Più Che Un Disco, Una (Splendida) Operazione Culturale! Artisti Vari – Roll Columbia: Woody Guthrie’s 26 Northwest Songs

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VV.AA. – Roll Columbia: Woody Guthrie’s 26 Northwest Songs – Smithsonian Folkways 2CD

Nel 1941 l’America si stava risollevando a fatica da un decennio tremendo, conseguente alla crisi finanziaria del 1929 ed al periodo conosciuto come Grande Depressione (ed era imminente, anche se chiaramente non lo si sapeva ancora, l’ingresso in guerra in seguito all’attacco del Giappone a Pearl Harbor, che avverrà nel Dicembre di quello stesso anno): era un periodo di duro lavoro e di ricostruzione, ed una parte fondamentale del processo era ridare un po’ di ottimismo alla popolazione. Una delle iniziative mirate appunto a pubblicizzare i grandi sforzi che venivano fatti, fu l’incarico che la Bonneville Power Administration diede al famoso folksinger Woody Guthrie, incarico che consisteva nello scrivere una serie di canzoni atte a commentare un documentario sulla costruzione di dighe e centrali idroelettriche lungo il fiume Columbia, il più importante corso d’acqua della zona nord-ovest del Pacifico (che nasceva in Canada, nella British Columbia, e si gettava nell’oceano dopo aver attraversato gli stati di Washington ed Oregon). E Woody, già affermato songwriter, affrontò il lavoro con grandissima dedizione e professionalità, scrivendo la cifra record di ben 26 canzoni in 30 giorni (e, almeno per un mese, rappresentò il paradosso di un cantautore noto per essere contro il sistema che però allo stesso tempo lavorava per l’amministrazione federale, un vero uomo di lotta e di governo…), canzoni alcune delle quali sono entrate di diritto tra i suoi classici, come Pastures Of Plenty, Roll On, Columbia, Roll On e The Grand Coulee Dam (dal nome della più famosa tra le dighe costruite).

Oggi, a 75 anni da quell’evento, la leggendaria Smithsonian Folkways (mi tremano quasi le mani solo a pensare che nel 2017 sto recensendo un disco pubblicato da loro) ha preparato questo meraviglioso doppio CD intitolato Roll Columbia: Woody Guthrie’s 26 Northwest Song, un progetto che, anche se copertina e titolo potrebbero far pensare ad una raccolta di Guthrie, è in realtà un tributo a quelle 26 canzoni, da parte di tutta una serie di musicisti che hanno attinenza con la zona geografica in questione, sia che ci siano nati sia che ci risiedano. E l’album è davvero splendido, uno showcase lungo 104 minuti per un totale di 28 tracce (un paio di brani hanno l’onore di due differenti versioni, Pastures Of Plenty e Jackhammer Blues), nel quale una lunga serie di artisti al 95% di estrazione folk paga un sincero e sentito tributo Woody ed al magnifico risultato di quel temporaneo incarico da parte del governo: canzoni di lavoro e di fatica, ma anche di speranza per un futuro migliore, un’opera che, oltre che musicale, ha anche un profondo significato culturale e didattico (e sarebbe interessante conoscere le reazioni dei giovani di oggi al fatto che in quegli anni si scrivessero canzoni che parlavano di dighe e centrali elettriche). Brani che rispondono a titoli quali Oregon Line, Eleckatricity And All, Portland Town To Klamath Falls, Guys On The Grand Coulee Dam, Hard Travelin’ (altro pezzo molto noto), Columbia Waters, Mile And A Half From The End Of The Line, titoli che oggi sarebbero inimmaginabili per le canzoni contemporanee.

L’operazione, oltre ad essere benemerita dal punto di vista culturale, lo è anche da quello più strettamente musicale, in quanto si è scelto di coinvolgere artisti molto poco noti o praticamente sconosciuti, ma che hanno affrontato la prova con grandissimo rispetto e riproponendo le sonorità pure dell’epoca, solo con l’utilizzo delle chitarre acustiche e qualche volta di un banjo o un violino (e solo in un paio di brani la chitarra elettrica, ma senza mai l’uso della sezione ritmica): gli unici nomi un po’ più conosciuti sono quelli del grande David Grisman (e della moglie Tracy), della cantautrice folk Martha Scanlan, dell’ex chitarrista dei R.E.M., Peter Buck (e del suo compare nel Baseball Project, Scott McCaughey), di John Moen, componente dei Decemberists e del banjoista e chitarrista Tony Furtado. Gli altri partecipanti sono meno o per niente noti, ma non per questo meno bravi: Kristin Andreassen, Cahalen Morrison, i Timberbound, Jon Neufeld, Joe Seamons (anche produttore con Neufeld del lavoro, ed autore delle dettagliate liner notes nel bellissimo libretto di 44 pagine accluso al doppio CD), tanto per fare qualche nome. Un valido esempio per capire l’onestà di intenti del progetto è la presenza di Michael Hurley, che apre il lavoro con la prima delle due Pastures Of Plenty, un folksinger coetaneo di Bob Dylan e Joan Baez ed appartenente al folk revival del Greenwich Village nei primi anni sessanta, ma che già all’epoca stava nelle retrovie (ed infatti non so quanti di voi lo abbiano mai sentito nomimare, pur essendo titolare di una vasta discografia).

