Meglio Il Live Uscito Lo Scorso Anno, Ma Anche Questo Non E’ Male! The Outlaws – Live At The Bottom Line, New York ‘86

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The Outlaws – Live At The Bottom Line, New York ’86 – Hotspur 2CD

A meno di un anno da Los Angeles 1976, ecco un nuovo album dal vivo degli Outlaws, la nota band sudista attiva all’incirca dalla metà degli anni settanta: registrato esattamente dieci anni dopo, in una fase quindi molto diversa della carriera del gruppo, Live At The Bottom Line, New York ’86 non entra a far parte della loro discografia ufficiale come il predecessore (che era stato pubblicato dalla Cleopatra) http://discoclub.myblog.it/2015/12/11/suonavano-eccome-se-suonavano-outlaws-live-los-angeles-1976/ , ma rientra nella miriade di CD tratti da show trasmessi all’epoca dalle radio, titoli che ogni mese invadono il mercato (e di cui personalmente non sento affatto il bisogno, salvo alcune eccezioni, dato che faccio già fatica a star dietro alle pubblicazioni regolari). Gli anni ottanta, si sa, furono il nadir per molti gruppi e solisti dell’epoca classica del rock, e gli Outlaws, che fuoriclasse forse non erano mai stati ,ma tra il 1975 ed il 1978 qualcosa di valido sicuramente lo produssero, non si sottrassero certo alla mannaia: pochi dischi, di scarso successo, ed un lungo periodo di inattività che andò dal 1986 al 1994.

Live At The Bottom Line è un doppio CD, inciso in maniera più che buona, facente riferimento proprio ad uno show del 1986 nel leggendario club newyorkese, a supporto dell’allora nuovo album Soldiers Of Fortune, il primo in quattro anni. La band, che negli anni ha cambiato formazione una marea di volte, in quel momento era un quintetto composto dalle tre chitarre di Hughie Thomasson (da sempre il leader del combo), Henry Paul e Steve Grisham, e dalla sezione ritmica di Chuck Glass, basso, e David Dix, batteria. Il gruppo dal vivo non sembra risentire del momento di crisi, e suona con il consueto vigore elettrico, togliendo parte della patina commerciale e tipicamente eighties che le nuove composizioni avevano in studio: il doppio risulta perciò gradevole, con diversi momenti di ottimo rock sudista, anche se, comparato con il live uscito lo scorso anno, perde inevitabilmente il confronto. Chiaramente i nostri non saranno mai indicati fra gli imperdibili del genere, ma certi incroci di chitarra e certe jam elettriche fanno la loro bella figura ancora oggi, mentre non è così per le parti vocali, da sempre il punto debole dei “Fuorilegge”.

Il primo CD si apre con la robusta Whatcha Don’t Do, una rock song decisamente accattivante, tratta dall’allora nuovo album: un bel refrain, ritmo alto ed intrecci di chitarra come se piovesse. Tutto il primo dischetto, ben sette brani su otto, prende in esame le canzoni di Soldiers Of Fortune, con la sola eccezione di You Are The Show (tratta da Playin’ To Win del 1978), una classica ballata sudista caratterizzata dai continui stop & go ed il solito finale ad alto tasso chitarristico, tutto da gustare. E’ chiaro che non tutto funziona alla perfezione, alcuni brani sono dei riempitivi (altrimenti Soldiers Of Fortune non sarebbe passato inosservato), ma essendo i nostri principalmente una live band, anche pezzi minori come la title track del disco dell’86 (alla quale servirebbe un cantante migliore) e One Last Ride fanno la loro figura. Lady Luck è puro rock da FM, e non è inteso come un complimento, mentre Cold Harbor ha una bella atmosfera da racconto western (anche se parla della guerra civile) e si difende bene, mentre The Night Cries si potrebbe benissimo saltare. Le cartucce migliori vengono sparate nel secondo CD, con buone riletture di brani appartenenti al periodo classico del gruppo, come la countryeggiante Knoxville Girl, il rock’n’roll sudista There Goes Another Love o la vibrante Hurry Sundown, oltre alla rara Feel The Heat (un brano della Henry Paul Band), roccata e diretta come un pugno in faccia, ma soprattutto l’uno-due finale che da solo vale il prezzo d’ingresso, formato dalla loro signature song Green Grass & High Tides e da una tostissima versione elettrica del classico Ghost Riders In The Sky (singolo portante di un loro album del 1980, giusto un anno dopo che era stata portata al successo da Johnny Cash), per un totale di ventidue minuti di assoli, cambi di ritmo, potenza e tensione elettrica a mille. Un finale che non rende di certo indispensabile questo Live At The Bottom Line, ma meritevole di un pensierino forse sì.

Marco Verdi

Pare Che Finalmente Al 7 Ottobre Esca! Lou Reed – The RCA And Arista Albums Collection limited edition 17CD box set

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Lou Reed – The Rca And Arista Albums Collection – Sony Legacy 17 CD – 17-10-2016

Annunciato più volte, ormai da un oltre anno, e più volte rimandato, al 7 ottobre uscirà il cofanetto retrospettivo degli album di Lou Reed pubblicati nel periodo 1972-1986, durante il suo contratto, prima con la Rca poi con la Arista. I dischi sono stati tutti rimasterizzati, sotto la stessa supervisione di Lou Reed, l’ultimo progetto portato a termine prima della sua morte avvenuta il 27 ottobre del 2013 (sono già passati tre anni). Non ci saranno né dischi bonus e neppure tracce aggiunte nei vari album. Questa è la lista dei CD:

1. Lou Reed (April 1972)
2. Transformer (November 1972)
3. Berlin (July 1973)
4. Rock n Roll Animal (live February 1974)
5. Sally Can’t Dance (August 1974)
6. Metal Machine Music (July 1975)
7. Coney Island Baby (December 1975)
8. Rock and Roll Heart (October 1976)
9. Street Hassle (February 1978)
10. Lou Reed Live Take No Prisoners (2 CDs November 1978)
11. The Bells (April 1979)
12. Growing Up in Public (April 1980)
13. The Blue Mask (February 1982)
14. Legendary Hearts (March 1983)
15. New Sensations (April 1984)
16. Mistrial (June 1986)

