Al 9 Settembre The Beatles – Live At The Hollywood Bowl

beatles live at theollywood bowl

Beatles – Live At The Hollywood Bowl – Apple/Universal – CD 09-09-2016/ 2 LP 18-11-2016

Ripartono le grandi manovre delle case discografiche in vista del Natale (anche se mancano parecchi mesi cominciano a portarsi avanti con il lavoro): una delle prime uscite importanti sarà il 9 settembre, con l’uscita in CD del classico Live At The Hollywood Bowl dei Beatles. Il vinile originale fu pubblicato nel 1977 con la produzione di George Martin e riportava materiale registrato dal vivo e relativo ai tre concerti tenuti dal gruppo a Los Angeles, uno nel 1964 e due nel 1965, entrambi agli apici delle Beatlemania e quindi con la musica coperta dal rumore di quello che sembrava un jet in atterraggio sulla pista di un aeroporto, ma in effetti erano le urla dei fans e soprattutto delle fans della band. Questo è il vecchio album:

E pure il video è stato rimasterizzato varie volte…

beatles eight days a week

Ora esce questa nuova versione, più o meno in contemporanea all’uscita al cinema di The Beatles:Eight Days A Week – The Touring Years, il film con la regia di Ron Howard  che ripercorre la prima parte della carriera dei Beatles, dai tempi del Cavern Club di Liverpool fino all’ultimo concerto al Candlestick Park di San Francisco, nel 1966, ovviamente compresa l’esibizione all’Hollywood Bowl, di cui nel film però è inclusa solo Boys. Il film sarà nelle sale cinematografiche, In Italia, per sette giorni, a partire dal 15 settembre (e poi, presumo, in DVD e Blu-Ray, per il periodo natalizio).

Ma prima, il 9 settembre (e in seguito, il 18 novembre, il doppio vinile) uscirà in CD la versione dell’album targata 2016, con il nuovo remastering curato dal figlio di George (che aveva prodotto il disco originale). Giles Martin, che grazie alle ultime tecnologie, e soprattutto ad alcuni nastri multitraccia a tre piste scovati qualche anno fa negli archivi della Capitol americana, ha provveduto a creare un nuovo album di 17 pezzi, con quattro tracce inedite mai pubblicate prima, come si desume dalla tracklist completa dei contenuti:

Tracklist
1. “Twist and Shout” [August 30th, 1965]
2. “She’s A Woman” [August 30th, 1965]
3. “Dizzy Miss Lizzy” [August 30th, 1965 / August 29th, 1965 – one edit]
4. “Ticket to Ride” [August 29th, 1965]
5. “Can’t Buy Me Love” [August 30th, 1965]
6. “Things We Said Today” [August 23rd, 1964]
7. “Roll Over Beethoven” [August 23rd, 1964]
8. “Boys” [August 23rd, 1964]
9. “A Hard Day’s Night” [August 30th, 1965]
10. “Help!” [August 29th, 1965]
11. “All My Loving” [August 23rd, 1964]
12. “She Loves You” [August 23rd, 1964]
13. “Long Tall Sally” [August 23rd, 1964]
14. “You Can’t Do That” [August 23rd, 1964] *
15. “I Want To Hold Your Hand” [August 23rd, 1964] *
16. “Everybody’s Trying to Be My Baby” [August 30th, 1965] *

17. “Baby’s In Black” [August 30th, 1965] **

* previously unreleased
** previously available only on the “Real Love” single

Alla prossima, domani parliamo di Led Zeppelin.

Bruno Conti

Due Texani, Due Chitarre E Belle Canzoni! Randy Rogers & Wade Bowen – Watch This

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Randy Rogers & Wade Bowen – Watch This – Lil’ Buddy Toons CD

Randy Rogers e Dave Bowen, countrymen texani dal pelo duro, ci hanno preso gusto e, dopo l’ottimo album in duo Hold My Beer dello scorso anno, sono andati in tour: un tour che ha avuto un buon successo, con sale da concerto e dance halls (texane e non) stipate all’inverosimile, e Watch This, registrato a Dallas e San Marcos, è la testimonianza di quelle serate. A dire il vero anche Hold My Beer inizialmente doveva essere un live, ma poi i due, provando i brani nello studio di Lloyd Maines, si sono divertiti a tal punto che, canzone dopo canzone, hanno costruito un disco che è stato votato tra i migliori album di country made in Texas dello scorso anno; se in quel disco Rogers e Bowen avevano una band alle spalle, la tournée che ne è seguita li vedeva sul palco in perfetta solitudine, solo due voci e due chitarre, e Watch This, a parte un intervento all’armonica da parte di Kyle Wieters in West Texas Rain, li vede esibirsi in questa configurazione.

Ebbene, se qualcuno può (legittimamente) pensare che 19 canzoni per quasi un’ora e venti di musica completamente acustica possano alla lunga stancare, voglio rassicurare chi legge che non è affatto così: i due sono showmen consumati, conoscono il loro pubblico alla perfezione e sanno che cosa dargli, hanno un affiatamento perfetto e, last but not least, possiedono entrambi un songbook di tutto rispetto. I 19 brani sono divisi a metà tra canzoni di uno e dell’altro, nove a testa (più un breve ed esilarante divertissement, Whataburger, durante il quale i due si divertono ad improvvisare dei condimenti per un hamburger): non ci sono cover, e neppure un brano tratto da Hold My Beer, ma solo alcuni episodi salienti tratti dalle due rispettive carriere. E, come già accennato, il duo funziona: la musica è Texas country al 100%, tipiche ballate arse dal sole nella miglior tradizione del Lone Star State, ed i due amici sono anche intrattenitori provetti, scherzano, si prendono in giro, intervengono uno nel brano dell’altro, si interrompono a vicenda (come nella finale Saturday Night di Bowen, dove Rogers ad un certo punto si ferma per ben due volte per raccontare due divertenti aneddoti inerenti alla canzone che stanno suonando, per poi ricominciare ad armonizzare come se niente fosse).