Non è il caso di fare una disamina canzone per canzone, ma non per pigrizia (anzi, avrete notato che se c’è da dilungarsi non mi tiro di certo indietro), bensì perché questo è un songbook che va goduto per intero, e non c’è un solo momento di stanca o un’interpretazione che sia meno che ottima, sia che si tratti di una ballata drammatica, che di un pezzo più vivace e disimpegnato, o ancora di un talkin’ blues. Woody aveva inciso per il documentario solo 17 delle 26 canzoni scritte, alcune le aveva registrate in seguito, altre le aveva lasciate solo con il testo (ad esempio, Lumber Is King è stata musicata nientemeno che da Pete Seeger, e solo nel 1987): qui invece non c’è frammentarietà, solo purezza, amore e cultura, oltre ad una spiccata capacità di intrattenere anche da parte dei musicisti meno blasonati tra quelli coinvolti (vale a dire quasi tutti).

Se Manzoni prima di scrivere I Promessi Sposi era andato a “sciacquarsi i panni in Arno”, questo Roll Columbia si può paragonare ad un bagno di purificazione nelle acque del fiume Columbia (e dove se no?): so che siamo solo a Febbraio e definirlo disco folk dell’anno può sembrare prematuro, ma sono certo che a Dicembre non avrà perso molte posizioni.

Marco Verdi

Anche Lui Ci Ha Lasciato Domenica 12 Febbraio: Robert Fisher, Leader Dei Willard Grant Conspiracy

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Non vorrei trasformare il Blog in una rubrica di necrologi, ma non mi sembrava giusto non segnalare che domenica scorsa 12 febbraio, oltre ad Al Jarreau, si è spento per un tumore anche  Robert Fisher, leader e factotum per oltre venti anni dei Willard Grant Conspiracy: malato da lungo tempo, negli ultimi tempi, anche per questo aveva diradato di molto i suoi impegni musicali, ma come gruppo, o in duo, con David Michael Curry, avevano continuato a fare tour, negli Stati Uniti, e saltuariamente anche in Europa, fino al 2016. L’ultimo album uscito era stato Ghost Republic, pubblicato nel 2013, e per ricordarlo vi riproponiamo la recensione di quel disco nelle parole di Tino Montanari. R.I.P, Robert.

Bruno Conti

Storie Di Fantasmi! Willard Grant Conspiracy – Ghost Republic – Loose Music 2013

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Robert Fisher, ormai unico membro fisso e indiscusso leader dei Willard Grant Conspiracy, è un narratore di storie, lo è da più di quindici anni e questo ultimo lavoro Ghost Republic (si avvicina molto ad un concept-album), è un ulteriore conferma. Formatisi a Boston nella prima metà degli anni ’90, i Willard Grant Conspiracy (fondati da Robert Fisher e Paul Austin ex Walkabouts) danno vita a quello che è stato etichettato “country-noir” o “gothic-country” (personalmente aggiungerei anche “psichedelia contadina”), mantenendo un’identità stilistica che ha permesso loro di cavalcare “l’alt-country” ed arrivare indenni al “neo-folk”, attraverso album meravigliosi quali Flying Low (98) (da recuperare assolutamente), Mojave (99), Everything’s Fine (2000), Regard The End (2004), Let It Roll (2006), Pilgrim Road (2008) e Paper Covers Stone (2009,) una rilettura di alcune delle canzoni più belle del loro repertorio.

Da segnalare inoltre il primissimo EP d’esordio 3am Sunday@ Fortune Otto’s (96) la collaborazione anomala con il gruppo olandese dei Telefunk In The Fishtank  (2002) e le due preziose antologie The Green, Green Grass Of  Slovenia (2000) e There But For The Grace Of God (2005). Da anni Fisher si è ritirato a vivere nel deserto del Mojave , dal quale trae l’ispirazione per questo lavoro, nato dal progetto letterario Ghost Republic, complice la poetessa Nicelle Davis che ha chiamato alcuni colleghi a scrivere un poema sulla città di Bodie (una delle tante “ghost town” abbandonate americane), attorno al quale ruotano i personaggi della storia.

Accompagnato dal bravissimo violinista David Michael Curry (membro della band di Thalia Zedek, nonché il musicista più presente nelle varie line-up del gruppo), Robert narra con la sua voce baritonale, storie di frontiera, traversie di vita e di morte, il tutto registrato nello studio di Curry nel Massachusetts, a testimonianza di uno splendido sodalizio artistico. La narrazione inizia con l’intro strumentale Above The Treeline, e prosegue con la scarna malinconia di Perry Wallis, l’elegia strumentale di Parsons Gate Reunion, mentre The Only Child  e la Title Track sono delle perfette “american gothic”. Dopo un sorso di Bourbon, la narrazione continua con gli archi della spettrale Rattle And Hiss e il violino straziante di Take No Place, la ninna nanna “noir” di Good Morning Wadlow, mentre con Piece Of Pie e The Early Hour il suono cambia con lancinanti abbozzi elettrici, che rimandano alla scuola dei Velvet Underground. La narrazione (purtroppo) volge al termine con il jazz e le distorsioni chitarristiche di Incident At Mono Lake e New Years Eve, per poi emozionare e commuovere con la recita conclusiva di Oh We Wait, dove il violino di David Curry e la voce baritonale (che sa di polvere, sabbia e bourbon) di Robert Fisher, danno il senso di cosa sia la malinconia dei perdenti.

