Pentangle – Finale An Evening With Pentangle – 2 CD Topic Records
Credo sia noto a tutti (e a quelli che non ne sono edotti, per ragioni varie, immagino per lo più anagrafiche, lo stiamo dicendo adesso) che i Pentangle siano stati una delle formazioni chiave del filone del cosiddetto folk-rock britannico, insieme a Fairport Convention, Steeleye Span, e per certi versi anche Albion Band e Incredible String Band, oltre a molte altre definite minori, ma non per questo meno importanti. Il revival del folk nelle isole britanniche nasce, più o meno, all’inizio degli anni ’60 – e qui certo non ne tracceremo la lunga storia – grazie alla spinta di personaggi come Davy Graham, Ewan MacColl, Martin Carthy, Shirley Collins, i Watersons, oltre a moltissimi altri, tra cui spiccano certamente Bert Jansch e John Renbourn. Proprio questi ultimi due, unendosi ad altri musicisti, dopo alcune prove come solisti ed in coppia, diedero vita nel 1967 ai Pentangle, che furono gli iniziatori di una sorta di sotto filone unico, il folk jazz, dove oltre al folk della tradizione, rappresentato dalla splendida e cristallina voce di Jacqui McShee, anziché il rock, confluivano elementi jazz rappresentati da Terry Cox alla batteria e dallo straordinario Danny Thompson al contrabbasso. Poi naturalmente nel corso degli anni e dei dischi, sarebbero entrate anche le infiltrazioni etniche, portate dal sitar di John Renbourn, e gli elementi blues che si univano al folk, nel lavoro di entrambi i chitarristi, Bert Jansch, anche voce solista insieme alla McShee e il citato Renbourn.
Non tracciavano forse la storia completa neppure dei Pentangle, ma i sei album pubblicati dalla formazione originale tra il 1967 e il 1973 sono essenziali per ogni appassionato della buona musica, a prescindere dal genere. In alternativa (o in aggiunta) potreste anche rivolgervi allo splendido cofanetto The Time Has Come, un box di 4 CD, pubblicato nel 2007 in occasione del 40° anniversario, e che raccoglie il meglio del repertorio della formazione originale, arricchito da materiale vario, raro ed inedito. Poi esistono molti dischi anche delle varie formazioni che si sono susseguite nel corso degli anni e tuttora circola una formazione definita Jacqui McShee’s Pentangle, che la vede unica sopravvissuta del quintetto iniziale. Ma nel 2007, prima per ricevere il BBC Radio 2 Lifetime Achievement Award, eseguendo per l’evento anche due brani, per la prima volta insieme dopo 25 anni, e soprattutto l’anno successivo, con un tour di 12 date, preceduto da due apparizioni al programma televisivo di Jools Holland, il gruppo fu ancora una volta in grado di riproporre quella magica miscela musicale definita “folk-jazz”, ma che in fondo non era categorizzabile, diciamo Musica con la M maiuscola.
Il risultato di quei concerti ha avuto una lunga gestazione: Bert Jansch che stava seguendo il mixaggio e la messa in sequenza dei brani, scompare nel 2011, mentre John Renbourn che aveva preparato i masters originali ci ha lasciato a sua volta nel 2015. Ma alla fine la Topic, l’etichetta degli album originali, ce l’ha fatta, e abbiamo tra le mani questo Finale, un doppio CD splendido, con 21 brani estratti da otto dei dodici concerti, ma che all’ascolto non palesano differenze, dando l’impressione di ascoltare il risultato di “Una Serata Con i Pentangle”. Il suono è splendido, e le canzoni ancora di più, la chimica tra i vari componenti della formazione è rimasta inalterata, e Jansch e Renbourn, anche se non più giovani e malandati in salute, sono in grado di mandare più di un brivido nella schiena degli ascoltatori, e pure gli altri non scherzano, soprattutto la McShee, ancora in possesso di una voce splendida. Diciamo che questo doppio è un documento pressoché perfetto del loro repertorio Live, sfiorato nella parte dal vivo di Sweet Child e nel Live 1994 dove c’erano solo Jansch e McShee. Il concerto, nella ricostruzione discografica, si apre con Let No Man Steal Your Thyme, che era proprio il brano che apriva la prima facciata del debutto The Pentangle, subito con la splendida fusione delle chitarre di Renbourn e Jansch, svolazzanti ed imprendibili, sostenute dal finissimo lavoro della sezione ritmica, dove giganteggia Thompson e con Jacqui McShee splendida.