E questa è la lista completa dei brani contenuti negli album:

[CD1]
1. I Can’t Stand It
2. Going Down
3. Walk and Talk It
4. Lisa Says
5. Berlin
6. I Love You
7. Wild Child
8. Love Makes You Feel
9. Ride Into the Sun
10. Ocean

[CD2]
1. Vicious
2. Andy’s Chest
3. Perfect Day
4. Hangin’ ‘Round
5. Walk On the Wild Side
6. Make Up
7. Satellite of Love
8. Wagon Wheel
9. New York Telephone Conversation
10. I’m So Free
11. Goodnight Ladies

[CD3]
1. Berlin
2. Lady Day
3. Men of Good Fortune
4. Caroline Says I
5. How Do You Think It Feels
6. Oh Jim
7. Caroline Says II
8. The Kids
9. The Bed
10. Sad Song

[CD4]
1. Intro / Sweet Jane
2. Heroin
3. White Light / White Heat
4. Lady Day
5. Rock ‘N’ Roll

[CD5]
1. Ride Sally Ride
2. Animal Language
3. Baby Face
4. N.Y. Stars
5. Kill Your Sons
6. Ennui
7. Sally Can’t Dance
8. Billy

[CD6]
1. Metal Machine Music, Pt. 1
2. Metal Machine Music, Pt. 2
3. Metal Machine Music, Pt. 3
4. Metal Machine Music, Pt. 4

[CD7]
1. Crazy Feeling
2. Charley’s Girl
3. She’s My Best Friend
4. Kicks
5. A Gift
6. Ooohhh Baby
7. Nobody’s Business
8. Coney Island Baby

[CD8]
1. I Believe In Love
2. Banging On My Drum
3. Follow the Leader
4. You Wear It So Well
5. Ladies Pay
6. Rock and Roll Heart
7. Chooser and the Chosen One
8. Senselessly Cruel
9. Claim to Fame
10. Vicious Circle
11. A Sheltered Life
12. Temporary Thing

[CD9]
1. Gimmie Some Good Times
2. Dirt
3. Street Hassle
4. I Wanna Be Black
5. Real Good Time Together
6. Shooting Star
7. Leave Me Alone
8. Wait

[CD10]
1. Sweet Jane
2. I Wanna Be Black
3. Satellite of Love
4. Pale Blue Eyes
5. Berlin
6. I’m Waiting for the Man

[CD11]
1. Coney Island Baby
2. Street Hassle
3. Walk On the Wild Side
4. Leave Me Alone

[CD12]
1. Stupid Man
2. Disco Mystic
3. I Want to Boogie with You
4. With You
5. Looking for Love
6. City Lights
7. All Through the Night
8. Families
9. The Bells

[CD13]
1. How Do You Speak to an Angel
2. My Old Man
3. Keep Away
4. Growing Up In Public
5. Standing On Ceremony
6. So Alone
7. Love Is Here to Stay
8. The Power of Positive Drinking
9. Smiles
10. Think It Over
11. Teach the Gifted Children

[CD14]
1. My House
2. Women
3. Underneath the Bottle
4. The Gun
5. The Blue Mask
6. Average Guy
7. The Heroine
8. Waves of Fear
9. The Day John Kennedy Died
10. Heavenly Arms

[CD15]
1. Legendary Hearts
2. Don’t Talk to Me About Work
3. Make Up Mind
4. Martial Law
5. The Last Shot
6. Turn Out the Light
7. Pow Wow
8. Betrayed
9. Bottoming Out
10. Home of the Brave
11. Rooftop Garden

[CD16]
1. I Love You, Suzanne
2. Endlessly Jealous
3. My Red Joystick
4. Turn to Me
5. New Sensations
6. Doin’ the Things That We Want To
7. What Becomes a Legend Most
8. Fly Into the Sun
9. My Friend George
10. High In the City
11. The Great Defender (Down at the Arcade)

[CD17]
1. Mistrial
2. No Money Down
3. Outside
4. Don’t Hurt a Woman
5. Video Violence
6. Spit It Out
7. The Original Wrapper
8. Mama’s Got a Lover
9. I Remember You
10. Tell It to Your Heart

Il cofanetto contiene tutti i 16 album pubblicati nel periodo, con Live Take No Prisoners che è un doppio, per un totale di 17 CD. Avrà un costo, molto indicativo, intorno ai 130-150 euro, quindi medio prezzo e non budget (come ad esempio Sire Years: Complete Albums Box e altri progetti che ultimamente stanno uscendo a prezzi decisamente bassi, vedasi il recente box dedicato a Joe Cocker). Il tutto è stato rimasterizzato, come si diceva, ex novo, sotto la produzione di Hal Willner, Rob Santos e lo stesso Lou Reed. Nella confezione, oltre ai vari usuali memorabilia che vedete nell’immagine sopra, c’è anche un libro di 80 pagine, con foto, saggi e una presentazione del vecchio amico di Lou, Hal Willner.