Fin dal primo ascolto Ghost Republic, viene sviscerato attraverso oscure ballate dall’incedere lento, incentrate su intrecci di strumenti a corda (chitarra, viola e violino) a fare da sfondo alla voce profonda e vibrante di Robert Fisher (un condensato di Nick Cave, Mark Lanegan e Lou Reed), una musica sospesa nel tempo, musica che i Willard Grant Conspiracy disegnano in modo molto profondo, con figure di ribelli solitari e idealisti, metafora perfetta dell’America di ieri, di oggi e di domani. Crepuscolare.

Tino Montanari

Dopo Due Decadi Sono Ancora In Ottima Forma! Solas – All These Years

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Solas – All These Years – THL Records

Questo disco è uscito lo scorso anno (in occasione del ventennale della band) a distanza di quattro anni dall’ottimo Shamrock City, e come sempre (anche se in ritardo, ma è di difficile reperibilità, venduto solo da loro) se il disco merita ne parliamo. All These Years è il dodicesimo album dei Solas, che si presentano con l’attuale “line-up” del gruppo composta ancora dai membri fondatori Seamus Egan (flauto, banjo, chitarre, bodhran, mandolino), Winifred Horan (violino e voce) che costituiscono la spina dorsale del gruppo, senza dimenticare i membri di lunga data come Eamon McElholm (chitarre, tastiere. piano e voce), Mick McAuley (fisarmonica e voce), e la nuova entrata la brava Moira Smiley (banjo e voce), con la partecipazione di alcuni membri storici del passato, a partire dalla storica cantante Karan Casey,ma anche John Doyle, John Williams, Donal Clancy, Deirdre Scanlan, Mairead Phelan, Noriana Kennedy, e Niamh Varian Barry, a confermare che sono stati (e lo sono ancora oggi) uno dei gruppi più influenti nella storia della musica irlandese (anche se ufficialmente si sono formati in America).

La prima traccia del lavoro, lo strumentale e vivace Roarie Bummlers, è l’ennesimo esempio della capacità della band di riuscire a fondere magistralmente stili vecchi e nuovi, pezzo a cui fa seguito un brano tradizionale Standing On The Shore , una ballata morbida cantata al meglio e accompagnata dagli archi, presenti pure nella bellissima e struggente Lay Me Down, eseguita solo piano e voce da Moira e dal violino della signora Horan,  per poi tornare ad un medley di “jigs” con i tradizionali Lucy Locket’s / The Quiet Pint / The Sleepy Sailors. Si riparte con un altro brano tradizionale Wandering Aengus, con la voce solista di Noriana Kennedy inserita su un intrigante tessuto “bluegrass”, andando poi a ripescare un brano del gruppo sixties americano come gli Youngbloods, con una suntuosa cover di Darkness Darkness, farci muovere il piedino con il valzer di Lost In Quimper e i danzanti “reels” Unnamed Shetland Reel / Da New Rigged Ship. Uno dei punti più alti del disco è sicuramente la magnifica e tragica ballata repubblicana (racconta la morte di un giovane ribelle) Padraig Og Mo Chroi, raccontata dalla soave voce della brava Deirdre Scanlan e arrangiata con il tradizionale suono irlandese; seguita da due cover di “signore” del folk americano, una Not Alone della nota Patty Griffin, cantata con la solita maestria da Karan Casey, e una dolce e sussurrata Little Bird Of Heaven della meno nota, ma altrettanto brava, Martha Scanlan interpretata da Mairead Phelan, a cui fa seguito una fantastica “jig” Mr. And Mrs. Walsh.

L’ultima parte dell’album comprende una classica “Appalachian song” come As I Went Out Walking dove spiccano ancora la voce della Smiley e il magico  violino della Horan, seguita dal vecchio tradizionale Willie Moore (un’altra tragica storia di amore e omicidio), che si avvale della voce di Niamh Varian Barry, omaggiare la grande Bothy Band (storica formazione irlandese degli anni ’70) con una versione corale di Sixteen Come Next Sunday, e concludere con il bel valzer strumentale firmato da Seamus Egan All These Years, un degno e struggente finale con il violino di Horan a duettare con il piano di Egan.

A distanza di vent’anni dal loro esordio nei fumosi pub irlandesi di New York, i Solas sono ancora in pista ad alimentare la passione per la loro musica (nonostante i vari cambi di formazione),  a dimostrare che la musica “celtica” oggi è un linguaggio universale come il rock, la classica, il jazz, e il ripetuto ascolto di questo All These Years (che miscela tradizionale e moderno con riuscite cover), dà la netta sensazione che vecchi amici sono tornati insieme per fare ancora una volta grande musica, che parte principalmente dal cuore e dall’anima. Per quelli che sono stati “fans” dei Solas nel corso degli anni (come chi scrive), semplicemente questa è la migliore musica “tradizionale” irlandese, suonata da una delle migliori band “tradizionali” irlandesi in giro per il mondo.

