Supplemento Della Domenica: Finalmente Si Ripara Ad Una Grave Mancanza! Bad Company – Live 1977 & 1979

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Bad Company – Live 1977 & 1979 – Rhino/Warner 2CD

Sembra incredibile, ma i Bad Company, uno dei gruppi più popolari degli anni settanta (in un certo senso una delle rock band per antonomasia) all’epoca non aveva mai pubblicato un disco dal vivo, cosa ancor più strana dato che il “doppio live album” era un po’ il punto di arrivo per tutti i musicisti di quei tempi. Sarà che il loro manager era lo stesso dei Led Zeppelin (che un live lo avevano fatto uscire, ma The Song Remains The Same non rifletteva minimamente i leggendari show del Dirigibile), e cioè il famoso Peter Grant, il quale non amava gli album dal vivo, ma resta il fatto che il supergruppo formato da Paul Rodgers, Simon Kirke (entrambi ex Free), Mick Ralphs (ex chitarrista dei Mott The Hoople) ed il bassista Boz Burrell (già bassista dei King Crimson), che era un combo formidabile on stage, vide la propria carriera limitata ai lavori di studio, almeno per quanto riguarda il periodo d’oro con Rodgers alla voce ( quindi a parte un trascurabile Live In Albuquerque 1976 uscito nel 2006 per la famigerata Cleopatra). Oggi finalmente la Rhino ripara al torto, e lo fa in maniera sontuosa, con uno splendido doppio CD intitolato semplicemente Live 1977 & 1979, che documenta il meglio di due differenti concerti, appunto del 1977 a Houston e del 1979 all’Empire Pool di Londra, con una qualità di incisione perfetta, un libretto esauriente e ben due ore e mezza di pura e scintillante rock music. Paul Rodgers è sempre stato uno dei migliori cantanti inglesi, in possesso di una voce calda dalle sfumature blues e soul, potente e dolce a seconda delle esigenze (non per niente in anni recenti Brian May e Roger Taylor lo hanno chiamato per sostenere le parti vocali di Freddie Mercury nella reunion live dei Queen), la sezione ritmica di Burrell e Kirke è uno stantuffo cresciuto a pane e rock, e Ralphs un chitarrista spesso dimenticato ma dal fraseggio superbo. Una rock’n’roll band con il suono spesso più americano che britannico, e che finalmente possiamo apprezzare al suo apice in questi due CD, nei quali soltanto due brani si ripetono (Shooting Star e Feel Like Makin’ Love, oltre al Drum Solo di Kirke, una pratica tipica dell’epoca ma un po’ noiosa da ascoltare) e dove, purtroppo, mancano totalmente i pezzi dei Free, cosa che mi ha un po’ sorpreso dato che metà del gruppo proviene da lì.

Il primo CD è una bomba, e parte con una tonante versione di Burnin’ Sky (titolo anche del nuovo disco di quell’anno), dominata dai riff secchi di Ralphs e dalla voce potente di Paul, che confluisce senza interruzioni nell’altrettanto vigorosa Too Bad, un avvio micidiale per un doppio album che promette faville. E le promesse non vengono smentite, a cominciare da Ready For Love, classica ballata anni settanta, otto minuti di rock a cinque stelle, proseguendo con la mossa Heartbeat, tra rock ed errebi (perfetta per la voce del leader) e con la fluida Morning Sun. Non sto a nominarle tutte, ma di certo non posso tralasciare l’aggressiva Man Needs Woman, con Rodgers e Ralphs formidabili, la godibile Leaving You o la splendida Shooting Star, uno dei loro pezzi più noti. Senza dimenticare la scintillante rock ballad Simple Man, con la voce di Paul più soulful che mai, l’irresistibile rock’n’roll Movin’ On, il quasi hard rock di Live For The Music e la bellissima Feel Like Makin’ Love, uno dei maggiori hit del gruppo.

Il secondo CD, tratto dal tour di Desolation Angels, è leggermente inferiore (ma proprio di poco), più che altro per un paio di pezzi minori e l’utilizzo per fortuna limitato del synth: si parte comunque benissimo con la stupenda Bad Company, una delle loro signature songs, guidata dal piano di Rodgers (suonato peraltro molto bene), melodia epica, solito prolungato assolo di Ralphs e notevole jam session finale, seguita da Gone, Gone, Gone, unico brano scritto da Burrell ed infatti non un granché, ma si corre subito ai ripari con una sontuosa Shooting Star, anche meglio di quella del 1977. Gli altri brani degni di nota (ma non è che quelli che non nomino li dovete saltare) sono il saltellante rock blues Rhythm Machine, con Ralphs incontenibile, la quasi sudista Oh, Atlanta, che non è quella dei Little Feat ma ne ricalca quasi lo stile, la vibrante e maestosa Run With The Pack, la rutilante Evil Wind, con la sezione ritmica che picchia come poche. Passando per un trittico di puro e trascinante rock’n’roll formato da Honey Child, Rock Steady e Rock’n’Roll Fantasy e per finire con la solita cristallina Feel Like Makin’ Love e con la strepitosa Can’t Get Enough, il loro più grande successo come singolo. In mezzo, l’unica cover del doppio, un’ottima e molto “hendrixiana” versione di Hey Joe.

I due live album usciti di recente che documentavano la reunion dei membri originali (meno Burrell, che è passato a miglior vita nel 2006) erano buoni, ma quello da avere assolutamente è questo Live 1977 & 1979.

Marco Verdi

Il Capostipite Di Una Dinastia Di Musicisti Canadesi Fa Ancora Grande Musica! Ken Whiteley – Freedom Blues

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Ken Whiteley – Freedom Blues – Borealis Music 

Ken Whiteley fa parte di una sorta di dinastia di musicisti canadesi (anche se lui e il fratello Chris sono originari degli Stati Uniti, vivono in Canada, nella zona di Toronto, dalla metà degli anni ’50): proprio con il fratello Chris, ha iniziato a fare musica sul finire degli anni ’60 nella Original Sloth Band, un trio (il terzo componente della band era Tom Evans) che si muoveva in quell’ambito tra blues, folk, roots che era tra gli antenati di quella che oggi si definisce “Americana” music. Sempre con il fratello ha poi fondato i Whiteley Brothers,  dediti a questo stile di musica nell’area blues e dintorni, poi sono nati Ken Whiteley & The Beulah Band, dove milita anche il figlio Ben. A proposito di famiglia, all’appello mancano i figli di Chris: Jenny Whiteley, ottima cantautrice con parecchi album e collaborazioni nel suo carnet, mentre ignoro il CV di Dan Whiteley, l’altro fratello. Venendo al presente, Ken Whiteley ha appena pubblicato nel 2015 un album con la Beulah Band, sempre su Borealis Records, ma vista la distribuzione “carbonara” dell’etichetta pochi se ne sono accorti, mentre l’ultimo album a nome proprio Another Day’s Journey, risale 2010. Quindi cerchiamo di rimediare segnalando questo Freedom Blues, che in copertina riporta una foto del titolare, che ha a giudicare dalla lunga barba bianca e dall’aria vissuta uno potrebbe quasi pensare abbia almeno una ottantina di anni, mentre ne ha giusto compiuti 65 anni al 30 di aprile. Ma a parte i fatti anagrafici Whiteley è pur sempre un pimpante ed eccellente cantante e chitarrista, in possesso di una voce duttile e piacevole, che ricorda a chi vi scrive, di volta in volta, quella di gente come Jesse Winchester, David Bromberg o persino John Mayall, di cui in questo album per certi versi, in parte, ricalca lo stile musicale.