Ma, cazzeggio a parte, Watch This è soprattutto musica, eseguita sì just for fun (ed i due si divertono davvero), ma quando suonano e cantano lo fanno in maniera decisamente seria e professionale, anche se lo spirito rimane conviviale: canzoni che più texane non si può (Kiss Me In The Dark, Who I Am, Interstate, Fuzzy, l’opening track Tonight’s Not The Night), brani tra il serio e l’ironico (la trascinante Songs About Trucks di Bowen), oppure ballate nella più pura tradizione di autori come Townes Van Zandt e Guy Clark (West Texas Rain, bellissima); ma il disco va preso nel suo insieme, non c’è una sola canzone da buttare o che non valga la pena ascoltare e, credetemi, al quarto o quinto brano non vi accorgerete neppure più dell’assenza di una band. Due amici, due chitarre, un pubblico caldo e preparato, belle canzoni, humour e tanto feeling: questo (e anche di più) è Watch This.

Marco Verdi

Dite La Verità, Eravate Un Po’ Preoccupati ! Jerry Garcia & Merl Saunders – Garcia Live Vol. 6: Lion’s Share

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Jerry Garcia & Merl Saunders – Garcia Live Vol. 6: Lion’s Share, July 5th 1973 – ATO Records 3CD

Dite la verità, eravate preoccupati che da un po’ di tempo non ci si occupava dei Grateful Dead? Eccovi serviti: è infatti uscito da qualche settimana il sesto volume della serie Garcia Live, dedicato ai migliori concerti dell’ex leader del leggendario gruppo di San Francisco, Jerry Garcia, una collana di pubblicazioni che ha sostituito la precedente, denominata Pure Jerry (ma anche i Dead stanno per pubblicare l’ennesimo Dave’s Picks). Questa volta ci si è rivolti ad un concerto del 1973, annata molto attiva per il nostro, insieme al tastierista Merl Saunders, una serata tenutasi al Lion’s Share  (un piccolo club di San Anselmo, nella Bay Area) poco tempo prima dei mitici concerti che avrebbero poi dato vita al famoso Live At Keystone. La formazione è la stessa, con Jerry e Merl accompagnati dal fido John Kahn al basso e Bill Vitt alla batteria, ai quali nella seconda parte dell’esibizione si aggiungerà (ma, come vedremo, potevano anche farne a meno) un trombettista indicato sul libretto come “Mystery Guest”, ma che dovrebbe essere Martin Fierro, dato che poi si occuperà del medesimo strumento nei Legion Of Mary, futura backing band del Garcia solista. Il triplo CD, che presenta un suono decisamente spettacolare (come se fosse stato inciso la settimana scorsa) vede i due leader (ma Jerry lo è di più) spaziare come di consueto dal rock al blues all’errebi, fino al jazz ed alla jam pura, con brani al solito lunghi e dilatati, perlopiù cover di pezzi famosi ma anche oscuri, dato che Garcia senza i Dead amava sperimentare ed occuparsi ben raramente di canzoni scritte da lui.

La performance è scintillante, addirittura fantasmagorica nelle parti strumentali, con Jerry in forma assolutamente strepitosa e Saunders non da meno quando piazza le mani sui tasti dell’organo, lunghi brani suonati in maniera calda e liquida, che hanno l’unico tallone d’Achille nelle parti vocali; Garcia infatti, si sa, non è mai stato un grandissimo cantante, ma a seconda delle serate riusciva anche a cavarsela egregiamente: qui invece fa parecchia fatica, le stonature sono sempre in agguato, e Jerry questo lo capisce e cerca di non forzare più di tanto, con il risultato che le parti cantate abbassano di parecchio la tensione che si viene a creare quando il gruppo si limita a suonare. Altro tasto dolente, la presenza nella seconda metà del concerto di Fierro (o chi per esso), che con la sua tromba invadente e spesso fuori posto,  a mio parere, c’entra poco con il suono generale del quartetto, finisce per rischiare di rovinare delle parti strumentali che, con un cantante più in forma, avrebbero reso questo sesto volume uno dei più belli della serie. Ma anche così direi che l’acquisto può essere pienamente giustificato, in quanto di cantato complessivo non c’è poi molto, e lo stato di forma “chitarristico” di Garcia da solo può valere la spesa.

Il primo CD si apre con la nota After Midnight di J.J. Cale, più lenta di come la faceva Clapton e più nello stile del suo autore, e già si capisce che la serata è di quelle giuste, con Jerry che rilascia subito un assolo dei suoi, ben assecondato dall’organo “caldo” di Saunders, relegando quasi le strofe cantate ad un intermezzo obbligato. Someday Baby è un blues di Sam Hopkins (che Bob Dylan ha pubblicato su Modern Times cambiando solo qualche parola e firmandolo come suo), anch’esso rallentato, quasi spogliato delle sue caratteristiche originarie, ma con un’altra performance super del barbuto chitarrista, che riesce a far sua la canzone al 100%; She’s Got Charisma è un pezzo originale di Saunders, l’inizio è quasi bluesato, ma ben presto si trasforma in una sontuosa jam strumentale dove Jerry e Merl si affrontano ad armi pari, con momenti di psichedelia pura, diciotto minuti di godimento, che confluiscono in una That’s Alright Mama che di minuti ne dura tredici, in cui il noto successo scritto da Arthur Crudup (ma reso immortale da Elvis Presley) è solo un pretesto per le formidabili evoluzioni di Jerry. Il secondo dischetto si apre ancora con un brano di Merl, The System, un pezzo che non è certo un capolavoro (e Saunders come cantante non se la cava molto meglio di Jerry), ma l’abilità dei nostri nel trasformare in oro anche canzoni minori è impressionante, altri diciotto minuti di sballo strumentale. Il primo set di chiude con una concisa rilettura (“solo” sei minuti) di The Night They Drove Old Dixie Down di The Band, una delle grandi canzoni della nostra musica che nelle mani di Garcia e soci non può che scintillare luminosa, anche se Levon Helm la cantava cento volte meglio.