Bruno Conti

Scrive, Canta E Suona…E Fa Tutto Bene! Rudy Parris – Makin’ My Way

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Rudy Parris – Makin’ My Way – Warrior CD

Rudy Parris, countryman californiano di origine pellerossa (e lo avevo capito ancora prima di documentarmi, basta guardarlo in faccia) è in giro da diversi anni, anche se Makin’ My Way è il suo esordio come musicista in proprio. Diventato famoso con la terza edizione del talent americano The Voice (ma niente paura, in America sono un filo meglio dei nostri)), Rudy ha subito dimostrato di non essere un burattino, ma anzi si è messo in mostra, inizialmente come chitarrista, diventando in breve tempo il solista della band di Hank III, uno che non scherza (quando non pubblica ciofeche pseudo-metal). E Makin’ My Way rivela un talento vero, non solo alla sei corde, ma anche come songwriter e cantante: Rudy è infatti in possesso di una bella voce, con sfumature soulful, che gli consente di essere incisivo anche nei brani più a sfondo sudista; in più, il suo è un country ad alto tasso elettrico e ritmico, che, un po’ come nel caso di Dwight Yoakam (ma non siamo ancora a quei livelli) parte dal Bakersfield Sound di Buck Owens e Merle Haggard, principali fonti d’ispirazione per Rudy, per costruire una serie di canzoni energiche, vigorose, piene di ritmo e feeling, mantenendo la guardia alta anche nelle ballate.

Il disco, prodotto da Parris stesso con Jim Ervin, e suonato da un gruppo non molto noto ma sicuramente tosto di turnisti, non è stato inciso neppure a Nashville, bensì nei leggendari studi Capitol di Los Angeles, ed anche questo è un indizio sul fatto che il nostro non è un fantoccio ma un musicista vero, fisicamente è la classica “personcina”. Rudy usa tutti gli strumenti canonici, come violino, steel e banjo, ma le chitarre prendono quasi sempre il sopravvento, assistite in ogni momento da una sezione ritmica rocciosa, come si evince dal brano d’apertura, la grintosa Party Out Back, dove violino e steel sono al loro posto ma l’assolo principale è di slide, ed il ritmo è parecchio sostenuto https://www.youtube.com/watch?v=-2SWVghPES0 . Cowboy Cry è più fluida e rilassata, comunque un solido esempio di country che sta dalla parte giusta, mentre la title track, introdotta da un suggestivo talkin’ di Michael Madsen (uno degli attori-feticcio di Quentin Tarantino) è uno dei pezzi centrali del disco, una gustosissima square dance song con interventi vocali proprio di Hank III, oltre che di Little Joe (musicista texano-messicano leader di Little Joe Y La Familia) e la chitarra del grande Pete Anderson: un brano che mette di buon umore con il suo ritmo coinvolgente e la melodia trascinante.

Angels Can Fly è una toccante ballata con elementi californiani (infatti ha qualcosa degli Eagles più romantici); per contro Miles Away è una pura rock song, introdotta da un riff di chitarra duro come la roccia, un brano robusto e decisamente southern, seguito a ruota dall’intrigante Mini Van, country rock elettrico puro e semplice, ancora con ritmo acceso e ritornello godibile. La vibrante Zombies Dressed In Abercrombie (bel titolo), ancora tesa e roccata, precede lo slow If I Could Only Have You, forse un po’ meno ispirata delle precedenti, anche se la sua melodia ruffiana potrà essere la chiave giusta per aprirsi diversi passaggi radiofonici. My Halo, preceduta ancora da un breve parlato di Madsen, è puro country, saltellante e solare, una delle più dirette del CD; disco che termina con la ruspante Sho Is Fine, la tosta ed altamente chitarristica Swamp Cooler (che dimostra la forza del nostro), e la tenue e bucolica Down The Road, anch’essa caratterizzata da uno squisito refrain.

Era tempo che Rudy Parris ci facesse sentire la sua voce, e Makin’ My Way è l’affermazione di un talento di cui, speriamo, sentiremo ancora parlare.

Marco Verdi

Lunga Vita Agli Anni ’70! Rival Sons – Hollow Bones

rival sons hollow bones

Rival Sons – Hollow Bones – Earache Records

Siete in crisi di astinenza per i Led Zeppelin da una quarantina di anni? Vivete a pane e hard-rock anni ’70? Non andate a cercare altrove, il quartetto californiano dei Rival Sons è la vostra panacea. Sono già al quinto album, il quarto prodotto da Dave Cobb (in un paio di brani coinvolto anche come autore), che regala come sempre brillantezza di suoni e ricchezza di particolari nei suoi lavori (anche se la produzione del disco degli Europe del 2015 ce la poteva risparmiare): la copertina, molto bella, questa volta è di Martin Wittfooth, artista canadese, ma residente a Brooklyn, specializzato in singoli ritratti di animali colti nella loro essenza, mentre nell’album del 2011 Pressure and Time avevano utilizzato Storm Thorgerson, quello delle copertine dei Pink Floyd. Il sound si ispira non solo ai Led Zeppelin,  comunque fonte primaria, ma anche ai Deep Purple,  con qualche tocco di Black Sabbath, tra i contemporanei ricordiamo i Cult, i Black Keys più duri, i Soundgarden, e sempre dal passato gli Humble Pie di Steve Marriott, di cui riprendono una cover di Black Coffee, un pezzo del 1972 di Ike & Tina Turner che era su Eat It, ma suonata come avrebbero fatto gli Zeppelin di Plant, ma anche viceversa (non dimentichiamo che You Need Loving degli Small Faces era un diretto antenato di Whole Lotta Love quanto You Need Love di Muddy Waters, ma diciamo che Page e Plant si “ispiravano” spesso ad altri, anche se il risultato finale poi era solo loro).