Accompagnato da una ottima band, dove brilla anche una piccola sezione di fiati, con Ewan Divitt, Richard Underhill e Perry White, oltre ad un gruppetto di cantanti di supporto, Kim Harris, Reggie Harris, Amoy Levy, Ciceal Levy (evidentemente i nuclei familiari sono importanti): a completare la formazione Bucky Berger alla batteria e il figlio Ben al basso. Tutto il resto lo suona Ken Whiteley  stesso: chitarre acustiche, elettriche e slide, banjo, armonica, mandolino, piano e organo, percussioni varie. Il risultato è un album dove lo stile cantautorale va a braccetto con il blues, ora venato di folk, ora elettrico, a tratti con forti elementi gospel, e anche con reminescenze del sound della grande Band quando a guidarla vocalmente era Levon Helm.. I brani sono scritti per la maggior parte dallo stesso Whiteley, ma troviamo un brano della nipote Jenny, altri autori minori, qualche traditional e un super classico posto in conclusione. A chi scrive l’album è piaciuto parecchio: dall’iniziale Bring It All Right Down dove sembra di ascoltare il miglior Jesse Winchester degli anni ’70, con la slide acustica di Ken a tessere splendide trame sonore, rafforzate dal suono vintage dell’organo Hammond e dalle corali armonie vocali che aggiungono fascino al tutto, mentre i fiati sono deliziosi in questo piccolo gioiello sonoro posto in apertura.

Freedom Blues sembra provenire dai vecchi vinili della David Bromberg Band, fiati sincopati, una voce sorniona, il blues rivisitato con gusto, le solite armonie vocali di supporto a “colorare” il brano. Freedom Is A Constant Struggle è un lungo gospel blues che parte come un brano di Ry Cooder, con una slide acustica e il canto d’insieme dei protagonisti, poi parte il call and response tipico del genere, intenso e complesso, di grande fascino, con i musicisti impegnati a cogliere le sfumature di questo poderoso brano tradzionale, mentre Whiteley distilla con maestria note dalla sua slide. Stesso discorso per la successiva Throw Me Anywhere, più cadenzata e mossa, che nella seconda parte tenta una trasferta in quel di New Orleans.  Omar Khadr’s Blues dove la voce di Whiteley assume un timbro alla John Mayall, potrebbe essere un brano dei Bluesbreakers americani della seconda fase, con Give Your Hands To Struggle che è una canzone della Sweet Honey In The Rock, quindi un gospel, ma intriso da una profonda anima soul, pezzo splendido e avvincente, Sewing Machines è una bella canzone pianistica scritta dalla cantautrice canadese Nancy White, gradevole anche Right Here In My Town e molto bella Halls Of Folsom, scritta dalla nipote Jenny Whiteley, che pare uscire da qualche disco solista di Levon Helm. Deliziose anche The Other Shore, sempre con quella slide tangente e la cover di Midnight Special, dove washboard e armonica rievocano antichi sapori musicali. E in conclusione di tutto una eccellente versione di I Shall Be Released di Bob Dylan, che parte intima e raccolta, poi si apre in un crescendo corale splendido, con la slide di Whiteley in grande evidenza.

Bruno Conti  

Un Altro “Southern-Gothic Psycho-Blues Revival-Punk” One-Man-Band? Lincoln Durham’s Revelations Of A Mind Unraveling

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Lincoln Durham’s Revelations Of A Mind Unraveling – Droog Records

Come saprà chi legge le mie recensioni, chi scrive è un seguace dell’assunto di San Tommaso, ossia per credere devo vedere, o meglio ascoltare, anzi, io mi aggancerei addirittura al detto “provare per credere” della scuola filosofica Aiazzone/Guido Angeli. Quindi quando mi capita di leggere, in qualità anche di appassionato non onnisciente, di qualche nuovo nome, presentato come la salvezza del rock (o del blues, o di qualsivoglia genere musicale), ove possibile mi piace comunque verificare se questi incredibili giudizi, spesso estrapolati da cartelle stampa mirabolanti, o dai giudizi di qualche musicista amico, spesso citando fuori contesto qualche sua asserzione, sono rispondenti, almeno in parte alla verità. E sempre ricordando che, per fare un’altra citazione colta, “de gustibus non disputandum est”, ovvero ognuno nella musica ci sente quello che vuole. Per cui quando ho sentito parlare delle mirabolanti proprietà di Lincoln Durham, presentato come un “Southern-Gothic Psycho-Blues Revival-Punk One-Man-Band”, secondo le sue parole, oppure in quelle di Ray Wylie Hubbard (che ha peraltro co-prodotto il suo primo EP e il secondo album) che lo presenta come un incrocio tra Son House e Townes Van Zandt, mentre altri, probabilmente credo senza averlo mai sentito, tirano in ballo Tom Waits, John Lee Hooker, Sleepy John Estes, Ray LaMontagne e Paul Rodgers; a questo punto potrei aggiungere Maradona, Frank Sinatra e anche un Robert Plant, che non ci sta mai male. Se citiamo anche il canto gregoriano e quello delle mondine, abbiamo forti probabilità di azzeccare lo stile esatto.

Mister Durham viene dal Texas, tra Whitney e Itasca, secondo la leggenda suona il violino dall’età di quattro anni (ma checché ne dicano altri recensori, nel disco nuovo, non ne ho trovato traccia, come neppure di mandolini e armonica, che però suona dal vivo), oltre che un one man band è anche un “self made man”, almeno a livello musicale, prima come adepto della chitarra elettrica e di Hendrix e Stevie Ray Vaughan, poi scoprendo il blues e il folk, ma di quelli molto “alternativi”, misti a rasoiate punk, ritmiche primitive, citazioni di vecchi autori, il tutto suonato su chitarre sgaruppate, le cosiddette cigar box, spesso in stile slide, con questo risultato, tra il southern primitivo e qualcosa di gotico, che potrebbe avvicinarlo, se dovessi proprio fare un nome, a Scott H. Biram, altro folle che cerca di demitizzare il blues, con iniezioni di hard-rock, punk, voci spesso distorte e ruvide http://discoclub.myblog.it/2014/03/03/tocchi-genio-follia-sonora-scott-h-biram-nothin-but-blood/ , come fa anche Lincoln Durham. Nel disco, rigorosamente senza basso (a parte un brano, il più lungo, Rage, Fire And Brimstone, che è un poderoso boogie-southern-blues, di stampo quasi “normale”, quasi) è presente comunque un batterista in tutti i brani, di solito Conrad Choucroun, con il bravo Bukka Allen che saltuariamente inserisce qualche botta di Moog.