Dopo un break i nostri tornano sul palco insieme a Fierro (che si tratterrà fino alla fine), un’aggiunta che nelle intenzioni avrebbe dovuto dare più colore al suono, anche se a mio parere non ce n’era bisogno: I Second That Emotion (Smokey Robinson) è in versione decisamente calda e piena di ritmo, un suono corposo e denso e solita grande chitarra, mentre il classico di Rodgers & Hart My Funny Valentine è una scusa per altri venti minuti di suoni in totale libertà, al limite del free jazz, ma poi Jerry prende il sopravvento e stende tutti come al solito, anche se l’invadenza della tromba dopo un po’ diventa palese, mentre le cose vanno meglio con la più sintetica (ma sono pur sempre nove minuti) Finders Keepers, un classico nei concerti di Jerry e Merl (è dei Chairman Of The Board), con Jerry che sfodera un’altra prestazione da manuale in un brano che, se “de-trombizzato”, sarebbe stata ancora migliore. Il terzo CD inizia con l’ottima Money Honey di Jesse Stone, purtroppo inficiata dalla prova vocale insufficiente di Jerry, anche se la parte strumentale è come al solito sublime; Like A Road è una ballata delle meno note tra quelle scritte da Dan Penn (nello specifico insieme a Don Nix), un brano molto soulful e vibrante, anche per merito dell’organo, suonato con grande classe e pathos e cantato anche abbastanza bene (e la tromba qui tace). Poi, altri 27 minuti di jam che partono con un’improvvisazione chiamata Merl’s Tune, in cui si alternano momenti fantastici ad altri più cerebrali, e dove purtroppo Fierro fa il bello ed il cattivo tempo, per finire con la sempre splendida How Sweet It Is (To Be Loved By You) di Marvin Gaye, che Jerry ha spesso usato per chiudere i suoi concerti.

Un live dunque strumentalmente ineccepibile, con diversi momenti di pura poesia sonora, ma anche qualche difettuccio qua e là, che per fortuna però non compromette il giudizio finale che rimane assolutamente positivo.

Marco Verdi

Henry McCullough – Hell Of A Record: Un “Ultimo” Ricordo, A Seguito Della Sua Recente Scomparsa!

henry mccullough

Henry McCullough  – Hell Of A Record – Silverwolf Music         

Henry McCullough è stato uno dei nomi storici del pop e del rock britannico, nato nell’Irlanda del Nord nel 1943: prima negli anni ’60 con gli Eire Apparent, una band di buono spessore che aveva lo stesso management di Jimi Hendrix, con il quale furono spesso in tour https://www.youtube.com/watch?v=338eGI8y2pc . Ma poi si è ritagliato uno spazio nella musica che conta come membro della Grease Band, il gruppo che accompagnò Joe Cocker nei suoi anni migliori (esibizione di Woodstock inclusa) e di cui fu la chitarra solista anche nell’omonimo album del 1971 https://www.youtube.com/watch?v=7WMLRuSyWBg . Nel 1972 entrò a far parte dei Wings di Paul McCartney, con cui aveva già collaborato all’album Ram, e rimase solo per Red Rose Speedway (suo l’assolo di My Love), il disco del 1973 https://www.youtube.com/watch?v=InoG6rhZZRE .

Poi negli anni ’70 una onesta carriera da sessionmen, con la punta della partecipazione all’album The Rock di Frankie Miller (una occasione per ricordare anche questo grande e sfortunato cantante, da tempo malato, https://www.youtube.com/watch?v=GpRg88VUbE8 e nello stesso anno, il 1975, il suo primo album solista, Mind Your Own Business, bissato nel 1984 da questo Hell Of A Record, distribuito brevemente anche in CD dalla etichetta Line, e in seguito alcuni altri album a nome proprio, fino al 2012, quando è stato colpito da un infarto che lo ha lasciato da allora incapace di lavorare, e anche dato per morto dalla televisione irlandese. Purtroppo il 14 giugno scorso ci ha lasciato anche lui.

Ammetto di non conoscere molto della Silverwolf Music che ha ristampato questo CD, con delle note assai scarne che riportano solo i nomi dei musicisti e i titoli dei brani e relativi autori: comunque il disco è piacevole ma nulla più, una serie di brani firmati dallo stesso Henry McCullough, che suona la chitarra, il mandolino e canta, più alcune cover, un paio di brani country, uno di Hank Williams e uno degli Shelton Brothers, oltre ad una versione reggae/country (giuro) di Can’t Help Falling In Love che non entrerà negli annali della musica che conta, con una pedal steel (Troy Klontz) molto in evidenza https://www.youtube.com/watch?v=iq3HkJlqdAc . Diciamo che il genere, a grandi linee è country, forse potrebbe rientrare nel pub-rock (ma Brinsley Schwarz e soci sono stati su ben altri livelli).

Per quanto un brano come Shining Star, con il violino di Shelby Eicher in primo piano assieme all’organo di Dick Simms e all’acustica di Henry, ha un suo fascino di country “straccione” e minimale, anche se i coretti femminili te li raccomando. Per il resto Here We Go Again sembra un pezzo di Albert Lee, Tears On Your Face ha qualche eco della vecchia Grease Band, misto a JJ Cale, e sempre quel tocco country, ma la voce, per usare un eufemismo, non è particolarmente memorabile, Whispering Love e Down In The Amusements profumano appena di pub-rock, mentre Foolish Heart, fosse stata cantata dal suo vecchio datore di Joe Cocker forse avrebbe fatto un altro effetto. Too Upset To Say Goodbye è un valzerone country di nuovo con uso di pedal steel e fiddle e in Just Because con McCullough al mandolino si cerca di ricreare, senza troppo successo, il sound dei vecchi Heads, Hands & Feet. In definitiva sarebbe un CD da due stellette ma per rispetto di una onorata carriera ne andrebbe aggiunta una di stima, ma il disco non è memorabile comunque, ha fatto di meglio nella sua carriera.