I Rival Sons arrivano qualche generazione dopo, ma la grinta e l’attitudine giusta ci sono, come dimostra il soul-blues “bastardizzato” del brano, che ci permette di gustare l’ottima voce di Jay Buchanan, cantante dai mezzi notevoli, e il solismo variegato di Scott Holiday, chitarrista di quelli “cattivi”. Come dite? Potrebbero ricordare anche i Black Crowes più duri? Certo, le coordinate sonore sono quelle. Se poi aggiungiamo che hanno pure un eccellente batterista di scuola Bonham come Michael Miley, non vi resta che andarvi a sentire la lunga e poderosa Hollow Bones Pt.2  https://www.youtube.com/watch?v=LtaGtmL5F7E (ma anche la parte 1 non scherza https://www.youtube.com/watch?v=93KFbeGzQAc ) o una Thundering Voices il cui riff assomiglia “leggermente” a Moby Dick, ma senza scomodare i “Corsi e ricorsi storici” di Giambattista Vico, c’è sempre qualcuno che prende e poi rilascia, con piccole modifiche, ma proprio piccole! Però il disco si ascolta volentieri, non è per nulla tamarro o esagerato, loro hanno stamina e grinta, non sono originali? Ce ne faremo una ragione, in fondo chi lo è? Per la serie le”citazioni” non finiscono mai (come pure gli esami) anche il blues elettrico di Fade Out ha più di un legame di parentela con la Beatlesiana I Want You, il lungo brano che chiudeva il primo lato di Abbey Road https://www.youtube.com/watch?v=vQ1uqK13WIA , pur se Buchanan canta come un “disperato” e l’assolo è degno del Page più ispirato e indiavolato. Insomma se la serie televisiva “Vinyl” vi ha ingrifato, qui troverete pane per i vostri denti, o se preferite, trippa per gatti. In conclusione c’è anche une delicata All That I Want, ballata acustica dal leggero crescendo finale che stempera il rock duro e puro di brani come Tied Up, Baby Boy e Pretty Face https://www.youtube.com/watch?v=0G0NUgabdMU . Lunga vita agli anni ’70!

Bruno Conti

Era Ora, Finalmente Un Bel Johnny Winter Dal Vivo: Woodstock Revival 10 Year Anniversary Festival 1979

johnny winter woodstock revival

Johnny Winter – Woodstock Revival 10 Year Anniversary Festival 1979 – Klondike

Oh, finalmente un bel Johnny Winter dal vivo! Ironie a parte (ma non troppo, se è la verità), anche questo Live radiofonico relativo ad un broadcast del 1979 è molto buono. Leggendo le note, l’estensore ci ricorda che per il Festival di Woodstock ci sono stati concerti per festeggiare i 10, 25 e 30 anni (ma anche nel 2009, quello per il 40° Anniversario, e già progettano il 50° per il 2019): ma poi ci informa che però quello del decennale è stato uno dei migliori in assoluto perché la memoria dell’evento era fresca e i partecipanti ancora in forma e pimpanti (più o meno, a parte quelli morti). Ci viene comunicato che l’evento si tenne ai Park Meadows Racetrack di Long Island, Brookhaven, stato di New York e non nel sito originale, e che, a dimostrazione del fatto che i tempi erano cambiati, la Pepsi era lo sponsor della serata. Comunque, come detto, dettagli a parte, il concerto dell’8 settembre è decisamente buono; Johnny Winter si presenta con il suo classico trio dell’epoca, Jon Paris, basso e armonica e Bobby T Torello, alla batteria.

Non vi ricordo per l’ennesima volta l’immenso talento di Winter (ma l’ho appena fatto) sia come chitarrista che come portabandiera del blues più sanguigno, ma anche del R&R più selvaggio, entrambi ottimamente rappresentati in questa serata. Quindi se non ne avete ancora abbastanza di concerti del musicista texano, questo si situa su una fascia medio-alta, sia come contenuti che come qualità sonora, eccellente (tra le migliori dei molti broadcast a lui dedicati), e il menu della serata comprende l’apertura affidata a una sparatissima Hideaway di Freddie King, presa a velocità di crociera elevatissima e con rimandi e citazioni anche per Peter Gunn e inserti wah-wah hendrixiani, gran versione, con la ritmica che pompa di brutto, assolo di basso di Paris incluso. Messin’ With The Kid, il brano di Junior Wells, era di recente apparso su Red Hot & Blue, il disco del 1978, ma dal vivo è tutta un’altra storia, Winter è in gran forma anche a livello vocale e dopo il vorticoso pezzo di Wells si lancia subito nel riff immortale di Johnny B. Goode, preceduto dal suo classico urlo “Rock and Roll” e quello è, la sua versione sempre una tra le più belle di questo standard del R&R.

Ma pure l’omaggio al blues e a Robert Johnson con una splendida Come On In My Kitchen è da manuale, con Jon Paris anche all’armonica e Winter che passa alla slide, dove è uno dei maestri assoluti dello stile, come dimostra la turbinosa ripresa di Rollin’ And Tumblin’, un Muddy Waters d’annata, in cui il bottleneck di Winter viaggia come un treno senza guidatore, a livelli di intensità micidiali, in uno dei momenti migliori di un concerto comunque sempre ad alto livello. Help Me rallenta i tempi ma non il vigore della performance, il classico groove del pezzo viene illuminato da altri sprazzi di bravura di Johnny con la sua solista. Perfino un brano “minore” come Stranger, che era su John Dawson Winter III, riceve un trattamento sontuoso, con la solista accarezzata, titillata, strapazzata, con grande ardore, e il nostro che canta con verve decisa, in una serata di quelle ottime, senza lati negativi, solo musica di grande qualità. Serata che si conclude con una versione squassante di Jumpin’ Jack Flash che forse neppure gli Stones migliori avrebbero potuto pareggiare, quanto a potenza e grinta. E, non contento, richiamato a gran voce dal pubblico, ritorna per un altro mezzo terremoto R&R (breve drum solo di Torello annesso) sotto forma di Bony Moronie di Little Richard via Larry Williams, altro devastante esempio di quello che poteva regalare Johnny Winter quando era in una serata giusta, e questa lo era. Solo 63 minuti, ma non un secondo superfluo!

