Tra Cacca Di Gallina (Vero!) E Chitarre! Dale Watson & His Lonestars – Live At The Big T Roadhouse

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Dale Watson & His Lonestars – Live At The Big T Roadhouse – Red House/Ird

In tutti questi anni di ascoltatore ne ho viste (anzi, sentite) tante, ma un disco dal vivo che fungeva da colonna sonora per una serata al bingo (la nostra tombola) mi mancava: in più, non un bingo normale, ma un Chicken Shit Bingo, una pratica pare diffusa in certe zone del Texas, che consiste nel liberare una gallina sopra una tavola che riproduce i novanta numeri della tombola, ed aspettare che il pollastro faccia i suoi bisogni, ed il vincitore è il possessore del numero che viene “coperto” dagli escrementi del pennuto https://www.youtube.com/watch?v=ZxU7U9Hm-5U ! Una pratica a mio parere un po’ idiota e pure leggermente rivoltante, ed il fatto ancora più stupefacente è che tra i suoi fans ci sia anche Dale Watson, countryman texano dal pelo duro, ben noto su queste pagine http://discoclub.myblog.it/2013/02/10/qui-si-va-sul-sicuro-dale-watson-and-his-lonestars-el-rancho/, che spesso e volentieri allieta queste serate con la sua band, come succede in questo Live At The Big T Roadhouse, registrato nel Marzo di quest’anno a St. Hedwig. Watson è una garanzia, uno di quelli che non tradiscono, e dai quali sai esattamente cosa aspettarti: verace country-rock texano al 100%, ritmato, elettrico e coinvolgente, tra honky-tonk scintillanti, brani dal deciso sapore swing e rockabilly al fulmicotone, il tutto condito dalla calda voce baritonale del nostro. Nei suoi oltre vent’anni di carriera Dale ci ha regalato parecchi album, quasi tutti più che riusciti (basti ricordare i vari episodi delle sue Truckin’ Sessions), ed anche diversi dischi dal vivo, dei quali quest’ultimo è senz’altro il più particolare, data la peculiare situazione in cui viene registrato.

Watson, che come al solito canta e suona l’unica chitarra presente on stage, è accompagnato dal suo combo di fiducia, i Lonestars (Chris Crepps al basso, Mike Bernal alla batteria e l’ottimo “Don Don” Pawlak alla steel), e ci intrattiene per più di un’ora con le sue Texas country songs: l’unico problema, se vogliamo, è il fatto che sul disco siano stati messi anche i momenti che con la musica hanno poco a che vedere, come le occasionali proclamazioni dei vari vincitori del bingo, improvvisati jingle pubblicitari di Dale a favore della Lone Star Beer (la sua preferita, ma chi se ne frega dopotutto) e cazzeggi vari che a mio parere interrompono il ritmo tra una canzone e l’altra, al punto che, delle 35 tracce presenti, solo 19 sono brani effettivi. Sono certo che questi momenti goliardici saranno apprezzati dagli americani (dal momento che impazziscono per dei polli che defecano sopra un tavolo…), ma a noi europei interessa soprattutto la musica, anche perché Watson quando parla sembra che di galline ne abbia ingoiate un paio intere, facendo capire ben poco ai non anglofoni.

Gli episodi coinvolgenti non mancano di certo, dalla sigla della serata Big T’s, un rockabilly elettrico con Dale che si atteggia a novello Johnny Cash, a Sit And Drink And Cry, spedito honky-tonk con una guizzante steel, o la supertexana Where Do You Want It, dedicata a (ed ispirata da) Billy Joe Shaver (e con un ficcante assolo del nostro). Ma tutto il CD, tolte le interruzioni, offre ritmo da vendere, sudore ed ottima Texas music, come la swingata Everybody’s Coming In St. Hedwig, Texas, il boogie I Gotta Drive, la scintillante Honky Tonkers Don’t Cry, la deliziosa ballad Smile, ancora figlia di Cash, la messicaneggiante Tienes Cabeza De Palo, la fluida I Lie When I Drink, uno dei classici di Watson. E poi abbiamo anche tre cover, di cui due tratte dal repertorio di Merle Haggard (una splendida The Fugitive, nota anche come I Am A Lonesome Fugitive, e The Bottle Let Me Down, suonata con grande rispetto dell’originale) ed una roccata e vibrante resa di Amos Moses di Jerry Reed. 

Ancora un buon disco quindi per Dale Watson, che sarebbe stato ancora meglio se ne avesse pubblicato anche una versione senza dialoghi ed interruzioni che, obbiettivamente, spezzano il ritmo della serata.

Marco Verdi

Segnarsi Il Nome, Ne Vale La Pena! Sari Schorr – A Force Of Nature

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Sari Schorr – A Force Of Nature – Manhaton Records

Ogni tanto, dal nulla (ma ci sono sempre anni di gavetta e lavoro alle spalle, nel caso in questione, con Popa Chubby e Joe Louis Walker) sbucano nuove voci femminili interessanti: all’inizio dell’anno mi era capitato di parlarvi della finlandese Ina Forsman http://discoclub.myblog.it/2016/02/06/sorpresa-dalla-finlandia-ecco-grande-nuova-voce-blues-ina-forsman/ , di recente anche Annika Chambers http://discoclub.myblog.it/2016/10/12/nuovi-talenti-scoprire-annika-chambers-wild-and-free/ , e pure non scherza la canadese Colleen Rennison dei No Sinner http://discoclub.myblog.it/2016/05/17/anteprima-dal-canada-band-solida-cantante-esagerata-sinner-old-habits-die-hard/ , tutte, chi più chi meno, con diverse sfumature di genere, legate a quel filone rock-blues da cui discendono Beth Hart e Dana Fuchs, aggiungerei anche la svedese Erin Larsson dei Blues Pills http://discoclub.myblog.it/2016/08/09/nuova-razione-pillole-rivigorenti-rock-blues-dal-nord-europa-blues-pills-lady-gold/ . L’ultima arrivata è questa Sari Schorr, americana, “scoperta” da Mike Vernon, il grande produttore inglese nell’epoca d’oro del british blues, mentre era in trasferta al Blues Challenge di Memphis nel 2015 per ricevere il premio “Keeping The Blues Alive” e da lui vista nel corso dei concerti che facevano da contorno alla consegna dei premi.