Bruno Conti

Pure In Michigan Sanno Fare Del Sano Country! Frankie Ballard – El Rio

frankie ballard el rio

Frankie Ballard – El Rio – Warner Nashville CD

Countryman originario del Michigan, terra di rockers più che di cowboys, Frankie Ballard è da anni emigrato a Nashville, ma si è subito sistemato dalla parte giusta della città, sfruttando abilmente anche connessioni non proprio impeccabili, come i Lady Antebellum, con i quali è andato in tour per farsi conoscere meglio: ed i risultati si sono visti, dato che il suo secondo album del 2014, Sunshine & Whiskey (che seguiva di tre anni il debutto, Frankie Ballard) è riuscito ad entrare nella Top 5 country. Tutto questo non certo a discapito della qualità, come dimostra il suo terzo lavoro, El Rio, destinato a proseguire il cammino del suo fortunato predecessore: Ballard è un countryman dal pelo duro, che affronta le canzoni con piglio da rocker, mettendosi alla testa di un combo ridotto ma solido, formato da Rob McNelley alle chitarre, Sean Hurley al basso, Aaron Sterling alla batteria e Tim Lauer alle tastiere. Niente violini e steel quindi (che pure sarebbero bene accetti), ma strumentazione classica per un suono forte, diretto e limpido (anche nelle ballate), al servizio della voce leggermente arrochita del nostro: le ciliegine sulla torta sono la produzione professionale di Marshall Altman (Amy Grant, Marc Broussard), che dona al disco un suono adatto alle radio ma senza annacquarlo troppo con derive pop, ed uno stuolo di rinomati songwriter che collaborano con Frankie alla stesura delle canzoni: Chris Stapleton su tutti, ma anche Craig Wiseman, Mando Saenz e Chris Janson.

El Camino dà il via al disco in maniera superlativa, un rockin’ country irresistibile, gran ritmo, melodia contagiosa, chitarre roboanti e ottimo ritornello, insomma quanto di meglio possa offrire un brano di questo tipo (è il primo dei due pezzi in cui è coinvolto Stapleton, e si sente) https://www.youtube.com/watch?v=tsbF4-IGr0s . Cigarette è un brano meno country e più rock, ben arrangiato e con la voce grintosa del nostro a dare il tocco in più https://www.youtube.com/watch?v=8xfBW3s5p5E ; Waste Some Of Mine è una solida ballata, ancora arrangiata in maniera diretta e piuttosto roccata, con un refrain fluido e ritmica sciolta, mentre Little Bit Of Both è un country-blues cadenzato  dal feeling decisamente sudista, maschia, grintosa e con gran lavoro di chitarra.

L.A. Woman (non è quella dei Doors) ha un suggestivo intro strumentale che rimanda a rockers come Tom Petty, e pure il resto del brano si difende alla grande, un trascinante rock’n’roll che di Nashville non ha nulla; It All Started With A Beer è per contro un ottimo slow, vibrante e con un motivo che cresce ascolto dopo ascolto, ma Sweet Time riporta subito il CD su territori più rock, una solida ballata senza sbavature e con un bel ritornello corale che la potrebbe anche proiettare in alto nelle classifiche. Good As Gold è rock allo stato puro, basta sentire la chitarra come ricama sullo sfondo, mentre Southern Side fonde mirabilmente un suono ruspante con un ritmo alla Little Feat, si potrebbe dire country-funk? https://www.youtube.com/watch?v=mUrcpIWdQ2M  Se sei del Michigan e fai musica non puoi prescindere dalla figura di Bob Seger, e qui troviamo uno scintillante omaggio al barbuto rocker con una bella rilettura di You’ll Accomp’ny Me, che mantiene il mood dei brani di Bob aggiungendo un sapore country-rock che mancava all’originale; il CD si chiude con You Could’ve Loved Me, uno slow elettroacustico intenso e toccante https://www.youtube.com/watch?v=4wQIXGTCquU , degno finale per un disco di buon valore che secondo me riesce nel non facile compito di accontentare un ampio spettro di ascoltatori.

Marco Verdi

Vecchi Concerti Sudisti… Blackfoot – The Classic Broadcasts Chicago 1980 & Hollywood 1983

blackfoot chicago 1980 & hollywood 1983

Blackfoot – The Classic Broadcasts Chicago 1980 & Hollywood 1983 – Smokin’ Records    

I Blackfoot, assieme a Molly Hatchet e 38 Special, hanno sempre rappresentato il lato più “duro” del southern rock, quello dove gli elementi country sono quasi assenti, a favore di una impronta più blues-rock, pronta a sfociare in un heavy rock di maniera, soprattutto nelle fasi finali della loro carriera. Ma la band di Jacksonville, Florida è stata tra le prime a spargere il seme del buon rock sudista, quando si chiamavano ancora Fresh Garbage (un nome profetico e un omaggio agli Spirit) e Hammer, Rickey Medlocke e Greg T. Walker, i due membri fondatori, erano più orientati appunto verso un rock-blues cattivo e poderoso, accantonato quando i due vennero invitati ad entrare in una delle prime versioni dei Lynyrd Skynyrd (band nella quale Medlocke milita tuttora), ma poi nel 1974 la band viene lanciata definitivamente ed esordiscono discograficamente con l’ottimo No Reservations nel 1975, bissato nel 1976 dall’altrettanto buono Flyin’ High, e dopo una parentesi in cui fanno da backing band alla cantante Ruby Starr del giro Black Oak Arkansas, finalmente nel 1979, con il passaggio alla Atlantic arriva il grande successo con Strikes (pur arrivando solo al 42° posto delle classifiche, il disco vendette oltre un milione di copie, ma erano altri tempi); forse anche il loro miglior disco in assoluto, nel 1980 esce Tomcattin’, seguito da album ancora di buon livello qualitativo come Marauder, il disco dal vivo Highway Song Live e Siogo del 1983, dove però il lato più hard della band viene evidenziato dall’ingresso in formazione del tastierista degli Uriah Heep Ken Hensley.