Bruno Conti

Dal Punk Al Country Il Passo (Non) E’ Breve! Austin Lucas – Between The Moon & The Midwest

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Austin Lucas – Between The Moon & The Midwest – Last Chance CD

Austin Lucas è un musicista originario dell’Indiana che, solo recentemente, ha preso la strada del cantautorato country-roots-folk, dopo un passato discografico abbastanza caotico: attivo dagli anni novanta come bassista della indie band Twenty Third Chapter, Lucas è poi entrato a far parte come chitarrista e cantante solista prima dei Rune ed in seguito dei K10 Prospect (tutte band alternative e dal suono abbastanza lontano dai “nostri! gusti), e diventando anche il chitarrista di un gruppo della Repubblica Ceca, dove ha vissuto per qualche anno, i Guided Cradle, incarico che ricopre ancora oggi a tempo perso. Nel mezzo, Austin ha pubblicato anche diversi album da solo (ed uno in duo con Chuck Ragan http://discoclub.myblog.it/2016/02/27/colonna-sonora-oscar-videogioco-anche-bel-live-chuck-ragan/ ) dal carattere piuttosto rock, quasi punk, anche se si intravedevano già quegli elementi più bucolici e folk che, a partire da A New Home In The Old World del 2011, ma più incisivamente in Stay Reckless del 2013, cominciano a diventare il suo pane quotidiano.

Between The Moon & The Midwest (gran bel titolo) è la naturale prosecuzione del discorso, ma direi senza paura di essere smentito che in questo lavoro Lucas ha trovato un equilibrio quasi perfetto tra un country decisamente robusto ed ispirato in parte dal Bakersfield Sound di Buck Owens ed in parte dal movimento Outlaw degli anni settanta, ed un gusto più folk-pop con influenze “cosmiche” (Flying Burrito Brothers e Gram Parsons solista), consegnandoci un disco che non esito a definire sorprendente, e che per certi versi accomuno all’ultimo Sturgill Simpson http://discoclub.myblog.it/2016/04/23/il-classico-disco-che-ti-aspetti-caso-del-complimento-sturgill-simpson-sailors-guide-to-earth/ , anche se qui la componente country è decisamente maggiore. Le dieci canzoni dell’album, prodotte da Lucas stesso con Joey Kneiser (altro artista indipendente), vedono Austin accompagnato da un numero non molto elevato di sessionmen, tra cui spiccano Ricky White alle chitarre elettriche, Steve Daly alla steel, Alex Mann al basso e Aaron Persinger alla batteria, oltre ad ospiti di un certo nome alle armonie vocali, come John Moreland, Lydia Loveless e Cory Branan. L’inizio di Unbroken Hearts (il cui testo contiene la frase del titolo dell’album) è quasi distorto, poi il brano si normalizza e diventa un godibilissimo country & western elettrico e ritmato, con chiari riferimenti agli Outlaws, soprattutto Waylon. Ancora più diretta e gradevole Ain’t We Free, un uptempo fluido e scorrevole, con Austin che mostra di avere la voce perfetta per questo tipo di musica; Kristie Rae è una delicata folk song acustica (ma poi entra la sezione ritmica ed il tempo si velocizza nettamente) che personalmente mi ricorda tantissimo uno come Greg Trooper, sia nella voce che nello stile.

Bella anche Wrong Side Of The Dream, una country song classica e con rimandi ai primi anni settanta, l’epoca d’oro di un certo tipo di musica, e con la doppia voce della Loveless che aggiunge elementi preziosi al pezzo, uno dei più belli del disco; Lucas è una bella sorpresa, e lo conferma con i brani successivi, come la splendida Pray For Rain, uno slow che non si sposta idealmente dalla decade menzionata prima (i seventies), con suggestivi rintocchi di pianoforte ed una melodia centrale davvero affascinante. The Flame inizia in maniera un po’ inquietante, poi si tramuta in un country’n’roll spedito e trascinante, un’altra gemma che si aggiunge ad una collana sempre più preziosa; Next To You è crepuscolare, notturna, quasi attendista, ma è anche una delle più emozionanti (e qua la voce sta quasi dalle parti di Cat Stevens), mentre la diretta Call The Doctor è un energico western tune elettrico. Il CD, ripeto, davvero sorprendente e riuscito, termina con la vibrante William, solo voce e chitarra ma con una montagna di feeling, e con Midnight, altro lento dalla struttura acustica ma con la steel sullo sfondo a dare una nota di malinconia, ed un accompagnamento che ancora sembra uscire da un disco di quaranta anni fa.

Forse solo in America uno può fare un disco di questo livello dopo aver passato anni a suonare tutt’altra  musica: Austin Lucas è un nome da segnarsi sul taccuino, o sull’agenda elettronica se siete dei tipi digitali.

Marco Verdi

C’Erano Una Volta, E Ci Sono Ancora, I Bravi Cantautori! Jaime Michaels – Once Upon A Different Time

jaime michaels once upon a different time

Jaime Michaels – Once Upon A Different Time – Appaloosa/Ird

Jaime Michaels è uno dei tanti bravi (e semisconosciuti) cantautori che popolano il sottobosco della scena indipendente “Americana”. Muove i suoi primi passi a livello musicale tanti anni fa nel Nord degli States, tra Boston e Cambridge, poi fa il bassista in una band, Beckett, che accompagna spiriti affini a livello musicale come Livingston Taylor, Doc Watson, Dave Van Ronk e Jonathan Edwards, avendo sempre Tom Rush come suo punto di riferimento assoluto, e non è una brutta scelta! Negli anni ’80, trasferitosi a vivere nel South Carolina, passa otto anni con la Truly Dangerous Swamp Band di cui poco sappiamo (ma dai video che ho visto non mi sembra un grande perdita). Agli inizi degli anni ‘90 decide di tornare alla musica acustica e roots, e dal 1997 va a vivere a Santa Fe, nel New Mexico, dove incontra una fiorente scena musicale, e inizia a fare sul serio, pubblicando ben nove dischi (che vincono vari premi locali), di cui otto prodotti dal suo grande amico Jono Manson. E qui entra in scena l’italiana Appaloosa che si offre di pubblicargli il nuovo album, Once Upon A Different Time, previsto in un primo momento per il 2015, esce in questi mesi per l’etichetta brianzola, sempre con Jono in cabina di regia (in tutti i sensi) nel suo Kitchen Sink Studio a Chupadero. Vengono radunati alcuni validi musicisti: Ben Wright, chitarre, Josh Martin e Justin Bransford, basso, Jason Crosby, piano, organo e violino (collaboratore di Bob Weir e Phil Lesh), Mark Clark, batteria e percussioni, oltre agli stessi Manson, alla chitarra solista e Michaels, a chitarre e bouzouki.