Per il resto 10 brani in tutto, mezzora scarsa di musica, dove Durham ci rivela tutte le perversioni della sua mente, ma anche della sua musica. attraverso una serie di canzoni che attraversano tutti i gradi di un blues deragliante e spesso selvaggio: dal reiterato canto primevo di una Suffer My Name che il blues lo soffre come un uomo posseduto, a Bleed Until You Die, dove la voce qualche parentela vaga con i citati Rodgers e Plant potrebbe anche avercela, e pure la musica, molto più alternativa e senza vincoli sonori o di genere, pur se con una certa “elettricità” nelle evoluzioni minimali della chitarra e della voce, sempre ai limiti. Creeper, con la sua slide guizzante, anche per il titolo, potrebbe ricordare un altro bianco che il blues lo viveva, come Steve Marriott, senza dimenticarsi il boogie di Johnny Winter o di Thorogood; Bones, quasi meditativa, illustra il lato meno selvaggio e più “tranquillo” del nostro Lincoln, con comunque improvvisi squarci di rabbia sonora. Ma Durham tiene anche famiglia e ogni tanto la moglie (?) Alissa aggiunge le sue armonie vocali come nel violento punk-blues di Prophet Incarnate, o nel canto gotico-sudista della conclusiva Bide My Time. Altrove Rusty Knife è un blues di quelli secchi e serrati, con il moog di Allen che cerca di dare profondità sonora alla primitiva Cigar Box Guitar di Lincoln, la cui voce ogni tanto parte per la tangente, mentre i Gods Of Wood And Stone dell’omonima canzone non sono per nulla rassicuranti, tra giri di banjo e ululati alla luna, ancorati dallo stomping thump della batteria di Choucroun. Noose, l’unico episodio dove appare una chitarra acustica, potrebbe essere quell’anello mancante tra Tom Waits e Townes Van Zandt citato, con le sue oscure trame. Mi piace? Boh! Ve lo dirò se trovo il tempo di sentirlo ancora una ventina di volte, di sicuro non è brutto, ma strano sì.

Bruno Conti

Ci Hanno Preso Gusto…E Pure Noi! The Rides – Pierced Arrow

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The Rides – Pierced Arrow – Provogue CD

Quando tre anni fa è uscito Can’t Get Enough, il CD di debutto del supergruppo The Rides (formato da Stephen Stills con Kenny Wayne Shepherd ed il grandissimo pianista/organista Barry Goldberg, uno dei sessionmen più richiesti della storia e, tra le altre cose, membro fondatore degli Electric Flag), sinceramente pensavo che si trattasse di uno sforzo isolato, ma, vuoi per l’ottimo successo di vendite ottenuto, vuoi perché era davvero un grande disco (per quel che può valere, era anche nella mia Top Ten annuale), i tre ci riprovano ora con Pierced Arrow, contravvenendo tra l’altro alle normali abitudini di Stills, abituato ad incidere con cadenze molto più blande. Can’t Get Enough era davvero bello, un disco potente di rock-blues come si faceva una volta, con una serie di canzoni originali di ottimo livello a qualche cover scelta con cura, dove i due chitarristi della band (due generazioni a confronto) si intendevano a meraviglia, e Goldberg ricamava in sottofondo con la consueta maestria. Ebbene, dopo un paio di ascolti di Pierced Arrow, posso affermare senza dubbi che ci troviamo di fronte ad un album che, se non è addirittura superiore al precedente, è almeno sullo stesso livello: canzoni superbe, un paio di cover (nella versione “normale”, quattro in quella deluxe) di cui una assolutamente galattica, assoli chitarristici come se piovesse e feeling a palate. Forse qui c’è più rock ed un po’ meno blues, ma alla fine è il risultato quello che conta, e devo dire che qualche anno fa non avrei mai pensato di ritrovarmi ancora di fronte ad uno Stills così in forma (nel 2005 lo avevo visto con Crosby & Nash al Beacon Theatre di New York, ed era in uno stato pietoso, completamente senza voce e più grosso di Crosby), mentre Shepherd è forse meno esposto di uno come Bonamassa, che fa un disco a settimana, ma di certo a talento siamo lì.

La sezione ritmica è la stessa del primo disco, con Kevin McCormick al basso (già con John Mayall, Jackson Browne, CSN e Crosby solista) e Chris Layton alla batteria, ex Double Trouble di Stevie Ray Vaughan ed attuale drummer di Shepherd; in più, abbiamo le armonie vocali che danno un tocco quasi gospel ad opera di Raven Johnson e Stephanie Spruill, e come ospite speciale all’armonica in un paio di pezzi Kim Wilson, leader dei Fabulous Thunderbirds. La produzione è nelle mani dei Rides stessi insieme a McCormick. Grande inizio con Kick Out Of It, un brano di puro rock alla Stills (e la voce di Stephen è in buono stato), gran ritmo, chitarre poderose ed il piano di Goldberg che si fa sentire, e poi iniziano i duelli a suon di assoli, insomma un godimento assoluto. Riva Diva è puro rock’n’roll, travolgente come pochi, con Kenny voce solista (non è Stills, ma se la cava egregiamente), grande performance di Goldberg e solite chitarre fiammeggianti; Virtual World l’avevo già sentita dal vivo con CSN lo scorso autunno a Milano, l’atmosfera è più soffusa, ma il ritmo è sempre presente, e con una chitarra ed un mood quasi alla Neil Young, gran bella canzone e classe da vendere. By My Side (canta Kenny), ancora energica, è un gospel-rock di grande potenza emotiva, con elementi swamp nel suono, un motivo che entra sottopelle ed un crescendo notevole, splendida canzone; Mr. Policeman è ancora molto spedita, anche se dal punto di vista compositivo inferiore alle precedenti, ma comunque un ottimo showcase per la chitarra di Stills, mentre I’ve Got To Use My Imagination è proprio il successo di Gladys Knight (ma l’autore è Goldberg, insieme all’ex marito di Carole King, Gerry Goffin), e la versione dei Rides è un soul-blues molto ricco dal punto di vista sonoro, con un bel botta e risposta voce-coro nel ritornello ed assoli superbi dei due leader e di Barry all’organo: una delle cover dell’anno, da sentire fino alla nausea.

