson e gli Steely Dan più leggeri, non sentivo un assolo di synth analogico così old fashion da secoli, il pubblico si diverte e i musicisti pure, prima di lasciare spazio alla fascinosa The Door, una delle sue composizioni migliori, con piano elettrico, organo e l’elettrica di Keb che si tuffano in un soul blues intrigante, molto seventies in cui fa capolino anche una armonica “targata” Stevie Wonder, mentre i tre musicisti della band si dividono lo spazio vocale solista della canzone, tutti molto bravi.

Fine della prima parte: tutti di nuovi sul palco, a Nashville, per Come On Back, altro brano “meticciato” molto anni ’80, la delicata love song a tempo di blues che risponde al nome di France, che piacerebbe di nuovo a “Slowhand”, mentre in More Than One Way Home, sempre su un groove “errebi” lascia spazio alla sua slide e poi di nuovo al giro funky di una leggerina A Better Man. The Old Me Better è uno spazio di blues tradizionale acustico all’interno dello show, con tanto di kazoo in azione, prima di tornare al blues elettrico della notevole Rita e al lungo slow blues Dangerous Mood dove le dodici battute sono le assolute padrone, come pure la chitarra di Keb’ Mo’, in grande spolvero nella jam della parte centrale. Il finale è affidato a una bella ballata pianistica con uso di armonica, la dolce City Boy dove si apprezza ancora una volta la sua voce chiara e sicura. Non sarà solo blues, ma è comunque buona musica https://www.youtube.com/watch?v=mYfC3IhnQgM .

Bruno Conti

Un Viaggiatore Cantastorie! Terry Lee Hale – Bound, Chained, Fettered

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Terry Lee Hale – Bound, Chained, Fettered – Glitterhouse Records

Una volta tanto invece di essere i nostri cantanti ad attraversare l’oceano per registrare dischi, in questo caso è stato un songwriter “texano” di origine come Terry Lee Hale (già ospitato sulle nostre pagine con il precedente The Long Draw http://discoclub.myblog.it/2013/12/31/ennesimo-affascinante-beautiful-loser-terry-lee-hale-the-long-draw/ ), partito da Marsiglia (dove vive dallo scorso anno) ed arrivato dalle nostre parti con il primario desiderio di incidere Bound, Chained, Fettered, sotto la produzione illuminata del musicista Antonio Gramentieri (dei gruppo italiano Sacri Cuori), che aveva già lavorato per Dan Stuart, Hugo Race, e molti altri. I musicisti che accompagnano Terry Lee Hale in questo album sono stati pescati (inevitabilmente) dal giro dei Sacri Cuori, con alle tastiere Christian Ravaglioli, Diego Sapignoli alle percussioni e Denis Valentini alla batteria, al synth Franco Naddei e il magnifico sax aggiunto di Francesco Valtieri, con in primo piano le chitarre di Gramentieri; gli arrangiamenti spaziano tra folk, blues, rock e accenni di bluegrass, per nove canzoni come di consueto di ottima fattura,  dove si nota il lavoro al mix di Matt Emerson Brown (un tipo che ha lavorato con i Walkabouts e Trespassers Williams).

Queste “short stories” si aprono con la title track Bound, Chained, Fettered, quasi recitativa, con il parlato di Hale che si trasforma in canto, e dove si sente subito la steel di Gramentieri, seguita dalla splendida e originale The Lowdown (che sembra uscita dai primi dischi di Tom Waits), per poi passare agli arpeggi melodici di una ballata come Acorns, il breve strumentale chitarristico di Flowers For Claudia, e il racconto struggente di Can’t Get Back (Just Like That) dove il ritmo viene dettato da una batteria “spazzolata”. Con i rumori in “sottofondo” di una spettrale e morbida Scientific Rendezvous, Terry Lee spazia in percorsi alternativi, mentre in Signed Blue Angel mette in musica una poesia dalla figlia di 8 anni, andando poi a chiudere con il folk-rock desertico di una meravigliosa Jawbone (e qui si nota ancor di più il suono dei Sacri Cuori), e l’intrigante blues di Reminiscent, dove entra in scena Valtieri con le note oscure e notturne del suo sax.

Le canzoni di Bound, Chained, Fettered sono come sempre “storie di vita” raccontate al meglio da un viaggiatore-cantastorie, che in tre decadi di carriera è stata una “mosca bianca” nella scena di Seattle (la culla del “grunge”), in compagnia dei grandi Walkabouts, con una carriera oscura, relegata ai margini del “business” discografico, uno dei tanti casi di folksinger americani espatriati (il caso più noto forse è quello di Elliott Murphy),  che hanno trovato nella vecchia Europa un pubblico affezionato e competente, a partire dalla Francia dove ha messo radici da qualche anno ed diventato artista di “culto”, cosa che potrebbe accadere anche dalle nostre parti se la sua band di riferimento continueranno ad essere i Sacri Cuori del suo produttore romagnolo Antonio Gramentieri.

