Il 31 Marzo Esce (A Sorpresa) “Triplicate”, Un Nuovo Album Di Standard Di Bob Dylan…Stavolta Triplo! E, Un Altro Lutto, Oggi Ci Ha Lasciato Anche John Wetton.

bob dylan - triplicate

La notizia è arrivata oggi, alquanto inattesa direi: dopo l’ottimo Shadows In The Night del 2015 ed il più che buono Fallen Angels dello scorso anno, Bob Dylan ha deciso di pubblicare, il 31 Marzo, un nuovo (e forse stavolta l’ultimo) episodio della sua personale rilettura del Great American Songbook: Triplicate conterrà trenta standard, alcuni notissimi altri meno, ed uscirà in triplo CD e triplo LP (in versione normale o deluxe, ma senza brani aggiunti), il primo triplo in assoluto per il grande Bob, almeno per quanto riguarda i dischi di studio. L’album è stato inciso presso i mitici Capitol Studios di Los Angeles con la sua attuale touring band (anche se non è dato sapere se a seguito di nuove sessions o dalle stesse che hanno prodotto i primi due episodi), ed è stato prodotto ancora da Dylan stesso con il suo solito pseudonimo Jack Frost. Comunque, ecco la tracklist completa, anche questa volta molti pezzi sono entrati almeno una volta nel repertorio di Frank Sinatra, anche se a prima vista la scelta sembra più allargata.

Disc 1
1. I Guess I’ll Have to Change My Plans
2. September of My Years
3. I Could Have Told You
4. Once Upon a Time
5. Stormy Weather
6. This Nearly Was Mine
7. That Old Feeling
8. It Gets Lonely Early
9. My One and Only Love
10. Trade Winds

Disc 2
1. Braggin’
2. As Time Goes By
3. Imagination
4. How Deep is the Ocean
5. P.S. I Love You
6. The Best Is Yet to Come
7. But Beautiful
8. Here’s That Rainy Day
9. Where Is the One
10. There’s a Flaw in My Flue

Disc 3
1. Day In, Day Out
2. I Couldn’t Sleep a Wink Last Night
3. Sentimental Journey
4. Somewhere Along the Way
5. When the World Was Young
6. These Foolish Things
7. You Go to My Head
8. Stardust
9. It’s Funny to Everyone but Me
10. Why Was I Born

E questo è il primo brano che si può ascoltare online

A questo punto non è dato sapere se questo triplo chiuderà l’operazione “American Songbook” e se avremo ancora il privilegio di ascoltare canzoni nuove di Bob: qualche burlone in rete ha già auspicato che Dylan potrebbe chiudere la carriera così come l’aveva cominciata, cioè scrivendo brani di protesta. Conoscendo un po’ Bob e la sua imprevedibilità, non è escluso che possa succedere… Torneremo ad occuparci di Triplicate nel dettaglio quando uscirà (sperando nel frattempo che la copertina non sia quella definitiva).

Marco Verdi

John Wetton photo by Mike Inns

P.S. *NDB

E sempre a sorpresa, ma non troppo, visto che da tempo stava combattendo una lunga battaglia contro un cancro al colon, nelle prime ore del mattino di oggi 31 gennaio ci ha lasciato anche John Wetton, storico bassista e cantante dei King Crimson e degli Asia (e anche negli UK, oltre a mille altri, Family, Uriah Heep, Roxy Music e Bryan Ferry solista, Wishbone Ash). Quest’anno avrebbe compiuto 68 anni.

 

Bruno Conti

Come Un Fulmine A Ciel Sereno! Ben Bedford – The Pilot And The Flying Machine

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Ben Bedford – The Pilot And The Flying Machine – Waterbug Records/CSC Continental Song City/Ird CD

Questo disco in realtà è uscito nella tarda primavera dello scorso anno ma, un po’ perché non ne ha parlato quasi nessuno (almeno dalle nostre parti), un po’ perché da noi è stato distribuito lo scorso autunno, non credo sia troppo tardi se me ne occupo adesso…soprattutto perché è un album che merita davvero! Anzi, già dopo un ascolto il CD ha scatenato in me quello che chiamo “l’effetto Garnet Rogers” (vado a spiegare per chi non ne ha mai sentito parlare, cioè tutti: anni fa avevo comprato All That Is, antologia del cantautore canadese in questione, di cui colpevolmente non avevo mai sentito parlare, e l’ascolto mi aveva entusiasmato a tal punto che avevo subito ordinato sul suo sito la discografia integrale). Per Ben Bedford, cantautore dell’Illinois, mi è capitata quasi la stessa cosa: una volta ultimato l’ascolto di The Pilot And The Flying Machine, mi è venuta la voglia di approfondire il discorso con i suoi primi tre album. Bedford è un songwriter molto classico, dalla marcata vena poetica e con un gusto innato per la melodia, con le influenze giuste (Townes Van Zandt su tutte, ma io direi anche Jackson Browne, anche per il timbro di voce simile, e Gordon Lightfoot, mentre non ho trovato tracce dei pianisti Vladimir Horowitz e Thelonious Monk citati sul suo sito) ed un feeling non comune.

Ma ciò che colpisce di più in questo CD è che Ben non ha scelto la via più facile, cioè accompagnare le sue composizioni con una band canonica e dando loro un sapore roots (soluzione che sarebbe comunque stata ben accetta), bensì le ha avvolte con arrangiamenti classicheggianti, quasi cameristici. Non spaventatevi, in quanto la scelta si è rivelata vincente, e le canzoni, già belle di loro, hanno assunto uno spessore ed un’intensità ancora maggiore, per di più senza rischiare di annoiare l’ascoltatore. Merito, oltre che dell’abilità notevole del nostro come autore e performer, anche del ristretto gruppo di musicisti che lo ha accompagnato: oltre a Ben stesso alla chitarra acustica, troviamo la moglie Kari Bedford alle armonie vocali, Ethan Jodziewicz al contrabbasso e soprattutto il bravissimo Diederik Van Wassenaer, che non è il discendente di qualche gerarca nazista ma un formidabile violinista (e violista, nel senso che suona anche la viola) dall’impostazione classica, il vero tocco in più strumentale delle undici canzoni del disco. Un disco, ripeto, sorprendente, anche se siamo lontanissimi da atmosfere di stampo rock, al massimo io avrei aggiunto un pianoforte ogni tanto.

A me è bastato sentire poche note della title track, posta all’inizio del lavoro, per entrare subito dentro all’album, un suggestivo mix sonoro tra arpeggio chitarristico e lo strepitoso violino di Van Wassenaer, con qualche tocco di basso ogni tanto ed una melodia purissima e toccante, di chiaro stampo cantautorale. Letters From The Earth è semplicemente splendida, e bisogna fare tanto di cappello per il geniale arrangiamento cameristico scelto, dato che sarebbe stato più facile ma anche più scontato utilizzare basso elettrico e batteria: il violino sopperisce alla mancanza di una strumentazione “rock” con una prestazione straordinaria. High And Low è solo voce e chitarra, ma non per questo è meno intensa: Bedford riesce a tenere desta l’attenzione, scrive melodie di grande impatto e le esegue con disarmante semplicità; e che dire della struggente The Fox? Un motivo puro e limpido, di derivazione folk, alla quale la viola dona un sapore antico, per un risultato finale da pelle d’oca. La lunga e distesa The Voyage Of John And Emma sembra provenire direttamente dal songbook degli anni settanta di qualche songwriter blasonato, così come Blood On Missouri (bellissima), che proietta l’album addirittura una decade prima, in pieno folk revival. Grandissima musica in ogni caso. Orrery è un intenso strumentale tra folk e musica classica, gradevole e per nulla ostico, e precede gli ultimi quattro pezzi (tra cui una ripresa leggermente diversa della title track), il migliore dei quali è senz’altro la profonda ed avvolgente Long Blue Hills, che chiude il CD in purezza.