La cadenzata Game On è la più blues finora, con Kim Wilson che “armonicizza” da par suo, un altro pezzo decisamente vigoroso ma grondante feeling, e poi le chitarre sono una goduria nella goduria; I Need Your Lovin’ è ancora rock’n’roll, con la solita superba prestazione da parte di tutti (specialmente Goldberg, un fenomeno…ma vogliamo parlare delle chitarre?) e la quasi impossibilità per il sottoscritto di stare fermo. There Was A Place è uno slow-blues di gran classe, e sebbene Stills non abbia più la voce di un tempo sopperisce con il resto: un brano caldo e vibrante, molto anni settanta; la versione regolare del CD si chiude con My Babe, noto successo di Little Walter (scritta da sua maestà Willie Dixon), rilasciata dai nostri con buona aderenza all’originale, gran lavoro di Barry e performance nel complesso molto sciolta e rilassata. L’edizione deluxe aggiunge tre brani, a partire da Same Old Dog, un rock-blues potente e tonico, un pretesto per far cantare le chitarre dato che come canzone è più canonica; chiudono due cover, Born In Chicago, scritta da Nick Gravenites e presente sul disco d’esordio della Paul Butterfield Blues Band, spedita e fluida, con Wilson nei panni di Butterfield ed il binomio Stills-Shepherd che tenta di emulare Mike Bloomfield Elvin Bishop (mentre Goldberg non ha paura di Mark Naftalin), e la nota Take Out Some Insurance di Jimmy Reed (ma incisa anche dai primi Beatles con Tony Sheridan), un bluesaccio sporco e sudato, che Stephen canta con voce un po’ impastata ma suona, eccome se suona.

Che altro dire? Che molto probabilmente anche per il 2016 nei dieci migliori dischi di fine anno i posti a disposizione sono solo più nove…

Marco Verdi

Più Che L’Amore E’ “La Voce” Che Vince Ancora Una Volta, Splendida! Janiva Magness – Love Wins Again

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Janiva Magness – Love Wins Again – Blue Elan/Ird

Ogni due anni, regolarmente, da un paio di lustri, Janiva Megness ci regala un nuovo album per la delizia dei nostri padiglioni auricolari: un misto di soul, blues, R&B, i dischi della cantante nativa di Detroit, ma, credo, da parecchi anni residente a Los Angeles, sono dei piccoli gioielli in quella categoria abitata anche da gente come Bonnie Raitt, Susan Tedeschi, Beth Hart, in passato (ma anche ora) Bonnie Bramlett, tra le recenti, magari con una maggiore propensione al blues e al gospel pure Ruthie Foster e Shemekia Copeland, e con una maggiore propensione al rock Dana Fuchs. Se ne potrebbero aggiungere altre, ma è comunque una bella lista. La Magness, è tra quelle in possesso di una delle voci più naturali, con un phrasing perfetto e una duttilità nella modulazione vocale tra le più genuine. Lo dico sempre, ma mi ripeto ancora per eventuali ritardatari che non la conoscessero. Per alcuni il suo album più bello è Stronger For It http://discoclub.myblog.it/2012/03/22/sempre-piu-forte-janiva-magness-stronger-for-it/ , ma per chi scrive sono belli tutti, non c’è mai un calo di qualità, e anche questo nuovo Love Wins Again, che segue l’ottimo Original del 2014 http://discoclub.myblog.it/2014/10/09/magari-originale-sicuramente-copia-dautore-janiva-magness-original/ , prodotto come di consueto da Dave Darling, che suona anche chitarra e basso, firma, da solo, con Janiva ed altri autori, la totalità dei brani (meno uno di cui tra un attimo), è una miscela perfetta di suoni classici, questa volta con una maggiore propensione verso un sound virato al soul dei primi anni ’70. Quello che usciva dai Fame Studios o dai Royal Studios di Memphis dove Willie Mitchell confezionava le sue perfette creazioni per Al Green o Ann Peebles.

Sintomatico in questo senso il primo brano Love Wins Again, una canzone di uptempo R&B che mi ha ricordato anche le prime cose di Joss Stone, quando sembrava destinata a grandi cose, prima di venire risucchiata (non del tutto, la voce rimane) nelle pieghe dell’industria discografica più commerciale; ma tornando al pezzo in questione, l’atmosfera è veramente gioiosa, tra chitarrine choppate, basso e batteria rotondi, armonie vocali deliziose, il tutto dà una sensazione di piacere ed allegria, un sentimento che non sempre alligna nelle composizioni della Magness (di cui è nota la vita, dolorosa e dalle mille difficoltà, ne potete leggere la storia nei precedenti post, da cui cerca sempre e comunque di rialzarsi, con grinta e carattere). Real Love è un funky-blues-rock più deciso e grintoso, con chitarre più presenti, un organo di supporto e quella magnifica voce sempre in azione in modo unico. When You Hold Me è la prima di una serie di deep soul ballads che sono il punto forte del suo repertorio https://www.youtube.com/watch?v=rHsV1kDTT8E , la voce leggermente rauca ma in grado di acrobazie vocali, che scivola sulle note di due o tre chitarre, oltre a Darling Zach Zunis e Garret Deloian, l’organo di Arlan Schierbaum (l’ex tastierista di Bonamassa), il sax di Alfredo Ballesteros e le “solite” armonie vocali d’ordinanza, un brano che potrebbe anche funzionare in qualche radio contemporanea se ce ne fossero ancora di “sane”.

Anche Say You Will profuma di errebi senza tempo, con una progressione vocale e strumentale di grande fascino, come pure Doorway, altra ballata da stracciarsi le vesti per il piacere che ne deriva dall’ascolto (con qualche reminiscenza con i brani più belli della migliore Joan Armatrading anni ’70, un’altra che mi piaceva non poco), musica genuina e di grande impatto emozionale. Moth To A Flame vira verso un jazzy blues più grintoso, sempre con questa contrapposizione tra il sound delle chitarre e dell’organo Hammond, con Your House Is Burnin’ che fonde un groove alla James Brown ad un sound chitarristico decisamente rock, con ottimi risultati https://www.youtube.com/watch?v=rfZ2oC7TkmM . Bellissima anche Just Another Lesson, un’altra delicata ballata, questa volta solo la voce e una chitarra acustica, intima ed intensa, gran classe vocale, inutile dirlo. E niente male pure le raffinate atmosfere notturne di Rain Down, benché forse troppo arrangiate, anche se la voce https://www.youtube.com/watch?v=b2mbtjdB7YU  … Discorso a parte per una fantastica versione di Long As I Can See The Light, il super classico dei Creedence di John Fogerty, che riceve un trattamento di lusso in puro Memphis style che ci riporta al suono di Stronger For It, dove c’erano delle cover formidabili, qui siamo dalle parti di Beth Hart, anche per la potenza e carica vocale. E per concludere in bellezza un’altra ballata di quelle strappalacrime, Who Will Come For Me, perfetta anche grazie all’ottimo lavoro di raccordo di Dave Darling, che ha diretto le operazioni dagli studi Doghouse di Los Angeles, con un gruppo di ottimi musicisti che hanno saputo evidenziare la splendida voce di Janiva Magness. Da avere assolutamente se amate le grandi cantanti!