Tino Montanari

Un Nuovo Disco Degli Eagles? Più O Meno… Dave Barnes – Carry On, San Vicente

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Dave Barnes – Carry On, San Vicente – 50 Year Plan CD

Normalmente non ho nulla contro gli artisti derivativi, a patto che comunque facciano della buona musica. Non considero infatti un peccato mortale prendere a modello un cantante o un gruppo e ricalcarne il suono tipico, anzi a volte, in mancanza dell’originale, un buon surrogato può comunque risultare gradito: ci possono essere milioni di esempi, ma chissà perché mi viene in mente il nome di Kid Rock, musicista di dubbio talento ed autore di dischi tra il pasticciato ed il tamarro, il quale nel 2010 ha pubblicato un album di buon livello, Born Free (senza dubbio il suo migliore), che però aveva il difetto (ma abbiamo visto che per il sottoscritto difetto non è) di avere un suono che riproponeva in maniera quasi pedissequa il classico stile di Bob Seger, avete presente quelle ballate pianistiche sferzate dal vento, tipiche del rocker di Detroit? Dave Barnes, cantautore di stampo country-rock originario del South Carolina, ma trapiantato a Nashville, nei suoi dischi precedenti (una mezza dozzina dal 2004 ad oggi, oltre a ben due album natalizi) non aveva mai palesato influenze ben precise, ma per questo nuovo Carry On, San Vicente ha voluto cambiare, ispirandosi direttamente (parole sue) ad un certo tipo di musica californiana degli anni settanta, con un attenzione maggiore verso Eagles, Fleetwood Mac e Crosby, Stills & Nash. Ora, dopo un paio di attenti ascolti di questo album, personalmente non ho trovato grandi tracce di CSN, e giusto qualche accenno qua e là al suono del gruppo di Lindsay Buckingham e Stevie Nicks, ma per quanto riguarda le Aquile sembra davvero di avere per le mani un loro lost album della seconda metà dei seventies.

Sarà per il timbro di voce, curiosamente simile sia a Don Henley che a Glenn Frey a seconda dei brani (più il primo però), sarà per il suono californiano al 100%, con quella miscela di country e pop così diffusa in quegli anni, ma Carry On, San Vicente è una collezione di canzoni (nove) che forse non ci presenta un artista dalla spiccata personalità, ma di sicuro uno che con la penna ci sa fare (a Nashville Barnes è anche un apprezzato autore per conto terzi), e che quindi ci regala una mezz’oretta abbondante di piacevole ascolto Il disco, prodotto dallo stesso Barnes con Ed Cash (e suonato da un ristretto gruppo di musicisti tra cui spiccano Dan Dugmore alla steel e la coppia formata da Derek Wells e Kris Donegan alle chitarre elettriche) è quindi un riuscito omaggio del nostro ad un suono ed un’epoca leggendari, un momento storico in cui la California era, musicalmente parlando, al centro del mondo, un album che farà dunque la felicità di coloro che si sentono orfani degli Eagles all’indomani della recente dipartita di Glenn Frey. E pazienza se qualcuno penserà che siamo di fronte ad un clone… She’s The One I Love apre il CD con un attacco tipico delle Aquile (ricorda Already Gone) e pure la voce è molto Frey, ma il brano sta in piedi con le sue gambe grazie alla ritmica spedita, i bei fraseggi chitarristici e la melodia accattivante (non per niente è il primo singolo).

Con la title track siamo parzialmente sul territorio dei Mac (mentre la voce è molto Henley), un gustoso connubio tra pop e rock, un suono che nei settanta faceva faville; la lenta e pianistica Wildflower ha una melodia struggente e similitudini con brani come Desperado, compresa la struttura in crescendo e l’ingresso della band dopo un minuto e mezzo: a dispetto del suo essere derivativa, una gran bella canzone https://www.youtube.com/watch?v=0yTZdPOdedY . Glow Like The Moon inizia a cappella e poi entrano chitarra acustica e mandolino (alzi la mano chi non ha pensato a Seven Bridges Road) ed il brano si sviluppa in maniera fluida, un pezzo tra folk e rock altamente godibile https://www.youtube.com/watch?v=6Ipor4FF428 ; Sunset, Santa Fe è una ballata crepuscolare ancora molto anni settanta, steel in sottofondo ed atmosfera quieta, oltre ad una scrittura solida e senza sbavature. Honey, I’m Coming Home ricorda invece Heartache Tonight (l’intro è molto simile), bei riff chitarristici per un brano tutto da godere: anche Frey apprezzerebbe; Nothing Like You è la più lunga (quasi sei minuti), ed è un altro slow molto classico, decisamente fluido nel suo sviluppo e dotato di un refrain che si canticchia subito. L’album volge al termine, non prima però di aver apprezzato Need Your Love, altro tipico country-rock Eagles-style (versante Henley), ritmo vivace e sonorità californiane al 100%, e Wildfire Heart, un soft-rock di gran classe che chiude benissimo un disco decisamente piacevole anche se non esattamente innovativo.