Favorevolmente colpito dalle notevoli capacità vocali della “ragazza” Vernon ha deciso di produrle il disco di esordio, nei suoi studi spagnoli di Siviglia, portandosi come ospiti, alle chitarre, gente come Walter Trout, Innes Sibun (chitarrista inglese, già nella band di Robert Plant, anni fa) e l’ex giovane prodigio Oli Brown, anche lui inglese e tra i protetti di Vernon. Nel disco suonano dei musicisti spagnoli che non erano apparsi nei recenti dischi (discreti ma non esaltanti) del suddetto Vernon http://discoclub.myblog.it/2015/12/29/il-ritorno-dei-fondatori-del-british-blues-mike-vernon-just-little-bit/ : gente che risponde ai nomi di Quique Bonal, alla chitarra Julian Maeso, tastiere, Jose Mena, batteria e Nani Conde, basso, a loro agio in questo A Force Of Nature, grazie alla voce potente e grintosa della brava Sari, temprata nel rock, ma con venature blues e qualche tocco soul e jazz, più simile come timbro alle citate Dana Fuchs, Larsson o la Rennison che a Beth Hart, più eclettica e francamente di un’altra categoria, rendendo comunque il sound a tratti piuttosto duretto e di chiaro stampo rock-blues, con decise sterzate anche nell’heavy-rock, peraltro di buona qualità, dipanandosi però senza eccessive forzature verso derive fastidiose e pure un po’ tamarre.

Insomma un buon disco nell’insieme: molti i brani firmati dalla stessa Sari Schorr, a partire dal fluido blues-rock dell’iniziale Ain’t Got No Money, dove le chitarre di Bonal e Sibun sono molto presenti e sostengono le vigorose sfuriate vocali della signora https://www.youtube.com/watch?v=NfRl3onLHvI. Aunt Hazel, è sempre un brano rock, ma con vaghi sentori country got soul, la voce molto simile a quella della bravissima Dana Fuchs e le chitarre sempre pungenti, come pure nella suggestiva hard ballad Damn The Reason dove si gusta pure l’ottimo lavoro della solista di Oli Brown. Cat And Mouse introduce elementi funky-soul, con un intrigante wah-wah a dare pepe ad un brano impertinente e sbarazzino, con l’organo sempre di supporto al lavoro brillante della chitarra. La cover di Black Betty più che all’originale di Lead Belly, citato nell’avvio folk, ovviamente si rifà alla versione rock dei Ram Jam, con il classico riff, rallentato e sparato a tutta potenza, a duettare con la voce grintosa della Schorr. Work No More è un brano di Walter Trout, con lo stesso chitarrista americano impegnato alla solista, ben coadiuvato dalle tastiere di Dave Keyes, un ottimo blues elettrico dove la voce di Sari è più misurata e meno sopra le righe.

Anche Demolition Man viaggia ancora in territori blues, con Innes Sibun impegnato a una tagliente slide che punteggia il brano e Bonal alla solista, oppure è viceversa, non saprei, comunque il risultato è ottimo https://www.youtube.com/watch?v=4t_Qi9MM-Ys . Oklahoma ha un taglio più jazzato e raffinato, con la Schorr in grado di padroneggiare la sua esuberanza vocale, mentre Oli Brown lavora di nuovo di fino con la solista, con un solo ricco di feeling e tecnica, per un brano dal crescendo molto piacevole; Letting Go viceversa è una ballata più misurata e raccolta, ricca di raffinate sfumature vocali, con l’organo di Jesus Lavillas a dividersi gli spazi con la lirica chitarra di Sibun. Kiss Me è di nuovo un bel pezzo rock, ricco di riff e grinta, che poi lascia spazio ad una sorprendente e intensa cover di Stop In The Name Of Love, il classico Motown delle Supremes, che diventa una sorta di deep soul ballad di marca Stax, rallentata e rivoltata, in una operazione di restyling perfettamente riuscita, con la Schorr che la canta in modo splendido, da sentire per credere. E a confermare le grandi qualità della nostra amica, in conclusione troviamo una bellissima ballata pianistica come OrdinaryLife, dove si gusta ancora appieno il talento vocale di questa brava cantante. Segnarsi il nome, ne vale la pena.

Bruno Conti      

Una Intrigante Ed Inconsueta Antologia Di Canzoni Da Funerale. Paul Kelly & Charlie Owen – Death’s Dateless Night

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Paul Kelly & Charlie Owen – Death’s Dateless Night – Cooking Vinyl

E’ indubbio che nell’attuale panorama musicale certi dischi nascono per delle coincidenze strane e questo di cui mi accingo a parlarvi, Death’s Dateless Night, rientra sicuramente in questa casistica. Paul Kelly (di cui abbiamo parlato ampiamente su queste pagine virtuali, l’ultima volta per il disco su Shakespeare http://discoclub.myblog.it/2016/04/30/memoria-william-shakespeare-succedeva-400-anni-fa-paul-kelly-seven-sonnets-song/ ), mentre si dirigeva ad un funerale in auto con un suo amico, appunto il polistrumentista e produttore australiano Charlie Owen, si sia chiesto (come molti di noi) quale canzone vorremmo che suonassero al nostro funerale (il sottoscritto per esempio si è già prenotato per Hallelujah di Leonard Cohen): come conseguenza, a questi due mancati rappresentanti delle pompe funebri, è venuta l’idea di registrare un album di tali canzoni, in parte rispolverate dal repertorio di Kelly, altre da brani tradizionali e piccoli “classici” australiani, e alcune cover d’autore (Cohen, Townes Van Zandt, Beatles, Hank Williams).