Bruno Conti

P.S In questo 2016 ricco di morti eccellenti ma anche della scomparsa di musicisti meno noti, il 6 giugno ci ha lasciato anche una cantante come Candye Kane, pure lei blues e soul singer di qualità, vicina alla categoria di Janiva Magness. Soffriva da anni di una forma di tumore al pancreas che sembrava avere sconfitto, o così vi dicevo in questo post dell’epoca http://discoclub.myblog.it/2011/09/18/una-cantante-blues-particolare-candye-kane-sister-vagabond/ che ripubblico per renderle omaggio. Aveva 54 anni. R.I.P.

Chi Si Accontenta Gode! John Mayall’s Bluesbreakers – Live in 1967 Volume Two

john mayall live in 1967 volume two

John Mayall’s Bluesbreakers – Live in 1967-Volume Two – Forty Below Records 

Leggenda vuole che quando Mike Vernon, il loro produttore, entrando in studio per registrare il nuovo album e notando un amplificatore diverso dal solito, chiedesse “Dov’è Eric Clapton?”e  John Mayall gli rispondesse “Non è più con noi, se ne è andato da qualche settimana”, aggiungendo “Non preoccuparti ne abbiamo uno migliore!”. Con Vernon che preoccupatissimo si chiedeva “Meglio di Clapton?” e Mayall che ribadiva “Magari non ancora, ma aspetta un paio di anni e vedrai!”, presentandogli poi Peter Green. In effetti il giovane Peter Greenbaum aveva già sostituito Eric “God” Manolenta Clapton per qualche giorno, quando era sparito in Grecia nell’estate precedente, ma dall’autunno entrò in formazione a titolo definitivo per registrare A Hard Road, rimanendo poi con i  Bluesbreakers per circa un anno. Chi mi conosce sa che considero Peter Green uno dei dieci più grandi chitarristi bianchi della storia del blues elettrico, e non solo (e lo stesso pensava BB King che lo adorava): in poco più di 4 anni, prima con Mayall e poi nei Fleetwood Mac ha lasciato un segno indelebile nelle vicende del british blues (e del rock). Ma ovviamente non è il caso di raccontare la storia un’ennesima volta, fidatevi!

Il disco dei Bluesbreakers con Green usciva nel febbraio del 1967 e in quel periodo il gruppo suonò spesso nei locali di Londra, con la formazione dove apparivano anche i futuri Fleetwood Mac, John McVie e Mick Fleetwood, che non aveva partecipato alla registrazione dell’album. Il fato benigno volle che un fan olandese della band, tale Tom Huissen fosse presente con un antediluviano registratore a una pista per preservare per i posteri tutti i concerti. John Mayall e il suo ingegnere del suono Eric Corne, a quasi 50 anni di distanza da quelle registrazioni, ne sono venuti in possesso e, nei limiti del possibile, hanno provveduto a restaurarle e pubblicarle Se avete già sentito il primo capitolo di questo Live In 1967, avrete notato che in molti brani il suono è veramente pessimo, per non essere volgari inciso con il c..o, mentre in altri è tra il buono e l’accettabile, però Peter Green suona come un uomo posseduto da una missione, quella di divulgare il blues presso le giovani generazioni, condividendo la visione del suo mentore Mayall. E infatti si parte subito bene con una versione scintillante di Tears In My Eyes, dove Green rilascia un assolo ricco di tecnica e feeling, con quel suono unico e immediatamente riconoscibile che lo ha fatto amare da generazioni di chitarristi a venire, da Santana a Gary Moore (che riceverà in dono la Les Paul di Green) a Rich Robinson dei Black Crowes passando per Joe Perry, oltre a Jimmy Page e Eric Clapton che hanno espresso più volte la loro ammirazione per lo stile di Green, quel vibrato caldo e tremolante che poi si impenna all’improvviso in note lunghe e sostenute. E in questo brano, grazie alla buona incisione tutto si apprezza al massimo.

In altri pezzi bisogna intuirlo, ad esempio nella successiva Your Funeral And My Trial, che sembra incisa nella cantina del locale accanto, a Bromley. So Many Roads, il classico di Otis Rush, come il primo brano viene dalle registrazioni al mitico Marquee di Londra e quindi la registrazione è più che buona, come pure la veemente interpretazione di Green, in serata di grazia. In Bye Bye Bird il pezzo di Sonny Boy Williamson, sempre inciso a Bromley, si intuisce una eccellente performance di Mayall all’armonica, mentre Please Don’t Tell registrato al Ram Jam Club è sempre inciso maluccio, anche se i Bluesbreakers tirano come degli indemoniati, e in Sweet Little Angel Green si merita tutti gli aggettivi spesi per lui da B.B. King, grande versione del classico di Riley King https://www.youtube.com/watch?v=LXnuKmawtIw , come pure Talk To Your Daughter, da sempre un cavallo di battaglia, qui in una versione breve. Bad Boy è un brano minore, e si sente pure male, mentre Stormy Monday appare in una versione lunga e ricca di interventi solisti di Green, siamo al Klooks Kleek e canta Ronnie Jones, che è proprio quello che poi è diventato un famoso DJ in Italia, ma agli inizi era un grande cantante blues, scoperto da Alexis Korner. Greeny è uno dei fantastici strumentali scritti da Peter Green ad inizio carriera, pregasi ascoltare come suona, con Ridin’ On The L&N che si intuisce essere uno dei pezzi forti di Mayall, e pure Chicago Line lo sarebbe, se si sentisse bene. Conclude Double Trouble, un altro standard di Otis Rush, che poi Clapton avrebbe fatto proprio, ma allora Green lo suonava alla grandissima. Bisogna dire, vista la qualità sonora a tratti, che “chi si accontenta gode”, la musica meriterebbe mezza stelletta in più e forse oltre.