Ben Bedford è uno davvero bravo, e questo disco, se mi crederete, potrà farvi compagnia a lungo.

Marco Verdi

Il Mezzo Secolo Di Una Band Leggendaria! Fairport Convention – 50:50@50

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Fairport Convention – 50:50@50 – Matty Grooves CD

I Fairport Convention, forse il miglior gruppo folk britannico di tutti i tempi (specie nei primi anni, ed in particolare nel 1969, un vero e proprio “dream team” con all’interno gente del calibro di Richard Thompson, Sandy Denny, Ashley Hutchings e Dave Swarbrick, credo che solo nei Beatles ci fosse più talento tutto insieme) non è mai stato allergico alle auto-celebrazioni, anzi: più o meno dal 25° anno di attività, ogni lustro hanno pubblicato un disco, dal vivo o in studio, che festeggiasse l’evento, e quindi figuriamoci se si lasciavano sfuggire l’occasione delle cinquanta candeline (il loro esordio discografico è del 1968, ma come band esistevano già da un anno, *NDB Così l’anno prossimo possono festeggiare di nuovo). A voler essere pignoli, gli anni sarebbero meno, in quanto i Fairport, a parte le annuali reunion a Cropredy che oggi sono diventate un must, di fatto non sono esistiti come band nel periodo dal 1979 al 1985, anno in cui Simon Nicol, unico tra i membri fondatori, e Dave Pegg, altro capitano di lungo corso (e complessivamente ad oggi il più presente in assoluto nelle tante line-up del gruppo), insieme al nuovo Ric Sanders (in sella ancora oggi), al rientrante Dave Mattacks (in seguito sostituito da Gerry Conway) e, un anno dopo, a Martin Allcock (a cui negli anni novanta subentrò Chris Leslie), decisero di riformare la vecchia sigla per il discreto Gladys’ Leap.

Una critica che viene spesso rivolta all’attuale formazione dei Fairport, la più longeva di sempre, è di essere un gruppo di onesti mestieranti senza alcun fuoriclasse al suo interno, e specie nei primi anni della reunion c’era chi faceva fatica ad accettare che il gruppo fosse guidato da Nicol (che obiettivamente nella golden age, gli anni sessanta, era il componente di minor spessore artistico), ma col tempo la situazione si è normalizzata, anche perché i cinque, pur non sfornando nuovi capolavori all’altezza di Unhalfbricking o Liege & Lief, hanno sempre pubblicato album più che dignitosi, alcune volte ottimi, sicuramente piacevoli, di classico folk-rock nella miglior tradizione britannica, senza mai scendere sotto il livello di guardia (meglio anche, per fare un esempio, dei tre LP usciti prima del loro scioglimento nel 1979, Gottle O’Geer, The Bunny Bunch Of Roses e Tipplers Tales, forse il punto più basso della loro storia). E l’album appena pubblicato per celebrare il mezzo secolo di attività (per ora in vendita solo sul loro sito, dal 10 Marzo sarà disponibile ovunque), 50:50@50, è indubbiamente uno dei più riusciti degli ultimi vent’anni: un disco suonato alla grande ed inciso benissimo, e d’altronde i nostri sono dei musicisti talmente capaci ed esperti che, quando li sostiene anche l’ispirazione, è difficile che sbaglino il colpo.

Il CD, quattordici brani, è diviso esattamente a metà (50:50, e qui si spiega il titolo) tra brani in studio nuovi di zecca e performances dal vivo (registrate in varie locations negli ultimi due anni), dove però si evita di riproporre per l’ennesima volta i classici assodati, rivolgendosi a pagine meno note: come ciliegina, un paio di grandi ospiti che aggiungono ulteriore prestigio al lavoro. Ma direi di analizzare il contenuto, cominciando dai sette brani in studio e passando poi ai live (anche se sul CD la distinzione non è netta, anzi le due diverse situazioni si alternano). Eleanor’s Dream, scritta da Leslie (in questo album il songwriter e cantante di punta, assume quasi la leadership a discapito di Nicol) apre benissimo il disco, una rock ballad elettrica, solo sfiorata dal folk, con un bel refrain ed un arrangiamento vigoroso, un ottimo inizio per un gruppo che dimostra subito di non aver perso lo smalto. Step By Step è una deliziosa ballata dalla melodia tenue e limpida, punteggiata da un delicato arpeggio, mentre Danny Jack’s Reward è il rifacimento di un brano apparso nel 2011 su Festival Bell, uno strumentale scritto da Sanders e qui rafforzato dalla presenza di una vera e propria orchestra folk di otto elementi, che mischia archi e fiati, un pezzo trascinante ed eseguito con classe sopraffina, uno degli highlights del CD. L’acustica e bucolica Devil’s Work è puro folk-rock, un genere che i nostri hanno contribuito ad inventare (magari non in questa formazione, ma lasciamo stare), l’autocelebrativa Our Bus Rolls On è più canonica comunque sempre piacevole, con un motivo da fischiettare al primo ascolto. The Lady Of Carlisle è un delizioso traditional elettroacustico che vede la partecipazione alla voce solista di Jacqui McShee, ex ugola dei Pentangle, creando così un ideale ponte tra i due gruppi più leggendari della scena folk britannica, mentre la breve Summer By The Cherwell, scritta dal collega ed amico PJ Wright, è una cristallina folk ballad, pura e tersa, tra le più immediate del disco.

E veniamo alla parte dal vivo, il cui punto più alto è certamente una versione del noto traditional Jesus On The Mainline (reso immortale negli anni settanta da Ry Cooder), grazie alla presenza alla voce solita nientemeno che di Robert Plant: l’ex cantante dei Led Zeppelin è da sempre un grande ammiratore dei Fairport (basti ricordare il duetto con Sandy Denny in The Battle Of Evermore, dal mitico quarto album del Dirigibile), e questa versione, tra rock, folk e gospel, è semplicemente strepitosa, al punto da lasciarmi la voglia di un intero album dei nostri insieme al lungocrinito vocalist. Gli altri sei brani on stage vengono da diversi periodi del gruppo, e solo due da prima della reunion del 1985: la frizzante Ye Mariners All è uno di questi due (era infatti su Tipplers Tales), un reel cantato, con violino e mandolino grandi protagonisti e ritmo decisamente vivace; splendida The Naked Higwayman, saltellante brano scritto dal folksinger Steve Tilston, un bellissimo folk-rock dal motivo coinvolgente (canta Nicol) ed eseguito in maniera perfetta, un genere nel quale i nostri sono ancora i numeri uno. La lunga e drammatica Mercy Bay è uno dei brani a sfondo storico che ogni tanto scrivono, una canzone abbastanza strutturata e complessa, ma non ostica, anche se pur mantenendo la base folk è indubbiamente moderna; Portmeirion è un malinconico strumentale costruito intorno ad una melodia per violino e mandolino, tra i più noti di quelli usciti dalla seconda fase della carriera del gruppo. Completano il quadro la corale Lord Marlborough, il più antico tra i pezzi dal vivo (apriva Angel Delight, album del 1971) e la struggente John Condon, che ricorda certe ballate folkeggianti di Mark Knopfler, senza la sua chitarra ovviamente.

In definitiva, un altro bel disco per un gruppo che, nonostante i cinquant’anni sul groppone, non ha perso la voglia di fare ottima musica. Consigliato.