Detto fatto i due “compari” si sono messi al lavoro nella casa di Owen (un tipo che nella sua carriera ha fatto parte di gruppi dai nomi poco conosciuti, ma amati da chi segue il rock australiano, quali New Christs, Tex, Beasts Of Bourbon) e con Paul alle chitarre acustiche e Charlie che suona di tutto, dal dobro alla lap-steel, dal pianoforte al sintetizzatore, con l’aggiunta occasionale dei membri della famiglia Kelly, con alle parti vocali le figlie Maddy e Memphis, e la sorella Mary,  hanno registrato 12  canzoni affidatie alla  produzione di “padre” Greg Walker (Herbie Hancock, Kenny G. e altri). I “Salmi”, se così vogliamo chiamarli, iniziano in gloria con la pianistica e delicata Hard Times scritta da Stephen Foster, accompagnata da una seducente armonica, a cui fanno seguito una solare cover di To Live Is To Fly, pescata dal repertorio di Townes Van Zandt; ci fanno poi conoscere uno sconosciuto autore australiano come LJ Hill, con la tenue e dolcissima Pretty Bird Tree, rispolverano un vecchio pezzo tradizionale “ blues Make Me A Pallet On Your Floor, rivisitato in chiave “bluegrass” dove si nota la bravura di Owen, per poi recuperare da Wanted Man (94) di Paul Kelly, una nuova versione di Nukkunya con l’armonica in evidenza.

Dopo un attimo di “raccoglimento” si riparte con una vecchia canzone irlandese The Parting Glass (dei fratelli Clancy e Tommy Makem), cantata in modo meraviglioso da Paul “a cappella”, seguita da un’altra sua composizione Meet Me In The Middle Of The Air (questa era sul suo album “bluegrass” Foggy Highway (05), dove vengono riportate le parole del Salmo 23 (spesso recitate ai funerali), mentre la versione dello “standard” Don’t Fence Me In con l’apporto di Maddy Kelly e il coro di Memphis (con la lap-steel di Charlie), è dolce e gentile. Pochi accordi di chitarra e un pianoforte accompagnano e rendono omaggio a Leonard Cohen, con la sempre dolce melodia di Bird On A Wire, senza dubbio la versione migliore del lavoro, e ancora Good Things a ricordare un loro amico scomparso Maurice Frawley (suonava con Paul in uno dei suoi primi gruppi, i Dots), mentre il coro di Memphis e la figlia Maddy si uniscono a papà Paul e Charlie per una educata cover di Let It Be del duo di autori minori britannici tali Lennon-McCartney, e in chiusura di cerimonia viene rivisitata in forma acustica, solo chitarra (Charlie) e voce (Paul) la nota e triste Angel Of Death di un Hank Williams d’annata.

Con questo Death’s Dateless Night prosegue l’interesse di Kelly nel fare dischi a tema (all’inizio di quest’anno ha pubblicato, come ricordato, un EP dedicato ai sonetti di  William Shakespeare Seven Sonnets & A Song), e anche se il rischio che da questa unione con Owen potesse uscire un lavoro “deprimente” era alta, la scelta delle canzoni, scritte da artisti con cui Paul ha condiviso un percorso personale e musicale, si è dimostrata invece un punto di forza (nonostante la particolare tematica del disco), e il risultato finale è quello di un lavoro ben fatto, suonato e cantato bene, con una forte risonanza emotiva, per quanto minore e “carbonaro”.

Gira voce che i due “becchini”, entusiasti del risultato, stiano pensando di fare un sequel. Amen!

Tino Montanari

Devo Averle Già Sentite Da Qualche Parte Queste Canzoni! Dear Jerry: Celebrating The Music Of Jerry Garcia

dear jerry celebrating the music of jerry garcia 2 cd

VV.AA. – Dear Jerry: Celebrating The Music Of Jerry Garcia – Rounder 2CD – 2CD/DVD

Da dopo la morte di Jerry Garcia avvenuta nel 1995, il mercato è stato letteralmente invaso di prodotti che avevano in qualche modo a che fare con i Grateful Dead, ma nessun periodo è minimamente comparabile all’ultimo anno. Da Ottobre 2015 sono infatti usciti, nell’ordine: il megabox di 80 CD 30 Trips Around The Sun (e la sua versione ridotta in quattro CD), i vari formati dei concerti di addio Fare Thee Well, il sontuoso tributo quintuplo Day Of The Dead curato dai National, il triplo della Rhino Red Rocks 1978 (ed il superbox con tutti i concerti del periodo), due volumi ravvicinatissimi della serie Garcia Live ed il nuovo album solista di Bob Weir, Blue Mountain http://discoclub.myblog.it/2016/10/07/finalmente-arrivato-anche-il-momento-che-disco-bob-weir-blue-mountain/ . E non ho citato i nuovi episodi dei Dave’s Picks. Ma i nostri, che la paura di inflazionare il mercato direi che non l’hanno mai avuta, si saranno detti: “Ci siamo dimenticati un bel concerto tributo!”. Detto fatto, ecco qui questo doppio CD (esiste anche con DVD allegato) intitolato Dear Jerry, che documenta l’esito di una serata organizzata da Bob Weir il 14 Maggio dello scorso anno (al Merriweather Post Pavilion di Columbia, Maryland), durante la quale i quattro Dead superstiti (oltre a Weir, Phil Lesh, Bill Kreutzmann e Mickey Hart) si sono alternati sul palco con una bella serie di ospiti. Come però suggerisce il titolo, non è un tributo ai Dead, ma in particolare alle canzoni di Garcia, incluse alcune da lui incise come solista e qualche cover di brani che Jerry usava suonare dal vivo nelle varie configurazioni della Jerry Garcia Band (che è sorprendentemente assente, dato che ancora esiste e si esibisce come JGB, avrebbe potuto partecipare suonando per esempio un brano di Bob Dylan, autore più volte ripreso da Jerry e dai Dead). Certo, un altro lavoro dove si prendono in esame canzoni che nell’ultimo anno sono state strasentite potrebbe far alzare più di un sopracciglio, ma sarebbe un errore ignorarlo, in quanto siamo di fronte ad una performance splendida, con una serie di gruppi e solisti in grande forma, una house band stellare (che comprende gente del calibro di Don Was, che è anche direttore musicale e produttore, Sam Bush, Matt Rollings, Buddy Miller, Audley Freed, ex chitarrista dei Black Crowes, e le McCrary Sisters ai cori), una resa sonora strepitosa e, ma era scontato, una serie di grandi canzoni.  In poche parole, uno dei migliori prodotti Dead-related usciti nell’ultimo periodo, superiore per esempio, e di gran lunga, ai concerti di addio Fare Thee Well, sia come suono che come qualità della performance.

