Una Delle Ultime Grandi Voci Della Soul Music “Vera”! Otis Clay – Live In Switzerland, 2006

otis clay live in switzerland

Otis Clay – Live In Switzerland, 2006 – 2 CD S’more Entertainment/Rockbeat Records

L’8 gennaio di quest’anno ci ha lasciato anche Otis Clay, due giorni prima della morte di David Bowie, notizia che ha però inevitabilmente oscurato la scomparsa del grande cantante soul (e blues). Una delle ultime grandi voci storiche dell’epoca d’oro della musica nera, forse dalla carriera non ricca di grandi successi discografici: lo si ricorda soprattutto per Trying To Live My Life Without You, un brano che comunque raggiunse una posizione solo intorno alla centesima delle classifiche, e che faceva parte dell’album omonimo pubblicato per la Hi Records di Willie Mitchell, pezzo che molti ricordano anche per la bella versione che ne fece Bob Seger sul Live del 1981 Nine Tonight. E proprio nei concerti dal vivo ha costruito la propria reputazione Otis Clay: con una serie di album pubblicati tra il 1978 e il 1985, culminati nello strepitoso Soul Man – Live In Japan, un doppio poi uscito anche in CD, che è la vera quintessenza del grande soul, del rhythm and blues più sanguigno, entrambi innervati da potenti dosi di gospel, la musica che Clay aveva praticato nella lunga fase precedente la sua “conversione” alla musica secolare.

In possesso di una grande voce Clay, nei due anni che hanno preceduto la sua morte aveva pubblicato una coppia di album di duetti, entrambi notevoli: il primo Soul Brothers con Johnny Rawls, un altro dei monumenti della musica nera, e l’altro This Time Is For Real, insieme al suo discepolo e amico bianco Billy Price. Entrambi vincitori di svariati premi di categoria nelle varie poll di categoria di fine anno. Questo Live In Switzerland, 2006, registrato a Bellinzona nel giugno di quell’anno è un giusto compendio e commiato per la carriera di un cantante spesso sottovalutato e poco ricordato, anche dagli appassionati del genere. Accompagnato da una ottima band, con tre musicisti ai fiati, tre voci femminili di supporto e la consueta formazione chitarra-organo-basso e batteria, il grande Clay sciorina il suo repertorio con una classe ed un carisma invidiabili: serata calda in quel di Bellinzona, con il concerto che si apre con il consueto brano strumentale per scaldare i muscoli dei musicisti, una Hard Working Man rilassata, tra jazz e R&B. la qualità sonora è molto buona senza essere eccelsa (non a livello del Live In Japan) ma si apprezza subito la vocalità del nostro nell’inizio affidato a Here I Am ( Come and Take Me), un mid-tempo dove la voce rauca e vissuta di Clay, sostenuta da coriste e sezioni fiati, comincia a spaziare tra soul e errebì energico, You’re The One I Choose è il primo brano dalla chiara impronta gospel, poi secolarizzata in un sincopato arrangiamento con i fiati ben in evidenza, la voce forse non ha più la potenza di un tempo ma il mestiere e la “gigioneria” del vecchio marpione emergono quando serve.

I Can Take You To Heaven Tonight, un lungo brano dal repertorio del grande Bobby “Blue” Bland, è la prima di una serie di ballate deep soul, sanguigne e di notevole intensità, Clay inizia a titillare il pubblico con le malizie del veterano soulman, poi virate verso il R&B energico di una A Nickel And A Nail che era il cavallo di battaglia del compagno di etichetta O.V. Wright, cantata con grande verve e incorniciata da un ottimo assolo di chitarra di John Randolph. Sho Wasn’t me era un pezzo di southern soul abbastanza recente di Ronnie Lovejoy, presente nel disco del 2005 di Clay Respect Yourself, altra grande ballata, sempre tratta dallo stesso disco che era quello in promozione nel concerto in Svizzera del 2006; seguita da For The Good Times, si tratta proprio del classico brano scritto da Kris Kristofferson e cantato da Ray Price (e da mille altri), introduzione e versione da brividi, con Clay che si immerge cuore, anima e polmoni nella canzone, interpretata in modo splendido, veramente da manuale del deep soul. E pure If I Could Reach Out, il brano di George Jackson, è un brano tra soul e R&B da applausi a scena aperta, cantata con grande abbandono da Otis Clay. Fine del primo CD, il secondo dura poco, circa 35 minuti, solo tre brani, ma con un medley colossale di Love And Happiness/Soul Man/I Just Wanna Testify e Respect Yourself, con introduzione e presentazione della band che sono quasi più coinvolgenti di interi concerti di altri artisti, e il lungo medley, oltre 23 minuti, è comunque preceduto da una magica When Heart Grow Cold, altro “lentone” dal repertorio di Bobby Bland, di quelli strappalacrime, buoni sentimenti e classe immensa. Ma il medley conclusivo è al limite della perfezione, difficile ai giorni nostri fare della musica soul così carica di energia, viva e vegeta, tra i picchi e la vallate continue della interpretazione, a dispetto del poco rispetto che il vero soul ha nei tempi odierni, sarebbe un peccato non ascoltare questa testimonianza sonora dell’arte di Otis Clay.

Bruno Conti

Ancora Il 2016 Maledetto! Questa Volta Se Ne E’ Andato Leon Russell!

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Ancora non si è spenta l’eco della scomparsa del grande Leonard Cohen, che purtroppo dobbiamo registrare un’altra grave perdita nel mondo del rock: si è infatti spento ieri, all’età di 74 anni, Claude Russell Bridges, meglio conosciuto come Leon Russell, musicista di lungo corso e giustamente considerato uno dei più grandi pianisti bianchi della musica rock, vero e proprio idolo per esempio di “colleghi” dello strumento quali Randy Newman ed Elton John, ma anche vera e propria figura di riferimento nell’ambito di un certo rock di matrice sudista e ricco di contaminazioni con soul e gospel.

Nativo dell’Oklahoma, Russell iniziò a muovere i primi passi come membro degli Starlighters (in cui militava anche un giovanissimo J.J. Cale) e poi come sessionman per conto terzi negli anni cinquanta, fino ad arrivare a Los Angeles nei sessanta e ad entrare a far parte di quell’enorme ensemble di musicisti di studio conosciuto come The Wrecking Crew, arrivando ad incidere anche con Phil Spector, i Byrds (suonava su Mr. Tambourine Man), i Beach Boys, perfino Frank Sinatra e molti altri. Il suo esordio discografico si ebbe nel 1968 con Inside The Asylum Choir, inciso insieme al musicista texano Marc Benno, ma in quegli stessi anni iniziò a frequentare il giro di Eric Clapton (suonando anche sul debutto solista omonimo di Manolenta e scrivendo con lui la classica Blues Power) e di Delaney & Bonnie, partecipando ai loro primi album ed accompagnandoli anche in tour. Fu poi il direttore musicale di quell’allegro e splendido carrozzone che fu Mad Dogs & Englishmen, forse la prova più convincente della carriera di Joe Cocker, e nel 1971 fu chiamato da George Harrison, suo grande estimatore, per suonare il piano nella house band del famoso Concert For Bangladesh (durante il quale ebbe anche un eccellente momento come solista, con un medley fra Young Blood dei Coasters e Jumpin’ Jack Flash degli Stones).

Nel 1969 aveva anche contribuito a fondare la Shelter Records, etichetta in seguito fallita, ma che negli anni pubblicò, oltre ai suoi lavori, anche album di J.J. Cale, Don Nix, Phoebe Snow, Freddie King, oltre a far esordire Tom Petty & The Heartbreakers. Ovviamente Leon in quegli anni (ed anche in seguito), portava avanti anche la sua carriera solistica, che però era piuttosto avara di soddisfazioni (le sue canzoni più note, Delta Lady e A Song For You, ebbero più successo in versioni di altri, la prima con Joe Cocker e la seconda con una moltitudine di artisti, dei quali il maggior successo lo ebbero i Carpenters, ma la incise anche una leggenda come Ray Charles), ed anche i suoi album, inappuntabili dal punto di vista musicale, non vendettero mai molto (con l’eccezione del bellissimo Carney del 1972, che salì fino al secondo posto, ed il seguente Leon Live, al nono), facendo di lui uno degli artisti di culto per antonomasia della storia del rock, ma sempre richiestissimo come musicista per conto terzi; nel 1979 il suo ultimo successo per decenni, con l’album One More For The Road condiviso con Willie Nelson.