Più alcuni ospiti, i colleghi cantautori David Berkeley e Melissa Greener alle voci,, John Egenes al mandolino, Craig Dreyer al sax (uno che ha suonato con Keith Richards, Warren Haynes, James Hunter, Dana Fuchs e mille altri), Kevin Trainor alla chitarra, e anche alcuni musicisti italiani, tra cui Stefano Barotti, anche seconda voce nelle parti nella nostra lingua del brano Somewhere Like Italy, dove scopriamo che Michaels ha una bisnonna italiana (nessuno sfugge). Partiamo proprio da questo brano, un delizioso mid-tempo in ¾, dove la piacevole voce di Jaime duetta con quella tipicamente italiana di Barotti, per un brano che profuma di musica dei due mondi, intimo e raccolto, come è quasi sempre caratteristica delle canzoni dell’album- Dall’iniziale Once Upon A Different Time, con le sue acustiche in fingerpickng, un organo delicato, il bouzouki di Jaime e un banjo a colorire il suono, come pure le armonie vocali di Berkeley e della Greener, una canzone che grazie al timbro vocale di Michaels ricorda a tratti certe cose del miglior Graham Nash. Molto piacevole anche Warming, un canzone sul riscaldamento globale, che nel testo cita gli hippies, la caduta dell’Impero Ottomano, Gandhi, misti a speranze per il futuro, uno scherzo sugli ananas, il tutto con una melodia dolce ed avvolgente, che prevede anche un intervento dei fiati in puro stile New Orleans e un ritornello che rimane in testa, tra il Jimmy Buffett più intimista e di nuovo il Nash citato poc’anzi, veramente bella.

No Paddle Wheel, come scherzando dice l’autore, è stata scritta insieme al suo cane nel corso di una passeggiata mattutina e ricorda certe cose del James Taylor più scanzonato, altro musicista che si può accostare al nostro https://www.youtube.com/watch?v=RhdCqu5srqg . Crazy For Me  , di nuovo con le armonie di Greener e Berkeley, è una ballata dove spiccano il piano eletthttps://www.youtube.com/watch?v=CwBvh9kgg18rico e il violino di Jason Crosby, oltre alle onnipresenti chitarre che sono la costante del sound. A Liitle More, altra delicata folk tune arricchita da una band, è la traccia registrata in Italia con musicisti locali, a cui è stato aggiunto il lirico intervento della solista di Kevin Trainor, mentre Steal Light, un brano che nel testo prevede un dialogo tra Dio e il diavolo, è il pezzo più rock, forse una parola forte, diciamo mosso e “bluesy”, con begli interventi del piano elettrico di Crosby e della solista. Circling Around parla di alluvioni in Colorado e Texas su un ritmo più incalzante del solito, tra country e bluegrass, sempre ben suonato dagli ottimi musicisti presenti nel disco. Anche The Heat tratta di temi sociali, con protagonista un senzatetto che è una sorta di personaggio ricorrente nelle canzoni di Michaels, il tutto a tempo di valzer texano, molto bella  e con una vena malinconica, e pure la successiva Winter Song ha questa aria nostalgica per i vecchi  tempi andati, sempre con una melodia dolce ed avvolgente, semplice ma complessa al tempo stesso. E la conclusiva Singing For My Supper, a tempo di bluegrass, potrebbe essere il motto di Jaime Michaels. Sperando che la cena, e anche il pranzo, saltino fuori, possiamo aiutarlo acquistando questo onesto resoconto del suo lavoro.

Bruno Conti

Per Amanti Dei “Bravi Chitarristi”, Ex Ragazzo Prodigio! Eric Steckel – Black Gold

eric steckel black gold

Eric Steckel – Black Gold – Eric Steckel Music

Rispetto all’imberbe ragazzino che nel 2002 esordiva a soli 11 anni con l’album A Few Degrees Warmer, ora, a giudicare dalla foto di copertina di Black Gold, Eric Steckel è un giovane dal lungo capello, con barba, sempre fulmine di guerra con la sua chitarra, non più legato ad un blues deferente verso i dettami del passato, ma dal sound più vicino al rock https://www.youtube.com/watch?v=iFtL5CHC8ms . Però anche lui ha sempre dovuto fare i conti con il mercato discografico: i suoi dischi sono comunque autoprodotti, con una distribuzione difficoltosa (in effetti questo nuovo Black Gold risulta essere uscito da circa un anno, ma pochi se ne erano accorti), registrati al risparmio. Nel nuovo album Steckel, oltre alla solista, suona anche basso e tastiere, lasciando al co-produttore dell’album, Maikel Roethof, il ruolo di batterista. Se il nome non vi sembra americano non vi sbagliate, viene da Amsterdam, dove il disco è stato in parte registrato, meno alcune parti realizzate a Nashville. Rispetto al precedente Dismantle The Sun (uscito quasi quatto anni fa, con un EP digitale ad interrompere la lunga pausa) http://discoclub.myblog.it/2013/02/12/ex-bambini-prodigio-crescono-eric-steckel-dismantle-the-sun/  mi sembra che il nuovo album sia di un gradino inferiore, sempre molto ricco e fluente nell’ambito chitarristico, ma meno vario e più orientato verso un rock più duro rispetto al passato.