Marco Verdi

Supplemento Della Domenica: Ci Mancavano Solo Le Ristampe Dei “Cinquantesimi”! Grateful Dead 50th Anniversary Deluxe Edition

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Grateful Dead – Grateful Dead 50th Anniversary Deluxe Edition – Rhino 2CD – LP Picture

I Grateful Dead, soprattutto in seguito alla scomparsa del loro storico leader Jerry Garcia avvenuta nel 1995, non hanno mai seguito le normali leggi del marketing, inondando negli anni il mercato di un vero e proprio fiume di pubblicazioni d’archivio, specie dal vivo: nello specifico gli ultimi due anni, tra cofanetti celebrativi, tributi, tour d’addio e concerti del passato, hanno messo davvero a dura prova i portafogli dei tanti seguaci della band di San Francisco. Si pensava però che la loro discografia “ufficiale” studio e live, cioè quella che va dal 1967 al 1990 (anno di uscita di Without A Net, ultimo loro album dal vivo per così dire in “tempo reale”), fosse stata già sistemata qualche anno fa con i due splendidi cofanetti The Golden Road e Beyond Description (dal quale peraltro Without A Net era stato stranamente escluso): eppure avremmo dovuto sapere che, quando si parla dei Dead, ci si può aspettare di tutto. Ecco quindi l’idea “geniale”: ripubblicare tutti gli album della loro discografia in edizione deluxe, ciascuno allo scadere del cinquantesimo anniversario dall’uscita originale; avete capito bene: non una serie di uscite programmate con tre-quattro dischi ogni tot mesi (come è successo con i Led Zeppelin), ma un CD all’anno, o due se in una particolare annata i Dead avevano pubblicato più di un album, fino al 2039, anno in cui cadrà il cinquantesimo anniversario di Built To Last, loro ultimo album di studio (o 2040 se questa volta Without A Net verrà preso in considerazione).

grateful dead picture vinyl

Un’operazione che potrei benissimo definire demenziale, considerato soprattutto il fatto che molti fans del gruppo non sono proprio di primo pelo (e quindi molti di essi potrebbero non arrivare al completamento della serie, faccia pure gli scongiuri chi di dovere), ma anche la possibilità che fra più di vent’anni il CD non sarà più un supporto preso in considerazione per la fruizione della musica, dato la velocità con la quale corre la tecnologia oggi. L’iniziativa non ha mancato di attirare molte critiche, anche da parte dei Deadheads più duri e puri (basta andare sul sito dei Dead e leggere i commenti): personalmente sono curioso di vedere se verranno affrontati in pompa magna allo stesso modo tutti gli episodi della discografia dei Dead, dato che un conto è celebrare vere e proprie pietre miliari quali Workingman’s Dead, Live/Dead o American Beauty, un conto è valorizzare episodi non proprio di primo piano come Shakedown Street o il deludente live del 1976 Steal Your Face (che nel box Beyond Description è stato addirittura saltato). Il primo episodio di questa campagna di ripubblicazioni è naturalmente il loro esordio del 1967, l’omonimo Grateful Dead, uscito da pochi giorni in una versione doppia, mentre il vinile è stato ristampato solo con i brani originali, anche se in una bella edizione picture (e se dovessimo fare i pignoli, avrebbe dovuto uscire a Marzo per rispettare alla lettera la regola dei cinquant’anni).

Grateful Dead non è mai stato considerato un album fondamentale nella discografia della band californiana, in quanto ancora acerbo e poco rappresentativo di ciò che sarebbero diventati in seguito (e che dal vivo erano già): a me è sempre piaciuto, vuoi per la sua sinteticità (dura appena 35 minuti), vuoi per il suono decisamente rock-blues che raramente tornerà nei dischi di studio del gruppo. Garcia è già la guida incontrastata ed indiscussa, ma il tastierista Ron “Pigpen” McKernan è molto più di un semplice membro, incarnando l’anima blues del quintetto ed assumendo quasi la carica di co-leader musicale grazie all’importanza dell’organo nel sound della band, mentre Bob Weir, Phil Lesh e Bill Kreutzmann (Mickey Hart ancora non c’era) già forniscono il supporto ritmico perfetto. In questo album ci sono diversi brani che servono come base per le future e famose improvvisazioni dal vivo, pezzi che superano di poco i due minuti di durata, come il rock’n’roll di Beat It On Down The Line, o vari blues come la celebre Good Morning. Little Schoolgirl (di Sonny Boy Williamson, l’unica a durare quasi sei minuti), il traditional Sitting On Top Of The World, che come abbiamo visto di recente era già nel repertorio di Garcia fin dai tempi degli Hart Valley Drifters, o come New, New Minglewood Blues di Noah Lewis, in futuro ripreso moltissime volte dal vivo.

La maggior parte dei nove brani sono covers, ma Garcia comincia già a farsi largo come autore (per ora senza il futuro partner Robert Hunter) con le interessanti The Golden Road e Cream Puff War. Ma i centerpieces del disco sono le due folk songs Cold Rain And Snow e l’inquietante e post-apocalittica Morning Dew, entrambe elettriche e con accenni di quella psichedelia per la quale i nostri si distingueranno presto, e soprattutto Viola Lee Blues, unico pezzo a superare i dieci minuti, un blues ancora scritto da Lewis che diventa un pretesto per una furiosa jam chitarristica nella quale Jerry inizia a mostrare di che pasta è fatto. Il secondo CD è costituito da un concerto inedito, e se proprio non ci troviamo di fronte ad un’idea rivoluzionaria (direi che live dei Dead in giro non ne mancano), almeno è decisamente interessante l’annata, in quanto ci viene proposto un raro show del 1966, cioè un anno prima del loro debutto, quando erano praticamente sconosciuti al di fuori della Bay Area (per l’esattezza il dischetto documenta la serata del 29 Luglio al PNE Garden Auditorium di Vancouver, in Canada, con in aggiunta quattro pezzi dallo show tenutosi il giorno successivo sempre nella stessa location).

Il suono è ottimo, e nonostante siano agli albori, i nostri suonano già con quella sicurezza e quella tecnica che gli conosciamo, con Garcia e Pigpen assoluti protagonisti: ci sono diversi brani che finiranno poi sul disco d’esordio, tra cui la sempre eccellente Viola Lee Blues, con Jerry che è già una macchina da guerra, ma anche con dilatate versioni di Cream Puff War (superba) e Good Morning, Little Schoolgirl (più lunghe che nel disco in studio, anche se le loro tipiche jam interminabili non ci sono ancora), e le sempre trascinanti Beat It On Down The Line ed una Sittin’ On Top Of The World dal ritmo sostenuto. Ci sono anche tre brani originali che in seguito non verranno più ripresi: Standing On The Corner, tipica rock song anni sessanta, neanche male, You Don’t Have To Ask e Cardboard Cowboy, nella quale Lesh fa già vedere di essere un cantante quantomeno discutibile; i nostri avevano già in scaletta anche il traditional I Know You Rider, che diventerà uno dei loro classici assoluti, in una versione molto più spedita del solito e con l’organo di McKernan in grande evidenza. C’è anche parecchio blues: oltre ai pezzi che andranno a costituire l’ossatura di Grateful Dead, troviamo qui liquide riletture di Next Time You See Me di Junior Parker, Big Boss Man di Jimmy Reed e One Kind Favor di Lightnin’ Hopkins (conosciuta anche come See That My Grave Is Kept Clean). Come ciliegina, una fluida It’s All Over Now, Baby Blue, che dimostra che Bob Dylan era già allora un solido riferimento per loro.