Ma siccome di dischi nuovi degli Eagles non ne avremo più (se non eventuali album postumi), allora mi posso accontentare anche di Dave Barnes.

Marco Verdi

Una Buona Annata Per Il Gruppo! The Allman Brothers Band – Austin City Limits 1995

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The Allman Brothers Band – Austin City Limits 1995 – Go Faster Records 

Austin City Limits e gli Allman Brothers sono due marchi di garanzia di enorme successo: la trasmissione texana nel 2014 ha festeggiato i 40 anni di attività (grande concerto, esiste in DVD https://www.youtube.com/watch?v=iFe1WowDMLg) , mentre gli Allman lo stesso anno hanno festeggiato il loro 45° Anniversario (con qualche interruzione), decretando però anche la fine, per il momento, della loro storia, con l’ultimo concerto al Beacon Theatre di New York del 28 ottobre 2014. Mentre la trasmissione “Austin City Limits” per molti anni è stata pubblicata a livello ufficiale, in CD o DVD, ma anche in entrambi i formati, dalla New West, ovviamente, e purtroppo, solo una parte dell’enorme mole di concerti che si sono succeduti negli anni, e che per ragioni di spazio non stiamo a ricordare, sono usciti anche in formato fisico.. Nel 1995 i due percorsi si sono intrecciati: la Allman Brothers Band viene invitata a partecipare alla puntata del 1° novembre 1995 (andata poi in onda nel 1996).

Il concerto viene puntualmente ripreso dalla PBS, la televisione statale americana e regolarmente mandato in onda, ma non è mai stato pubblicato a livello discografico. Ora nell’ambito dei vari broadcast ufficiosi (soprattutto radiofonici, ma qualche spettacolo televisivo ci scappa, purtroppo senza immagini, come in questo caso) tale Go Faster Records (?!?) lo rende disponibile per la prima volta. E si tratta di un signor concerto, da mettere nella vostra discoteca insieme ai classici concerti al Fillmore della prima edizione della band o ai due An Evening With The Allman Brothers Band 1st and 2nd Set poi ampliati nello splendido Play All Night, relativo ai concerti al Beacon Theatre del 1992. Quindi siamo nell’epoca quando, tra un dissapore e l’altro, nella formazione c’è ancora Dickey Betts, insieme agli altri componenti originali Gregg Allman, Jaimoe e Butch Trucks, la seconda chitarra è Warren Haynes, al basso c’è Allen Woody (entrambi se ne andranno nel 1997 per seguire la loro creatura Gov’t Mule), alle percussioni troviamo Marc Quinones.

Ottimo concerto, inciso piuttosto bene, quasi come un disco ufficiale, con Betts in grande spolvero, tre degli 8 pezzi presenti nel Live sono a sua firma: una scintillante Ramblin’ Man, una sinuosa e ricca di variazioni Blue Sky, quasi una gemella della canzone precedente, dove la slide vola leggiadra e turbinante, e infine una poderosa versione della rara Back Where It All Begins, che nel libretto del CD perde Back dal titolo, ma non la grinta e la lunghezza, siamo oltre i dieci minuti, con le due chitarre che si fronteggiano e si confrontano in un continuo interscambio, come nella migliore tradizione della band di Jacksonville via Macon. E il resto non è da meno, anche Gregg Allman, dopo l’imbarazzante figura di inizio anno del ‘95, quando si era presentato alla serata di induzione nella Rock And Roll Hall Of Fame completamente ubriaco, sembra avere deciso di tornare, nei limiti del possibile, sobrio ed affidabile, regalandoci alcune ottime versioni di brani poco celebri, come Sailin’ Across The Devil’s Sea, sempre con le due chitarre gagliardamente duellanti, anche in modalità wah-wah contro slide, o il super classico Ain’t Wastin’ Time No More, uno dei loro cavalli di battaglia.