Per tutti gli anni ottanta, novanta e la prima decade dei duemila Leon ha continuato ad incidere, pur diradando la sua produzione, finché nel 2010 il suo grande fan Elton John decise di tirarlo letteralmente fuori dalla naftalina incidendo con lui il bellissimo The Union (prodotto da T-Bone Burnett), album che ebbe un ottimo successo e contribuì a far conoscere la figura di Russell anche alle generazioni più giovani, e facendogli assaporare finalmente un meritatissimo istante di popolarità. Ancora un disco molto bello nel 2014, Life Journey, poi più nulla fino alla morte avvenuta ieri in seguito a complicazioni sopraggiunte dopo un intervento al cuore.

Leon Russell era il classico musicista che non ebbe mai neanche un decimo della fama che avrebbe meritato, ma credo che lui sia stato felice così, di aver suonato la musica che gli piaceva di più insieme ai migliori al mondo; io vorrei ricordarlo con un toccante brano contenuto in The Union, nel quale oltre a Leon ed Elton partecipa anche il “Bisonte” Neil Young.

Addio, Leon.

Piccola considerazione conclusiva: come nei thriller il cui finale “aperto” lascia presagire un seguito, l’inquietante domanda da porsi è “A chi toccherà adesso?”.

Marco Verdi

Ecco Un “Piccolo” Cofanetto Fatto Come Si Deve! Ian Hunter – Stranded In Reality Parte II

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Ian Hunter – Stranded In Reality – Proper Box Set 28CD + 2DVD

Ed ecco la Parte II.

Rant (2001): dopo altri cinque anni senza dischi, Ian torna con il suo lavoro più “politico”, profondamente critico verso la sua patria ma pure verso l’amministrazione Bush in America (e prima delle Torri Gemelle), ma anche il suo migliore da vent’anni a questa parte, con una solida band capitanata dal chitarrista Andy York (che si porta dietro Willie Nile come ospite), al punto che ancora oggi il gruppo che accompagna il nostro si fa chiamare The Rant Band. Fin dalle prime note dell’energica Rip Off si capisce che Ian è in gran forma ed il gruppo è quello giusto, un disco di rock’n’roll forte ed ispirato, con punte come la potente American Spy, la fluida Wash Us Away, la vibrante Knees Of My Heart (bellissima) e la travolgente Still Love Rock And Roll, nella quale l’ex Mott dimostra di avere ancora la forza di un ragazzino.

String Attached (2003): altro splendido doppio CD dal vivo, registrato ad Oslo con Andy York più musicisti norvegesi e la sezione archi dei Trondheimsolistene Strings, che accompagna le canzoni di Ian con misura e mai in modo invasivo: il risultato è il miglior live di Ian dopo Welcome To The Club, con il repertorio del riccioluto rocker rivisitato in chiave elettroacustica: intanto, finalmente troviamo su un live di Hunter la fantastica Roll Away The Stone, uno dei miei brani preferiti dei Mott (anche se questa versione rallentata non mi convince pienamente), ma in aggiunta il CD offre versioni strepitose di grandi canzoni come I Wish I Was Your Mother, una maestosa Boy, All The Young Dudes, Irene Wilde, Once Bitten, Twice Shy, Michael Picasso e Saturday Gigs, due rarità del periodo Hoople come Rest In Peace e la splendida Waterlow, una favolosa rilettura rallentata di All Of The Good Ones Are Taken, che diventa praticamente un’altra canzone, e perfino pezzi nuovi come Twisted Steel, Rollerball e, in esclusiva per questo box, Your Way.

Shrunken Heads (2007): Ian conferma il suo ottimo momento di forma, che culminerà con il disco seguente; Shrunken Heads è comunque ancora meglio di Rant, inciso con l’ormai abituale partner Andy York e con la Rant Band (e Jeff Tweedy ospite in tre brani), l’album si apre con la scintillante Words (Big Mouth), un uptempo decisamente riuscito ed orecchiabile, ma presenta diversi pezzi degni di nota, come l’accattivante When The World Was Round, all’epoca scelta come singolo, la lunga e bellissima title track, una ballata delle sue, lo splendido folk-rock elettrico Soul Of America, la rootsy I Am What I Hated When I Was Young e, tra le bonus tracks (uscite allora su un EP limitato), la toccante Wasted, uno slow che sarebbe dovuto finire sul disco principale.

Man Overboard (2009): ed ecco il capolavoro: Man Overboard è a mio parere il miglior disco di Hunter dopo Schizofrenic (per chi scrive, disco dell’anno 2009), con uno Ian in forma ed ispirato come raramente gli è capitato. Il brano centrale è sicuramente la title track, una delle più belle canzoni del nostro, una fantastica folk ballad dal sapore marinaresco, suonata e cantata in modo strepitoso; dovrei citarle tutte, ma poi diventa una recensione a parte: non posso però non menzionare l’irresistibile The Great Escape, un folk-rock di grande presa, la fluida Arms And Legs, lussuosa rock ballad, la ficcante Up And Running, la trascinante e divertente The Girl From The Office, tra le migliori del disco, l’impeccabile Flowers, dal ritornello vincente, la dolce Win It All, una ninna nanna d’autore, e la conclusiva River Of Tears, altra splendida ballata rock dal sapore folk e melodia di prim’ordine.

When I’m President (2012): uno dei dischi più rock’n’roll di Ian, e solo di poco inferiore al suo predecessore (ed ancora con la Rant Band protagonista), When I’m President è un concentrato di energia e grandi canzoni, a partire dalla trascinante (ed ironica) title track, e proseguendo con le irresistibili Comfortable, What For e Wild Bunch, tre brani ad alta gradazione rock, o le saltellanti Saint e Just The Way You Look Tonight, dalle melodie dirette e coinvolgenti. Ma la ballate non mancano, e tra loro spicca la favolosa Life, dal testo toccante e musica pure.

Live In The UK 2010 (2015): primo live ufficiale di Ian con la Rant Band, registrato in varie locations nel Regno Unito, contiene meno classici del solito (Ships, Irene Wilde, Michael Picasso, All The Young Dudes, la sempre meravigliosa Waterlow, oltre ad una oscura Sea Diver, un brano poco noto del periodo Mott The Hoople) e si concentra principalmente sugli ultimi dischi, con ottime riletture di Words (Big Mouth), Flowers, Soul Of America, Man Overboard (sempre una goduria) e 23a Swan Hill, per finire con una cover a tutto rock’n’roll di Sweet Jane (Velvet Underground), un classico nei concerti dei Mott ma una rarità in quelli di Ian solista.

Per i completisti, questo è il mio recente post sull’ultimo album di Ian, Fingers Crossed (http://discoclub.myblog.it/2016/09/28/altro-grande-vecchiosempre-forma-smagliante-ian-hunter-fingers-crossed/), da qui in poi iniziano i CD esclusivi per questo box, a partire da

Tilting The Mirror: un doppio CD che “recupera” rarità varie, pubblicate su antologie, tributi o colonne sonore, con anche però una manciata di inediti assoluti, come Common Disease e If The Slipper Don’t Fit (outtakes di Alien Boy), due ottimi rock’n’roll, il primo fatto e finito, mentre il secondo è solo una backing track senza voce, ed una Waterlow eseguita in trio in studio. Il primo CD, oltre a qualche single versions degli anni settanta, presenta una prima versione di The Outsider, già splendida, e diverse outtakes da Short Back’n’Sides (già uscite in una edizione del 1994), con almeno due di esse (la ballata You Stepped Into My Dreams e lo scatenato rock’n’roll Na Na Na) meglio di molto materiale poi finito sul disco originale. Il secondo dischetto recupera quattro pezzi tratti da colonne sonore degli anni ottanta, da tempo fuori catalogo (gli unici brani registrati da Ian tra il 1983 ed il 1990), tra i quali spicca la roccata e grintosa Great Expectations, l’unica tra l’altro a non risentire delle sonorità fasulle e gonfie tipiche dell’epoca, e si conclude con One More Time, scritta da Alejandro Escovedo e tratta da Por Vida, disco tributo dedicato al rocker texano.