Che altro aggiungere? Non posso certo dire che questa ristampa sia imperdibile (anche perché il concerto si trova facilmente, e gratuitamente, anche online), ma se siete dei completisti, o meglio ancora dei neofiti, un pensierino ce lo potete fare. E se siete giovani potete anche puntare a completare la serie di ristampe!

Marco Verdi

Passano Gli Anni, E Dopo Le Regine Questa Volta Tocca Ai “Re”, Ed E’ Sempre Grande Musica! Blackie And The Rodeo Kings – Kings And Kings

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Blackie And The Rodeo Kings – Kings And Kings – File Under Music Label

Passano gli anni, e la scena musicale canadese conferma la sua vitalità con gruppi ormai storici come I Blue Rodeo o i Cowboy Junkies, mentre Great Big Sea e Crash Test Dummies tacciono, i City And Colour non li conosce quasi nessuno, gli Arcade Fire hanno preso una piega che non ci piace, i New Pornographers sono abbastanza discontinui, come pure i Tragically Hip, peraltro molto popolari in patria, tra i più recenti ricordiamo i No Sinner; non mancano i componenti della famiglia Wainwright, e si potrebbe andare avanti per ore. Per esempio citando anche Lee Harvey Osmond che è la “band” sotto cui si nasconde Tom Wilson, uno dei tre componenti dei Blackie And The Rodeo Kings, gruppo nato per rendere omaggio alle canzoni di Willie P. Bennett, e che negli anni ha prodotto una serie di album spesso di assoluta eccellenza. Insieme a Wilson, ci sono Stephen Fearing (anche cantautore in proprio, con un album recentissimo, Every Soul’s A Sailor, appena uscito e autore pure di pregevoli dischi in coppia con Andy White) e Colin Linden, anche lui con una carriera solista interessante, forse più orientata verso il blues, oltre ad essere uno dei produttori più bravi e ricercati in circolazione (Lindi Ortega, il grande amico Cockburn, Colin James), direttore musicale della serie televisiva Nashville (dove vive).

I tre amici, sei anni fa, nel 2011 ebbero una idea “geniale”: un disco di duetti con una serie di voci femminili (cosa mai avvenuta prima, l’ironia è voluta), dove molte volte però è l’esecuzione e la scelta dei partecipanti che delineano il risultato, in questo caso, manco a dirlo, eccellente http://discoclub.myblog.it/2011/07/20/blackie-and-the-rodeo-kings-re-e-regine/, infatti in quel disco apparivano cantanti come Lucinda Williams, Amy Helm delle Olabelle, Cassandra Wilson, Patti Scialfa, Julie Miller (col marito Buddy al seguito, presente anche in questo nuovo capitolo), Janiva Magness, Emmylou Harris, Mary Margaret O’Hara, Holly Cole e svariate altre, di cui potete leggere al link qui sopra. Per la serie, forse i nomi non saranno tutto, ma sono comunque molto importanti, vi ricordo anche i nomi dei musicisti impiegati in questo nuovo Kings And Kings (si tratta forse di una serie di duetti con voci maschili e gruppi? Indovinato!) oltre ai tre leaders del gruppo, Gary Craig, alla batteria, Johnny Dymond al basso, John Whynot piano e organo, Kenneth Pearson anche lui tastiere (che sarebbe il Ken Pearson che suonava in Pearl di Janis Joplin), Bryan Owings, anche lui alla batteria e infine Kevin McKendree, che pure lui si alterna alle tastiere, con Colin Linden che suona tutto il resto che serve.

Il disco al sottoscritto piace parecchio, fin dalla iniziale Live By The Song una rara canzone firmata da tutti e tre insieme, che è una sorta di autobiografia in musica del loro gruppo, con l’ospite Rodney Crowell del tutto a suo agio nel roots-country’n’roll di questo bellissimo brano che rievoca le atmosfere care alla Band, con chitarre e tastiere spiegate in uno sfolgorio di pura Americana music di grande fascino, splendida apertura; Bury My Heart, scritta da Linden e che vede la presenza del countryman dall’anima rock Eric Church è un’altra notevole ballata mid-tempo, dalla melodia avvolgente e con quel suono caldo e raffinato che è caratteristica tipica dei Blackie And The Rodeo Kings, sempre con la chitarra di Linden pronta a scattare verso la meta. Beautiful Scars, scritta da Tom Wilson (o se preferite Lee Harvey Osmond), vede la presenza di Dallas Green (anche in questo caso si dovrebbe parlare di City & Colour, la magnifica band di Green, con una copiosa discografia da investigare), un’altra canzone dalla costruzione complessa ed affascinante, cantata con grande pathos e passione, perché questa signori è musica rock di qualità superiore, e per High Wire Colin Fearing si inventa un pezzo degno del songbook di Roy Orbison, per sfruttare al meglio la splendida voce di Raul Malo dei Mavericks.

Fino ad ora una canzone più bella dell’altra, nessun segno di stanchezza o ripetizioni, altro cambio di genere per il country-rock-blues della mossa Playing My Heart che vede la presenza di Buddy Miller, che coniuga con il resto della band un mood quasi sudista, dove le chitarre si prendono i loro spazi. E il più avventuroso Wilson chiama alla collaborazione anche i Fantastic Negrito di tale Xavier Dphrepaulezz  (che lo ammetto, non conoscevo, ma investigherò) per un soul-funky blues futuribile di fascino indefinito e sostanza come Biiter And Low; e per Secret Of A Long Lasting Love, scritta da Fearing con Andy White, i tre chiamano a collaborare uno dei maestri del “pure pop & rock” britannico come Nick Lowe, altro limpido esempio del grande talento che è stato schierato per questo eclettico album, una composizione folk-rock dall’animo gentile, cantata in solitaria da Lowe,  impreziosita da melodie che si assimilano subito nella loro raffinata semplicità (non è un ossimoro)! E poi arriva uno dei miei preferiti di sempre, uno dei più grandi cantautori mai prodotti dal Canada, Bruce Cockburn, uno che negli anni ’70 ha realizzato una serie di dischi di straordinaria qualità (rivaleggiando con l’altro Bruce), ma poi ha continuato a fare musica sempre di elevata qualità, spesso prodotta dal suo amico Colin Linden, che probabilmente ha scritto A Woman Gets More Beautiful con in mente proprio Cockburn, una ballata delicata e sognante, cantata in inglese e francese, che è uno dei momenti migliori in un album splendido, dove i “Re” della musica spesso si superano, con Bruce e Colin impegnati in un delizioso interplay vocale e chitarristico.

Land Of The Living (Hamilton Ontario 2016) è un’altra magnifica ballata a due voci che vede alla guida del brano l’accoppiata Tom Wilson/Jason Isbell, con l’ex Drive-by Truckers che si conferma una volta di più come uno dei migliori nuovi musicisti in ambito roots music. Non posso che ribadire, veramente una canzone più bella dell’altra, e anche Long Walk To Freedom, dove l’ospite è il cantante e chitarrista Keb’ Mo’, si colloca nell’ambito ballate, stile dove Blackie And The Rodeo Kings veramente eccellono, questa volta tocca a Fearing affiancare la voce maschia di Kevin Moore, ottimo anche alla slide, in questo brano che ha anche accenti blues e gospel, con uno squisito lavoro dell’organo che adorna da par suo il tessuto del brano. Un disco dei BARK non si può definire tale se non c’è almeno una cover dall’opera dello scomparso Willie P. Bennett: per l’occasione viene ripescata This Lonesome Feeling, una sorta di lamento di un cowboy, che vede il supporto vocale e strumentale di una delle leggende del lato giusto di Nashville, ovvero Vince Gill, un brano folky quasi “tormentato” e minimale, lontano mille miglia dal country più bieco della Music City. Che viene ulteriormente rivisitata anche nella conclusiva e mossa Where The River Rolls, scritta da Colin Linden, che per interpretarla ha chiamato i cosiddetti The Men Of Nashville, che poi sarebbero alcuni degli interpreti della serie televisiva Nashville della ABC, citata all’inizio e curata proprio da Linden, che nel brano ci regala un piccolo saggio della sua perizia alla chitarra, anche se il brano, una country song piacevole con piccoli tocchi gospel, non raggiunge forse i livelli qualitativi del resto del disco, veramente di grande spessore, uno dei migliori usciti in questo scorcio di inizio 2017!