Bruno Conti

Miliardario, Filantropo E Pure Bravo Come Musicista! JD & The Straight Shot – Ballyhoo!

jd and the straight shot ballyhoo

JD & The Straight Shot – Ballyhoo! – JD & The Straight Shot CD

Nel mondo della musica può capitare di imbattersi in artisti che hanno anche uno spiccato senso degli affari e non hanno bisogno di manager per gestirli: il caso più eclatante è forse quello di Gene Simmons, bassista e membro fondatore dei Kiss e da sempre responsabile in prima persona della gestione della loro immagine, capace di trasformare una rock’n’roll band in una vera miniera d’oro (e facendo molti più soldi con il merchandising che con le vendite dei dischi). Più rari sono i casi di musicisti che si guadagnano da vivere facendo altro: per esempio Kevin Deal, oltre ad un’ottima ma poco remunerativa carriera come artista di country e Americana, porta avanti l’attività di famiglia che consiste in un’impresa di costruzioni in pietra specializzata nella realizzazione di chiese. Ma un musicista, e pure bravo, che fosse un magnate delle telecomunicazioni non l’avevo ancora visto: è questo il caso di James Dolan, un newyorkese di sessanta anni (quindi non esattamente di primissimo pelo) che è a capo dell’emittente via cavo Cablevision Systems Corporation (la quinta per importanza negli Stati Uniti), oltre ad essere presidente della nota squadra di basket dei New York Knicks, per non parlare del fatto che è anche chairman del Madison Square Garden! Un businessman con le palle quindi (che è anche impegnato in varie iniziative benefiche, il famoso concerto 12-12-12 per le vittime dell’uragano Sandy lo ha organizzato lui) ma anche un genuino appassionato di musica che nel 2005 ha formato una vera e propria band di roots-rock e Americana, JD & The Straight Shot (nascondendo quindi il suo nome dietro le iniziali, è pure umile l’amico… qualche difetto no?), con la quale ha pubblicato cinque album (compreso l’ultimo di cui parlerò tra poco) ed un EP, e trovando pure il tempo di girare gli States esibendosi come opener di gente come Allman Brothers Band, Eagles, Bruce Springsteen e ZZ Top: anche noi in Italia abbiamo un magnate delle telecomunicazioni e presidente di una nota squadra (di calcio), il cui amore per la musica si limita però alle serenate con Apicella e le tournée non le fa cantando ma sparandole grosse da un palco e in TV (in quello comunque nel nostro paese è in ottima compagnia).

Ebbene, oltre ad essere un uomo ricco e di successo, Dolan è pure musicalmente dotato, e lo dimostra ampiamente con l’ultima fatica della sua band, intitolata Ballyhoo!, per la quale si è pure preso lo sfizio di registrare completamente con strumenti acustici (cosa annunciata fin dalla copertina), a differenza dei dischi precedenti che erano elettrici: la cosa però ha una sua logica, in quanto James ha detto che lui ed i ragazzi (Marc Copely, chitarre, Byron House, basso, la bravissima Erin Slaver, voce e violino ed Aidan Dolan, figlio di James, anch’egli alle chitarre) sono soliti provare le canzoni senza la spina attaccata e solo in seguito danno loro un arrangiamento rock, mentre con Ballyhoo! si sono semplicemente fermati al primo step. A monte di tutto, devo dire che sono stupito dalla qualità del disco: Dolan intanto è un musicista capace, ottimo songwriter (ma collaborano anche gli altri) e cantante in possesso di una bella voce profonda e vissuta, e le canzoni sono intrise fino al collo della più pura tradizione americana, con rimandi al suono delle ballate folk dei tempi della Grande Depressione (caratteristica accentuata dal fatto che il disco è acustico), mescolando il tutto con uno stile degno di una esperta southern band; un gruppo che sa il fatto suo dunque, che riesce a stare in piedi con le sue gambe e va ben aldilà del capriccio di un miliardario che si vuole divertire: la produzione di Chuck Ainlay, uno che ha prodotto tutti gli album solisti di Mark Knopfler (tranne l’ultimo, Tracker) oltre a Miranda Lambert e Jewel, è la classica ciliegina su una torta già molto gustosa. Blues, rock acustico, old-time music, folk ed un pizzico di country: incredibile per uno che nella vita fa tutt’altro.

Il CD inizia subito benissimo con Empty, un blues rurale con tanto di slide acustica, la voce sudista del leader ed un motivo che sembra la versione unplugged di un classico pezzo dei Lynyrd Skynyrd (con in più l’ottimo violino della Slaver, vera e propria arma “segreata” del disco). Better Find A Church è quasi un brano a cappella, nel senso che le voci (James ed Erin) sono accompagnate prima solo dal basso, poi entrano due chitarre ma restano piuttosto nelle retrovie, e la ritmica è fatta dallo schioccare delle dita e dal battito di mani, con una melodia, tra modernità e tradizione, pura come l’acqua di montagna: splendida. Under That Hood è ancora un folk-blues molto intenso, un brano che risente della lezione di Mississippi John Hurt, con un gran gioco di voci ed una solidità impressionante per uno che, a conti fatti, è musicista per hobby. Bella anche Perdition, ancora con la struttura tipica delle band sudiste: la scelta di lavorare in acustico è comunque vincente, in quanto la purezza di queste canzoni viene preservata; Glide ha un arpeggio chitarristico tipico di una bluegrass band (e pure i cori), un pezzo dal sapore tradizionale al 100%, che mostra di che pasta sono fatti i ragazzi. Nature’s Way, guidata da un riff di violino, ha una melodia più legata ai giorni nostri, ma rimane comunque una signora canzone, Don’t Waste My Time è languida e resa malinconica ancora dal bell’uso del fiddle, mentre Dolan intona un motivo che sembra provenire da un’altra epoca: grande pathos, favorito anche dal crescendo sonoro nella seconda parte. La title track, cantata con voce molto bassa, è una ballata di spessore ed intensità, nonostante i due strumenti in croce (ma anche le voci fanno la loro figura), con uno splendido break strumentale molto Irish guidato come sempre dal violino; Hard To Find è invece una pura e semplice, ma solida, country ballad, che rimanda al suono anni settanta del movimento Outlaw.   L’album si chiude con la spedita Here He Comes, altro scintillante folk tune d’altri tempi, e con la spoglia ma struggente I’ll See You Again: un disco sorprendente, da parte di un personaggio che in America definirebbero larger than life, e di una band che sembra un manipolo di professionisti del folk revival https://www.youtube.com/watch?v=DdBydkyUZrM .