Che non si scherza lo fa subito capire Phil Lesh, che si esibisce con la sua nuova band, i Communion nel medley The Wheel/Uncle John’s Band, suono Dead al 100%, piano liquidissimo (Marco Benevento) e subito due grandi canzoni (anzi, la seconda è forse la mia preferita in assoluto del Morto Riconoscente), per quasi 17 minuti di musica sublime: tra le qualità di Lesh non c’è mai stata la voce, ma questa sera Phil canta stranamente bene, anche se è aiutato, e molto, dalle voci di sostegno del resto del gruppo. Allen Toussaint, qui in una delle sue ultime apparizioni, ci propone l’errebi di sua composizione Get Out Of My Life Woman, un pezzo che Jerry amava molto, con un bel botta e risposta vocale tra Allen e le sorelle McCrary: anche Toussaint non era mai stato un grande vocalist, ma quando appoggiava le dita sulla tastiera riusciva a zittire tutti. David Grisman è un vecchio compagno di viaggio di Jerry, ha inciso con lui diversi bellissimi dischi acustici (oltre a militarci insieme nel supergruppo Old And In The Way), e nell’occasione ci delizia con una splendida versione del traditional Shady Grove, tra folk, bluegrass ed old time music, con ottimi interventi di fisarmonica e violino, altri quattro minuti e mezzo di puro godimento A prima vista Peter Frampton in una serata come questa potrebbe starci come i cavoli a merenda, ma il nostro, alle prese con il classico di Junior Walker (I’m A) Roadrunner, se la cava alla grande: la voce e la chitarra ci sono, e la versione, decisamente potente e roccata, è godibilissima. Buddy Miller non lo scopriamo certo oggi e, alle prese con Deal, una grande canzone, fa faville, dandoci una delle prestazioni più convincenti della serata (bellissimo l’assolo di slide, ma pure Rollings fa i numeri al piano); Jorma Kaukonen va a nozze con brani come Sugaree, e nel concerto ci dà pure un saggio della sua classe con la chitarra, mentre il bravissimo Jimmy Cliff, e ve lo dice uno che non ama il reggae, ci diverte con la sua The Harder They Come insieme a Kreutzmann e Hart, un brano tra i più suonati dalla JGB e, raggiunto anche da Weir, bissa con una discreta Fire On The Mountain. Il primo CD si chiude con il nuovo gruppo di Kreutzmann, Billy And The Kids, che rileggono lo splendido medley che apriva Blues For Allah (Help On The Way/Slipknot!/Franklin’s Tower) in maniera rigorosa, ma con un’energia straordinaria e poi, con i Disco Biscuits, un altro medley stellare con Scarlet Begonias/I Know You Rider, davvero da applausi e con un formidabile assolo chitarristico di Tom Hamilton.

Il secondo dischetto inizia con la rock ballad Loser proposta dai Moe, molto bravi e rispettosi al limite del didascalico, ma il brano è talmente bello che ne esce benissimo ugualmente; eccellenti gli Oar con St. Stephen, alla quale tolgono gli elementi psichedelici e la trasformano in una pura e sontuosa rock song, potente e grintosa; i Los Lobos avevano già suonato Bertha sul tributo Deadicated del 1991 e, insieme a Weir, la replicano in maniera mirabile, grande canzone e grandissima band, mentre i Trampled By Turtles si esibiscono nell’abituale veste acustica con una fulgida Brown-Eyed Women, tra le mie preferite in assoluto dei Dead.

Shakedown Street non mi è mai piaciuta molto, e gli Yonder Mountain String Band, pur mettendocela tutta in una versione stripped-down, non riescono a farmi cambiare idea. Ma subito dopo torna Bob Weir che, in compagnia della bella Grace Potter, rilegge in maniera vibrante Friend Of The Devil, ottima versione, toccante a dir poco, pianistica e molto soulful. Eric Church a mio parere è un sopravvalutato, ma la sua Tennessee Jed, tra country, rock e southern, è ben fatta, anche se meglio, molto meglio fanno i Widespread Panic con una Morning Dew davvero intensa e fluida, impreziosita da un assolo di chitarra incredibile da parte di Jimmy Herring. Gran finale con tre dei quattro Dead (manca Lesh), per una stupenda e corale Touch Of Grey, perfetta in questa posizione visto il testo ottimistico, e tutti insieme per una commovente Ripple, splendida sotto ogni punto di vista, il modo migliore per chiudere una serata da ricordare.

In un anno in cui non sono certo mancati i dischi dal vivo di grande valore, questo Dear Jerry è sicuramente uno dei più belli.

Marco Verdi

Svezia + Italia = Richard Lindgren & Mandolin’ Brothers, Concerto 22 Ottobre Presentazione Album Malmostoso. Spazio Teatro 89 Milano

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Un’altra segnalazione per il fine settimana in musica. Domani sera 22 ottobre alla Spazio Teatro 89 di Milano il cantautore svedese Richard Lindgren e i Mandolin’ Brothers, ancora una volta insieme, presenteranno il nuovo album di Lindgren, Malmostoso, registrato questa estate ai Downtown Sudios di Pavia, undici nuovi brani ispirati dai soggiorni italiani di Richard e dall’amicizia con il gruppo pavese. Qualche titolo? Lonesome Giacomo, Let’s Go To Como Baby, Ragazzon Blues Addio a Pavia. Il disco esce ufficialmente al 28 ottobre, ma dovrebbe essere già disponibile per la serata di presentazione. Se vi chiedete la genesi del titolo, la grafia della copertina dovrebbe aiutare, con Malmo e Stoso divisi, presumo, per creare un gioco di parole tra la provenienza del nostro e il carattere “arcigno”, ma profondo, della sua musica.

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L’etichetta, al solito è la svedese Rootsy, e voci di corridoio mi parlano, in alcuni momenti, di un sound quasi alla Stones epoca Exile On Main Street, quindi diverso dalle consuete ballate intense del bravissimo cantautore svedese, dalla voce vissuta e con una cospicua discografia alla spalle, questo è il suo dodicesimo album e per chi non lo conosce potrebbe essere una gradita sorpresa, gli aficionados che già lo seguono potranno godersi una serata full band (magari con altri ospiti), dove nella prima parte suoneranno appunto i Mandolin’ Brothers, che presenteranno brani estratti dalla loro discografia e magari un omaggio al recente premio Nobel (se Jimmy legge queste righe sa) e forse chissà, di una sorpresa in arrivo.