Bruno Conti

L’Ultima Testimonianza Di Un Grande Batterista! Great Caesar’s Ghost With Butch Trucks -Live At The Stephen Talkhouse

great caesar's ghost live at the stephen talkhouse

Great Caesar’s Ghost With Butch Trucks – Live At The Stephen Talkhouse – CD Baby CD

Come preannunciato nel mio post in ricordo dello scomparso Butch Trucks, storico batterista della Allman Brothers Band (a proposito, è stata resa nota la causa della morte, e la notizia è delle più tragiche: Butch si è sparato un colpo di pistola alla tempia, tra l’altro in presenza della moglie Melinda, pare a causa di gravi problemi finanziari), vorrei parlare di questo dischetto dal vivo, uscito circa un anno fa, ma di cui non si è trattato praticamente da nessuna parte, in quanto vede il nostro seduto ai tamburi per quella che si è rivelata purtroppo una delle sue ultime volte. I Great Caesar’s Ghost sono una jam band dello stato di New York, zona di Long Island, in giro all’incirca dalla metà della scorsa decade, e che ha già diversi album sia live che in studio alle spalle (*NDB E nel Blog me ne ero occupato anni fa http://discoclub.myblog.it/2011/06/10/perdinci-e-poi-perbacco-great-caesar-s-ghost-what-s-done-is/). Il quintetto (il cui nome deriva dall’imprecazione preferita di Perry White, il direttore del Daily Planet nei fumetti di Spiderman) è formato da due chitarristi, Bosco Michne che è anche il leader e voce principale e Larry Schmid, un bassista (Klyph Black), un eccellente tastierista (Keith Hill) e Ed DiCapa alla batteria: pur essendo dello stato della Grande Mela, il suono della band è decisamente sudista, e proprio gli Allman sono loro riferimento costante, a tal punto che qualche anno fa hanno inciso un intero disco di cover della storica band di Macon, First There Is A Mountain (ma anche i Grateful Dead fanno parte del loro background, tanto che nella loro discografia c’è pure un album formato da tutte canzoni del combo californiano, Better Off Dead).

E’ proprio questo il limite che uno potrebbe forse riscontrare nei GCG, cioè il fatto che i loro album siano composti perlopiù da cover e solo in minima parte da brani originali, e con una grande prevalenza per i due gruppi citati poc’anzi (ma nei dischi affrontano anche altro materiale, per esempio Cortez The Killer di Neil Young e lo standard jazz reso immortale da John Coltrane Afro-Blue), al punto che qualcuno potrebbe definirli una cover band. I nostri però, e giustamente, se ne fregano, e quindi cosa c’è di meglio che pubblicare un album dal vivo composto solo da cover degli Allman (sei) e dei Dead (tre), e come ciliegina chiamare proprio Butch Trucks a suonare la batteria? Live At The Stephen Talkhouse è esattamente questo, un perfetto showcase delle abilità dei cinque, con la figura di Trucks (già al secondo CD registrato on stage con i nostri, il precedente è del 2012) a fungere da garante, ma anche a dare il suo inconfondibile tocco all’intera performance. Ed i GCG si rivelano, almeno per me che non li conoscevo, un’autentica sorpresa, in quanto dimostrano di conoscere il repertorio classico degli Allman (e dei Dead) in maniera completa, ma a differenza di una normale cover band qui si sentono la passione ed il feeling, al punto che, chiudendo gli occhi, in certi momenti sembra quasi di sentire gli originali, soprattutto per quanto riguarda le parti di chitarra e di organo, con l’unica pecca della voce di Michne, assolutamente anonima e qualche volta persino stonata, niente a che vedere (e ci mancherebbe) con le calde sfumature blues dell’ugola di Gregg Allman (mentre Schmid, che si occupa di cantare i brani dei Dead, se la cava meglio, avendo tra l’altro un timbro molto simile a quello di Bob Weir).

L’album, che è stato registrato nell’Agosto del 2015 ad Amagansett (un sobborgo di appena mille abitanti nella zona degli Hamptons), si apre con il noto strumentale di Dickey Betts Les Brers In A Minor, e fin dalle prime note sembra (quasi) di avere a che fare con i veri Allman, tanto il suono è caldo e vigoroso, specie grazie allo splendido uso dell’organo. E poi Trucks si sente eccome, fin dalle prime battute va spedito come un treno; quasi al terzo minuto entra la chitarra e, pur non essendoci né DuaneBetts Haynes e neppure Derek Trucks, i due axemen del gruppo arrotano che è un piacere, anche se in questo brano gli assoli delle sei corde hanno uno spazio limitato. Con Mr. Charlie invadiamo il territorio dei Dead, per un brano poco noto di Garcia e soci, e la resa è accurata e piacevole, non distante dall’originale che all’epoca era apparso su Europe ’72: è anche il pezzo più breve della serata, poco più di tre minuti; Dreams I’ll Never See non è altro che Dreams degli Allman (il titolo allungato viene dalla cover dei Molly Hatchet), e la ballata, lunga, calda ed avvolgente, viene trattata con grande rispetto, anche se dal punto di vista vocale non ci siamo molto, ma per suonare eccome se suonano (in particolare spicca il lungo assolo chitarristico). Blue Sky è una delle più belle canzoni del songbook degli Allman, ed i GCG fanno del loro meglio per ricreare le sonorità liquide della grande band sudista, riuscendoci in maniera egregia: la chitarra è strepitosa, ma anche la sezione ritmica, guidata magistralmente da Butch che conosce ogni secondo del brano a memoria, non è da meno, così come il pianoforte; non c’è tempo per riprendersi che ecco la straordinaria Whipping Post, un tripudio di suoni del Sud lungo nove minuti, e con gli impasti strumentali di organo e chitarre che raggiungono vette molto alte, peccato solo per la voce: comunque il godimento è garantito.

Black Hearted Woman non è molto conosciuta (era comunque sul primo album dei Fratelli Duane & Gregg), ed è un rock-blues abbastanza canonico, che però nelle mani degli Allman diventava oro: anche i nostri ci sanno fare, dimostrando che neppure il blues è un genere a loro ostico, e lasciano scorrere gli strumenti improvvisando alla grande, superando i dieci minuti e con una parte centrale che diventa una gustosa jam tra rock, jazz e shuffle. Se solo si trovassero un altro vocalist! Ancora due brani dei Dead, la splendida e fluida Franklin’s Tower, suonata con classe e feeling (e che pianoforte), e la grintosa St. Stephen, con Trucks che ci fa vedere che poteva suonare i pezzi del Morto Riconoscente con la stessa disinvoltura con la quale affrontava quelli del suo ex gruppo; gran finale (dodici minuti) con In Memory Of Elizabeth Reed, una delle signature songs assolute degli Allman, con i nostri che la rifanno con sicurezza ma anche rispetto, liberando nell’aria i suoni ed interagendo alla grande, e con una prestazione chitarristica formidabile,  il tutto sotto lo sguardo sicuramente compiaciuto di Butch.