Tino Montanari

Degno Figlio Di Tanto Padre? Per Quanto Possibile, Questa Volta Sì! Big Bill Morganfield – “Bloodstains On The Wall”

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Big Bill Morganfield – “Bloodstains On The Wall” – Black Shuck Records                  

William “Big Bill” Morganfield è il figlio di Muddy Waters, anche se in vita ha avuto scarsi contatti con il padre ed è stato allevato dalla nonna in Florida. E la sua carriera nell’ambito musicale è partita solo parecchi anni dopo la dipartita dell’augusto genitore avvenuta nel 1983: infatti il suo primo disco esce solo nel 1997, quando aveva già 41 anni, e da allora ne ha pubblicati comunque sette, compreso questo “Bloodstains On The Wall”. Nessuno particolarmente memorabile, alcuni anche buoni (ricordo di averne recensiti credo un paio), forse quest’ultimo il migliore in assoluto, ma ovviamente McKinley Morganfield era tutta un’altra storia: va bene che non sempre, anzi assai raramente, i figli d’arte riescono a raggiungere o avvicinare i vertici di chi li ha preceduti, ma almeno ha avuto il buon gusto di non farsi chiamare Big Bill Waters. A 60 anni, l’età del nostro amico oggi, il babbo aveva già realizzato una serie di capolavori quasi ininterrotta, cosa che non possiamo certo pretendere dal suo erede e mi fermo prima di avventurarmi in qualche giudizio di cui potrei poi pentirmi, diciamo che l’album in questione è un onesto album di Chicago Blues, ben suonato e con quattro brani composti dallo stesso Big Bill.

In sei brani appare la Mofo Party Band, con i tre fratelli Clifton, oltre a Brian Bischel alla batteria e Bartek Szopinski a piano e organo. Nei restanti brani ci sono parecchi ospiti di nome e sostanza: oltre ad un altro paio di figli d’arte, Eddie Taylor Jr. sicuramente e Chuck Cotton probabilmente, troviamo anche Colin Linden e Bob Margolin alle chitarre, nonché Augie Meyers al piano in un brano e Jim Horn al sax, e, in alternativa a John Clifton all’armonica, l’ottimo Steve Guyger soffia di gusto in una brillante I Don’t Know Why che porta la firma di Willie Dixon. Per sgombrare da equivoci il mio commento devo precisare che Big Bill Morganfield ha una eccellente voce, il marchio di famiglia si percepisce e il disco si gusta tutto d’un fiato, ripeto, non aspettiamoci il capolavoro, ma il Blues viene trattato con gusto e perizia in questo CD e anche se il disco è stato registrato tra Nashville, la California e il North Carolina si respira l’aria dei club fumosi di Chicago dove il papà si era costruito la sua reputazione. E il “giovane” Big Bill ha pure un eccellente tocco alla slide come dimostra in un intenso slow blues come When You Lose Someone You Love che porta la sua firma, e dove si apprezza anche il piano di Szopinski. Ogni tanto viene inserito il guidatore automatico, come nell’iniziale Lost Without Love o nella cadenzata Too Much, dove lo stile non dico si faccia scolastico ma manca un po’ di nerbo.

Però nella vibrante Help Someone il pianoforte corre a tutto boogie e sembra quasi di ascoltare Pinetop Perkins o Otis Spann, mentre nella title-track, in  origine un country blues degli anni ’50, qui trasformato in un brano alla Muddy Waters (e ci mancherebbe) tutti i musicisti suonano alla grande, a partire da Augie Meyers al piano, il titolare alla slide acustica (o forse è Linden?), Jim Horn al sax, Doc Malone all’armonica, grande intensità veramente. Niente male anche Can’t Call Her Name, lo spirito è sempre quello giusto delle 12 battute classiche, con chitarre ovunque e la penna di Morganfield si conferma capace. Se occorre si pesca dal repertorio: una Keep Loving Me scritta da Otis Rush, tirata e chitarristica come poche, preceduta da una sorprendente Wake Up Baby, leggera e divertente e che porta la firma di Lisa Stansfield (proprio lei!); avviso per i naviganti, i due brani sono invertiti nel CD e nel libretto, ma nulla sfugge al vostro recensore preferito. I Am The Blues è uno dei manifesti assoluti di questa musica, scritta da Willie Dixon, e qui resa in una eccellente versione da Big Bill Morganfield, che nell’occasione reclama la sua eredità con la giusta intensità e gli assoli di chitarra sono veramente ricchi di gusto. Anche un tocco di West Coast Blues con una cover di Help The Bear di Jimmy McCracklin e siamo al finale, Hold Me Baby, un’altra composizione di Big Bill presentata come bonus track: la slide è acustica, ma il tocco di “modernità” della drum machine potevano risparmiarcelo. Per il resto un ottimo album, meglio di quanto mi aspettassi.

Bruno Conti

E Oggi Ci Ha Lasciato Anche Al Jarreau, Una Delle “Più Grandi Voci” Degli Ultimi 50 Anni. Aveva 76 Anni

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Nel giorno del Post Sanremo, si parla solo di quello (e mi verrebbe un bel chi se ne frega, ma mi trattengo, ops l’ho detto!), ci ha lasciato, in quella che ormai pare una epidemia irrefrenabile e senza fine, anche Al Jarreau, voce tra le più straordinarie prodotte dalla musica degli ultimi 50 anni: un cantante in possesso di un prodigioso baritono naturale, in grado di saltare da una nota all’altra in una frazione di secondo, a suo agio nel jazz, nel pop, nel soul e nel R&B, grande interprete di brani altrui, ma anche autore in proprio, i suoi tre iniziali album di studio degli anni ’70 e lo strepitoso album live del 1977 Look To The Rainbow rimangono tra i più fulgidi esempi dell’uso della voce umana nella musica cosiddetta “leggera”.

A suo agio sia nel cantato “melodico” come nell’uso dello scat, e quindi in grado di emulare praticamente qualsiasi strumento musicale, Jarreau, a mio parere, era soprattutto un formidabile interprete di ballate. Memorabile rimane la sua versione di Your Song di Elton John, una delle più belle “cover” di tutti i tempi, versione di una bellezza disarmante.