Per chi non lo conoscesse e vuole approfondire i suoi CD, tra cui l’ultimo splendido Sundown On A Lemon Tree, di cui ascoltate la title-track qui sopra, sono distribuiti in Italia dalla Ird. Quindi per verificare lo stato delle cose non mancate domani sera. Naturalmente dopo l’uscita, appena possibile, recensione completa del disco.

Bruno Conti

Una Grande Serata Per Chiudere Il Cerchio! Nitty Gritty Dirt Band & Friends – Circlin’ Back

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Nitty Gritty Dirt Band & Friends – Circlin’ Back: Celebrating 50 Years – NGDB/Warner CD – DVD

Oggi si parla molto poco della Nitty Gritty Dirt Band, e ci si dimentica spesso che nei primi anni settanta fu una delle band fondamentali del movimento country-rock californiano in voga all’epoca, che vedeva Byrds e Flying Burrito Brothers come esponenti di punta. Formatisi nel 1966 a Long Beach (e con un giovanissimo Jackson Browne nel gruppo, con il quale purtroppo non esistono testimonianze discografiche), la NGDB stentò parecchio durante i primi anni, trovando poi quasi per caso un inatteso successo con la loro versione del classico di Jerry Jeff Walker Mr. Bojangles (ancora oggi il loro brano più popolare), tratto dall’ottimo Uncle Charlie And His Dog Teddy. Ma, bei dischi a parte (All The Good Times ed il doppio Stars & Stripes Forever sono due eccellenti album del periodo), la loro leggenda iniziò quando nel 1972 uscì Will The Circle Be Unbroken, un triplo LP magnifico, nel quale il gruppo rivisitava brani della tradizione country con un suono più acustico che elettrico e come ospiti vere e proprie leggende come Mother Maybelle Carter, Merle Travis, Roy Acuff, Earl Scruggs, Jimmy Martin e Doc Watson, e che anticipava quella riscoperta della musica e delle sonorità dei pionieri che oggi è molto diffusa, ma all’epoca era quasi rivoluzionaria: un disco che, senza esagerare, potrebbe essere definito da isola deserta, e che negli anni ha avuto due seguiti (1989 e 2002), entrambi splendidi ed a mio giudizio imperdibili, ma che non ebbero l’impatto del primo volume.

Dalla seconda metà degli anni settanta la carriera del gruppo prese una china discendente (fino al 1982 si accorciarono pure il nome, ribattezzandosi The Dirt Band), per poi ridecollare nella seconda parte degli ottanta, in coincidenza con la rinascita del country, con ottimi album di successo come Hold On e Workin’ Band. Negli ultimi 25 anni la loro produzione si è alquanto diradata, anche se sempre contraddistinta da una qualità alta, portando però il gruppo a non essere più, per usare un eufemismo, sotto i riflettori: lo scorso anno però i nostri hanno deciso di riprendersi la scena festeggiando i 50 anni di carriera con un bellissimo concerto, il 14 Settembre, al mitico Ryman Auditorium (che sta a Nashville come la Royal Albert Hall sta a Londra), preludio ad una lunga tournée celebrativa in corso ancora oggi. Circlin’ Back è il risultato di tale concerto, un bellissimo CD dal vivo (esiste anche la versone con Dvd aggiunto) nel quale la NGDB riprende alcune tra le pagine più celebri della sua storia, con l’aiuto di una bella serie di amici e colleghi. I nostri avevano già celebrato i 25 anni nel 1991 con l’eccellente Live Two Five, che però vedeva sul palco solo i membri del gruppo, ma con questo nuovo CD siamo decisamente ad un livello superiore.

Il nucleo storico dalla band è rappresentato da Jeff Hanna e Jimmy Fadden, ed è completato da John McEuen, vera mente musicale del gruppo e comunque con loro dal 1967 al 1986 e poi di nuovo dal 2001 ad oggi, e da Bob Carpenter, membro fisso dai primi anni ottanta (mentre l’altro dei compagni “storici” Jimmy Ibbotson, fuori dal 2004, è presente in qualità di ospite), con nomi illustri a completare la house band quali Byron House al basso, Sam Bush al mandolino e violino e Jerry Douglas al dobro e steel, i quali contribuiscono a dare un suono decisamente “roots” alle canzoni. La serata si apre con una vivace versione di You Ain’t Goin’ Nowhere di Bob Dylan, più veloce sia di quella di Bob che dei Byrds, con assoli a ripetizione di mandolino, dobro, violino e quant’altro, una costante per tutta la serata: ottima partenza, band subito in palla e pubblico subito caldo. Il primo ospite, e che ospite, è John Prine, con la mossa e divertente Grandpa Was A Carpenter (era sul secondo volume di Will The Circle Be Unbroken) e la splendida Paradise, una delle sue più belle canzoni di sempre: John sarà anche invecchiato male, ma la voce c’è ancora (a dispetto di qualche scricchiolio) e la classe pure. My Walkin’ Shoes, un classico di Jimmy Martin, è il primo brano tratto dal Will The Circle del 1972, ed è uno scintillante bluegrass dal ritmo forsennato, un bell’assolo di armonica da parte di Fadden e McEuen strepitoso al banjo; sale poi sul palco Vince Gill, che ci allieta insieme ai “ragazzi” con la famosissima Tennessee Stud (Jimmy Driftwood), nella quale ci fa sentire la sua abilità chitarristica, dopo aver citato Doc Watson come fonte di ispirazione, e la fa seguire da Nine Pound Hammer, di Merle Travis, altro bluegrass nel quale duetta vocalmente con Bush, e tutti suonano con classe sopraffina, con il pubblico che inizia a divertirsi sul serio.

Buy For Me The Rain è una gentile e tersa country ballad tratta dal primo, omonimo album dei nostri, molto gradevole ed anche inattesa dato che come dice Hanna non la suonavano da 35 anni; è il momento giusto per l’arrivo di Jackson Browne, accolto da una vera e propria ovazione, il quale propone il suo classico These Days, in una versione decisamente intima e toccante, e poi si diverte con l’antica Truthful Parson Brown, un brano degli anni venti dal chiaro sapore old time tra country e jazz, davvero squisito. E’ la volta quindi della sempre bella e brava Alison Krauss, che ci delizia con una sublime e cristallina Keep On The Sunny Side, notissimo country-gospel della Carter Family, e con la bella Catfish John, scritta da Bob McDill (ed incisa da tanti, tra cui anche Jerry Garcia), country purissimo con ottima prestazione di Douglas al dobro; Alison rimane sul palco, raggiunta da Rodney Crowell, che esegue due suoi pezzi, la solare e godibilissima An American Dream, un brano che sembra scritto per Jimmy Buffett, e la bellissima ed intensa Long Hard Road.