Non saremo al Fillmore East negli anni settanta, ma anche in questo Live At The Stephen Talkhouse la buona musica non manca: che erano grandi canzoni lo sapevamo già, ma i Great Caesar’s Ghost dimostrano di essere ben più di una cover band. E poi Butch Trucks era uno che se ne intendeva.

Marco Verdi

In Viaggio In Italia, Con “Gruppo” Al Seguito. Richard Lindgren – Malmostoso

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Richard Lindgren – Malmostoso – Rootsy/Ird

Qualche mese a fa, a fine ottobre, vi avevo annunciato la serata milanese di presentazione del nuovo disco di Richard Lindgren Malmostoso, concerto che poi si è tenuto regolarmente, in una uggiosa serata milanese, con ottimi riscontri qualitativi e discreta presenza di pubblico.. Lindgren è uno svedese del Sud, viene da Malmo, e per l’occasione ha unito le forze con i “nordisti” italiani Mandolin’ Brothers, sia per la registrazione del disco come per la tournée italiana, che tra pause e riprese, è tuttora in corso. Il buon Richard è uno svedese anomalo, un buon performer in grado di intrattenere amichevolmente il pubblico anche con piccoli trucchetti e gag divertenti, oltre alle magie sonore imparate in lunghi anni on the road, e agli immancabili racconti di vita e piccoli aneddoti che tratteggiano lo spirito delle sue canzoni, che poi vivono e respirano in proprio grazie al suo talento.

Con la band pavese Lindgren ha costituito un sodalizio dai contorni quasi telepatici per questo nuovo album, disco che ruota attorno ai nuovi brani scritti dall’autore svedese nel corso dei suoi continui e ripetuti soggiorni italiani, i soggetti delle canzoni, e spesso i titoli, rimandano al Belpaese, ma la musica e i contenuti sonori sono quelli di un cantautore dal taglio internazionale, di grande talento, ispirato ed influenzato dall’opera dei grandi cantautori americani e inglesi, oltre che dalla poesia e dalla letteratura, nomi come Dylan, Waits, Morrison non vengono citati a sproposito tra le fonti di ispirazione del nostro, ma nella sua musica si ritrovano anche echi dei grandi cantanti texani, da Townes Van Zandt in giù,  qualcuno ha citato pure Jack Hardy, io potrei aggiungere, non per il tipo di voce, ma per le atmosfere sonore che evoca, uno come Eric Andersen, raffinato ed avvolgente, il tutto grazie “alla tristezza, la rabbia, la brama di vivere e l’umorismo”, che le sue canzoni spargono, ipse dixit Mary Gauthier, sua grande fan.

Il sodalizio con i Mandolin’ ha aggiunto, in alcuni brani, anche elementi blues e tratti rock più mossi e grintosi, ma Richard Lindgren rimane fondamentalmente un folksinger, uno storyteller, uno che è sempre innamorato di qualcosa, delle donne, dell’Italia, della poesia, del vino, tutti elementi che inserisce nelle sue canzoni, sempre uguali e sempre diverse tra loro. Il disco è uscito nell’autunno 2016 (e infatti l’ho inserito tra le mie scelte nei migliori album dell’anno appena passato) ma mi è sembrato giusto, anzi doveroso, sia pure in ritardo, parlarne in modo più diffuso e particolareggiato, visto che Malmostoso, se non lo avete anche ancora ascoltato, o eventualmente, acquistato, merita tutta la vostra attenzione. Chi è lombardo conosce il termine “malmostoso” (anzi in dialetto sarebbe malmustus), per gli altri forse è difficile da spiegare, ma, come dice la Treccani potremmo dire che è una persona musona, scontrosa, sgarbata, anche lunatica e stramba, più che il “sad and gloomy” citato nelle note del libretto, e penso che il titolo sia stato comunque usato anche per i significati multipli che evoca.

Nel disco, si diceva, suonano i Mandolin’ Brothers al gran completo, Jimmy Ragazzon (voce, armonica e chitarra acustica), Paolo Canevari (chitarre, slide & National Steel), Marco Rovino (mandolino, chitarre, voce), Riccardo Maccabruni (fisarmonica, tastiere, voce), Joe Barreca (basso elettrico e contrabbasso) e Daniele Negro (batteria e percussioni), oltre all’altro chitarrista Francesco Montesanti, e sin dall’apertura in chiave dylaniana dell’iniziale Dunce’s Cap, con organo e chitarre rock ben delineate, si respirano sonorità roots (d’altronde vista anche l’etichetta per cui incide è quasi inevitabile) di grande fascino. Mentre Let’s Go To Como, Baby, anche grazie all’impiego di una voce femminile eterea e sognante, è quella che più mi ricorda le splendide canzoni dell’Eric Andersen poc’anzi ricordato, una ballata introdotta da gentili arpeggi di una chitarra acustica e poi, grazie ad un violino evocativo e struggente, ti avvolge in una atmosfera calda e delicata. O ancora la splendida e letteraria Lonesome Giacomo, altra fremente ballata percorsa dall’uso del violino (anche nelle esibizioni live, sempre la bravissima Chiara Giacobbe), oppure le atmosfere più bluesy e febbrili, quasi stonesiane, grazie alle chitarre taglienti, come da titolo, di Ragazzon Blues, dove Jimmy aggiunge la sua armonica al tessuto sonoro del brano. Con Merrion Row, onirica e sospesa, che grazie all’uso della doppia tastiera si riallaccia al sound dei vecchi lavori di Lindgren, e mette in evidenza la voce roca e vissuta del cantante svedese, pur mantenendo il tocco di classe dei Mandolin’ Brothers nell’andatura incalzante della canzone; Evil Love è una intensa blues ballad dalla bella melodia vecchio stile, lenta ed avvolgente, con la chitarra solista che lavora di fino nella parte centrale e l’armonica che torna a farsi sentire nella parte finale, e le solite citazioni letterarie, questa volta Robert Burns, nel testo.

Bluesy Moss, invece, a dispetto del titolo, è una folk song splendida, di impianto acustico, ma sempre con l’organo che ti entra sottopelle, insinuante e sapido, mentre Lindgren canta con in modo piano ma appassionato; molto bella anche St. Vincent’s Blues (ma ce n’è una brutta?), introdotta da  un arpeggio di chitarra acustica, poi acquisisce un piglio tra country e bluegrass, grazie all’impiego del dobro del bravo Paolo Ercoli, sentito anche nel recente disco solista di Jimmy Ragazzon http://discoclub.myblog.it/2016/12/01/come-i-suoi-amati-bluesmen-un-pavese-americano-finalmente-esordisce-con-una-valigetta-piena-di-belle-canzoni-jimmy-ragazzon-songbag/ . Poteva mancare in un brano l’uso della fisarmonica? Certo che no, se ce l’hai, e quindi in Trouble In Garden Riccardo Maccabruni passa alla fisarmonica, Paolo Canevari è alla slide, Jimmy Ragazzon di nuovo all’armonica, e sempre quasi di esserci tuffati in qualche vecchio album anni ’80 o ’90 del miglior Joe Ely; Sailor Blue, con il contrabbasso di Joe Barreca a segnare il tempo, il violino e il dobro di nuovo in azione, mi ha ricordato molto il primo Tom Waits, quello più romantico e intimo degli anni ’70, con Richard Lindgren che adotta una voce discorsiva ed insinuante per l’occasione. Il valzerone finale, che sarebbe Viaggio A Pavia, ma come lo pronuncia il cantante svedese diventa “Agio a Pavia” o qualcosa del genere, è una ulteriore canzone fascinosa e coinvolgente, con tanto di canto corale conclusivo di tutta la truppa, e che conferma ulteriormente il talento di questo autore nordico che merita assolutamente di essere conosciuto (come testimoniamo i suoi dieci, o dodici, a seconda delle fonti, album complessivi realizzati)!