If You Wait Long Enough For Anything, You Can Get It On Sale: altro doppio, questa volta dal vivo, che presenta per la prima volta (nel primo CD e parte del secondo) il leggendario concerto di Ian & Band (con Ronson) all’Hammersmith Odeon il 22 Novembre del 1979, uno show di cui per decenni i fans hanno favoleggiato e che è considerato il Santo Graal di Hunter. Ed in effetti qui siamo a livelli altissimi, addirittura meglio di Welcome To The Club (il tour è lo stesso, e pure la scaletta, anche se con le canzoni in ordine diverso), con i nostri in serata di grazia e nessun brano che sia a livelli meno che strepitosi, con punte di eccellenza assoluta quali Laugh At Me, una cover molto dylaniana di un brano di Sonny Bono come solista, Sons And Daughters, Just Another Night, Bastard e, come finale, una stratosferica When The Daylight Comes di quasi 17 minuti, che da sola vale il prezzo (in una veste tra l’altro molto diversa, quasi blues). Basterebbe questo concerto, ma il secondo CD offre altri otto pezzi tratti da varie serate del 1979 e 1981, tra i quali spicca una rara Is Your Love In Vain? di Bob Dylan.

Bag Of Tricks: tre CD molto interessanti (presentati separatamente), sottotitolati Live Rarities, e che quindi prendono in esame brani suonati poche volte dal vivo dal nostro, oppure anche brani noti ma eseguiti in occasioni particolari, come il caso, nel primo CD, dei due pezzi proposti nel 1994 al concerto in memoria di Mick Ronson, cioè la prima esecuzione in assoluto di Michael Picasso (e se non vi commuovete vuol dire che siete dei robot) e la Resurrection Mary più bella di sempre. C’è anche qualche cover (Day Tripper, molto più rock di quella dei Beatles, una tosta e vigorosa While You Were Looking At Me di Little Steven, la dylaniana Knockin’ On Heaven’s Door e la poco nota Isolation di John Lennon) e diversi pezzi rari dei Mott The Hoople, come Rock’n’Roll Queen, Death May Be Your Santa Claus, Hymn For The Dudes, The Original Mixed-Up Kid e le oscure Alice e The Moon Upstairs, oltre ad una Roll Away The Stone finalmente fatta come si deve. Il resto è repertorio “minore” di Hunter solista, ma non per questo meno interessante: i titoli a mio avviso più riusciti sono American Spy, la ballata semi-acustica Death Of A Nation (in origine molto più rock), Twisted Steel, una strepitosa The Truth, The Whole Truth And Nothin’ But The Truth di otto minuti e con un Andy York stratosferico, la sempre magnifica The Outsider, che nonostante sia una delle più belle ballate del nostro non viene suonata spesso, l’intensa The Ballad Of Little Star, la brillante Just The Way You Look Tonight e When I’m President, trascinante anche in questa versione elettroacustica.

Acoustic Shadows: nel 2008 Ian intraprese una breve tournée acustica in patria, accompagnato da due membri della Rant Band (James Mastro alla chitarra e Steve Holley, ex Wings, alle percussioni): qui c’è un estratto dal concerto di Dartford, nel Kent, nel quale Ian rivisita anche pagine minori del suo repertorio mantenendo grande freschezza anche in questa veste spoglia, ed accentuando ulteriormente il suo stile dylaniano. Hunter non ha paura di affrontare pezzi più mossi, come Where Do You All Come From, originariamente uno lato B dei Mott che il nostro non suonava dal 1973, Sweet Jane, Honaloochie Boogie (finalmente!) e Once Bitten, Twice Shy, ma chiaramente il meglio lo dà nelle ballate, tra le quali emergono le ottime Scars e Shrunken Heads. Ma gli highlights assoluti sono due strepitosi medley, di dieci e sette minuti rispettivamente, che fondono insieme Irene Wilde-Ships-Letter From Britannia From The Union Jack l’uno (solo con Ian ed il suo pianoforte) e Soul Of America-I Wish I Was Your Mother l’altro.

Experiments: l’ultimo CD è anche quello più interessante di tutti, e da solo vale parte della spesa richiesta per il box: infatti, a parte tre prime versioni di Too Much, Artful Dodger e Michael Picasso (quest’ultima gareggia in bellezza con quella poi pubblicata), il dischetto contiene quindici canzoni mai sentite, provenienti dall’archivio personale di Hunter, ma non takes differenti di brani già conosciuti, bensì proprio pezzi inediti, che in seguito Ian non riprenderà più in mano. La maggior parte sono canzoni fatte e finite, c’è anche qualche demo casalingo in cui il nostro suona tutti gli strumenti, ed un paio di abbozzi, almeno dal punto di vista del testo (come You’re Messin’ With The King Of Rock’n’Roll, musicalmente trascinante ma si capisce che le parole non sono quelle definitive). Ed i brani degni di nota non mancano di certo, in alcuni casi non avrebbero sfigurato su qualsiasi disco di Ian, come Money Can’t Buy Love, forse con qualche synth di troppo ma servita da una squisita melodia pop, l’orecchiabile Look Before You Leap, un potenziale singolo di successo, Demolition Derby, un home demo un po’ troppo elettronico ma che con un arrangiamento differente poteva diventare una grande canzone, la vivace e solare San Diego Freeway, parzialmente ispirata dai Beach Boys, ed una versione molto soulful di The Man In Me, un brano “minore” di Bob Dylan.

It Never Happened: la parte visiva del cofanetto, due DVD che spaziano lungo tutta la carriera del nostro. Il primo dischetto comprende 24 canzoni e scorre in un battibaleno, riproponendo più o meno tutti i classici di Ian sfruttando rari filmati promozionali, apparizioni televisive, brani dal vivo (tra i quali tre pezzi al Rockpalast nel 1980 e quattro a Londra nel 1989, dallo stesso concerto del CD BBC Live In Concert) e diversi videoclip (divertente quello di All Of The Good Ones Are Taken, parodia del film Arthur con Dudley Moore). Peccato per l’assenza della All The Young Dudes suonata nel 1992 al concerto tributo per Freddie Mercury, con i tre Queen superstiti, David Bowie e, soprattutto, Mick Ronson alla sua ultima apparizione prima della tragica scomparsa. Il secondo DVD è tutto dal vivo, con dieci pezzi a Toronto nel 1979 (lo stesso tour dal quale è stato tratto Welcome To The Club, quindi qualità super), altrettanti a New York nel 1981 (usciti all’epoca su VHS con il titolo Ian Hunter Rocks e pubblicati in CD nel 2012 dentro l’antologia From The Knees Of My Heart, ma mai in DVD prima d’ora), ed infine il concerto completo ad Oslo dal quale è stato tratto Strings Attached, che non è proprio una rarità dato che è ancora reperibilissimo in DVD.

Sperando di non avervi fatto addormentare, concludo affermando che questo Stranded In Reality è un box, l’avrete capito, difficile da ignorare (non dico imperdibile perché capisco che la spesa è notevole): mi sbilancio e lo eleggo ristampa dell’anno (Pink Floyd permettendo).

Marco Verdi

Ecco Un “Piccolo” Cofanetto Fatto Come Si Deve! Ian Hunter – Stranded In Reality Parte I

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*NDB. Come al solito quando Marco si lascia prendere la mano (ma per qualcosa che vale la pena) il contenuto del Post si allunga a dismisura, quindi dividiamo in due parti la recensione del cofanetto.