Solo questa canzone gli varrebbe l’imperitura gratitudine degli amanti della bella musica, ma quei tre dischi sono splendidi: We Got By, Glow e All Fly Home. Poi negli anni a seguire, e fino ad oggi, avrebbe registrato altri album molto piacevoli a partire da This Time del 1980,  passando per Breakin’ Away, il suo più grande successo commerciale, giunto fino al nono posto delle classifiche americane, e molti ancora, fino a  My Old Friend: Celebrating George Duke, l’ultimo disco del 2014, in cui celebrava la musica del celebre tastierista americano, suo grande amico. Ha fatto anche musica “commerciale” più leggera, ma pur sempre con l’uso di quello splendido strumento che era la sua voce e anche una serie di album dal vivo, spesso incredibili grazie alle sue straordinarie abilità di showman e ad una simpatia contagiosa e irresistibile. Senza dimenticare i sette Grammy vinti. E comunque nei video acclusi a questo breve ricordo la musica parla per lui!

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La morte è avvenuta oggi a Los Angeles, nell’ospedale dove era ricoverato da qualche giorno, a causa delle conseguenze della polmonite contratta qualche tempo fa (e che già lo aveva colto nel recente passato), aggravata dalle convulsioni collegate alla malattia. Quindi noi lo salutiamo e gli auguriamo che riposi in pace per sempre anche lassù, magari ci faccia sapere se c’è ancora posto, visto che purtroppo la situazione ultimamente sta diventando sempre più complicata per i musicisti.

Bruno Conti

Una Doverosa Appendice Al Cofanetto! 1: Bert Jansch – Live In Australia

bert jansch live in australia

Bert Jansch – Live In Australia – Earth CD

Questo CD, come suggerisce il titolo del post, è quasi indispensabile se vi siete accaparrati, o avete deciso di farlo, il recente box di Bert Jansch Living In The Shadows, contentente tre album incisi dal grande musicista scozzese negli anni novanta, con l’aggiunta di un quarto CD di inediti http://discoclub.myblog.it/2017/02/03/gli-anni-novanta-di-un-grandissimo-musicista-bert-jansch-living-in-the-shadows/ (ed il numero uno nel titolo dell’articolo preannuncia un secondo post dedicato al nuovo live di Francesco De Gregori Sotto Il Vulcano, ideale completamento del box riepilogativo della carriera Backpack): perfino la copertina, praticamente identica a quella del cofanetto quadruplo, suggerisce che in realtà Live In Australia è da considerarsi il quinto CD dell’operazione. Ma attenzione, se possedete già Downunder, live di Jansch uscito nel 2001 (ed ora fuori catalogo), non comprate questo album, in quanto è esattamente lo stesso concerto (registrato al Continental Cafe di Melbourne nel 1998), solo in una veste migliore, completamente rimasterizzato, e, come per il box, con le esaurienti note dell’esperto giornalista irlandese Colin Harper, anche se senza la benché minima bonus track.

Se non avete l’edizione del 2001, questo CD è invece (a mio parere) da avere, primo perché gli album live di Jansch non abbondano, ma soprattutto in quanto vedono il nostro, in forma smagliante, affrontare i quindici brani inclusi con la classe e raffinatezza che tutti gli conosciamo, ma senza lasciare in secondo piano la sua eccezionale abilità di chitarrista acustico. Una performance scintillante quindi, durante la quale Bert è coadiuvato (e non sempre) da appena due musicisti, Pete Howell al basso e Ian Clarke alle percussioni, in modo da lasciare in primo piano la sua splendida chitarra e la sua voce forse non bellissima ma particolare e unica. Se pensate che ci siano anche brani dei Pentangle rimarrete delusi, in quanto Bert si concentra su classici della tradizione, qualche cover (da lui comunque già incisa in passato) e diversi pezzi scritti di suo pugno: il CD inizia proprio con due cover, la tenue e delicata Blues Run The Game (di Jackson Frank, incisa tra gli altri da Sandy Denny, Nick Drake e dall’ex pard John Renbourn, mentre la versione originale di Bert è del 1975) ed il blues sopraffino Come Back Baby (scritto da Walter Davis e conosciuto per la versione di Ray Charles, mentre quella di Bert risale al 1967), subito seguiti dalla tersa e cristallina Lily Of The West, un noto traditional la cui versione in studio fa parte del CD di inediti del recente box.

Ben sei dei brani del concerto sono tratti da Toy Balloon, l’album di Jansch uscito lo stesso anno di questa serata, tra i quali alcuni davvero bellissimi come Paper Houses, poesia folk allo stato puro, e la fluida Born And Bred In Old Ireland, scritta dal nostro ma che sembra un pezzo tradizionale. Ci sono addirittura due canzoni in anteprima da Crimson Moon, album che Jansch pubblicherà nel 2000, e cioè l’intensissima My Donald (dopo un po’ non farete caso alla strumentazione ridotta al’osso, rapiti come sarete dal fraseggio chitarristico) e l’avvolgente strumentale Downunder, scritto apposta per questo tour australiano. Infine, meritano senz’altro una citazione la solare Strolling Down The Highway, o la limpida Angie, in cui il nostro lascia il pubblico a bocca aperta (non è il noto successo dei Rolling Stones, ma uno strumentale composto da Davy Graham con il titolo originale di Anji, lo hanno rifatto anche Simon & Garfunkel), o ancora lo splendido traditional The Curragh Of Kildare, perfettamente nelle corde dell’ex Pentangle.