Molto buona anche una versione elettroacustica di Midnight Rider, come pure il blues tirato di The Same Thing di Willie Dixon che era entrato nel loro repertorio live di quel periodo e che qui appare in una versione scintillante, con Matt Abts aggiunto alla batteria, perché c’erano pochi percussionisti sul palco! Per concludere l’oretta circa di questo broadcast (nella serata vennero eseguiti in tutto 12 pezzi, ma avevano suonato pure il giorno precedente ad Austin  e sarebbero tornati nel 2005 con Derek Trucks in formazione https://www.youtube.com/watch?v=LgMLKgNP3cA ) manca la conclusiva ed immancabile One way out, anche questa appena oltre i canonici dieci minuti, con il solito riff ricorrente del brano tirato allo spasimo in una versione ad alti contenuti energetici. Ma gli Allman Brothers deludono raramente e questa non è una delle occasioni. Comunque occhio, perché in questi broadcast radiofonici ci sono molti concerti che si ripresentano in versioni con copertine e titoli diversi (ultimamente anche troppi), ma dal contenuto identico,  non è il caso in questione, qui siamo di fronte ad una “primizia”

Bruno Conti

Non Male Per Uno Morto Da 35 Anni! Bob Dylan – Fallen Angels

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Bob Dylan – Fallen Angels – Columbia/Sony CD

Il titolo del post si riferisce ad una clamorosa gaffe di Raffaella Carrà, che nel corso del suo programma The Voice, commentando la performance di Like A Rolling Stone da parte di un concorrente, ha asserito che Bob Dylan è morto da ormai 35 anni, confondendolo certamente con Bob Marley (e durante la consegna del meritato Tapiro da parte di Striscia La Notizia ha detto che con tutti quei Bob (!) si è confusa…certo perché esistono anche Bob Geldof, Bob Weir, Bob Hope, Bob Sinclar, Bobby Solo e Bob Aggiustatutto, povera Raffa bisogna capirla).

Tornando alle cose serie, Bob Dylan è vivo e vegeto ed anche piuttosto attivo discograficamente, se a distanza di poco più di un anno dall’apprezzato Shadows In The Night http://discoclub.myblog.it/2015/02/01/leggendeci-si-intende-bob-dylan-shadows-the-night/ , esce con un nuovo lavoro (il 20 Maggio per l’esattezza) intitolato Fallen Angels, che come già saprete prosegue il discorso del CD precedente, cioè la rilettura da parte dell’ex menestrello di alcuni standard della musica americana, tutti con il comune denominatore di essere stati interpretati anche da Frank Sinatra (tranne una piccola eccezione che vedremo tra poco). Così come il suo predecessore, anche Fallen Angels è stato inciso nei Capitol Studios di Los Angeles (pare addirittura che i brani provengano dalle stesse sessions, anche se non è sicuro) e vede Bob, in veste anche di produttore con il solito pseudonimo Jack Frost, accompagnato dalla sua touring band, formata da Charlie Sexton, Donnie Herron, Tony Garnier, Stu Kimball e George Receli. E l’approccio non è cambiato: Bob ed i suoi pards affrontano questi brani immortali con il consueto mood jazzato, notturno e discreto, preferendo alle orchestrazioni tipiche di questo genere di canzoni il metodo “per sottrazione”, rivestendo la voce particolare di Dylan versione crooner (che affronta i pezzi con un rigore formale inusuale per lui) con un accompagnamento in sordina, quasi a volume abbassato, proprio con lo scopo di omaggiare le melodie di questi evergreen.

Il risultato finale è ancora egregio, anche se personalmente preferisco di poco Shadows In The Night, forse per un maggior effetto sorpresa, ma anche per una più variegata gamma stilistica: infatti i brani di Fallen Angels vengono trattati tutti più o meno allo stesso modo, con arrangiamenti molto low-profile e con poche variazioni ritmiche, e forse c’è anche da considerare la possibilità che il meglio fosse confluito nel primo volume e che il secondo sia stato pianificato soltanto in seguito (dopotutto nella sua lunga carriera poche volte Bob ha pubblicato dei sequel, a memoria mi viene in mente la trilogia religiosa Slow Train ComingSaved Shot Of Love ed i due album acustici di classici folk e blues Good As I Been To You e World Gone Wrong). Comunque, considerando quanta porcheria gira nel modo musicale, avercene di dischi così. Ecco di seguito una breve disamina di otto dei dodici brani di Fallen Angels, in quanto quattro di essi erano già usciti un mese fa su un CD singolo per il mercato giapponese (ed in tutto il mondo in vinile per il Record Store Day), e quindi vi rimando al mio post dedicato http://discoclub.myblog.it/2016/04/08/gustoso-antipasto-attesa-maggio-della-portata-principale-bob-sinatra-scusate-dylan-melancholy-mood/ : tra parentesi ho deciso di non mettere gli autori dei brani (ben tre di essi portano la firma del grande Johnny Mercer), ma mi limiterò ad indicare alcune versioni tra le più note oltre a quelle di Sinatra.