Ian Hunter – Stranded In Reality – Proper Box Set 28CD + 2DVD

Da sempre Ian Hunter è uno dei miei musicisti preferiti, in quanto per me rappresenta la quintessenza del cantante rock, con in più quel tocco dylaniano nel songwriting che non guasta (anzi): durante la sua lunga carriera, sia come frontman dei Mott The Hoople che da solista, ha mantenuto una qualità decisamente elevata, confermata circa due mesi fa dall’ottimo nuovo disco, Fingers Crossed. Per celebrare la parte solista del cammino discografico di Hunter, la Proper ha pubblicato (solo sul suo sito ed in una quantità limitata a 2.500 copie) questo Stranded In Reality, mastodontico box di ben 28 CD più due DVD, un’opera magnifica che ha il solo difetto di costare parecchio (250 sterline), ma che dimostra che quando si vuole è possibile gratificare i fans con prodotti di altissimo livello come questo. Infatti il box, oltre a comprendere tutti gli album solisti di Ian, sia quelli in studio (tranne l’ultimo, che è però appena uscito) sia i live ufficiali (e tutti in versione rimasterizzata ex novo, in confezione simil-LP e mantenendo tutte le bonus tracks delle varie edizioni deluxe uscite nel corso degli anni, ed ognuno con il suo bel booklet con testi e note), aggiunge ben nove CD quasi completamente inediti, tra brani in studio, outtakes, rarità assortite e canzoni dal vivo, e due DVD con performance varie ed anche in questo caso il più delle volte rare. In più, uno splendido libro con copertina dura e note di Ian stesso canzone per canzone, una rivista fittizia, intitolata Shades, che comprende recensioni ed articoli vari sul nostro pubblicati negli anni dalle più prestigiose testate inglesi, ed una foto autografata. Un cofanetto da leccarsi i baffi dunque, che vado a riepilogare per sommi capi, approfittandone anche per riassumere la carriera di un artista che secondo me andrebbe inserito nel novero dei grandi.

Ian Hunter (1975): il disco d’esordio di Ian è subito un classico. Con Mick Ronson come chitarra solista, partnership che proseguirà anche negli anni a seguire, Hunter ci regala un album che rappresenta alla perfezione la sua arte, a partire da Once Bitten, Twice Shy, un coinvolgente rock’n’roll ispirato da Chuck Berry, e che prosegue con la vigorosa Who Do You Love, la sontuosa Boy, una fantastica ballata di quasi nove minuti, l’acustica e toccante 3.000 Miles From Here, la solida The Truth, The Whole Truth, Nuthin’ But The Truth, con uno strepitoso assolo di Ronson, la vibrante e roccata I Get So Excited e, tra i bonus, le outtakes Colwater High e One Fine Day (entrambe con parti vocali incise nel 2005), che non avrebbero sfigurato sul disco originale.

All American Alien Boy (1976): registrato a New York con una superband (che vede Chris Stainton al piano, Jaco Pastorius al basso ed Aynsley Dunbar alla batteria, oltre a tre quarti dei Queen, cioè Freddie Mercury, Brian May e Roger Taylor ai cori nella ballad You Nearly Did Me In), questo è un altro grande disco, con più pezzi lenti rispetto all’esordio (ma Ian è un fuoriclasse anche nelle ballate), che si apre con la splendida Letter From Britannia To The Union Jack, una vera e propria missiva scritta con il cuore in mano da Ian al suo paese in profonda crisi, la scintillante title track, con gran lavoro di Pastorius, o la pianistica e bellissima Irene Wilde, una delle ballate più riuscite del nostro. Ma non sono da meno neanche Rape, dal sapore gospel, e la volutamente dylaniana God.

Overnight Angels (1977): un buon disco, molto più rock del precedente ma inferiore nel songwriting, un album poco considerato ma solido, con qualche buona canzone ed altre più normali. Golden Opportunity è un inizio potente e deciso come un pugno in faccia, ben bilanciato dalla pianistica Shallow Crystals, una rock ballad coi fiocchi. Ma la poco spontanea title track, un tentativo costruito a tavolino di scrivere una hit, non funziona, così come la pomposa Broadway; il resto si divide tra cose più riuscite ed altre meno (tra le prime la gradevole Miss Silver Dime e The Ballad Of Little Star, il miglior slow del disco), o veri e propri riempitivi come l’insulsa Wild’n’Free.

You’re Never Alone With A Schizofrenic (1979): al quarto disco Ian firma il suo capolavoro: con mezza E Street Band in session (Roy Bittan, Garry Tallent e Max Weinberg, più Ronson  di nuovo alla solista, l’ex Velvet Underground John Cale al piano in Bastard ed Eric Bloom dei Blue Oyster Cult ai cori) Schizofrenic è un grandissimo disco, quasi un greatest hits se si contano i futuri classici presenti. Grandi canzoni rock come Just Another Night, Cleveland Rocks, When The Daylight Comes (splendida) e Bastard, e superbe ballate come Ships, dal suono levigato, Standing In My Light e la straordinaria The Outsider, forse il più bel lento mai scritto dal nostro. Ma il disco brilla anche nei momenti meno noti, come il festoso errebi Wild East ed il boogie pianistico Life After Death; tra le bonus tracks, una Just Another Night più lenta ma altrettanto bella (con un grande Bittan) ed una scatenata versione del classico di Jerry Lee Lewis Whole Lotta Shakin’ Goin’ On.

Welcome To The Club (1979): la decade dei grandi dischi dal vivo si chiude con uno dei più belli, registrato al Roxy di Los Angeles, e che vede Hunter in forma strepitosa, ben coadiuvato da Ronson e da un gruppo che va come un treno. Dopo un inizio con la potente rilettura dello strumentale degli Shadows FBI, il doppio CD presenta versioni spiritate di classici di Ian solista ma anche dei Mott The Hoople (Angeline, poco conosciuta ma bellissima, All The Way From Memphis, I Wish I Was Your Mother, Walkin’ With A Mountain, il superclassico All The Young Dudes, One Of The Boys e The Golden Age Of Rock’n’Roll): un disco potente ma lucido ed ispirato anche nelle ballate (una Irene Wilde da favola), e con in fondo tre brani nuovi incisi in studio, dei quali il migliore è senza dubbio lo slow Silver Needles.

Short Back’n’Sides (1981): nonostante la presenza di due Clash, Topper Headon e soprattutto Mick Jones (che produce insieme a Ronson), questo esordio di Ian nella nuova decade è un disco un po’ involuto e senza particolari guizzi, con sonorità gonfie tipiche del periodo: si salvano Central Park’n’West, un pop-rock orecchiabile e coinvolgente nonostante l’uso massiccio di sintetizzatori, e la stupenda Old Records Never Die, ballata incisa la sera in cui viene assassinato John Lennon. Il resto, con la possibile eccezione della colorita I Need Your Love, un errebi alla Southside Johnny, è trascurabile (e Noises è proprio brutta): Hunter stesso, nelle note del book accluso al box, non è per nulla tenero verso questo album.

All Of The Good Ones Are Taken (1983): questo sarà l’ultimo disco di Ian negli anni ottanta (una decade nefasta per molti rockers), un album che non contiene classici futuri ma una media di canzoni migliore del precedente, anche se il sound è notevolmente peggiorato (Captain Void’n’The Video Jets fa davvero schifo): tra gli highlights abbiamo la bella title track, una rock song che risente solo in parte del suono dell’epoca (e presenta un paio di buoni interventi al sax di Clarence Clemons), il rock’n’roll un po’ bombastico di Every Step Of The Way, la bowiana Fun, l’orecchiabile That Girl Is Rock’n’Roll (ma troppi synth) e la soulful Seeing Double.

Yui Orta (1990): dopo sette lunghi anni di silenzio, Ian torna con l’unico disco accreditato a metà anche a Mick Ronson (che però si limita, si fa per dire, a suonare la solista ed a collaborare al songwriting), ed è un buon disco, un album rock con una produzione rutilante e con diverse buone canzoni, anche se non serve a rilanciare la figura del nostro. Hunter ritrova comunque grinta e smalto e le belle canzoni non mancano, come la potente rock ballad American Music, al livello dei suoi pezzi degli anni settanta, la seguente The Loner, diretta come un macigno, l’energica e vibrante Women’s Intuition, o ancora la trascinante Big Time, un rock’n’roll scatenato come ai bei tempi. E Livin’ In A Heart dimostra che il nostro è ancora in grado di scrivere ballate coi fiocchi.