Poteva forse mancare Mr. Bojangles? Assolutamente no, così come non poteva mancare il suo autore, Jerry Jeff Walker, che impreziosisce con la sua grande voce ed il suo carisma una canzone già splendida di suo: uno dei momenti più emotivamente alti della serata. Fishin’ In The Dark è stato uno dei maggiori successi della NGDB, che in questa rilettura torna ad essere un quintetto in quanto è raggiunta da Jimmy Ibbotson, e la canzone rimane bella e coinvolgente anche in questa veste meno radio-friendly di quella originale del 1987. Il vivace medley Bayou Jubilee/Sally Was A Goodun, dove il gruppo si lascia andare ad un suono più rock, prelude al gran finale di Jambalaya, il superclassico di Hank Williams (in una travolgente versione tutta ritmo) ed alla conclusiva, e non poteva che essere così, Will The Circle Be Unbroken, con tutti quanti sul palco a celebrare la carriera di uno dei più importanti gruppi country-rock di sempre, altri sei minuti di puro godimento sonoro.

Gran bel concerto, inciso tra l’altro benissimo: praticamente imperdibile.

Marco Verdi

La Bellezza E Le Tenebre. Leonard Cohen – You Want It Darker

leonard cohen you want it darker

Leonard Cohen – You Want It Darker – Sony Music – 21/10/2016

Poeta, romanziere, cantautore, Leonard Cohen alla veneranda età di 82 anni prosegue il suo recente percorso musicale, iniziato con Old Ideas (12), proseguito con Popular Problems (14) http://discoclub.myblog.it/2014/09/19/padre-figlio-parte-leonard-cohen-popular-problems/ , e ora con questo nuovo lavoro You Want It Darker,  il 14° della sua carriera, con il consueto stile omogeneo per tutto il disco, negli ultimi tempi ormai quasi più prossimo alla recitazione che al canto, e lascia ancora una volta al coro  (Congregation Shaar Hashomayin Synagogue Choir la sinagoga di Montreal, quella della sua gioventù), il compito di dare la più consona sembianza melodica alle canzoni. Ad accompagnarlo in questo nuova fatica troviamo il fidato polistrumentista Patrick Leonard alle tastiere, piano, organo B3, pedale basso, Rob Humphreys alla batteria, Neil Larsen anche lui all’organo B3, Sean Hurley al basso, Bill Bottrell alla pedal-steel e alla chitarra elettrica, Michael Chaves, tastiere aggiunte e programmazione e Adam Cohen (figlio di Leonard, anche co-produttore del disco con Pat Leonard) alle chitarre.

Anche (come i precedenti album) parrebbe una sorta di testamento spirituale (Cohen si rende conto della sua età, e teme che ogni nuovo disco sia l’ultimo), e l’iniziale title track ne è la testimonianza,  si apre con dei cori, poi entra la splendida voce profonda di Leonard che viene accompagnata sul finire dal tenore Gideon Y Zelermyer, che canta dei versi in “ebraico”, brano a cui fa seguito una dolcissima e pianistica Treaty (ideale proseguimento di Show Me The Place che era in Old Ideas), mentre On The Level (scritta con l’abituale collaboratrice Sharon Robinson) rompe la consuetudine musicale con un suono più ricco, dove l’organo, il pianoforte e le voci femminili “gospel” valorizzano la canzone, per poi passare ad una splendida Leaving The Table in cui le note di una chitarra accompagnano il canto soffuso di Cohen; ci scaldiamo poi al calore di una intensa If I Didn’t Have Your Love. I ricami di un bouzouki e di un violino “tzigano” sono posti in apertura di Traveling Light con di nuovo i cori in evidenza e la voce della cantautrice greca Athena Andreadis a riannodare i legami con l’amata Grecia, mentre la recitativa It Seemed The Better Way con ancora un violino “struggente” in sottofondo, è quasi sussurrata, per poi aprirsi alle atmosfere più classiche, quasi “arabeggianti” di una intrigante Steer Your Way, dove alle armonie vocali appaiono Alison Krauss Dana Glover (già presente negli ultimi album di Cohen), e chiudere in modo meraviglioso con una ripresa strumentale per quartetto d’archi di Treaty, perfetta per i titoli di coda in un ipotetico film sulla sua vita, ma recentemente ha detto di averci ripensato e che vorrebbe vivere fino a 120 anni, auguri!

leonard cohen you want it darker photo

In più di sessant’anni di sconfinamenti tra letteratura, poesia e canzone, Leonard Cohen in tutto questo lasso di tempo ci ha regalato splendide pagine di vita vissuta, tra turbamenti religiosi e malinconie esistenziali, tutte tematiche che si riscontrano anche in questo You Want It Darker, un lavoro intimo, frutto di un processo creativo e sincero, composto da nove piccole “perle” che colpiscono ancora una volta l’ascoltatore per il tono soffuso e romantico, con ballate d’amore in cui il dolore, la solitudine e la paura della morte sono ammesse senza vergogna, costruite musicalmente su raffinati arrangiamenti in cui il pianoforte, il violino, le tastiere e poco altro, sono i soli strumenti (con i cori) ad accompagnarlo e lo fanno in maniera discreta ma spesso decisiva.

Alla fine di luglio è morta (di leucemia) Marianne Ihlen, musa e amante di Cohen (ricordata con una commovente lettera) che ha ispirato le famose So Long Marianne e Bird On A Wire, e questo fatto, oltre a tutti i personaggi scomparsi in questo funesto anno, lo porta ad essere ragionevolmente consapevole della sua età anagrafica. E ci porta però a dire: lunga vita Mr. Cohen!

*NDT. E non a caso, per tutti gli estimatori del “maestro”, sembra che il collaboratore di lunga data Pat Leonard abbia rivelato che il cantautore sia già al lavoro per il prossimo album (pare un lavoro orchestrale)!

Il disco esce domani.