Non c’è molto altro da dire, se non mettere il CD nel lettore e lasciar fluire la musica di questo straordinario artista, mai troppo apprezzato in vita.

Marco Verdi

Tra Brooklyn E La West Coast, Sopraffina American Music (Con Norah Jones Ospite)! The Candles – Matter + Spirit

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The Candles – Matter + Spirit – The End Records

In passato si sono spesi per loro lusinghieri pareri a livello critico (hanno già pubblicato due dischi, Between The Sounds del 2010 e La Candelaria del 2013), con richiami alla musica di Gin Blossoms, Whiskeytown e Big Star; spesso hanno aperto, ma anche fatto da backing band, per i tour di Alberta Cross, Cory Chisel e soprattutto Norah Jones, che rende il favore duettando con Josh Lattanzi, il loro frontman, nella dolce e languida Move Along, limpido esempio del loro stile tra roots music e Americana, ma aperto anche alle influenze dei cantautori classici degli anni ’70. Lattanzi è un ottimo autore, newyorkese come il resto della band, trae comunque spunto dal lato più gentile della Big Apple, anzi la sua musica sembra più abbeverarsi al West Coast sound della California, oltre che al più genuino folk e country-rock. Oltre a Lattanzi che suona basso, mandolino, chitarra ed è la voce solista, nei Candles troviamo Pete Remm, piano, organo e Wurlitzer (le tastiere hanno un peso notevole nel sound del gruppo), Jason Abraham Roberts è il chitarrista, mentre alla batteria e alle armonie vocali troviamo Greg Wieczorek, che è stato anche l’ingegnere del suono aggiunto, a fianco del produttore Ben Rice, anche lui di Brooklyn, e che vanta collaborazioni, che non depongono a suo favore, con Lady Gaga, Britney Spears e Ramazzotti, ma anche con Springsteen in High Hopes, Aoife O’Donovan, gli Skins, e comunque in questo Matter + Spirit ha svolto un ottimo lavoro, mai importuno ed invadente, ma sempre teso ad evidenziare il sound delicato del gruppo, il tutto registrato nei Degraw Studios dell’omonimo cantautore.

Quando occorre il quartetto utilizza dei musicisti esterni, come la pedal steel di Dan Iead (presente anche nell’ultimo album di Norah Jones), oltre che nella citata Move Along anche in Sunburned e Til’ It’s Gone, gli altri brani dove le radici country e folk sono più evidenti (ma anche il primo James Taylor sembra un punto di riferimento), canzoni calde ed avvolgenti, dolci senza essere zuccherose, con arrangiamenti semplici ed elaborati al tempo stesso, qualche richiamo ai primi Eagles, per l’uso di armonie vocali mai banali, per esempio quelle di Allison Pierce del duo basato a Los Angeles delle Pierces, nella deliziosa Til’ It’s Gone (occhio che se fate una ricerca in rete, vi appare anche il nome di una nota pornostar, ma questi sono i rischi di internet). Tornando al disco, breve e centellinato, nove brani per poco più di trenta minuti, ma nulla di sprecato, non è casuale anche la scelta della cover fatta da Lattanzi & Co: una bellissima Lost My Driving Wheel, lo splendido brano di David Wiffen, che oltre che nelle interpretazioni di Tom Rush, Cowboy Junkies, Roger McGuinn e Byrds, ricordiamo anche nella recente versione su Only Slightly Mad di David Bromberg, molto bella anche questa, grintosa il giusto, dei Candles.

Altro brano notevole è Something Good, sempre caratterizzato dall’uso della doppia tastiera, e che ricorda quelle ballate meravigliose del miglior Jackson Browne targato anni ’70. Non possiamo dimenticare l’iniziale, mossa, Back To The City, altro limpido esempio della classe di autore di Josh Lattanzi, che poi sa come rivestire nel modo migliore le sue composizioni, grazie al lavoro sopraffino dei suoi bandmates e anche degli amici aggiunti, come il grande fotografo Danny Clinch, che suona l’armonica in questo brano. Blue Skies And Sun, più elettrica, grintosa e cadenzata, anche grazie alla presenza della chitarra aggiunta di John Skibic dei Twilight Singers, ricorda persino certe atmosfere sonore alla Neil Young, quello magari più “morbido” e meno selvaggio, ma anche dei Whiskeytown e del loro leader Ryan Adams, comunque altra gran bella canzone. Da ricordare mancano la breve Followed, una folk song acustica ed intimista, con uso di mandolino, e la conclusiva You Won’t Remember Me, dove a duettare con Lattanzi troviamo Wes Hutchinson, in un altro brano che mi ha ricordato il suono dei primi Eagles, quelli non ancora giunti al grande successo. Segnatevi il nome dei Candles, potrebbero essere una delle sorprese di questo scorcio di 2017, anche se il disco è uscito a fine 2016, ma quando la musica è buona non ci formalizziamo.