Ian Hunter’s Dirty Laundry (1995): nel 1993 scompare tragicamente Mick Ronson, e Hunter va fino in Norvegia ad incidere il nuovo disco con musicisti locali. Le nuove generazioni conoscono poco il nostro, ed il fatto che Dirty Laundry esca per una piccola etichetta locale non aiuta di certo; è un peccato, perché il disco è il più riuscito dai tempi di Schizofrenic, un album di rock al 100%, grezzo, diretto e chitarristico, con brani come la ritmata Dancing On The Moon, la corale e splendida Good Girls, uno dei più bei rock’n’roll del nostro, la travolgente Never Trust A Blonde, rollingstoniana fino al midollo, la deliziosa Psycho Girl, tra rock e pop e con una fulgida melodia. Ma poi abbiamo anche la meravigliosa Scars, una sontuosa ballata elettroacustica e dylaniana, che avrebbe meritato ben altra sorte. E quelle che non ho citato non sono certo inferiori (Invisible Strings è splendida): un disco da riscoprire assolutamente.

BBC Live In Concert (1995): accreditato alla Hunter-Ronson Band, questo CD registrato a Londra nel 1989 è stato pubblicato anche per omaggiare lo scomparso Mick. Un ottimo live, ben suonato e con un Hunter in forma, che accanto a classici assodati (Once Bitten, Twice Shy, Just Another Night, Standing In My Light, Bastard, Irene Wilde), presenta ben sei brani in anteprima da Yui Orta, che uscirà di lì ad un anno (eccellenti How Much More Can I Take? e Big Time), ed anche un inedito, Wings, invero piuttosto trascurabile.

The Artful Dodger (1996): disco registrato in Norvegia come Dirty Laundry, ma con maggior dispendio di mezzi (all’epoca uscì per la Polydor), The Artful Dodger è meno rock e con più ballate del suo predecessore, ma ha il merito di rimettere in circolo il nome di Hunter. Un lavoro più che buono, che ha come brano centrale Michael Picasso, una toccante ballata dedicata all’amico Ronson, ma che presenta diversi pezzi sopra la media, come Too Much, uno slow d’atmosfera davvero riuscito, la superlativa Now Is The Time, il limpido folk-rock Something To Believe In, la cristallina (ed autobiografica) 23A, Swan Hill, o la title track, unico vero rock’n’roll del CD. Mentre il funk-rap di Skeletons era meglio se non ci fosse stato.

Fine Prima Parte.

Marco Verdi

Non Volevamo Una Giornata Ancora Più Buia! Si E’ “Spento” A Sorpresa Anche Leonard Cohen1934-2016

leonard cohen death

Il titolo del post paragrafa quello dell’ultimo disco del grande cantautore, poeta e scrittore canadese, uscito da meno di un mese, You Want It Darker, e mi è sembrato il modo migliore per commentare la morte di Leonard Cohen all’età di 82 anni, avvenuta il 7 Novembre (l’annuncio è stato dato solo oggi), e che va ad appesantire ulteriormente il bollettino di questo pesantissimo 2016.

La sorpresa del titolo riguarda però noi che non lo conoscevamo personalmente, secondo me lui se lo sentiva (o, forse, lo sapeva), visti i riferimenti neanche troppo velati ad una sua prossima dipartita nella missiva indirizzata alla sua ex musa ed amante Marianne Ihlen, scomparsa lo scorso Luglio ed alla quale aveva dedicato nel 1967 la bellissima So Long, Marianne, e soprattutto notando i testi cupi del suo album appena uscito, con un’aria di morte che aleggiava un po’ dappertutto, insieme a musiche altrettanto scure. Ma la notizia è comunque di quelle sconvolgenti, in quanto Cohen era uno dei maggiori songwriters mondiali, per il quale la parola “poeta” non era spesa invano: i suoi testi sono infatti sempre stati fra i più belli in circolazione, anzi secondo me nessuno scriveva canzoni d’amore come sapeva fare lui (ed il fatto che avesse sempre avuto un grande ascendente sulle donne non è un caso, secondo me sapeva parlare al sesso femminile come nessun altro), al punto che più di uno, quando hanno assegnato il premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan, ha asserito che anche Leonard lo avrebbe meritato.

Cohen era anche in possesso di una voce calda, profonda e suadente, migliorata tra l’altro col passare degli anni, e di un gusto melodico non comune, il tutto legato da una classe e raffinatezza senza eguali, che gli permetteva di affrontare qualsiasi tema con una leggerezza incredibile (anche la sua ironia era proverbiale, pari quasi al suo tocco poetico): non vedo, per esempio, chi altri se non lui avrebbero potuto parlare in una canzone di sesso orale (Chelsea Hotel) o anale (The Future) con una tale leggiadria, oppure porgere un testo agghiacciante come quello di First We Take Manhattan o apocalittico come quello della stessa The Future con un distacco simile, quasi avesse sempre un mezzo sorriso ironico pronto all’uso. I suoi dischi e la sua musica sono stati d’ispirazione per una serie interminabile di cantautori (anche in Italia, De Gregori e De André su tutti), fin dai primi album, la famosa trilogia Songs Of Leonard Cohen, Songs From A Room e Songs Of Love And Hate, che contenevano capolavori assoluti come Suzanne, Sisters Of Mercy, la già citata So Long, Marianne, Bird On The Wire (la cui prima frase è stata scelta da Kris Kristofferson come suo futuro epitaffio), la meravigliosa The Partisan, canto della resistenza francese riadattato da Leonard ed interpretato in maniera mirabile, Famous Blue Raincoat, Joan Of Arc.

Con il suo quarto album, il magnifico New Skin For The Old Cerimony del 1974, Leonard abbandona le sonorità spoglie dei primi tre lavori per una strumentazione più articolata (rock sarebbe un termine inadatto al nostro), ed al suo interno troviamo altri capolavori come la già citata Chelsea Hotel (che contiene una frase secondo me memorabile: We Are Ugly, But We Have The Music), Lover Lover Lover, la splendida Who By Fire (Leonard affrontava l’argomento della morte anche in gioventù), Take This Longing, ecc. Dopo un disco criticatissimo non per le canzoni ma per le pesanti orchestrazioni del produttore Phil Spector (Death Of A Ladies’ Man, un titolo che andrebbe bene per la giornata odierna), ecco il ritorno alle “sue” atmosfere con l’ottimo Recent Songs (1979), che non contiene superclassici ma è decisamente unitario e si apre con The Guests, uno dei suoi più bei testi in assoluto.

Negli anni ottanta solo due dischi, ma straordinari: Various Positions del 1984 e I’m Your Man del 1988, che ospitano futuri classici come Hallelujah, che oggi è diventato il suo brano più popolare grazie anche alle numerose cover versions, Jeff Buckley su tutte https://www.youtube.com/watch?v=y8AWFf7EAc4 , Dance Me To The End Of Love, futura apertura dei suoi concerti, If It Be Your Will, Everybody Knows, Ain’t No Cure For Love, Tower Of Song; tra l’altro nel secondo dei due album Leonard comincia ad utilizzare sintetizzatori e programmazioni, ma ancora una volta con grande gusto e misura, e senza mai risultare pomposo od invasivo. L’eccellente The Future del 1992 sarà il suo ultimo disco per anni, in quanto il nostro si ritirerà in meditazione zen e si prenderà cinque anni sabbatici (che poi diventeranno nove), ritornando nel 2001 con il discreto (e un po’ soporifero) Ten New Songs.

Gli ultimi anni di carriera diventano quasi frenetici, almeno per uno della sua età e che sempre stato tendenzialmente pigro, a causa di un grave problema con la sua ex manager, Kelley Lynch, che in sua assenza gli ha “mangiato” quasi tutti i risparmi, riducendolo praticamente sul lastrico: tre nuovi album di studio tra il 2004 ed il 2014 (Dear Heather, discreto, Old Ideas, molto bello, Popular Problems, splendido) e ben quattro dal vivo, tratti dalle sue lunghe tournée e con concerti di tre ore l’uno, tra i più belli degli ultimi anni (ancora mi ricordo la grandissima serata di qualche anno fa agli Arcimboldi di Milano): almeno Live In London e Live In Dublin, pur con le molte ripetizioni, sono imperdibili, grazie anche al gruppo strepitoso che accompagna il nostro sul palco, ma anche per gli esilaranti monologhi tra una canzone e l’altra, dove veniva fuori la sua geniale ironia.