Marco Verdi

*NDB Senza dimenticare, a proposito di “ricchi dilettanti”, il caso di Paul Allen, co-fondatore delle Microsoft e pure lui multimiliardario, a cui il disco glielo aveva addirittura pubblicato la Sony Legacy, con la partecipazione di nomi illustri, come vi avevo raccontato in questo Post di tre anni fa http://discoclub.myblog.it/2013/09/05/dal-rock-alla-microsoft-e-ritorno-con-calma-paul-allen-and-t/

Cantautrice Di “Culto” E Di Sostanza! Chris Pureka – Back In The Ring

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Chris Pureka – Back In The Ring – Sad Rabbit Records 

Anche Chris Pureka a livello discografico era ferma da parecchi anni: l’ultimo album (a parte un Live autogestito pubblicato nel 2012 e l’EP Chimera II dell’anno successivo) risale al 2010, How I Learned To Sing In The Dark, che a detta di molti era il suo migliore in assoluto http://discoclub.myblog.it/2010/11/01/tutto-vero-quello-che-si-dice-su-di-lei-chris-pureka-how-i-l/ . Proprio in quegli anni la Pureka si era trasferita a vivere a Portland, Oregon, dove aveva iniziato a scrivere le prime canzoni che poi avrebbero fatto parte del suo album successivo, tra cui la title-track Back In The Ring, che raccontava di conflitti, periodi bui e fine di relazioni, anche se col tempo gli angoli si sono smussati. Poi però nel panorama musicale attuale bisogna trovare i fondi per incidere gli album e anche Chris si è rivolta al sistema del crowdfunding attraverso Pledge Music per finanziare il nuovo album e grazie ai suoi fans ha potuto registrare quello che a chi scrive sembra un album molto interessante, autoprodotto da lei stessa La Pureka in passato è stata accostata, musicalmente, a gente come Patty Griffin, Neko Case, Dar Williams, i Cowboy Junkies (comunque tutte più brave, per essere onesti fino in fondo) quindi non solo una semplice folksinger acustica, ma una cantautrice dagli arrangiamenti ricchi e complessi, con una bella voce in grado di fare vivere le sue storie attraverso una musica molto raffinata ed intrigante, che la aveva fatta molto amare dallo scomparso promoter italiano Carlo Carlini.

Direi che questo album conferma quelle impressioni, dalla risonante chitarra elettrica che si schiude nelle prime note di Back In The Ring (la canzone) si capisce che ancora una volta siamo a bordo per un viaggio sonoro, dove le storie cupe e frammentate si accompagnano ad un tessuto sonoro ricco e sfaccettato, la voce avvolta in una leggera eco che la moltiplica, ma sempre con questa aria di vulnerabilità pur nel sicuro timbro sonoro della nostra amica. Le canzoni sono scritte quasi tutte attorno al suono di una chitarra elettrica, discreta ma quasi sempre presente, un po’ come è stato anche in tempi recenti per Laura Marling, lo strumento non prevarica mai il suono, ma è comunque una delle costanti dei brani, con tocchi di tastiere, una sezione ritmica discreta, comunque ben evidente, volendo c’è qualche similitudine con le band o i solisti che vengono dalla scena di Portland, penso a Laura Veirs o alle cose più quiete dei Decemberists, oltre naturalmente ai nomi citati prima: Holy è una folk song arricchita da una melodia melanconica, con un ritornello che si può persino canticchiare, in modo sommesso e la presenza dell’unico nome “celebre” Gregory Alan Isakov, alle armonie vocali https://www.youtube.com/watch?v=Vi-NpKTbSG4 , Betting On The Races è addirittura l’idea di una canzone pop nelle intenzioni della Pureka, un brano gentile me coinvolgente che può ricordare certe cose meno mainstream di Brandi Carlile (con cui condivide l’orientamento sessuale, anche se non è importante nell’ambito musicale).

Silent Movie ha un’urgenza elettrica, con le chitarre ben delineate e la voce più in primo piano che nel passato, per un sound quasi indie-rock, mentre Blind Man’s Waltz, fin dal titolo, potrebbe essere una canzone à la Cowboy Junkies, con le sue atmosfere sospese, la voce che si impenna leggermente ma poi rientra nel corpo della canzone, anche se l’approccio vocale è meno “sussurrato” rispetto a quello di Margo Timmins. Bell Jar ritorna all’approccio acustico e folk dei primi album, almeno nella parte iniziale, poi entrano una elettrica, la sezione ritmica e un violino lancinante (Max Voltage) e la canzone prende corpo, con Crossfire (The Matador) di nuovo sofferta e più ricca di grinta, che si avvolge intorno all’interpretazione vocale della Pureka, molto partecipe e intensa. Tinder, più oscura e misteriosa è forse la più folk del lotto, indie-folk ok, ma pur sempre prettamente acustica, ed anche Cabin Fever mi sembra si possa avvicinare di nuovo alla Brandi Carlile più intimista e raffinata. Pure in Midwest ricorre questo approccio del piano/forte, tipico della musica indie, con la musica che sale improvvisamente e poi si quieta, con picchi e valli continui che si alternano spesso, come è caratteristica comune anche nel resto dell’album, tra violini, chitarre acustiche, forse un cello o una viola (Nathan Crockett) che rivestono la voce della Pureka. A concludere il tutto Crossfire II (The Dirge), brano che , come altri, potrebbe avere punti di contatto anche con la musica e la vocalità di Sinead O’Connor, quella meno trasgressiva e più strutturata. Una buona prova per Chris Pureka che si conferma cantautrice di “culto” e sostanza, da tenere d’occhio e a portata di orecchio.

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: Piaceri Proibiti, Forse “Definitivi” E Pure Rari! Black Sabbath – The End

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Black Sabbath – The End – BS Productions CD

Nella sua magnanimità Bruno ogni tanto mi consente di deviare dal percorso abituale di questo blog e di trattare anche musicisti che potrebbero rientrare nella categoria “piaceri proibiti”: nel mio caso, oltre a Jeff Lynne di cui ho spesso parlato (a mia difesa devo però dire che il musicista inglese ha amicizie importanti), si tratta del classico hard rock anni settanta ed anche ottanta, con qualche puntata nell’heavy meno truce e, perché no, anche un po’ di sano AOR. Nel 2013 mi ero occupato di 13 http://discoclub.myblog.it/2013/06/09/ce-l-hanno-fatta-black-sabbath-13/ , l’attesissimo CD di reunion di ¾ del nucleo storico dei Black Sabbath (Ozzy Osbourne, Tony Iommi e Geezer Butler, dato che il batterista Bill Ward non aveva trovato l’accordo con gli ex compari – o, si dice, con la moglie/manager di Ozzy, Sharon – e fu sostituito da Brad Wilk in studio e da Tommy Clufetos dal vivo), e qualche mese dopo anche del live pubblicato a seguito della tournée, Gathering In Their Masses. Oggi invece colgo l’opportunità di scrivere due righe a proposito di questo particolare CD intitolato The End, pubblicato dal gruppo in concomitanza con quello che dovrebbe davvero essere il loro ultimo tour, e venduto esclusivamente ai concerti (anche se su Ebay si trovano diverse copie a prezzi non proprio popolari, ed altre più economiche ma di manifattura russa e quindi di dubbia legalità): il dischetto in questione, otto brani, include quattro outtakes tratte dalle sessions di 13 (prodotte da Rick Rubin) e mai pubblicate finora neppure nelle varie edizioni deluxe, e quattro pezzi sempre dallo stesso album ma in versione inedita dal vivo nel 2014-2015 (in Australia, Nuova Zelanda e Canada).