Bruno Conti  

Finalmente La Degna Ristampa Di Un Disco Mitizzato! Delaney & Bonnie – Motel Shot

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Delaney & Bonnie – Motel Shot (Expanded) – Real Gone CD

Periodo felice questo per la riscoperta del catalogo di Delaney & Bonnie, duo formato dal cantautore e chitarrista Delaney Bramlett e dalla cantante, ed all’epoca moglie, Bonnie O’Farrell Bramlett, che a cavallo tra gli anni sessanta e settanta fu responsabile di alcuni tra i più bei dischi in circolazione all’epoca: a pochi mesi dalla ristampa dell’ottimo To Bonnie From Delaney, la benemerita Real Gone (e grazie al noto archivista Bill Inglot) ha appena rieditato uno dei dischi più belli e celebri della coppia, Motel Shot. E’ anche il più raro, in quanto per anni l’unica versione disponibile in CD era un’edizione giapponese difficile da trovare ed esageratamente costosa:(*NDB Anche se pure la nuova edizione non costa molto meno) questa ristampa, oltre a presentare le dodici canzoni originali opportunamente rimasterizzate, presenta anche otto outtakes mai sentite, diventando quindi praticamente imperdibile (però non capisco perché hanno dovuto cambiare la copertina: quella originale forse non era il massimo, ma questa odierna fa sembrare il CD un bootleg o un’antologia a basso costo).

delaney and bonnie motel shot

Motel Shot, quarto album di studio del duo, è anche il più particolare, in quanto è basato su una session piuttosto informale tenutasi nell’appartamento di Bruce Botnick (l’ingegnere del suono nei dischi dei Doors), con diverse canzoni improvvisate ed un suono al 95% acustico, e un alone gospel che pervade tutti i brani; l’album doveva uscire nel 1970 per la Elektra, ma per varie peripezie fu spostato in avanti di un anno e fu pubblicato dalla Atlantic, che però giudicò il materiale troppo informale, al limite dell’amatoriale, e pretese di mescolarlo con registrazioni più professionali da tenersi nei loro studi. L’album che poi uscì fu quindi una sorta di ibrido tra i brani incisi a casa di Botnick, principalmente cover, e le canzoni registrate in studio, scritte da Delaney: il risultato finale fu comunque eccellente, al punto che per molti Motel Shot è il miglior album inciso dai nostri (su questo non concordo, per me il più bello rimane il loro esordio, Home): un lavoro forse non perfetto dal punto di vista tecnico, ma altamente ricco di anima e feeling, con brani di derivazione gospel e la solita formula del duo che mischia alla grande rock, blues e soul.

Lo strumento protagonista dell’album è sicuramente lo splendido pianoforte di Leon Russell, centrale in ognuna delle canzoni, ma se guardiamo i nomi degli altri musicisti coinvolti c’è da godere solo a leggere: dai soliti noti Bobby Whitlock e Carl Radle, al grande Duane Allman alla slide in tre pezzi, passando per l’allora chitarrista dei Byrds, Clarence White, per finire con un’altra leggenda, Gram Parsons, alla chitarra e voce. Senza dimenticare Bobby Keys ed il suo sax, il violinista e banjoista John Hartford, Dave Mason alla chitarra, il super batterista Jim Keltner e Joe Cocker ai cori (manca invece, e stranamente, Eric Clapton). L’inizio è particolare, sembra quasi un rehersal, ma si nota che l’ensemble è in stato di grazia, con una rilettura straordinaria del traditional Where The Soul Never Dies, solo piano, tamburello e coro ma un’intensità da brividi, brano che confluisce direttamente nell’inno della Carter Family Will The Circle Be Unbroken e nella lenta (e classica) Rock Of Ages, quasi a voler formare una mini-suite gospel (ed anche la trascinante Talkin’ About Jesus, con la voce di Cocker chiaramente riconoscibile, avrà lo stesso trattamento). C’è spazio anche per un classico country come Faded Love di Bob Wills, alla quale i nostri cambiano completamente veste facendolo diventare un toccante lento soul, sempre con il piano di Russell a tessere la melodia.

La parte blues è formata da Come On In My Kitchen (Robert Johnson), proposta in una eccellente versione stripped-down  molto annerita (e con Duane alla slide acustica), e da Don’t Deceive Me (Chuck Willis), dal ritmo strascicato e performance vocale strepitosa da parte di Bonnie. Poi ci sono i quattro pezzi originali scritti da Delaney: Long Road Ahead, ancora dai sapori gospel, un chiaro brano dall’impronta sudista, guidato di nuovo dallo splendido pianoforte di Leon, la deliziosa Never Ending Song Of Love, una canzone saltellante di ispirazione quasi country, che è anche stato il più grande successo come singolo della coppia (ed è stata incisa in anni recenti anche da John Fogerty), la corale Sing My Way Home, fluida, distesa e dalla melodia influenzata dall’amico George Harrison (ancora Allman alla chitarra, stavolta elettrica) e la southern Lonesome And A Long Way From Home (già incisa da Clapton sul suo debutto solista). A completare il quadro, una spedita versione, ancora molto gospel, di Going Down The Road Feelin’ Bad, che proprio in quegli anni diventerà un classico nei concerti dei Grateful Dead.

Tra le otto bonus tracks, tutte provenienti dalle sessions originali in casa Botnick, ci sono tre versioni alternate di brani poi apparsi sul disco (Long Road Ahead, Come On In My Kitchen e Lonesome And A Long Way From Home, quest’ultima meglio di quella poi pubblicata, con una parte strumentale da urlo), una cover cristallina, guidata dalla chitarra acustica, di I’ve Told You For The Last Time, un brano poco conosciuto di Clapton, anch’esso proveniente dall’esordio di Manolenta, un rifacimento più informale della bella Gift Of Love (apparsa due anni prima su Accept No Substitute, secondo album della coppia), un blues acustico abbastanza improvvisato ma interessante, intitolato semplicemente Blues, ed un finale ancora a tutto gospel con What A Friend We Have In Jesus e la famosissima Farther Along. Una ristampa dunque imperdibile, che anche se non è il lavoro migliore di Delaney & Bonnie rimane comunque un grande disco, oltre che una fulgida testimonianza di un periodo irripetibile della nostra musica.