You Want It Darker è storia recentissima (devo dire che il disco non mi ha convinto più di tanto, l’ho trovato un po’ “statico”, ma credo che necessiti di ulteriori ascolti): come d’abitudine, un po’ troppo frequente un questo 2016, voglio ricordare Cohen con una scelta personale, un brano che forse non è il suo più bello, di certo non è famosissimo, ma anche alla milionesima volta che lo ascolto mi fa venire la pelle d’oca.

Addio Lenny, ora potrai davvero cantare Hallelujah con gli angeli.

E salutaci Marianne…e anche Jeff.

Marco Verdi

Sprazzi Di Gran Classe, Ma… Jimmy Thackery And The Drivers – Spare Keys

jimmy thackery spare keys

Jimmy Thackery And The Drivers – Spare Keys – White River Records                      

A due anni dal precedente Wide Open http://discoclub.myblog.it/2014/10/04/filo-meno-bello-del-solito-jimmy-thackery-and-the-drivers-wide-open/  torna Jimmy Thackery con i fedeli Drivers, che per l’occasione sono Rick Knapp al basso e George Sheppard alla batteria, mentre Chris Reddan lo ha sostituito nel periodo in cui era stato assente per un intervento alla spalla, e quindi appaiono entrambi, ciascuno in sei brani dell’album. Album che conferma il periodo interlocutorio di Thackery con le ultime uscite, buone ma non eccelse, l’ultimo album sopra la media era stato l’ottimo Live In Detroit del 2010 e in parte Feel The Heat del 2011.. Anche nei 12 brani del nuovo album, tutti firmati dallo stesso Jimmy, ci sono vari pezzi in cui si gusta l’eccelsa tecnica chitarristica del nostro, che non si discute, ma altri in cui la sua voce rende ancora meno brillanti composizioni di per sé non fantastiche. Poi in ogni brano ci sono momenti in cui la tecnica, il gusto, il brio di Thackery vengono comunque a galla ma, a mio parere, in modo meno continuo che in passato.

Il surf-blues-rock dello strumentale iniziale Candy Apple Red è scintillante e ricco di tutta la classe indiscutibile di Jimmy, con continue variazioni di timbri e soluzioni sonore della chitarra, e anche la sezione ritmica lavora di fino, e la successiva Blues All Night tiene fede al titolo del brano, un lento  atmosferico ricco di intensità e tecnica, un po’ alla maniera del vecchio Roy Buchanan (anche nella voce, purtroppo), con la solista carica di effetti e riverberi, lancinante e tirata allo spasimo. You Can’t Come Back è un bel rock-blues, sempre appesantito dal non esaltante lavoro vocale di Thackery, e con la solista stranamente trattenuta, meglio lo slow fascinoso, quasi una ballata, No More Than Me, molto raffinato e ricco di feeling, con la sei corde del nostro a cesellare alcuni passaggi strumentali di pregio, che rivitalizzano la parte vocale, francamente moscia. Fighting In The Jungle è una sorta di voodoo rock, pressante e molto mosso anche a livello ritmico, con il lavoro della solista ricco di effetti e dal fluire poderoso, seguita da I’ve Got News For You che sembra (quasi) un pezzo di quelli più rock à la Roy Orbison, in tutto meno che nella voce, ribadisco purtroppo, gli interventi della chitarra non son sufficienti per redimerlo (facciamo una colletta per pagargli un cantante,  come di recente ha fatto Ronnie Earl).

La lunga I Even Lost The Blues vira sul jazz-blues after-hours, manco a farlo apposta proprio alla Ronnie Earl, peccato che Thackery si ostini a cantare, mentre  sulla parte strumentale non si discute. E infatti il turbinio R&R scuola Link Wray/Lonnie Mack dello strumentale Five Inch Knife è da manuale, come pure l’intensissimo slow blues di una magnifica Same Page On Demand dove il nostro rivolta la sua solista come un calzino. Puttin’ The Word Out ha la grinta rock chitarristica dei vecchi brani dei Nighthawks, ma, e scusate se mi ripeto, non ha la voce del primo Mark Wenner. Bella Noche è una strana commistione di ritmi tex-mex di frontiera e struggenti pezzi strumentali a cavallo tra Santo & Johnny e Los Lobos, sulla carta sembra strano, ma vi giuro che nel disco funziona. E niente male anche l’ulteriore strumentale conclusivo, una ondeggiante The Barber’s Guitar, un pezzo tra reggae, ritmi caraibici e le immancabili impennate della solista di Jimmy Thackery, sempre in possesso di un feeling e di una sensibilità di tocco uniche.

Quindi ancora una volta obiettivo raggiunto: al solito molte luci e qualche ombra, non un capolavoro e neppure la sua opera migliore, ma questo signore sa sempre suonare (non mi dispiacerebbe comunque vederlo dal vivo, vedi sopra, è fantastico) e quindi il disco, destinato soprattutto agli appassionati della chitarra, si ascolta comunque con grande  piacere.

Bruno Conti

Una “Storia Gloriosa” Nell’Ambito Folk-Rock Lunga 40 Anni. Oysterband –This House Will Stand

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Oysterband – This House Will Stand The Best Of Oysterband 1998-2015  – Navigator Records 2 CD

Fin dalle loro origini nei lontani anni ’70, gli Oysterband (di cui ho recensito sul Blog il loro ultimo lavoro di studio Diamonds On The Water http://discoclub.myblog.it/2014/03/08/i-veterani-del-folk-rock-britannico-oysterband-diamonds-on-the-water/ ) hanno attraversato, con una lunga serie di formazioni e stili musicali, una duratura e meritata stagione nell’ambito del folk-rock britannico (dando spesso il meglio nei loro sempre acclamati spettacoli dal vivo). Per un gruppo che ha attraversato con successo una carriera così lunga e importante è quasi sorprendente che questo This House Will Stand (sottotitolato the Best Of Oysterband 1998-2015), sia solo la seconda retrospettiva estratta dal loro sterminato “songbook” dopo Granite Years uscito nel 2000, e non considerando pienamente tali Trawler (95) e Pearls From The Oysters (98). Questa raccolta, composta da 29 brani, fornisce una panoramica completa del periodo citato nella vita della band,  soprattutto materiale dagli ultimi cinque album in studio (a partire da Here I Stand (99), e una ricca selezione di brani inediti, b-sides, demo e versioni alternative che compongono il secondo CD.

Nel primo disco l’album più saccheggiato (un po’ a sorpresa) è Rise Above (02): a partire dal brano iniziale, il folk armonioso di The Soul’s Electric e poi Uncommercial Song, la limpida bellezza della musica irlandese, ma non solo, nei tradizionali Blackwaterside e Bright Morning Star (uno spiritual dei monti Appalachi), e la title track Rise Above, mentre da Meet You There (07) vengono riproposte le “danzerecce” Where The World Divides e Walking Down The Road With You, una ballata calda, avvolgente e ricca di atmosfera come Dancing As Fast As I Can, e il folk-agreste di Here Comes The Flood. Da Here I Stand (99) la Oysterband pesca due brani tra i più armoniosi e ballabili come Street Of Dreams e On The Edge (dove è impossibile non muovere il piedino), mentre selezionate dal recente Diamonds On The Water (14), appaiono il folk arioso di Spirit Of Dust, A Clown’s Heart e A River Runs, infine, colpevolmente, dal bellissimo e pluripremiato Ragged Kingdom, registrato con June Tabor, la seconda collaborazione dopo il noto Freedom And Rain (90), viene estratta solo la bellissima rielaborazione di Love Will Tear Us Apart, il brano dei Joy Division, un classico senza tempo valorizzato dalla magnifica voce della Tabor.