E proprio questi anni sono quelli evidenziati nei due broadcast radiofonici presentati dalla King Biscuit Hour. Il primo concerto è registrato a Chicago nel marzo del 1980, nel tour per promuovere il disco Tomcattin’, e nei brani illustra i due lati della band: quello southern-boogie dell’eccellente apertura, con la dura e tirata Gimme Gimme Gimme, dove Medlocke mette in evidenza la sua perizia alla slide e quello più vicino al rock di band come gli Spirit (non per nulla ad inizio carriera, come detto prima, si chiamavano Fresh Garbage) di cui riprendono il super classico I Got A Line On You, in una versione energica e grintosa (forse perfino troppo) dove il classico riff del brano viene rivisitato dalle twin guitars di Medlocke e dell’altro chitarrista Charlie Hargrett, ma anche il classico blues-rock dei grandi Free in una poderosa Wishing Well, dove basso e batteria pestano di brutto e le chitarre ruggiscono, la voce urla e strepita, ma grazie all’ottima registrazione gli amanti del rock classico avranno di che gioire. Every Man Should Know (Queenie) (ancora anticipatrice dell’imminente Tomcattin’) è sempre duretta anziché no, come pure la granitica Road Fever dove sembra di ascoltare gente come i Mountain o Ted Nugent, o la lunga e bluesata cover di Trouble In Mind, un pezzo che vanta decine di versioni, una presente anche nella ristampa deluxe di Led Zeppelin II.

Diciamo che la raffinatezza non rientrava (e non rientra) nel credo della band e quindi picchiano sempre come fabbri ferrai, ma siamo ancora in limiti accettabili e poi nella splendida Highway Song finalmente dispiegano le loro radici southern in un brano che illustra i lati migliori del genere. E per aprire il concerto del 1983 (o chiudere quello del 1980, non è chiaro, perché il libretto del CD riporta 16 brani, ma il CD ne riporta 15) Rattlesnake Rock’n’Roller che uscirà su Marauder il disco del 1981, è ancora southern boogie rozzo e crudo, ma efficace, grazie all’interplay ruvido delle due chitarre, seguito da un’altra versione di Wishing Well, con le tastiere aggiunte di Hensley, un pezzo molto rock FM come pure Teenage Idol, dove le tastiere si contendono lo spazio con le chitarre, ma il suono peggiora e vira verso il tamarro; leggermente meglio Train, Train, decisamente più “bluesy” ed introdotta dall’armonica (nell’originale era suonata dal babbo di Rickey, Shorty Medlocke) ma sempre appesantita dal cantato esagerato del leader. Easy Livin’ è il pezzo degli Uriah Heep, classico hard rock affidato a Hensley. Ancora una versione chilometrica, oltre dieci minuti, di Highway Song, per risollevare le sorti (magari un disco con sette o otto versioni del brano sarebbe stato perfetto, ancorché un filo noioso). On The Run, di nuovo boogie-rock tiratissimo, viene da Tomcattin’ e la conclusiva Fly Away, sempre ad alto contenuto di riff, di nuovo  da Marauder. Insomma concerto non imprescindibile, ma neppure disprezzabile, se amate il genere.

Btuno Conti                                                                                                                        

Maren Morris – Hero. Molto Brava Nonostante I Suoni Moderni

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Maren Morris – Hero – Columbia Nashville/Sony CD

Maren Morris è una giovane texana di soli 26 anni, ma con già tre album ed un EP alle spalle e un passato di bambina prodigio. Ha infatti esordito nel 2005 (quindi all’età di 15 anni) con Walk On, cui hanno fatto seguito Maren nel 2007 e Live Wire nel 2011, tre dischi, oggi abbastanza difficili da trovare, che hanno dato modo alla Morris di farsi notare e di strappare un contratto con una major, e che major. Infatti Hero, album nuovo di zecca di Maren, esce per la prestigiosa Columbia, e si può tranquillamente considerare il suo esordio vero e proprio; e la famosa label le ha messo a disposizione gli studi di Nashville, uno stuolo impressionante di sessionmen (molti turnisti di studio, ma anche nomi come John Osborne dei Brothers Osborne, l’ex batterista dei Wallflowers Fred Eltringham e le McCrary Sisters ai cori) e due giovani ma capaci produttori, Brad Hill e Mike Busbee. Devo dire che inizialmente ero un po’ prevenuto, in quanto spesso compiere il grande passo ed andare ad incidere a Nashville compromette la qualità della musica proposta, ed i dubbi si sono ingigantiti quando ho visto che tra i vari strumentisti, molti si occupavano di sintetizzatori e programming, due parole che hanno poco a che fare con la buona musica (e molto ha contribuito la mia recente scottatura con il pessimo Ripcord di Keith Urban): al primo ascolto di Hero però (e aggiungerei per fortuna) le mie incertezze sono sparite, in quanto mi sono trovato di fronte ad una musicista che sa il fatto suo, in possesso di una voce grintosa e rock nonostante l’aspetto fisico esile, che sa dosare i suoni ed usarli in maniera moderna ma nello stesso tempo intelligente, dando vita ad undici canzoni di sano country-rock con qualche saltuario sconfinamento nel pop, il tutto però all’insegna della musica di qualità che ha le caratteristiche sia di poter piacere agli intenditori che di entrare in classifica.

E, dulcis in fundo, Maren scrive tutte le canzoni, dando dimostrazione di una maturità superiore a quella che di solito si ha alla sua età. Sugar apre bene il CD, un brano dalla strumentazione “ricca” ma con tutto al posto giusto (se anche c’è un synth non si sente), Maren canta con grinta ed il refrain è decisamente orecchiabile ed adatto anche alle radio di settore. Rich è più roccata, ma sempre gradevole e con i suoni moderni usati con intelligenza, un brano fluido e disteso e con un altro ritornello ben costruito, un riuscito compromesso tra arte e commercio; My Church è il piccolo capolavoro del disco, un irresistibile country-gospel moderno, con una melodia splendida, una bella slide sullo sfondo ed un mood trascinante: è il primo singolo, ed è una scelta perfetta, dopo solo un paio di ascolti non ve la leverete più dalla testa.