Quindi se volete conoscere, o approfondire la conoscenza, Richard Lindgren, domani sera, 28 gennaio, sarà in concerto, con i Mandolin’ Brothers, al Cinema Teatro di Macallé in quel di Castelcerioso (AL). Se non potete andare, comprate comunque il disco, perché merita assolutamente.

Bruno Conti

L’Ecatombe Di Musicisti Non Ha Fine: E’ Morto Anche Butch Trucks!

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Se il 2016 passerà alla storia come l’anno nero della musica rock, per l’incredibile numero di personaggi scomparsi, anche il 2017 sembrerebbe proseguire sulla stessa strada: è di ieri la notizia della scomparsa, avvenuta l’altro ieri, nella notte del 24 gennaio, a West Palm Beach in Florida all’età di 69 anni (e per cause ancora non rivelate, anche se il sito della sua nuova band riporta testualmente “tragically”) di Claude Hudson Trucks, meglio conosciuto come Butch Trucks, batterista e membro fondatore della leggendaria Allman Brothers Band. Nato a Jacksonville, Florida, Butch iniziò a suonare localmente proprio in Florida con i Vikings, ma presto conobbe i fratelli Duane e Gregg Allman, reduci dall’esperienza degli Hour Glass, i quali si unirono a Butch prima nei 31st Of February, e poi fondarono con lui, Barry Oakley e l’altro drummer Jai Johanny Johnson, detto Jaimoe, il gruppo di cui sopra. Che divenne ben presto la band leader indiscussa del movimento southern rock degli anni settanta: Trucks ha attraversato tutte le stagioni degli Allman, dai primi passi alla fase “fama e successo”, ma anche di grandissimi dischi come Idlewild South, Eat A Peach e Brothers And Sisters, nonché il mitico Live At Fillmore East (per chi scrive il miglior album dal vivo di tutti i tempi), ma visse anche da vicino le tragedie delle scomparse premature di Duane e Oakley.

Poi il declino e lo scioglimento verso la fine dei seventies e la reunion nel 1990 con l’ottimo Seven Turns, reunion che si è protratta fino ai giorni nostri, cioè fino al 2014 allorquando Gregg ha deciso di dire basta per sempre a causa di problemi fisici (e che ha visto dall’inizio del secolo anche la presenza all’interno del gruppo del nipote di Butch, Derek Trucks, il cui attuale gruppo formato con la moglie Susan Tedeschi, la Tedeschi Trucks Band, è oggi il più accreditato per raccogliere il testimone degli Allman). In possesso di uno stile diretto ed essenziale, ma anche potente quando necessario, Trucks è sempre stato il partner perfetto per Jaimoe, che aveva un approccio più raffinato e ricco di sfaccettature anche jazz e funky, al punto che oggi sarebbe impossibile pensare al sound degli Allman con un solo batterista, così come non si può prescindere dal caldo suono dell’organo di Gregg e dalla doppia chitarra solista di Duane e Dickey Betts (e dei loro sostituti futuri, Warren Haynes, Derek Trucks ed il quasi dimenticato Dan Toler).

Nel 2015, quindi dopo lo scioglimento degli Allman, Butch ha girato per gli USA con una nuova band ribattezzata Les Brers (dal titolo di un famoso brano degli Allman, Les Brers In A Minor) insieme a Jaimoe, oltre che con un altro gruppo, Butch Trucks & The Freight Train Band, dove militava anche Berry Oakley Jr. il figlio del bassista- Negli ultimi anni Butch aveva collaborato anche con i Great Ceasar’s Ghost, una jam band dello stato di New York con la quale aveva anche suonato spesso dal vivo: l’anno scorso è uscito Live At The Stephen Talkhouse, un album dal vivo del gruppo con la presenza di Butch “strillata” in copertina, un disco di cui mi occuperò a breve su questo blog (anche se non è più recentissimo).

Che altro dire? Evidentemente il Dream Team dei musicisti scomparsi nel 2016 aveva bisogno di un (grande) batterista…So long, Butch!

Marco Verdi

Un Cofanetto Che Si Può Tranquillamente Evitare, Esce Il 31 Marzo! Fleetwood Mac – Tango In The Night Super DeLuxe

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Il prossimo 10 marzo uscirà l’ennesima ristampa Deluxe di un album dei Fleetwood Mac: dopo Rumours, Tusk e Mirage tocca a Tango In The Night, che però, al di là dell’enorme successo commerciale che ebbe quando fu pubblicato nel 1987, vendendo oltre 15 milioni di copie nel mondo, a mio parere, non merita questa ristampa potenziata e Deluxe. Forse sarebbe stato meglio indirizzarsi sul primo, omonimo album del 1975 (di quelli con la formazione Buckingham-Nicks ovviamente), ma così è stato deciso e quindi vediamo cosa conterrà la ristampa. Intanto, per completare l’informazione, l’album, a differenza del suo predecessore Mirage, non andò al primo posto delle classifiche USA, fermandosi solo al settimo posto, fu un album tipicamente dal suono anni ’80, molto ridondante, con arrangiamenti “esagerati”, uso di molte tastiere e percussioni sintetiche, e fu funestato dall’uscita di molti singoli che contenevano remix dance, dub e quant’altro, decisamente inascoltabili, almeno per me. Purtroppo tutti recuperati nel terzo CD della edizione Deluxe.

E quindi vediamo cosa contiene il cofanetto. Il primo CD è l’album originale, 12 brani in tutto, qualcuno anche discreto, ma globalmente non un disco memorabile, per usare un eufemismo. Ci sono anche tre canzoni firmate insieme, per la prima volta, da Lindsey Buckingham e Christine McVie (e proprio in questi giorni è stato annunciato che probabilmente a maggio uscirà un nuovo disco della strana coppia), e solo tre di Stevie Nicks. Il secondo CD, il più interessante, contiene B-sides, alternate takes, demos, versioni strumentali e anche dei brani inediti, quasi tutto materiale mai pubblicato prima. E i primi due album escono anche come doppio CD, forse il formato ideale, se volete (ri)comprarvi Tango In The Night. Il terzo CD, quello orrido, riporta una sfilza di materiale ottimo per le piste da ballo, meno per i nostri impianti. Poi c’è un DVD, solo con 5 video dell’epoca relativi ai brani del disco, il resto dello spazio è occupato dalla versione ad Alta Risoluzione dell’album originale. E il quinto disco è proprio il vinile originale. Non si poteva mettere un bel concerto in sostituzione, magari questo?