Young At Heart (Perry Como, Tony Bennett, Bing Crosby, ma anche Shawn Colvin e Tom Waits) vede la steel di Herron come strumento dominante, il classico accompagnamento quasi in punta di piedi e Bob che canta in maniera fluida e discorsiva; Maybe You’ll Be There (The Four Aces, Gordon Jenkins, Gene Pitney, Diana Krall) è lenta e languida, aperta da un malinconico violino e con la voce quasi carezzevole di Dylan a prendere per mano l’ascoltatore, mentre Polka Dots And Moonbeams (Gil Evans, Sarah Vaughn, John Denver) è meno laconica nei suoni, ha un mood molto jazzato ed un bellissimo assolo di chitarra acustica nell’intro, subito doppiato dalla steel: Bob arriva dopo più di un minuto e mezzo, e la sua voce è quasi uno strumento aggiunto. All The Way (Billie Holiday, Neil Sedaka, Bobby Darin ma anche la nostra Mina), ancora raffinata e di gran classe, è una delle scelte migliori, un brano da assaporare in tarda serata, sul divano preferito e sorseggiando un cognac d’annata. Skylark (l’unica eccezione di cui dicevo prima, ancora Bing Crosby, Glenn Miller, Aretha Franklin ma niente Old Blue Eyes), ha una bella chitarrina pizzicata, il violino, batteria spazzolata ed il nostro che procede senza sbavature, magari cantasse con questa precisione anche i pezzi suoi; Nevertheless (Count Basie, Frankie Laine, Dean Martin, Liza Minnelli, Harry Nilsson, Rod Stewart e mille altri) non cambia ritmo, la canzone è bella ma qui Dylan è quasi sonnolento nel porgerla, anche se la band lo segue senza battere ciglio come al solito. On A Little Street In Singapore (ancora Miller, Dave Brubeck, Manhattan Transfer e pochi altri, forse il brano più oscuro della raccolta) è appena un po’ più mossa, ma tra tutte a mio parere è quella che meno si adatta alla vocalità di Bob, mentre con It Had To Be You (Ruth Etting, Ginger Rogers) si ritorna su atmosfere notturne, la voce è quasi lasciata da sola all’inizio, poi entra la band con la solita discrezione ed il pezzo è condotto in porto senza problemi.

Di Melancholy Mood, All Or Nothing At All, That Old Black Magic e Come Rain Or Come Shine vi ho già detto il mese scorso. Ancora un lavoro raffinato e di classe per Bob “Sinatra” Dylan, ma adesso, e credo di parlare a nome di molti, vorrei un bel disco di canzoni nuove, e possibilmente rock.

Marco Verdi

Se Ne Aggiunge Un Altro Alla Lunga Lista. E’ Scomparso Anche Guy Clark, Uno Dei Grandi Della Country Music, Aveva 74 Anni

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Nel mese di marzo, scrivendo un post per commemorare la scomparsa di Steve Young http://discoclub.myblog.it/2016/03/20/se-ne-andato-silenziosamente-era-vissuto/, avevo ricordato un “piccolo film” Heartworn Highways, da cui aveva preso il via la vicenda di molti dei protagonisti della country music dell’altro lato di Nashville, quello dei grandi autori di musica, dei folksingers e anche di alcune future stelle (come John Hiatt, Steve Earle Rodney Crowell). Ma in quella casa di Nashville, in cui si svolge parte della narrazione del documentario, due dei protagonisti principali erano i padroni di casa, Susanna Guy Clark. Il secondo uno delle grandi iconi della country music texana, ma Made in Nashville, dove ha vissuto negli ultimi 40 anni. Clark era malato di tumore da tempo, e non si era mai ripreso del tutto dalla morte della moglie, avvenuta sempre per un cancro nel 2012, e alla quale aveva dedicato nel 2013 il suo quattordicesimo ultimo splendido lavoro My Favourite Picture Of You, vincitore del Grammy l’anno successivo come miglior album folk. Ma partiamo proprio da quel mitico documentario…