I Could Use A Love Song è una limpida ballata, diretta ed arrangiata con gusto e bravura, sono stupito dalla disinvoltura della ragazza; 80’s Mercedes, dalla ritmica pulsante, è ancora avvolta da un big sound e ha un gusto più pop, ma non sfigura affatto e anzi si pone tra le più immediate, mentre Drunk Girls Don’t Cry (bel titolo) mi piace meno, anche se non ha niente che non vada, la considero solo meno riuscita nello script. Per contro How It’s Done, che ha un attacco decisamente moderno, ha un motivo avvolgente e si lascia ascoltare con piacere, ed ancora meglio è la saltellante. Just Another Thing, più pop che country, ma suonata ed arrangiata con molta misura, e Maren si dimostra ancora una volta brava a scrivere refrain semplici ma immediati. La chitarristica I Wish I Was cambia registro, e dona al disco un sapore country-got-soul, risultando una delle più riuscite, con la Morris che vocalmente regge bene anche in un contesto diverso; il CD si chiude con Second Wind, una ballata liquida e piena d’atmosfera, e con la solida Once, ancora dal leggero retrogusto soul che si sposa benissimo con la strumentazione attuale ma che rimanda ad un suono d’altri tempi.

Hero è la chiara dimostrazione che, quando si ha talento, misura e gusto, si possono anche usare sonorità moderne e fare ugualmente un bel disco.

Marco Verdi

Jeff Beck – Loud Hailer. Le Chitarre Bene, Il Resto un Po’ Meno!

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Jeff Beck – Loud Hailer – Atco/Rhino/Warner

Jeff Beck, nonostante l’improbabile colore nero corvino della capigliatura (per la tinta probabilmente va dallo stesso parrucchiere di Bobby Solo, Silvio Berlusconi e da cui andava il collega Jimmy Page) quest’anno a giugno ha compiuto 72 anni, ad agosto, dopo un tour con Buddy Guy, festeggerà all’Hollywood Bowl con un concerto 50 anni di carriera: anche se avendo iniziato nel 1963 con i Tridents o al limite nel 1965 con gli Yardbirds, l’anniversario, come sempre, è molto opinabile. Quello che è certo è che Beck è uno dei più grandi chitarristi del rock, innovatore, ma anche appassionato del R&R delle origini (e di moto, le sue due passioni), questo dualismo lo rende uno dei solisti più imprevedibili a livello strumentale da sempre. Più prevedibile, purtroppo, da parecchi anni a questa parte, è la qualità dei suoi album: dopo un buon Emotion & Commotion uscito 6 anni fa nel 2010 http://discoclub.myblog.it/2010/03/25/un-fenomeno-di-65-anni-coi-capelli-neri-corvini-jeff-beck-em/ , di cui vi avevo parlato su queste pagine, seguito di dischi veramente bruttarelli come Jeff e You Had It Coming (entrambi vincitori di premi Grammy, a dimostrazione della non grandissima attendibilità di quel riconoscimento, comunque per la cronaca ne ha vinti 8), ma anche di ottimi live come quello dedicato a Les Paul insieme alla band di Imelda Day e al Live+ dello scorso anno http://discoclub.myblog.it/2015/05/27/il-chitarrista-la-c-maiuscola-jeff-beck-live/ .

Proprio il disco del 2015, nei due brani nuovi presenti, aveva evidenziato i soliti “problemi”, almeno per chi scrive, della sua musica nel nuovo secolo: squarci di puro rumore chitarristico su ritmi tra l’elettronico e il pomposo all’eccesso, utilizzo di giovani vocalist femminili sconosciute (Veronica Bellino?!) e canzoni che cercano di sorprendere l’ascoltatore, ma spesso sfondano solo i timpani. Non sempre, lo ammetto, e non in tutti i brani, anzi: Jeck Beck ha utilizzato anche l’ottima Imelda Day appena citata, o Joss Stone, per non parlare del veterano Jimmy Hall,  ex Wet Willie, nell’ultimo tour, o la scoperta della prodigiosa e giovanissima bassista Tal Wilkenfeld,  ma per questo nuovo album, alla spasmodica ricerca di giovani talenti che ne aumentino l’appeal verso le ultime generazioni, il nostro “si accoppia” con la cantante Rosie Bones e la chitarrista Carmen Vandenberg, entrambe londinesi e provenienti dalla band Bones, a suo dire scoperte ai loro spettacoli e quindi sul campo, e non uscite da improbabili talent, parole sacrosante. Ma se poi, oltre a loro, si affida anche alla produzione del giovane italiano Filippo Cimatti, anche a tastiere e all’elettronica aggiunta, che porta con sé la sua sezione ritmica di Davide Sollazzi e Giovanni Pallotti, non c’è da stupirsi se il risultato è sì “moderno” nei suoni e al passo con i tempi, ma quanto ad innovativo e di qualità c’è da discutere.

Sintomatico è un brano come O.L.L (Can’t Get Enough Of That Sticky), un pezzo funky-dance pasticciato posto quasi alla fine del CD, che probabilmente anche Bruno Mars e Pharrell Wlliams avrebbero scartato per la scarsa qualità, chitarra slide di Beck esclusa. Per fortuna non tutto il disco è così: la fusione tra ritmi moderni, voci distorte (quella della Bones lo è spesso e volentieri) e le folate chitarristiche del nostro, a tratti funziona, come nell’inziale, pur esagerata, The Revolution Will Be Televised, dove un ritmo marziale viene accoppiato alle sonorità incredibili della chitarra di Beck, per una sorta di brano futuribile del XXI secolo, o nella dura In The Dark, sempre contaminata da sonorità fastidiose e pure un poco pacchiane, con la chitarra che comunque si salva sempre. Pull It è uno dei due strumentali dove Jeff Beck rivolta la sua solista come un calzino, anche esagerando, ma ragazzi suona, mentre Thugs Club è un funky-rock, sempre firmato con la Bones, onesto ma non memorabile.