I quattro brani in studio sono di buon livello, a testimonianza che la reunion non avvenne solo per motivi pecuniari, in quanto i tre riuscirono a ritrovare almeno in parte la vecchia scintilla, riportando in auge un suono che negli anni settanta fu innovativo, eccome.

The End inizia con Season Of The Dead, che ha un intro tipico e potentissimo, con Iommi che inizia a riffare da par suo, la sezione ritmica è un macigno e Ozzy…fa Ozzy: più di sette minuti di puro Sabbath sound (ma tutti i pezzi in studio sono discretamente lunghi), un brano che non avrebbe sfigurato su 13. Cry All Night, cupa e minacciosa, rimanda al suono del loro famoso esordio del 1970, compresi gli usuali cambi di tempo e melodia, Iommi fa il fenomeno e Ozzy canta nel suo tipico modo, cioè seguendo con la voce i riff del chitarrista; la pressante Take Me Home sembra più un brano solista di Osbourne, ma si sente comunque che c’è Iommi alla sei corde, il suo fraseggio è una goduria (per gli appassionati, s’intende), e c’è anche spazio per un breve assolo di chitarra flamenco. La parte in studio termina con Isolated Man, un altro concentrato di potenza inaudita, ma dal punto di vista dello script poco più di un riempitivo di lusso; poi abbiamo come detto quattro brani dal vivo tratti sempre da 13: i due più conosciuti (God Is Dead? e End Of The Beginning, che ha più di una somiglianza con Black Sabbath, la canzone), la grandiosa Under The Sun, con Tony letteralmente scatenato, e la poderosa Age Of Reason.

Non so se a fine tour The End verrà pubblicato anche su larga scala, certo è che chi ha apprezzato 13 dovrebbe farci un (costoso) pensierino.

Marco Verdi

*NDB. Magari nell’ultima parte del tour, o subito dopo, verrà messo in circolazione di nuovo, per sancire “La Fine”!

Da Bob Seger Passando Per I Little Feat! Shaun Murphy – It Won’t Stop Raining

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Shaun Murphy – It Won’t Stop Raining – Vision Wall Records

Devo ammettere che ho sempre avuto negli anni una predilezione per le grandi voci rock-soul-blues femminili, e dopo Dana Fuchs e Susan Marshall (non dimenticando Beth Hart, Grace Potter, Ruthie Foster e molte altre), come promesso e “minacciato” pochi giorni fa, oggi parliamo di Shaun Murphy (da non confondere con un omonimo campione del mondo di biliardo, che oltre a tutto è pure un uomo). Di questa signora (e della sua storia, con dovizia di particolari), vi ha già parlato Bruno recensendo l’ottimo Live At Callahan’s Music Hall (11) http://discoclub.myblog.it/2011/11/16/e-proprio-lei-shaun-murphy-live-at-callahan-s-music-hall/ , a cui sono seguiti a breve distanza di tempo Ask For The Moon (12), Cry Of Love (13), Loretta (15), fino ad arrivare a questo nuovo lavoro It Won’t Stop Raining, per undici tracce che includono brani originali e una manciata di cover tutte di impronta blues, tutte registrate ai Colemine Studios di Nashville, con la produzione di tale TC. Davis, insieme a Randy Coleman al mixer come ingegnere del suono. Come sempre ad accompagnare Shaun in sala d’incisione è la sua attuale “Touring band”, composta da Tom DelRossi alla batteria, Larry Van Loon e John Wallum alle tastiere e John Marcus (Tim McGraw) al basso, Kenne Cramer (Dr.Hook), Shawn Starski (Otis Taylor) alle chitarre, con un suono vivace che fa quasi pensare di ascoltare un disco dal vivo, pur senza esserlo.

Il disco si apre con il ritmo “shuffle” di Spreadin’ The News, a cui fanno seguito il blues viscerale  di Your Husband Is Cheating… e Happy With The One I Got…, mentre con la title track It Won’t Stop Raining si viaggia verso la ballata ricca di atmosfere “soul”, per poi passare al ritmo febbrile di una indiavolata Running Out Of Time (con un bel lavoro delle chitarre), e ritornare di nuovo allo “shuffle” di Pays The Price Of Love e Hey Baby (Don’t You Remember Me), sotto l’impulso di batteria e tastiere. Con That’s How A Woman Loves (cover di un brano di EG. Kight, come Happy With The One), si ritorna alle tenere ballate del periodo Stax ((pezzo che sembra scritta apposta per essere cantato dalla magnifica voce della Murphy), poi bastano tre note della chitarra rovente di Kenne Cramer per identificare nel “soul-blues” di I Need Your Love So Bad  il brano migliore del lotto, passando ancora per il blues “roccioso” di una I Hate The Blues (But The Blues Sure Seems To Love Me), e terminare con ancora una canzone con le tastiere e la sezione ritmica in gran spolvero, Fool For You, ricordando sempre la primaria importanza della voce di Shaun.

Questo It Won’t Stop Raining canzone dopo canzone può diventare un acquisto quasi obbligato per gli amanti del Blues e delle belle voci, e permetterci di scoprire finalmente una grande cantante che dopo gli inizi come corista di Bob Seger (lo è tuttora, oltre a lavorare con numerosi altri artisti, ma prima ancora come Stoney & Meatloaf, lavorò alla Tamla Motown nel 1971 insieme al “Polpettone” pre-fama) è stata anche per oltre una quindicina d’anni (dal 1993 al 2009) la cantante dei grandi Little Feat https://www.youtube.com/watch?v=A2XyJD2N3m0 , prima di intraprendere una valida carriera parallela da solista, che la riporta alle sue influenze giovanili, iniziate con Big Mama Thorton e proseguite con Koko Taylor, Etta James, Sister Rosetta Tharpe (per citarne alcune), e rivaleggiare con loro in bravura.

In conclusione, per quanto riguarda i “fans” della Murphy sanno già cosa fare (anche se i CD non sono facili da reperire e piuttosto costosi), per tutti gli altri la meravigliosa voce di Shaun  può essere un valido motivo per andarsi a risentire i dischi di Bob Seger https://www.youtube.com/watch?v=9QrtSmaNjTo  e dei Little Feat e per avvicinarsi a questa signora puntualmente candidata agli equivalenti dei “Grammy” del Blues.

Tino Montanari