Con il secondo bonus CD l’ascolto si fa più interessante: dall’iniziale ballata folk I Built This House, che con la tambureggiante Scattergun e il tradizionale Bold Riley sono le canzoni inedite del lavoro, a cui fanno seguito due tracce dal vivo come Ways Of Holding On in duetto con Emma Hardelin, e la vivace Jail Song Two; vengono poi recuperate, in versione alternativa, la bellissima Never Left (la trovate su Deserters (92), la dolente And As For You, la straziante melodia di una suadente Mississippi Summer (cercatela sul magnifico Freedom And Rain (90), e la nota Long Dark Street. I due lati B inseriti nel dischetto sono la danzante Hangman Cry, e il brano strumentale The Sailor’s Bonnet, che con il tradizionale I Once Loved A Lass, e le versioni demo di She’s Moved On e della conclusiva corale The Cornish Farewell Shanty, chiudono una collezione volutamente intrigante.

Per chi scrive, la Oysterband è stata (ed è tuttora), senza ombra di dubbio, nelle quasi quattro decadi di carriera, una delle più popolari e creative band folk-rock del panorama anglosassone, e questo nuovo lavoro antologico This House Will Stand rischia di diventare indispensabile sia per i “neofiti” del genere, quanto obbligatorio per chi già li conosce (in particolare per il secondo CD), e se posso permettermi un consiglio da amico, investite senza esitazione i vostri “svalutati” euro, credetemi ne vale la pena.

Tino Montanari

E Questa Invece E’ Brava: Se Lo Dice Anche Bonamassa Sarà Vero! Joanne Shaw Taylor – Wild

joanne shaw taylor wild

Joanne Shaw Taylor  – Wild – Axehouse Music

La regola, ricordata in un famoso detto, dovrebbe essere, “chi si loda si imbroda” e una come Joanne Shaw Taylor che nel suo sito viene presentata come “the finest female blues rock singer and guitarist” (ma Susan Tedeschi e Bonnie Raitt, per citarne due, saranno contente?) potrebbe rientrare nella categoria delle “montate”, ma visto che invece non siamo molto lontani dalla verità, se aggiungiamo “one of” all’inizio della frase ci siamo, e poi la nostra amica, è giovane (30 anni nel 2016, ops mi è scappata l’età, non si dovrebbe), bionda, carina e pure brava. La sua crescita qualitativa è esponenziale, prima l’ottimo Live Songs From The Road http://discoclub.myblog.it/2013/12/16/bella-brava-bionda-suona-il-blues-joanne-shaw-taylor-songs-from-the-road/ , poi il trasferimento negli States (la Shaw Taylor è inglese, se non lo avevamo detto) per un primo album, The Dirty Truth http://discoclub.myblog.it/2014/11/23/porti-la-chitarra-bella-bionda-joanne-shaw-taylor-the-dirty-truth/ , registrato a Conce, Tennessee, con la produzione di Jim Gaines e l’aiuto di alcuni eccellenti musicisti locali; ora per il nuovo Wild, quinto disco di studio, trasferta di poche miglia ai Grand Victor Sound Studios di Nashville, dove opera abitualmente Kevin Shirley, il produttore di Joe Bonamassa, che ha espresso più volte il suo apprezzamento per Joanne, definendola una delle migliori cantanti, autrici e chitarriste del blues contemporaneo, utilizzandola anche come opening act nel suo recente tour dedicato alla British Blues Explosion e addirittura “prestandole” una parte della sua band per la registrazione del nuovo album.

Infatti nel disco appaiono il bassista Michael Rhodes, la sezione fiati di Paulie Cerra e Lee Thornburg, oltre alle tre splendide coriste Mahalia Barnes, Juanita Tippins e Jade MacRae, con l’aggiunta di Rob McNelley alla seconda chitarra, Steve Nathan alle tastiere e Greg Morrow alla batteria. Ma protagoniste assolute sono le canzoni dell’album, incanalate attraverso la voce roca e la Gibson della Shaw Taylor. Dying To Know è una bella partenza, tra boogie e classico british blues alla Rory Gallagher, ma pure vicina ovviamente al sound dell’ultimo Bonamassa, con la chitarra subito in azione, fluida ed aggressiv ; Ready To Roll, anche se le coriste ci mettono del loro nel call and response, è un rock-blues funky ed energico, ma più scontato nello svolgimento, anche se la chitarra fa sempre il suo dovere, e Get You Back, sempre con i dovuti distinguo, sembra comunque ispirarsi di nuovo alle atmosfere del Rory Gallagher più aggressivo, con le linee della solista sempre interessanti e le coriste scatenate https://www.youtube.com/watch?v=yRQbOd_1h1c . No Reason To Stay, con una atmosferica introduzione di piano, tastiere e chitarra, poi si sviluppa come un brano dei primi Dire Straits, incalzante e con un bel crescendo chitarristico  https://www.youtube.com/watch?v=bsVfuKSjdqg. Wild Is The Wind è il classico pezzo di Dimitri Tiomkin, la facevano anche Nina Simone e David Bowie, qui diventa una sorta di moderna soul ballad, cantata con passione dalla Shaw Taylor che sfodera anche un paio dei suoi migliori assoli del disco, lirici ed avvolgenti.

Wanna Be My Lover torna al rock-blues potente ed aggressivo che è una delle prerogative della bionda inglese, con tutta la band ben evidenziata dalla produzione nitida di Shirley. I’m In Chains vira verso un hard-rock made in the 70’s, con potenti riff alla Deep Purple, ma anche derive boogie sudiste, chitarre taglienti e le coriste che tornano più agguerrite che mai. I Wish I Could Wish You Back, titolo da scioglilingua amoroso, è una bella ballata, impreziosita dalla voce roca della Shaw Taylor, molto presa da questa canzone di rimpianti di amore, arrangiamento comunque di raffinata complessità. A sorpresa poi arriva My Heart’s Got A Mind Of Its Own, un brano tra swing con fiati, soul e il classico sound pianistico di Leon Russell, che è il co-autore del brano, una canzone dove Kevin Shirley applica le variazioni sonore utilizzate negli album di Bonamassa in coppia con Beth Hart, mentre in conclusione la Shaw Taylor si inventa un assolo alla BB King. Nothing To Lose torna al miglior blues-rock, potente e vigoroso, con notevoli fiammate chitarristiche.

In conclusione un classico di Gershwin con cui già in passato si sono confrontati colossi del rock, Summertime (penso alla versione di Janis Joplin a cui chiaramente si rifà questa della Shaw Taylor): niente male, con inserti pianistici ad impreziosirla ed una buona prestazione vocale della nostra amica, molto impegnata anche alla solista con una serie di assoli notevoli. Come è ormai diventata (pessima) usanza, visto quanto le fanno pagare, c’è anche una Deluxe edition singola, con due tracce aggiunte, Sleeping On A Bed Of Nails e Your Own Little Hell, due ulteriori buoni pezzi che confermano la qualità complessiva di questo Wild e il talento della bionda Joanne Shaw Taylor.

Bruno Conti

Il “Solito” Live Degli Stones…Quindi Bello! The Rolling Stones – Havana Moon

rolling stones havana moon

The Rolling Stones – Havana Moon – Eagle Rock DVD – BluRay – DVD/2CD – DVD/3LP – Deluxe DVD/BluRay/2CD/Book

I Rolling Stones hanno pubblicato più dischi dal vivo negli ultimi vent’anni che nei trenta precedenti, praticamente ogni loro tour per così dire “recente” è stato seguito da una pubblicazione live: se poi aggiungiamo i dischi d’archivio (serie che al momento sembra essersi purtroppo interrotta), le ristampe (lo strepitoso box Totally Stripped) https://www.youtube.com/watch?v=8EWN8etWEsc , i concerti inediti del passato (Some Girls Live In Texas, Ladies And Gentlemen) ed i cofanetti multipli in DVD (i fantastici Forty Flicks e The Biggest Bang), siamo quasi a livelli da Grateful Dead. Il 25 Marzo di quest’anno le Pietre si sono esibite a Cuba, in un concerto per il quale la parola storico non è per una volta fuori luogo, in quanto è stata la prima volta in assoluto per una rock band nell’isola castrista: evento “doveva” essere, ed evento è stato, dato che i rockers britannici hanno suonato davanti ad una folla oceanica di circa un milione e duecentomila persone (il concerto era gratuito). La serata è stata prevedibilmente filmata e registrata, ed il risultato è questo Havana Moon (in uscita questo venerdì, 11 Novembre), pubblicato nella solita varietà di supporti come potete vedere sopra (e, solo per il mercato americano, esiste anche una versione BluRay + 2CD).