Meglio Scared For The Children, che, come altri brani presenti in questo album, tratta nel testo di tematiche legate a questi difficili tempi che stiamo vivendo, e lo fa attraverso una onesta ballata, dove la voce della Bones per una volta non è filtrata e le evoluzioni della chitarra di Beck sono più liriche che acrobatiche, con il solito assolo fenomenale. In Right Now Jeff sfodera un wah-wah hendrixiano tipo Band Of Gypsys, ma la solita voce filtrata irrita; Shame, con le sue sonorità riflessive, un ritmo vagamente soul e la voce non filtrata della Bones che nel timbro assomiglia a Cyndi Lauper, nel sound della chitarra ricorda quel Roy Buchanan tanto amato da Beck  , “citato” anche nel breve strumentale Edna. Rimangono The Ballad Of The Jersey Wives, un altro mid-tempo vagamente minaccioso, sempre sostenuto dai virtuosismi di Jeff che sorreggono un certo vuoto di idee https://www.youtube.com/watch?v=JZEutc2g6Ko . Di O.L.L. abbiamo detto, ma la sorpresa, piacevole, è la ballata conclusiva, una Shrine che ricorda molto le atmosfere sospese di certi brani di Jeff Buckley, tipo la sua versione di Hallelujah, che viene evocata nelle melodie di questo brano (quasi ai limiti del plagio) nobilitato da un lavoro di fino della solista di Jeff Beck che è sempre un maestro nell’uso della sua chitarra ed in fondo è il motivo per cui si comprano i suoi album. Esce oggi 15 luglio.

Bruno Conti  

“Reale Fratellanza Sudista”, Versione II Capitolo Secondo. Royal Southern Brotherhood – The Royal Gospel

royal southern brotherhood - royal gospel

Royal Southern Brotherhood – The Royal Gospel – Ruf Records                   

Questo è il secondo capitolo in studio della versione Mark II della “Reale Fratellanza Sudista”: rispetto al disco precedente Don’t Look Back, uscito lo scorso anno http://discoclub.myblog.it/2015/05/14/cambia-la-fratellanza-parrebbe-meglio-royal-southern-brotherhood-dont-look-back/ , c’è stato un ennesimo cambiamento nella formazione, Darrell Phillips ha sostituito al basso il membro originale Charlie Wooten, dopo gli avvicendamenti avvenuti tra il 2014 e il 2015, quando Bart Walker e Tyrone Vaughan erano subentrati a Devon Allman e Mike Zito, lasciando solo Cyril Neville e Yonrico Scott dei musicisti presenti nel primo album. Diciamo che anche questo album di studio (pur segnalando ulteriori passi avanti, già evidenziati nel precedente CD) è comunque inferiore alla dirompente potenza che i Royal Southern Brotherhood sono in grado di esprimere nei loro concerti dal vivo, come evidenziato dallo splendido CD/DVD della serie Songs From The Road. Come si usa dire, The Royal Gospel cresce dopo ripetuti ascolti, e anche se la produzione di David Z (come del suo predecessore Jim Gaines) continua a non soddisfarmi del tutto, ci sono parecchi brani sopra la media in questo quarto album della band sudista. Intanto il disco è stato registrato in presa diretta, in sette giorni, a New Orleans ai Dockside Studios nel febbraio di quest’anno e si sente (sia come locations che come freschezza nell’approccio); come si sente la presenza del membro aggiunto Norman Caesar, alle tastiere e in particolare all’organo Hammond B3, che aggiunge profondità e tocchi gospel soul al suono del gruppo, e poi anche le canzoni, spesso firmate collettivamente, hanno una maggiore compattezza e spessore, pur puntando comunque più sui grooves e le soluzioni ritmico-soliste che sulla melodia, ma a lungo andare, devo dire, piacciono.

Peraltro lo spirito delle “famiglie del Sud” vive sempre nella band, se Cyril Neville rappresenta appunto il lato gumbo soul dei Neville Brothers, Tyrone Vaughan (figlio di Jimmie e quindi nipote di Stevie Ray) rimpiazza lo spirito rock della famiglia Allman, che era detenuto da Devon. Probabilmente Vaughan e Walker, pur essendo fior di strumentisti, sono inferiori a Walker e Zito, ma si amalgamano meglio nel tessuto sonoro d’insieme, e i loro strumenti sono spesso e volentieri in primo piano. Come si evince dalla prorompente scarica di energia rock della iniziale Where There’s Smoke There’s Fire, un pezzo firmato da Neville e Vaughan che brilla per il lavoro delle due chitarre, sia solistico che di tessitura, quanto per gli intrecci vocali, anche se la produzione di David Z al solito è fin troppo carica, comunque partenza eccellente https://www.youtube.com/watch?v=dxN5D8_Adr0 . I’ve Seen Enough To Know ha dei tratti sonori decisamente più gospel-soul, reminiscenti del sound dei Neville Brothers, anche se un filo troppo “leccati”, ma il tocco dell’organo, le percussioni di Cyril e il lavoro ritmico sono decisamente raffinati https://www.youtube.com/watch?v=Hh6iblzzmdA , ma è in Blood Is Thicker Than Water che i due mondi si fondono alla perfezione, il tocco santaneggiante delle chitarre, il groove figlio della Louisiana dei migliori Neville, tra soul, R&B e funky, qualche inserto caraibico, con Walker e Neville che sono le due guide vocali, e gli inserti blues-rock delle due soliste sono fulminanti.

I Wonder Why accentua gli elementi blues, ma anche quelli gospel, con il classico call and response che si inserisce in un crescendo di intensità, e anche I’m Coming Home mantiene questo spirito grintoso, tra il ritmo marziale della batteria, i soliti interventi mirati delle due chitarre, sempre pronte alla bisogna e l’organo che scivola languido sullo sfondo. Everybody’s Pays Some Dues è ancora più sbilanciata sul lato blues, sempre però con quello spirito funky presente nel brano, e le chitarre fanno sempre la differenza, come nei concerti dal vivo; Face Of Love è la prima ballata dell’album, introdotta da un bel arpeggio di acustica, poi si sviluppa in un notevole crescendo, cantato con voce melliflua da un ispirato Cyril Neville, che si conferma vocalist di tutto rispetto. Land Of Broken Hearts torna al southern rock del brano iniziale, con poderose folate chitarristiche, con Spirit Man che privilegia di nuovo il lato più blues ed autentico della band, grintoso e classico al tempo stesso, assolo di slide incluso. Hooked On The Plastic è di nuovo puro funky Neville syle, come pure Can’t Waste Time, mentre la conclusiva Stand Up è una coinvolgente esplosione di tipo rock’n’soul.