Disc: 1
1. Big Love (Remastered)
2. Seven Wonders (Remastered)
3. Everywhere (Remastered)
4. Caroline (Remastered)
5. Tango in the Night (Remastered)
6. Mystified (Remastered)
7. Little Lies (Remastered)
8. Family Man (Remastered)
9. Welcome To The Room… Sara (Remastered)
10. Isn’t It Midnight (Remastered)
11. When I See You Again (Remastered)
12. You And I, Pt. II (Remastered)

Disc Two: B-Sides, Outtakes, Sessions
1.    “Down Endless Street”
2.    “Special Kind Of Love” (Demo)*
3.    “Seven Wonders” (Early Version)*
4.    “Tango In The Night” (Demo)*
5.    “Mystified” (Alternate Version)*
6.    “Book Of Miracles” (Instrumental)
7.    “Where We Belong” (Demo)*
8.    “Ricky”
9.    “Juliet” (Run-Through)*
10.  “Isn’t It Midnight” (Alternate Mix)*
11.  “Ooh My Love” (Demo)*
12.  “Mystified” (Instrumental Demo)*
13.  “You And I, Part I & II” (Full Version)*

Disc Three: The 12″ Mixes (super deluxe only)
1. “Big Love” (Extended Remix)
2. “Big Love” (House On The Hill Dub)
3. “Big Love” (Piano Dub)
4. “Big Love” (Remix/Edit)
5. “Seven Wonders” (Extended Version)
6. “Seven Wonders” (Dub)
7. “Little Lies” (Extended Version)
8. “Little Lies” (Dub)
9. “Family Man” (Extended Vocal Remix)
10. “Family Man” (I’m A Jazz Man Dub)
11. “Family Man” (Extended Guitar Version)
12. “Family Party” (Bonus Beats)
13. “Everywhere” (12″ Version)
14. “Everywhere” (Dub)

Disc Four: The Videos (DVD) *super deluxe only
1. “Big Love”
2. “Seven Wonders”
3. “Little Lies”
4. “Family Man”
5. “Everywhere”
Plus a High-Resolution Stereo Mix of the Original Album

Tango In The Night (Vinyl)

Side One
1. “Big Love”
2. “Seven Wonders”
3. “Everywhere”
4. “Caroline”
5. “Tango In The Night”
6. “Mystified”

Side Two
1. “Little Lies”
2. “Family Man”
3. “Welcome To The Room… Sara”
4. “Isn’t It Midnight”
5. “When I See You Again”
6. “You And I, Part II”

Da quello che ho visto, stranamente, il box non avrà un prezzo proibitivo, indicativamente tra i 60 e i 70 euro, quindi se volete farvi del male non vi costerà neppure moltissimo. Quindi, ripeto, data prevista di uscita il 10 marzo, etichetta Warner/Rhino.

Alla prossima.

Bruno Conti

Finalmente Un Ritorno Alle Sue Atmosfere Più Consone! Mike Oldfield – Return To Ommadawn

mike oldfield return to ommadawn

Mike Oldfield – Return To Ommadawn – Virgin/EMI CD – CD/DVD – LP

Se volessimo essere severi potremmo tranquillamente affermare che Mike Oldfield non azzecca un disco da 25 anni, e cioè da quando nel 1992 ha dato alle stampe Tubular Bells II, fortunato e riuscito seguito del lavoro che lo ha reso celebre al mondo intero, Tubular Bells appunto: da allora il musicista inglese ha pubblicato diversi lavori caratterizzati da atmosfere più eteree e strumentazioni perlopiù elettroniche, diventando quasi un esponente della musica new age, ambient e chillout, coinvolgendo nel calderone anche altri due episodi della saga delle campane tubolari (Tubular Bells III e The Millenium Bell, mentre Tubular Bells 2003 è un rifacimento nota per nota del primo volume, ineccepibile ma fondamentalmente inutile); forse gli unici album a salvarsi sono Guitars del 1999 ed il recente Man On The Rocks (2014), nel quale il nostro tornava ad un gradevole pop-rock con una serie di brani cantati, fortunatamente non da lui. Ma torniamo un attimo indietro, agli anni settanta, cioè la decade delle suite strumentali che fecero di Mike uno dei maggiori esponenti della musica progressive: a parte Tubular Bells, affermerei certamente che il suo miglior lavoro del periodo sia stato Ommadawn, molto meglio di Hergest Ridge, un po’ troppo simile al mitico disco d’esordio, ed anche del successivo doppio album Incantations, forse troppo lungo e minimalista; Ommadawn invece era un lavoro di grande qualità, nel quale Mike utilizzava in maniera ispirata strumentazioni di stampo celtico (il leader dei Chieftains, Paddy Moloney, suonava nel disco), mescolandole con atmosfere più acustiche e ritmiche tribali di derivazione africana, creando una sorta di opera world music ben prima che questo termine diventasse di moda.

Poi, come sappiamo, Oldfield cominciò a pubblicare album di grande successo all’insegna di un pop-rock orecchiabile e scrivendo grandi successi come Moonlight Shadow e To France, e tornerà solo una volta alla formula della lunga suite strumentale, con l’apprezzato Amarok del 1990, guarda caso abbastanza simile nello stile proprio ad Ommadawn. Adesso Mike ha fatto di più, pubblicando un vero e proprio seguito della sua composizione del 1975, intitolandola senza troppa fantasia Return To Ommadawn (e corredandola con una stupenda copertina in stile fantasy), ma, cosa ben più importante, ritrovando come per magia l’ispirazione giusta e portando a termine un ottimo lavoro. Return To Ommadawn segna infatti un vero e proprio ritorno alle atmosfere di 42 anni fa, con l’utilizzo da parte di Mike (suona tutto lui, mentre nel primo Ommadawn c’erano vari sessionmen) di strumenti veri e propri, e lasciando da parte per una volta sintetizzatori, computer e programmatori vari: come d’abitudine Oldfield elenca diligentemente nel booklet del CD tutto ciò che ha suonato, partendo da una lunga serie di strumenti a corda (chitarre acustiche ed elettriche, mandolino, banjo, ukulele, arpa celtica e basso), tastiere (piano, organo Hammond e farfisa, mellotron), percussioni varie (tra cui anche bodhran e glockenspiel), oltre a flauto e pennywhistle, mentre gli effetti vocali sono stati presi direttamente dall’Ommadawn originale e riadattati. Ma Mike non si è limitato ad utilizzare gli strumenti “giusti”, ma ha anche riproposto le stesse atmosfere elettroacustiche del primo volume, alternando come al solito momenti di quiete ad altri più ritmati, senza peraltro generare un clone del disco del 1975, bensì creando nuove ed evocative melodie partendo da dove si era fermato più di quarant’anni fa.

La suite è divisa in due parti, per un totale di 42 minuti: l’inizio è parecchio attendista (come spesso capita in queste opere del nostro), con un pennywhistle solitario, doppiato poco dopo da un flauto e due chitarre acustiche (una delle quali di tipo flamenco), ma i cambi di ritmo e melodia si palesano quasi subito, ed i vari strumenti iniziano presto ad intersecarsi creando un’atmosfera decisamente suggestiva. Sembra davvero il Mike della metà dei seventies, ed è un vero piacere ascoltarlo destreggiarsi nuovamente in mezzo a veri strumenti. Le sue tipiche linee musicali molto melodiche (al settimo minuto c’è un fraseggio di chitarra elettrica davvero splendido) si alternano ad altre più scattanti e nervose, in modo da non causare in chi ascolta neppure un istante di noia. Alcune melodie si ripetono ciclicamente, ma sono sempre eseguite da strumenti diversi, e poi all’improvviso arrivano le percussioni e le voci di stampo africano, agganciandosi così direttamente all’album di 42 anni fa. Il finale, poi, è maestoso come sempre, con il ritorno alle atmosfere folk iniziali, irrobustite da una bella chitarra elettrica e da un mandolino suonato con inusitato vigore. Se Mike Oldfield non è mai stato, per dirla all’inglese, la vostra tazza di tè, non sarà certo Return To Ommadawn a farvi cambiare opinione, ma se negli anni settanta avete vibrato per le sue suite strumentali, questo CD potrebbe addirittura colpirvi al cuore.

Marco Verdi