Dei musicisti presenti in quel film non ci sono più Townes Van Zandt, Steve Young, Larry Jon Wilson e ora anche Guy Clark, ma loro importanza riverbera ancora oggi in quella che viene chiamata roots music, “Americana”, o più semplicemente country music. Clark è stato un autore, all’inizio per Jeffy Jeff Walker che registrò due delle sue canzoni più belle L.A. Freeway, sulla sua sfortunata avventura californiana e Desperados Waiting for a Train, uno dei capolavori assoluti del genere, entrambe presenti nel suo disco d’esordio Old No. 1, che comprendeva anche She Ain’t Going Nowhere That Old Time Feeling. C’è gente che ammazzerebbe per averne una di quel livello in un album e lui ne aveva inserite quattro e anche le altre sei non erano male, per usare un eufemismo https://www.youtube.com/playlist?list=PL8a8cutYP7foNfzsRn8piq4-PfElph3Cy. Ma Guy aveva continuato a produrre ottimi dischi, Texas Cookin’ nel 1976, a completamento della accoppiata per la RCA, e poi l’omonimo Guy Clark, The South Coast Of Texas Better Days, a completare, nel 1983, il terzetto pubblicato per la Warner.

Poi, dopo una pausa di cinque anni, tornerà nel 1988 con Old Friends pubblicato con la Sugar Hill, la prima svolta “indipendente” della sua carriera. Ancora un paio di album con una major, la Asylum, negli anni ’90, poi il ritorno alla Sugar Hill e infine gli ultimi album pubblicati per la Dualtone, tra cui il citato My Favourite Picture Of You, voce leggermente “spezzata” dall’età, ma ancora ricca di fascino e canzoni sempre dai testi affascinanti e letterari https://www.youtube.com/watch?v=USAlhxdqnMg . A Guy Clark è stato dedicato anche uno dei più bei tributi di sempre, sotto la forma del doppio This One’s For Him, di cui leggete qui http://discoclub.myblog.it/2011/12/16/u/. Il grande cantautore texano ha collaborato anche con molti colleghi nel corso degli anni, la sua ultima fatica, recentissima, è stata pubblicata nuovo disco degli Hard Working Americans Rest In Chaos, uscito in questi giorni, in cui il gruppo esegue The High Price of Inspiration, con Clark presente nella registrazione

Ricordiamolo con questa bellissima versione della sua canzone più bella Desperadoes Waiting For A Train, registrata per la trasmissione Austin City Limits nel 1990. La musica parla per lui. Riposa In Pace Guy!

Bruno Conti

Ancora Una Anteprima: Dal Canada, Una Band Rock Solida Con Una Cantante “Esagerata”! No Sinner – Old Habits Die Hard

no sinner old habits

No Sinner – Old Habits Die Hard – Provogue/Mascot 

La mia prima impressione, dopo un ascolto veloce in streaming, e qualche tempo prima dall’uscita prevista per il 20 maggio, ammetto che era simile a quella che fece esclamare al “collega” Greil Marcus “What’s This Shit”, in occasione della pubblicazione di Selfportrait di Dylan. Ok, siamo su altri livelli e le circostanze sono diverse, Dylan era un musicista affermato e quel doppio album, anche se rivalutato a posteriori, per chi scrive rimane tra i più brutti del vecchio Zimmerman. Intanto bisognerebbe chiedersi chi diavolo sono i No Sinner, band di belle speranze di Vancouver, Canada, al secondo album con questo Old Habits Die Hard, e soprattutto chi è Colleen Rennison la loro cantante (Rennison, No Sinner al contrario, capito)?

no sinner boo hoo hoo colleen renniison see the sky

 

Ma il nome mi diceva qualcosa, per cui sono andato a risentirmi anche il suo unico album da solista, See The Sky About To Rain, pubblicato nel 2014, dopo l’uscita del primo disco dei No Sinner Boo Hoo Hoo, e mi sono ricordato che quel disco mi era piaciuto non poco. Bella voce, ottimi arrangiamenti e produzione a cura di Steve Dawson, per una serie di cover di brani formidabili, in gran parte di autori proprio canadesi, a partire dalla title-track di Neil Young (una delle mie preferite del vecchio bisonte),  passando per Coyote di Joni Mitchell, Stage Fright della Band, Why Don’t You Try di Leonard Cohen, e brani di Townes Van Zandt, Tom Russell, ancora Robbie Robertson, che lo rendono un album di eccellente country got soul, assolutamente da (ri)scoprire.