Il primo classico è Light Fight, tratta da Basket Of Light, con complessi intrecci strumentali e vocali, per una versione ai limiti della perfezione. Mirage, di nuovo dal primo album, si avvale di alcune improvvisazioni dell’elettrica di Renbourn ed è di nuovo magnifica. Da Basket…viene Hunting Song una composizione corale, uno dei brani più lunghi del concerto (pezzi che raramente superano i sette minuti, optando per versioni concise ma di rara efficacia, quindi, purtroppo, come potete intuire, niente Jack Orion), con Cox che si esibisce al classico glockenspiel, per un brano dove il lato folk della band è più in evidenza, sognante ed etereo, come la voce di Jacqui, qui doppiata per la prima volta da quella di Jansch. Come nella dolcissima Once I Had A Sweetheart, sempre dal terzo album, uno dei più saccheggiati, mentre Market Song, la prima dove la voce solista è quella di Jansch, segnata dal tempo, ma ancora inconfondibile, viene dalla parte Live del seminale Sweet Child, altra versione deliziosa. E ancora da quel disco, la parte di studio, viene il magnifico (sono a corto di aggettivi) strumentale In Time, dove il brano viene propulso dal contrabbasso di Thompson e Danny Cox si concede un breve assolo di batteria; People On The Highway era sull’ultimo album Solomon’s Seal (a dimostrazione che tutto il repertorio viene rivisitato), una delle canzoni più “americane” tra quelle scritte da Bert Jansch per il gruppo. Jansch che imbraccia il banjo per la successiva House Carpenter (di nuovo da Basket Of Light), mentre Renbourn passa al sitar, e Bert divide la parte vocale con Jacqui, mentre la musica, come si può immaginare assume derive orientaleggianti.
Cruel Sister come la vogliamo definire? Incantevole, superba, mirabile, fate voi: una delle loro canzoni più belle, era sull’album omonimo e il sitar di Renbourn aggiunge un tocco magico alla splendida interpretazione vocale della McShee. The Time Has Come (un brano di Annie Briggs, un’altra delle “eroine” del folk revival inglese) era nella parte dal vivo di Sweet Child, e permette ancora una volta di gustare la squisita vocalità della McShee. Bruton Town era sia nel live come nel primo disco, un traditional corale, arrangiato da tutta band, A Maid That’s Deep In Love, di nuovo da Cruel Sister, con Jansch al dulcimer, ancora più apprezzabile nei particolari grazie al perfetto sound dell’album, è seguita da I’ve Got A Feeling, la loro interpretazione blues di un brano di Miles Davis. The Snows, di nuovo da Solomon’s Seal, è un altro brano immerso nella tradizione folk più profonda, cantato da Bert, nel suo stile conciso e scarno, ma efficace. Non poteva mancare un altro omaggio al grande jazz, con la loro versione unica di Goodbye Pork Pie Hat di Charles Mingus, dove Danny Thompson fa i numeri al contrabbasso, ma anche tutti gli altri non scherzano, soprattutto Renbourn. Di nuovo un traditional da Sweet Child, No More My Lord, prima di un’altra perla da Solomon’s Seal, Sally Free And Easy, anche questa dalla tradizione del folk britannico. Wedding Dress è una delle due proposte estratte da Reflection, insieme alla traccia conclusiva che vediamo tra un attimo, in mezzo c’è una versione stupenda e scintillante della incredibile Pentangling, uno dei loro cavalli di battaglia assoluti. E a suggellare questo concerto rimane la loro versione, dal lato Atlantico della Manica, di Will The Circle Be Unbroken, che però purtroppo chiude il cerchio della loro carriera in modo definitivo ed inequivocabile, anche se nel 2011 si esibirono ancora in alcune date dal vivo e si dice abbiamo registrato del materiale inedito in studio, quindi mai dire mai. Lo devo dire, mi dispiace: imperdibile!
Bruno Conti