Diciamo che Steckel continua a seguire le tracce di un Bonamassa, ma mentre negli ultimi anni il chitarrista newyorkese ha affinato il suo stile, andando a pescare ancora di più anche nel blues e nel soul, l’ancora giovane Eric (in fondo viaggia tra i 25 e i 26 anni) preferisce privilegiare un suono più vicino all’heavy rock targato anni ’70, come evidenzia la traccia di apertura Holding On, molto legata a quello stile, anche se gli interventi di chitarre e tastiere, i continui cambi di tempo e la voce sicura del nostro, rendono il tutto comunque molto piacevole, e poi il suono della chitarra è brillante e ricco di grande tecnica , come è sempre stato per Steckel. Juke Joint inserisce qualche elemento southern, ma privilegia un suono troppo leggerino; anche El Camino può ricordare le band sudiste più rock, tipo Blackfoot o Molly Hatchet, anche se il lavoro di slide di questo strumentale è comunque apprezzabile. Fugitive ricorda addirittura certo AOR americano anni ’70 o gente come Nugent, Journey, Bad Company (non i primi), con My Darkest Hour, che nei suoi quasi 6 minuti, grazie ad un arrangiamento più complesso che evidenzia anche l’uso dell’organo, mi sembra migliore, con interessanti aperture melodiche e il solito lavoro fluente della chitarra, però sempre soggetta a quel sound a tratti troppo “leggerino”.

Però Speed Of Light è di nuovo quasi lite metal, e neppure del migliore, mentre Texas 1983 è una bella improvvisazione strumentale di stampo Vaughan/Hendrix, peccato sia troppo breve https://www.youtube.com/watch?v=NJ_c2Jwn610 . Outta My Mind, un funky-blues più vicino ai lavori passati di Steckel e What It Means, una sorta di ballata d’atmosfera ha tratti dell’antico splendore, con un lirico solo posto in conclusione, ma Rocket Fuel con il suo riffing grasso e “acrobatico” quasi alla Van Halen, è abbastanza scontata e ripetitiva. L’ultimo brano è l’unica cover del disco, If I Ain’t Got You di tale Alicia J. Augello-Cook, se il nome vi dice, non posso che confermare, è proprio un pezzo di Alicia Keys, tratto dal suo secondo disco, The Diary Of A.K,, ed è tra le cose migliori del disco, una ballata soul, cantata veramente bene e nobilitata da un finissimo solo di Eric Steckel che conferma, quando vuole, il suo gusto e la sua tecnica https://www.youtube.com/watch?v=Vy3pk6QNN1U . Luci ed ombre, ma gli amanti dei “bravi chitarristi” troveranno motivi per apprezzare.

Bruno Conti  

La Musica E’ Buona, Un Po’ Di Contenuti In Più Non Guasterebbero! Bears With Guns – Bears With Guns

bears with guns

Bears With Guns – Bears With Guns – Highway 125 CD/EP

Negli anni sessanta era pratica comune per le band, accanto a 45 giri e LP, pubblicare ogni tanto degli EP, cioè una sorta di maxi-singolo (o mini album), che solitamente conteneva non meno di quattro brani e non più di sei. Con gli anni questo supporto si è praticamente estinto, ma in periodi più recenti qualche gruppo (o solista) lo ha rivitalizzato, anche se sotto forma di mini CD; non avevo però mai visto una band pubblicare solo EP, almeno fino a quando non ho avuto per le mani questo dischetto omonimo dei Bears With Guns, un quintetto australiano dei dintorni di Sydney, che ho scoperto essere già al terzo EP della loro breve carriera (dopo Taken For A Fool e Only The Quick And The Hungry) https://www.youtube.com/watch?v=PoOS6LOHRBk , durante la quale non hanno ancora pubblicano alcun full-lenght. Scelta alquanto bizzarra dunque, come se i nostri volessero condividere con i fans le loro canzoni in maniera quasi istantanea, senza dover per forza aspettare di avere le canzoni per un CD intero: la cosa che però conta di più è che Bears With Guns è un bel dischetto, molto piacevole e diretto e, data la sua esigua durata (23 minuti, sei canzoni in tutto), non fa in tempo ad annoiare.

I BWG sono formati da Robert Saunders (leader e principale autore), Drew Farrant-Jayet, Ryan Unger, Lachlan Russell ed Angus Taylor, e la loro musica è una fusione decisamente piacevole di folk, rock e pop, con una strumentazione molto classica, nell’ambito della quale si intrecciano strumenti acustici ed elettrici, un buon senso del ritmo ed una serie di melodie immediate, fresche e piacevoli. I ragazzi partono sempre da una base folk, per costruire le loro canzoni in maniera diretta e creativa, ed usando anche le voci di conseguenza, sulla falsariga di gruppi come Of Monsters And Men e Lumineers: dulcis in fundo, il suono è professionale e curato, essendo il mini album passato per le mani di due produttori esperti come Wayne Connolly (The Vines, Boy And Bear) ed Al Clay (Pixies, Blur, Pink…non spaventatevi, qui non siamo da quelle parti).

Il CD si apre con quello che è anche il primo singolo, ovvero Let Go: un delicato arpeggio di chitarra acustica introduce il brano, poi entra la voce, dopodiché arrivano una ritmica vivace ed un bel pianoforte, il tutto per una canzone molto piacevole che si sviluppa fluida e fruibile. The Deep End è più elettrica ed il ritmo è ancora più sostenuto, ma c’è sempre questo modo un po’ etereo e leggero di porgere il brano, e la canzone stessa cresce man mano che si sviluppa; con Taken For A Fool (ripresa dal primo EP, quindi sono pure poco prolifici i ragazzi) torniamo in territori folk-pop, una bella chitarra, voci leggiadre ed una melodia gradevolissima, mentre Wandering Soldier è più strutturata, con la sua alternanza di sonorità acustiche ed elettriche (e la parte elettrica è la più rock del CD), unita a soluzioni ritmiche mai banali, il tutto senza mai perdere il filo conduttore: un brano molto creativo (ci sono anche dei fiati) che ricorda lo stile vulcanico di Edward Sharpe And The Magnetic Zeros. Il dischetto purtroppo si chiude quando  si cominciava a prenderci gusto, con Etheric Thief, fluida rock song con grande uso di piano ed un refrain corale di buon impatto, e con una cover di Backstreet Girl, un pezzo poco noto dei Rolling Stones (era su Between The Buttons), proposto in una rilettura tra il pop ed il bucolico di grande piacevolezza, e che ha il merito di farmi riscoprire una canzone che avevo un po’ dimenticato.