Quindi ho deciso di ascoltare di nuovo il CD dei No Sinner attraverso questo spirito e questa ottica: il disco continua a non sembrarmi un capolavoro, ma ha parecchie frecce al proprio arco, alcuni brani notevoli ed una voce ed una attitudine che, come dice lei stessa senza falsa modestia in varie interviste, si rifanno a Janis Joplin e Etta James, ma soprattutto a Robert Plant, di cui si ritiene una sorta di androgina replicante. Mi sembra che la Rennison abbia avuto un percorso per certi versi inverso rispetto ad altre cantanti simili a lei come tipo di impostazione vocale e approccio: infatti mentre Dana Fuchs, e forse più ancora Beth Hart, sono partite con un genere rock piuttosto duro, selvaggio e tirato, e poi con la maturità sono arrivate all’attuale miscela di soul, rock, R&B e blues, la giovane Colleen (che però ha già 28 anni, non ho perso il vizio di dire l’età delle signore), è partita con un raffinato stile da interprete di gran classe, per poi approdare all’hard rock quasi senza compromessi del suo power trio canadese, con chitarre fumanti, urla selvagge e ritmi tiratissimi, con più di un punto di contatto con la prima Pat Benatar e le conterranee Heart di Ann Wilson, un’altra che ha una vera venerazione per Robert Plant. D’accordo, il discorso non è così schematico, in fondo la cantante (e attrice, ha girato parecchi film e serie televisive, raramente in parti principali) Rennison è partita con il rock duro, ma  ha dimostrato che sa fare anche ottima musica raffinata con il suo disco solista ed ora ritorna al rock-blues hardeggiante (per inventarsi un neologismo) del nuovo album, stile che ricorda anche il sound di altre band emergenti a guida femminile come i Blues Pills o Grace Potter & The Nocturnals, meno per esempio quello della giovane finlandese Ina Forsman.

Ho fatto una full immersion nei due dischi dei No Simmer e devo dire che effettivamente la Rennison è brava, non appartiene solo alla categoria. attualmente molto frequentata, per dirla alla Totò, “quella faccia non mi è nuova” (vedete la copertina del primo disco): se nel primo album c’è anche molto blues (rock) grazie alla solista, spesso in modalità slide, dell’ottimo chitarrista Eric Campbell, ci sono anche i primi sintomi del lato più “selvaggio” della band, quello zeppeliniano (ma non ci sono ovviamente a suonare Page, Jones e Bonham, e questo fa un piccola differenza) presente in brani come Work Song o Devil On My Back , e ci sono pure parecchi brani dove la quota soul e di ballate è presente; nel nuovo Old Habits Die Hard il pedale della modalità metallurgica è più pigiato, con giudizio nell’iniziale All Woman https://www.youtube.com/watch?v=QqyyBFKKYa0 , dura nei suoni ma dove si gusta comunque la voce di Colleen e il lavoro di Campbell, in Leadfoot, pur con la presenza di una armonica amplificata e minacciosa, si viaggia verso un suono quasi dark e a tratti più “tamarro”, con voce distorta e sguaiata, con One More Time, dai riff tiratissimi che sembrano una buona risposta alla How Many More Times dei Led Zeppelin.

Ma c’è spazio anche per l’ottimo rock’n’soul della vivace Tryin’ che ha qualche parentela con il sound di Beth Hart https://www.youtube.com/watch?v=TYV6eiGk23Y , o per il Rock and Roll di Saturday Night (che si rifà nuovamente ad un celebre brano degli Zeppelin), e anche per un paio di ballate di grande intensità come Hollow e Lines On The Highway https://www.youtube.com/watch?v=TwwZxMA8o0k , oltre al blues-rock con uso di slide della conclusiva Mandy Lyn https://www.youtube.com/watch?v=sFcEkqvYv_8 . Per il resto molto rock, e anche se di stoffa di solito ne indossa poca la nostra amica, nell’ambito musicale ne ha comunque parecchia. Esce, come detto, il 20 maggio.

Bruno Conti

I Ragazzi Promettono Bene: Anteprima (Con Anniversario) Mudcrutch! Mudcrutch – 2 .

mudcrutch 2

*NDB. Piccola spiegazione del titolo. L’aggiunta (Con Anniversario) è semplicemente un promemoria tra noi, perché uno degli autori del Blog, Marco Verdi, oggi lunedì, festeggia il suo 5° anno di militanza, in quanto esordiva su “Disco Club Passione Musica” proprio il 16 maggio del 2011, con un Post sulla scomparsa di Calvin Russell. Visto che si festeggia o si commemora tutto (ultimamente molte, troppe scomparse) perché non farlo con qualcosa di piacevole? Si tratta anche del Post n.° 2335 del Blog, non male! Quindi vi lascio alla lettura dell’anteprima del nuovo album dei Mudcrutch che sarà nei negozi il prossimo 20 maggio.