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Si sa che gli Stones, soprattutto quando si ritrovano davanti ad una quantità di pubblico considerevole, non amano molto rischiare in termini di scaletta, anzi vanno abbastanza sul sicuro proponendo bene o male sempre gli stessi successi, e cambiando al massimo due-tre canzoni da una serata all’altra. Nello specifico, la setlist di questo Havana Moon (che nel film ufficiale del concerto comprende solo tredici canzoni, ma le altre sono comunque presenti come bonus) non è molto diversa da quella dell’ultimo live dei nostri, Sweet Summer Sun, che tre anni fa aveva immortalato lo show di Hyde Park, a Londra: le megahit ci sono tutte, anche se in qualche caso in ordine diverso, da Start Me Up a Jumpin’ Jack Flash, a It’s Only Rock’n’Roll a Tumbling Dice a Honky Tonk Women a Paint It Black a Sympathy For The Devil a Brown Sugar a Miss You, fino al finale ormai fisso con la splendida You Can’t Always Get What You Want e la chiusura pirotecnica di Satisfaction.

Le varianti rispetto al live di tre anni fa sono la sempre coinvolgente All Down The Line (con un grande Ronnie Wood), la buon Out Of Control e la classica Angie, da sempre una delle loro ballate più popolari, dedicata questa sera, come dice Mick Jagger, ai “romanticos”. Un live inutile quindi? Assolutamente no, prima di tutto perché gli Stones sono sempre gli Stones, hanno un repertorio che non ha nessuno e suonano sempre da Dio, e nonostante il passare degli anni (e sia Keith Richards che Charlie Watts hanno avuto il buon gusto di non tingersi i capelli) non hanno perso un’oncia del loro smalto: basti guardarsi l’uno-due che per me è da anni la parte migliore del concerto, cioè le torride Midnight Rambler e Gimme Shelter suonate in successione, per rendersi conto che questi ultrasettantenni danno ancora la paga a tutte le band composte da ragazzi che potrebbero essere i loro nipoti. Il merito va anche in gran parte al gruppo di sostegno che gira con loro da tempo, soprattutto al potente bassista Darryl Jones ed al formidabile Chuck Leavell alle tastiere (mentre per questa serata cubana niente ospitate né per Bill Wyman né per Mick Taylor).

Un altro live quindi tutto da godere, inciso benissimo e con le riprese video di qualità strepitosa (e se siete indecisi su quale formato prendere, vi consiglio la parte visiva, è davvero emozionante trovarsi davanti ad un tale fiume di persone), un ottimo antipasto in attesa della portata principale che verrà servita a Dicembre, cioè l’attesissimo disco blues Blue And Lonesome https://www.youtube.com/watch?v=WXR_SFxMUss .

Marco Verdi

Questo Invece E’ “Veramente Brutto”! Needtobreathe – Hard Love

needtobreathe hard love

Needtobreathe – Hard Love – Atlantic

Se non fosse lo stesso gruppo di cui avevo recensito solo lo scorso anno, in modo più che positivo, il doppio Live From The Woods At Fontanel http://discoclub.myblog.it/2015/06/16/doppi-dal-vivo-classici-needtobreathe-live-from-the-woods-at-fontanel/ , e che anche per i precedenti dischi di studio aveva ricevuto lusinghiere recensioni che tiravano addirittura in ballo la Band e altri luminari del rock classico americano, ebbene potrei pensare che per questo nuovo album dei Needtobreathe ci sia stato uno scambio di persone, sapete, come in quei film sulla guerra di secessione americana, quando alla fine del conflitto tornano persone lontane da tempo, ma neppure i familiari sono in grado di dire se si tratti veramente di loro. Quindi ritorno su quanto già detto nella recensione del’ultimo Reckless Kelly e reitero: ultimamente, purtroppo, alcuni dei nostri gruppi preferiti, prima gli Arcade Fire e i Kings Of Leon, poi i Mumford And Sons e in parte anche i Low Anthem (e sono solo alcuni di quelli che mi vengono in mente, ma ce ne sono stati molti altri, penso anche a Keith Urban, http://discoclub.myblog.it/2016/06/09/disco-buono-nuovo-sport-il-lancio-del-cd-nel-mercato-sottostante-keith-urban-ripcord/ e da quello che ho sentito del nuovo album, anche Bon Iver si è bevuto il melone, ma perlomeno il disco è “strano”) hanno fatto dei voltafaccia clamorosi di genere pubblicando dei dischi insulsi ed inutili, come ne escono a tonnellate comunque, ma se si tratta di gruppi che seguivamo perché parevano validi ed interessanti, è stato un po’ come essere pugnalati alle spalle.

Ovviamente un motivo c’è, e di solito è commerciale, ovvero vendere di più, ma per molti dei nomi citati prima, Mumford And Sons in primis, era difficile vendere più dischi di quello che già facevano, si parla di decine di milioni di copie in giro per il mondo, e infatti l’ultimo disco, quello del cambiamento “elettrico e commerciale” Wilder Mind, ha venduto un decimo dei precedenti. Tornando ai Needtobreathe, gli ultimi due dischi in studio erano già entrati nella Top 10 americana, questo nuovo Hard Love “semplicemente” è salito fino al n°2, ma a scapito, almeno a parer mio, della qualità, perché, incredibilmente, ho letto anche recensioni positive di questo album, realizzate probabilmente dopo essersi messe delle fette di prosciutto sugli occhi e sulle orecchie: pochi, soprattutto tra i fans, sembrano averlo respinto totalmente, ma se non lo avete ancora acquistato, occhio alla fregatura. Siamo proprio di fronte al classico disco da una stelletta, orribile è la prima parola che mi viene in mente, e anche la seconda! Rock elettronico terribile, non c’entra un tubo con gli altri dischi, tastiere e batterie sintetiche a go-go, coretti orripilanti, canzoncine insulse: a me pare una via di mezzo tra i primi Depeche Mode, Ultravox, dance-pop tipo Pet Shop Boys, e i peggiori U2 o gli ultimi Kings Of Leon, ma anche One Direction, con qualcosa dei Sigue Sigue Sputnik (forse ho esagerato un attimo, ma è veramente pessimo). Per supergiovani, ma con gusti tamarri.

In confronto, a questo punto, l’ultimo Mumford And Sons è un capolavoro. L’abbrivio di Hard Love, pare quello di un pezzo di David Guetta (preceduto da Mounatin Pt. 1 https://www.youtube.com/watch?v=J-9-ksp5nMc, con voci filtrate col vocoder, synth a iosa (suonati peraltro da tutti i componenti la band), ma poi riesce a peggiorare e diventa tipo One Direction e comunque sulla falsariga del pop massificato e fatto con lo stampino che va ora nelle classifiche americane. Ogni tanto ci sono dei soprassalti di dignità, ma durano poco, tipo l’intro per ukulele di No Excuses che poi si tramuta in una ballata vagamente “nu soul”, quantomeno dignitosa, con chitarra elettrica e organo che cercano di farsi largo https://www.youtube.com/watch?v=O6Uf3BpN40U .. La successiva When I Sing sembra Harden My Heart dei Quarterflash, puro suono anni ’80, con tanto di assolo di sax, e pure la successiva Happiness sembra un pezzo dei Queen, ma di quelli brutti, per non parlare di una pompatissima Great Night dove vengono coinvolti gli Shovels And Right per un pezzo dance-rock insulso (forse il paragone con i Sigue Sigue Sputnik non è poi così peregrino)! E così via: non essendo un fan, in due parole, alla larga, una stelletta di stima per il passato ( vi sembrano la stessa band? https://www.youtube.com/watch?v=yq1H3l7kyYU), peccato. Parere personale ovviamente, poi uno si ascolta quello che vuole, basta saperlo: l’ho già usato un paio di volte in passato (Grace Potter e Superheavy), ma per dirla alla Fiorello/La Russa, “è veramente brutto”!

Bruno Conti