Bruno Conti

Una Breve E Gustosa Storia Del Blues (Rock) Su Due Dischi. Nick Moss Band – From The Root To The Fruit

nick moss from the root

Nick Moss Band – From The Root To The Fruit – 2 CD Blue Bella Records                                                                     

Di questo corpulento signore avevo recensito nel 2011 l’ottimo Here I Am http://discoclub.myblog.it/2011/12/06/un-grosso-chitarrista-nick-moss-here-i-am/ , un album che aveva delle note di copertina firmate da Jimmy Thackery che tesseva le lodi di questo non più giovane musicista di Chicago (quest’anno sono 46), fautore di uno stile che partendo dal blues puro, con il passare del tempo, ha aggiunto elementi rock, funky, soul, southern, omaggi a Hendrix e altri rivoli di musica delle radici, creando un melting pot sonoro vario e stimolante. Da allora Nick Moss ha pubblicato altri tre album, arrivando a quota dodici (tutti pubblicati sulla propria etichetta Blue Bella): Time Ain’t Free del 2014, un recente Live And Luscious, che come lascia intuire il titolo è dal vivo e presenta anche versioni di brani che poi sono stati inseriti in questo From The Root To The Fruit. Il nuovo album è una sorta di concept album sulla storia del blues (e del rock), dalle origini (il primo disco) ai giorni nostri (il secondo CD), con deviazioni lungo il percorso anche verso sixties soul, garage e rock classico. Ovviamente a grandi linee e attraverso una serie di brani composti per l’occasione, con solo due cover e un traditional a rimpolpare il menu. Il nostro amico ha anche una eccellente band che lo accompagna, Michael Ledbetter alla chitarra ritmica e grande voce solista in molti dei brani, il tastierista Taylor Streiff e la sezione ritmica con Nick Fane al basso e Patrick Seals alla batteria. Più alcuni ospiti di pregio: Sax Gordon, ai fiati in tre brani. Jason Ricci all’armonica e David Hidalgo dei Los Lobos.

Il risultato, ancora una volta, è un disco fresco e pimpante, poderoso e rock a tratti, più rigoroso e vicino alla tradizione in altri, comunque sempre decisamente sopra la media per questo tipo di dischi, confermando Moss come uno dei migliori chitarristi attualmente in circolazione. Ci sono ben 27 brani nei due CD e quindi non ve li ricorderò tutti (o forse sì), ma vi segnalo l’uno-due iniziale, in puro Chicago style old school di Before The Night Is Through e Make Way For Me (più R&B, e con fiati aggiunti), con la bellissima voce di Ledbetter in evidenza e un sound che ricorda molto la Blues Jam at Chess dei Fleetwod Mac di Peter Green. Dead Man’s Hand, nella curva temporale del racconto, vira verso il R&R, Moss è anche voce solista (meno valido di Ledbetter) e comincia a scaldare la solista, ben coadiuvato dal piano di Streiff e dal sax di Gordon. La title-track è un blues duro e puro, con Moss che si districa con classe anche all’armonica, Haymarket Hop è uno strumentale in stile jump, divertente e scanzonato, mentre Symone è uno slow blues ben strutturato, seguita dalla latineggiante Love Me, un vecchio brano di Junior Wells. che segue il percorso temporale della narrazione, mentre Lost And Found è uno slow blues carnale ed intenso dove Moss e Ledbetter mettono in mostra il dualismo voce e chitarra, tipico di questi brani. Eccellenti anche I Dig e lo strumentale Rump Rush (sempre lato classico, siamo dalle parti di Freddie King, Magic Sam, Jimmy Dawkins); Long Tall Woman è la cover di un pezzo di Elmore James, seguita da The Woman I Love, dove si apprezza l’armonica di Jason Ricci e Walk Away, dove la chitarra con wah-wah di Moss ricorda certe sonorità alla Buddy Guy, mentre la breve traccia strumentale Cold Store conclude il primo disco e comincia ad introdurci al suono più blues-rock del secondo.

Che si apre sulle derive quasi psichedeliche di Catch Me I’m Falling e sul funky-rock sudista dell’ottima Jupiter Florida, entrambe cantate con piglio superbo da Ledbetter. Breakdown comincia ad alzare l’asticella rock e la band inizia a tirare di brutto, come ribadito nelle improvvisazioni della lunga Serves Me Right (Space Jam), grande brano dove si gustano appieno le evoluzioni della solista di Nick Moss, ma anche nello strumentale santaneggiante Ta Ta For Tay Tay e nella splendida rock’n’soul ballad Breathe Easy, dove sembra di sentire la Tedeschi Trucks Band, con tanto di voci femminili aggiunte. E quando David Hidalgo aggiunge la sua solista in Free Will si affacciano i Los Lobos più blues-rock. Grateful è un pezzo rock quasi stonesiano e in Shade Tree, di nuovo con derive soul, la voce di Ledbetter assume un timbro quasi alla Steve Winwood. Stuck ha quel’impeto garage ricordato in apertura e Stand By è un blues-rock gagliardo, quasi hendrixiano. Concludono questa fatica della Nick Moss Band il funky-rock meticciato di Speak Up e il sognante strumentale Heavy Water, dove Moss strapazza ancora una volta la sua chitarra. Bel disco, veramente variegato e ben suonato, con una nota di merito anche per la voce di Michael Ledbetter https://www.youtube.com/watch?v=g3QHVd9dH0I !

Bruno Conti