Tino Montanari

Sangue e Sudore, Rabbia e Passione Sul Palco Di Un Locale “Mitico”! Joe Grushecky & The Houserockers – American Babylon Live At The Stone Pony

joe grushecky american babylon live

Joe Grushecky & The Houserockers – American Babylon Live At The Stone Pony – Self-released

A distanza di vent’anni dall’uscita di American Babylon (95), un album bello e ben fatto, con il pregio o il difetto (dipende da come si guardano le cose) che sembrava un disco di Springsteen cantato da un altro (infatti era prodotto dal Boss), Joe Grushecky e i suoi fidati Houserockers tornano ad Asbury Park, New Jersey, nel mitico club Stone Pony, per rivisitare “la pietra miliare” della propria carriera, in due torride serate svoltasi il 23 e 24 Ottobre del 2015. Davanti ad un pubblico entusiasta e caloroso, il buon Grushecky sale sul palco con l’attuale line-up della sua band storica. composta da Art Nardini al basso, Joffo Simmons alla batteria, Joe Pelesky alle tastiere, Danny Gochnour alla chitarra e mandolino, il bravissimo Eddie Manion al sax, e il “figlio d’arte”, ma vero, Johnny Grushecky, che si alterna alle chitarre e percussioni, per una performance di brani “muscolosi” che a tratti non fanno rimpiangere la mitica E-Street Band dei tempi d’oro, dell’amico fraterno Bruce.

La serata parte con il ritmo indiavolato della splendida Dark And Bloody Ground  dove le chitarre fanno scintille, seguita da una Chain Smokin’ che sembra quasi uscita con la carta carbone da un disco del Boss, dalla ballatona Never Be Enough Time con robusta sezione ritmica, per poi cambiare subito registro con la “rollingstoniana” American Babylon, e ancora dalla dominante Labor Of Love, sorretta da una batteria “granitica” e da un bel gioco di chitarre e tastiere, e chiudere alla grande la prima parte con il rock urbano di una “tirata” What Did You Do In The War. Dopo un paio di birre (forse un po’ di più) ghiacciate, si riparte con il rock venato country di Homestead, con mandolino, armonica e chitarre acustiche in gran spolvero (questa canzone e il brano iniziale portano entrambe la firma di Bruce Springsteen), mentre con Comin’ Down Maria si viaggia dalle parti del Messico, con il bel controcanto di Reagan Richards (nel disco di studio dava la voce Patti Scialfa, moglie del Boss), a cui fa seguito il meraviglioso talkin’ blues alla Willy DeVille di Talk Show con il lancinante sax di Eddie Manion in evidenza, per poi alzare ulteriormente il ritmo con No Strings Attached, una pausa per l’arioso valzer agreste di Billy’s Waltz, e a chiudere la rivisitazione dell’album arriva il blue-collar rock poderoso di Only Lovers Left Alive, dove gli Houserockers (un tempo Iron City Houserockers), dimostrano di essere ancora oggi una delle migliori “boogie-bar band” d’America.

Classico “working class hero” di vecchio stampo, Joe Grushecky è nato e cresciuto all’ombra di Bob Seger e Bruce Springsteen, ha sempre fatto dischi di buona fattura (anche se con alti e bassi) con canzoni urbane dal forte tessuto elettrico, suonate e cantate con fierezza da un musicista onesto che non si è mai venduto, e animato da uno spirito “operaio” ha cantato la stessa America del Boss, supplendo alla mancanza del genio di Bruce, con un rock realistico e vissuto, che si rivolgeva in particolare ad un seguito di “zoccolo duro” che usciva dalle fabbriche di Pittsburgh.

Come in ogni esibizione dal vivo, quando salgono sul palco Joe Grushecky e i suoi Houserockers danno il meglio di loro stessi, e anche questo American Babylon Live At The Stone Pony ne è l’ennesima conferma, con una manciata di belle canzoni, suonate in perfetto rock stradaiolo, album che piacerà a chi segue da tempo Grushecky, ai fans di Springsteen, e non solo a quelli. Imperdibile per rientra in queste categorie!

NDT: Purtroppo il CD non è di facile reperibilità, ma se vi “smazzate” sulle piattaforme in rete o sul suo sito, è possibile venirne in possesso.

Tino Montanari

Oggi Il Rock And Roll Fa 90! Ma Soprattutto Chuck Berry Che Li Compie.

Chuck Berry performs at BB Kings

Chuck_Berry_1971 chuck berry duck walk

Charles Edward Anderson Berry detto Chuck Berry, nasceva il 18 ottobre del 1926 in quel di St. Louis, Missouri da una famiglia del ceto medio afroamericano e sarebbe stato quello che più di tutti, più di Elvis Presley, Jerry Lee Lewis, Carl Perkins Johnny Cash, ovvero il million dollar quartet, più di Fats Domino, Sister Rosetta Tharpe Bill Haley, che ne furono i precursori, fu colui che segnò il passaggio dal Rhythm And Blues al Rock And Roll. Stringendo molto e tralasciando gente come Little Richard, Bo Diddley Gene Vincent. O il R&R forse nacque con Rocket 88 di Jackie Brenston nel 1951…

Chuck Berry lo codificò con Maybellene nel 1955.

Secondo Keith Richards, o così ci racconta nel film Hail! Hail! Rock’n’Roll, lo fece prendendo le due note soliste di un piano nel jump blues, trasferendole alla chitarra elettrica, che divenne lo strumento principe della nuova musica (e già che c’era inventò anche il duck walk).

Ma prima ci furono tutta una serie di brani incredibili, per quello che è stato probabilmente anche il più grande autore di canzoni della storia del R&R (e non solo)!

Vediamone alcune delle più famose in sequenza: con Tina Turner.

Con un baffuto Bruce Springsteen.

Con John Lennon.

Nel film Pulp Fiction.

E con il suo ultimo grande successo, una canzone sul…come dire…non mi viene, su un organo, ma che non è uno strumento musicale: insomma ci siamo capiti!

E dal vivo a Londra nel 1972.

Se avete dei risparmi da parte, qui nel box da 18 CD della Bear Family c’è tutto!

chuck berry rock and roll music

Auguri Chuck!