Mudcrutch – 2 – Reprise/Warner CD

Tra le varie uscite di questo ricco 20 Maggio 2016 ci sarà anche il secondo album dei Mudcrutch, ovvero la band giovanile di Tom Petty, prima che il biondo rocker della Florida iniziasse ad incidere dischi a suo nome: un album che giunge un po’ a sorpresa (anche se era annunciato da qualche mese), a ben otto anni dall’ottimo “esordio” con l’album omonimo, seguito lo stesso anno dal deludente (per la durata esigua, non per la qualità delle canzoni) Extended Play Live. La formazione non è cambiata, con ben tre quinti degli Heartbreakers a comporre il quintetto (oltre a Petty, che con questa band suona il basso, abbiamo Mike Campbell alla chitarra solista e Benmont Tench alle tastiere), oltre a Tom Leadon (fratello di Bernie, membro fondatore degli Eagles) alla chitarra ritmica e solista e Randall Marsh alla batteria. Rispetto al primo album abbiamo però delle differenze: intanto Mudcrutch aveva anche qualche cover, mentre in 2 (che fantasia per i titoli…) ci sono solo brani originali, e poi il suono qui è molto più diretto e rock’n’roll, mentre nel predecessore c’era qualche momento quasi psichedelico, accenni di jam e southern rock. E poi nel CD del 2008 Petty era il leader incontrastato, agli altri venivano lasciate le briciole, mentre qui anche a livello compositivo c’è più democrazia, in quanto ognuno a turno ha almeno uno spazio per sé (anche se Tom fa sempre la parte del leone), e la cosa sorprendente è che il disco non cala di livello come spesso accade in questi casi, quasi come se fosse sempre Petty il responsabile. E 2 è un grande disco di rock, a mio parere anche meglio del precedente, più conciso, con canzoni più dirette, quasi sempre di grande fruibilità ma con l’imprimatur di uno dei più grandi rocker viventi, qui in grandissima forma: anche Hypnotic Eye, l’ultimo disco di Tom con il suo gruppo abituale, era decisamente rock, ma qui siamo su un altro pianeta per quanto riguarda la qualità delle composizioni. Producono il tutto Petty e Campbell insieme al fido Ryan Ulyate, dando a 2 un suono molto classico ed anni settanta.

Trailer, che apre l’album, è splendida, un folk-rock scintillante tipico di Petty, con grande intro di armonica, echi di Byrds ed una di quelle melodie che si piantano in testa, un avvio strepitoso. Dreams Of Flying continua con lo stesso mood, altra rock’n’roll song cristallina, decisamente orecchiabile, belle chitarre, insomma il Tom Petty che amiamo di più; Beautiful Blue è più lenta ma sempre cadenzata, con il nostro che palesa l’influenza che la frequentazione di Jeff Lynne ha avuto su di lui: belle l’apertura melodica nel refrain e l’atmosfera molto seventies. La spedita Beautiful World è scritta da Marsh e vede Leadon alla voce solista, ed è un piacevole rock tune di stampo californiano, ancora con un ritornello vincente e Tench bravissimo come sempre al piano (e comunque l’influenza di Petty si sente), mentre I Forgive It All, che vede Tom riprendersi il microfono, è una deliziosa ballata acustica, pura, limpida ed un po’ dylaniana, con un motivo toccante: grande musica, una delle più belle, anche se è l’unica ballata in un disco molto rock.

The Other Side Of The Mountain, scritta e cantata da Leadon (la prima strofa, poi Petty prende le redini) è un veloce rock-grass che fonde mirabilmente chitarre elettriche e banjo, con grande assolo twang di Campbell, un vero rockin’ country & western tune. L’organo farfisa dà alla tonica Hope un sapore anni sessanta, i nostri suonano con la foga di una garage band ma con la tecnica di un gruppo di veterani, la ritmica picchia e Tom canta con la consueta “marpionaggine”: questo è rock deluxe! Welcome To Hell è invece opera di Tench, ed è un trascinante rock’n’roll alla Jerry Lee Lewis, una vera goduria per le orecchie, con Benmont che vocalmente ricorda un po’ Randy Newman; Save Your Water è byrdsiana al 100%, chitarre jingle-jangle come se piovesse, ritmo sempre alto e Tom alle prese con un motivo dei suoi, ma di quando è ispirato. Con la tosta e potente Victim Of Circumstance è il turno di Mike Campbell in un raro momento da lead vocalist (e non se la cava neanche male…a quando un disco da solista?), con la canzone che è un rock puro e semplice, naturalmente con le chitarre sugli scudi, un pezzo brillante e coinvolgente; chiude il CD la lunga Hungry No More, più attendista ma anche profonda, con il solito impasto chitarristico di prim’ordine ed un suono molto vicino a quello degli Spezzacuori.

Con Tom Petty si va (quasi) sempre sul sicuro, ma questo per quanto mi riguarda è, almeno fino ad oggi, il disco rock’n’roll dell’anno.

Marco Verdi