Hanno dei numeri questi Orsi Armati, anche se adesso però sarebbe tempo di pubblicare un vero CD.

Marco Verdi

E Dei Sudisti “Antichi” Non Ne Vogliamo Parlare? The Southern Allstars – Live Radio Broadcast, Capitol Theatre, Passaic, NJ, May 7th, 1983

southern allstars live radio broadcast

The Southern Allstars  – Live Radio Broadcast, Capitol Theatre, Passaic, NJ, May 7th, 1983 – Cannonball

Le etichette che distribuiscono questi concerti radiofonici diventano sempre più improbabili ( la Cannonball ci mancava), ma non mancano le chicche: per esempio questo concerto del 1983 è attribuito a non meglio identificati Southern Allstars, che oltretutto è un nome di fantasia inventato dai compilatori di questo CD, perché come annuncia ad inizio concerto Pat St. John, il DJ dell’epoca che presentava l’evento, i musicisti si presentano come BHLT, ovvero Dickey Betts, Jimmy Hall, Chuck Leavell e Butch Trucks, con l’aggiunta di Danny Parks a violino e voce, e David Goldflies, basso e voce. Queste sono tutte le informazioni che si desumono dal libretto del dischetto, a parte i titoli dei brani e una generica informazione che questa è una delle rarissime registrazioni dell’epoca relative a questa formazione. E allora facciamo un breve passo indietro: tra il 1977 e il 1978, durante il primo periodo di pausa degli Allman Brothers, Dickey Betts aveva formato i Great Southern, con i fratelli Toler e Goldflies al basso, mentre Leavell e Lamar Williams erano con i Sea Level, e non rientreranno nella reunion dell’ABB dal 1978 al 1982. Quando gli Allman si sciolgono di nuovo dopo il 1982, Gregg Allman si prende i Toler (la trama è meglio di Dynasty) e Dickey Betts decide di formare un nuova band con Jimmy Hall dei Wet Willie, Chuck Leavell che ha sciolto i Sea Level, Butch Trucks orfano degli Allman Brothers e riprendendo Goldflies dal suo precedente gruppo.

Questa formazione non inciderà purtroppo nessun disco, ma tra il 1982 e il 1983 fa alcune tournée in giro per gli States. E nel maggio del 1983 approdano al Capitol Theatre di Passaic, NJ, dove viene registrato (e filmato, si trova completo qui https://www.youtube.com/watch?v=eEjhwV14CsE ) questo concerto, per la emittente radiofonica di New York, WPLJ FM. La formazione è inconsueta, sempre in ambito southern siamo, ma con Betts e Jimmy Hall, entrambi voci soliste, spesso anche insieme, Hall che suona pure sax e armonica, un violinista aggiunto, Danny Parks, oltre ai florilegi di Leavell con le sue tastiere, quindi un ambito più complesso del tipico rock chitarristico delle formazioni di Betts, con ampi inserti di soul e R&B, grazie al fatto che cantano più o meno tutti, a parte Trucks. Il repertorio pesca sia dai dischi solisti di Betts, dal repertorio degli Allman, e dal disco recente di Jimmy Hall Cadillac Tracks, oltre ad alcune cover scelte con cura. Detto che la qualità sonora è ottima, vediamo cosa ci aspetta: dopo la roboante introduzione di Pat St. John si parte subito proprio con una cover, una Ain’t Nothing You Can Do che viene dal repertorio di Bobby “Blue” Bland (ma anche Van Morrison ne faceva una gran versione dal vivo), e ci introduce a quel melange tra musica soul e southern con Betts e Hall subito sul pezzo, sax, piano e la chitarra di Dickey che si dividono gli spazi ed un’aria gioiosa da blues soul revue.

Whole Lot Of Memories è un vecchio pezzo country scritto di Billy Ray Reynolds ( la faceva Merle Haggard) che veniva dal repertorio dei Great Southern e la versione del gruppo ricorda quel sound alla Delaney & Bonnie che è uno dei tratti salienti di questi BHLT o Southern Allstars se preferite, con il sax di Hall spesso in evidenza, ma anche Leavell e Betts ci mettono del loro, come ricordato poc’anzi. La gagliarda e funky One Track Mind, grazie all’armonica di Hall e alla slide di Betts, alza la quota blues, mentre Pick A Little Boogie con il violino di Parks in bella evidenza, aumenta la quota del country tanto amato da Betts., sempre con le voci che si alternano con grande gusto. Rain (In Spain) è una grandissima ballata dei Sea Level che ci permette di apprezzare appieno la voce di Jimmy Hall (e il piano di Leavell), e a seguire uno degli highlights della serata, con una versione perfetta di Ramblin’ Man, splendida. Eccellente anche il soul meets rock di Stop Knockin’ On My Door, che inaugura il trittico incentrato sulla voce strepitosa di Jimmy Hall, che comprende anche vibranti versioni del R&R Lorraine e una fantastica Cadillac Tracks, quindici minuti di pura magia sonora che permettono di apprezzare il gruppo in tutta la sua potenza, prima di passare alla mitica Jessica, con le mani di Betts e Leavell (in gran forma) che volano sui rispettivi strumenti, mentre il violino aumenta la quota country, bellissima versione. E non è finita, anche Southbound non ha nulla da invidiare a quelle migliori degli Allman Brothers, sempre a ritmi vorticosi; gran finale, ancora a tempo di rock sudista con una sanguigna Rollin’ che ricorda il sound dei vecchi Wet Willie. Una bella (ri)scoperta.

Bruno Conti