Bruno Conti

Ma Allora Sanno Ancora Fare Grandi Dischi! Phish – Big Boat

phish big boat

Phish – Big Boat – JEMP CD

Dalla loro reunion nel 2009, in seguito alla separazione avvenuta nel 2004 dopo l’ottimo Undermind (separazione alla quale non avevano creduto in molti, almeno non al fatto che fosse definitiva), i Phish non hanno inciso moltissimo, anche se sono stati sempre attivi dal vivo, sia con i concerti che con le ristampe d’archivio. Joy, del 2009 appunto, era un buon disco, con tre-quattro ottime canzoni e qualche episodio più di routine, ma Fuego, di due anni orsono, era parecchio involuto, con brani che faticavano ad emergere ed un pesante senso di già sentito, quasi come se la popolare band del Vermont avesse pubblicato il disco più per dovere che per reale intenzione  (*NDB Per una volta, non sono d’accordo, come avevo scritto ai tempi http://discoclub.myblog.it/2014/08/04/se-ci-fossero-bisognerebbe-inventarli-phish-fuego/.) Era quindi lecito pensare che il gruppo formato da Trey Anastasio, Mike Gordon, Page McConnell e Jon Fishman fosse arrivato quasi a fine corsa, almeno in termini di ispirazione (dato che dal vivo continuano ad essere formidabili), e che la loro rimpatriata fosse più una cosa a fini pecuniari che per una reale voglia di continuare il percorso intrapreso nell’ormai lontano 1983. Ebbene, sono il primo ad essere contento nell’affermare di essermi sbagliato, in quanto il loro nuovissimo lavoro, intitolato Big Boat, non solo è il loro migliore da quando hanno ricominciato, ma non sfigurerebbe accanto a nessun album della loro discografia pre-2004. I quattro sono di nuovo ispirati, suonano alla grande (ma questo non avevano mai smesso di farlo) e, cosa più importante, hanno ripreso a scrivere grandi canzoni.

Big Boat, prodotto come il precedente Fuego dal grande Bob Ezrin (Alice Cooper, Lou Reed, Deep Purple, Kiss, Pink Floyd, Peter Gabriel, non proprio un pirla quindi) è proprio questo, un disco di canzoni, che tralascia parzialmente le jam per le quali i nostri sono diventati famosi (tranne in un paio di casi) e lascia spazio alle melodie, accompagnandole in maniera sublime, grazie alla splendida chitarra di Anastasio, al formidabile pianoforte di McConnell, ed alla sezione ritmica schiacciasassi di Gordon e Fishman (più diversi sessionmen tra cui una splendida sezione fiati). Da tempo non sentivo un disco con dodici brani di questo spessore tutti insieme (su tredici, solo uno è una schifezza, ma glielo perdoniamo), una sorpresa ancora più gradita in quanto cominciavo a considerare l’ascolto dei nuovi CD del quartetto come un dovere e non più un piacere. E non è che, come accadeva spesso in passato, solo i brani di Trey sono di livello superiore (un po’ come succedeva nei Grateful Dead con Garcia, tanto per citare un gruppo tanto caro ai nostri), ma anche i suoi tre compagni sono in stato di grazia dal punto di vista del songwriting, facendo di Big Boat uno degli album a mio giudizio imperdibili di questo 2016 che si avvia quasi al termine.

Friends dà il via al disco, una rock song fluida e potente, con lo splendido piano di McConnell a dialogare egregiamente con la chitarra di Anastasio (ma anche il drumming di Fishman, che tra l’altro è l’autore del brano, è notevole), un suono molto classico per una canzone creativa, densa, piena di idee, che immagino farà faville dal vivo. Breath And Burning è il primo singolo, ed è una canzone splendida, solare, godibile, quasi caraibica, con una tersa melodia tipica di Trey, ed i fiati a mo’ di ciliegina su una torta già saporita di suo; anche Home è un gran bel pezzo, disteso e diretto, quasi pop ma con classe, ancora con Trey e Page (che l’ha scritta) a guidare le danze, e nel finale un accenno di jam, con McConnell che si conferma un pianista eccezionale. Molto gradevole anche Blaze On, che ricorda molto da vicino certi pezzi solari dei Dead (tipo Scarlet Begonias), con il suo ritornello da canticchiare al primo ascolto e, tanto per cambiare, un grande pianoforte (ma che ve lo dico a fà?), così come bellissima è Tide Turns, un errebi puro e dal motivo decisamente fruibile, una delle migliori canzoni che ho ascoltato ultimamente, sarebbe stato bene anche sul disco dello scorso anno di Anderson East, con la sua melodia classica ed i fiati (guidati da Jim Horn) usati con classe e misura.

Dopo la breve Things People Do, una specie di filastrocca per sola voce e chitarra elettrica, abbiamo la vibrante Waking Up Dead (di Gordon), una sorta di pop song lisergica, con soluzioni ritmiche e melodiche non scontate, il classico Phish sound insomma, mentre Running Out Of  Time è una deliziosa folk ballad con il solo Anastasio per il primo minuto e mezzo, poi entra il resto del gruppo, sebbene in punta di piedi, bellissima anche questa, un altro dei molti highlights del CD. La funkeggiante e ritmata No Men In No Men’s Land, molto energica (e come suonano), precede la fantastica Miss You, più di sette minuti di puro godimento, una rock ballad classica e dal motivo splendido, suonata alla grandissima (e con Anastasio stratosferico), una delle canzoni più belle dell’anno. A questo punto sarei già contento, ma abbiamo ancora tre pezzi, a cominciare dalla strana I Always Wanted It This Way, una pop song elettronica e sintetizzata, completamente fuori contesto in questo disco (e lo sarebbe in qualsiasi disco dei nostri), stava meglio forse negli ultimi lavori dei Mumford And Sons, quelli brutti però. Uno scivolone che mi sento di perdonare, anche perché c’è ancora More, un’altra rock song molto anni settanta (e molto Anastasio), con melodia liquida e solito piano strepitoso, e la maestosa Petrichor, più di tredici minuti di puro suono Phish, con cambi di ritmo continui e soluzioni melodiche molto Dead, un’irresistibile canzone-jam che chiude alla grande un disco sopraffino.

Non solo il migliore degli ultimi tre lavori, ma sicuramente un album allo stesso livello di Rift, Hoist e Billy Breathes: aspettatevi di rivederlo nelle classifiche di fine anno.

Marco Verdi