Marco Verdi

Variazioni Lievi Ma Significative, Sempre Ottima Musica! Jono Manson – The Slight Variations

jono manson slight variations

Jono Manson – The Slight Variations – Appaloosa/IRD

Non so se avete mai avuto l’occasione di assistere ad un concerto di Jono Manson? Il nostro amico si presenta sul palco armato di una chitarra acustica, che suona con una pennata forte ed energica, una chitarra elettrica a quattro corde (per i brani con elementi rock e blues), una bella voce, ma soprattutto tanta simpatia che estrinseca in una serie di aneddoti e storie, usati per presentare le sue canzoni e qualche rara cover, l’insieme lo rende un perfetto uomo da palcoscenico, cosa che fa da oltre trent’anni, in giro per il mondo. Ma Manson è anche un ottimo cantautore, rocker all’occorrenza (quando si esibisce con i suoi amici Brother’s Keeper, ovvero Scott Rednor, Michael Jude e John Michel, tutti presenti nel nuovo album, rafforzati anche da Jason Crosby, alle tastiere e violino e da John Popper dei Blues Traveler all’armonica), produttore, arrangiatore, ingegnere e tecnico del suono, di recente con  i Mandolin’ Brothers e nel disco solista di Jimmy Ragazzon, oltre che produttore anche del nuovo album dei Gang Calibro 77, in uscita il prossimo 24 febbraio: ma è anche un abituale frequentatore del nostro paese, dove ha stretto amicizie e frequentazioni musicali, prima con Paolo Bonfanti, e poi con i Barnetti Bros, ovvero Andrea Parodi, Massimo Bubola e Massimiliano Larocca, con i quali ha inciso un album, Chupadero, che prende il nome della località, nel New Mexico, dove Jono vive e ha anche il suo studio di registrazione, in cui è stato inciso questo The Slight Variations, secondo album pubblicato dall’italiana Appaloosa, per la quale aveva registrato anche l’ottimo Angels On The Other Side, di cui avevo parlato in termini più che lusinghieri su queste pagine virtuali http://discoclub.myblog.it/2014/03/14/conflitto-interessi-what-jono-manson-angels-on-the-other-side/ .

Per volere essere sinceri fino in fondo, per chi scrive, e il giudizio è sempre soggettivo, il nuovo CD è leggermente inferiore al suo predecessore, ma è proprio una “anticchia”, più una impressione (che magari nel tempo e con ulteriori ascolti potrebbe cambiare) che una vera realtà. Comunque un bel disco, dal suono sempre brillante e vario, dove rock, canzone d’autore, roots music, Americana, blues, folk e country (ho dimenticato qualcosa?) si alternano e si mescolano, “frullati” con maestria da Jono Manson, grazie all’aiuto dei musicisti ricordati poc’anzi, con una citazione speciale per Jason Crosby, ottimo polistrumentista, di recente in azione anche con gli Hard Working Americans, ma puree Kevin Trainor, chitarrista elettrico dal tocco leggero e di gran classe, e della sezione ritmica composta da Mark Clark e Steve Lindsay, che si alternano con Jude e Michel. In totale sono dodici pezzi, sei scritti con la moglie Caline Welles, due collaborazioni con l’altro vecchio amico Chris Barron degli Spin Doctors, due con Joe Flood e due in solitaria: a fare crescere di molto il giudizio critico, sempre a mio giudizio, è il trittico iniziale, una splendida Trees, che mescola canzone d’autore e suggestioni celtiche, grazie all’insinuante violino di Crosby e ad una pervasiva melanconia che dà fascino al brano, cantato in modo intimo e raccolto da Jono. Che poi si scatena in Rough And Tumble, un grande R&R, scritto con Barron, tra Stones e Little Feat, con chitarre a tutto riff, un pianino saltellante e le armonie vocali sudiste di Hillary Smith.

E pure I’m Ready è una bellissima rock ballad, tra Dylan e la Band, con un uso sontuoso dell’organo di Crosby e una melodia avvolgente che cita anche qualche mood beatlesiano. Molto piacevole la tenue e delicata Wildflower, che evoca uno spirito alla James Taylor, con il piano che si alterna allo strumento indiano del dilruba per creare esotiche sonorità orientali, e anche The Sea Is The Same appartiene a questa categoria di brani “folky”, raccolti ma ben tratteggiati, autunnali e malinconici. Footprints On The Moon nasce, come racconta lui dal vivo, da vecchi ricordi della sua infanzia, e prende lo spunto dalla prima missione lunare americana del 1969, vista alla TV in bianco e nero, una briosa e movimentata canzone di impianto più rock, con un arrangiamento molto corposo e raffinato, degno delle sue tracce migliori, con begli spunti di chitarra e organo. The Slight Variations (a proposito l’album è diviso in una overture, due movimenti e un epilogo, ispirato dalle Goldberg Vaariatons di J.S. Bach?) è un funky-rock carnale vagamente littlefeattiano con uso d’organo R&B, anche se non mi piace l’idea della voce filtrata e distorta, ma il produttore è lui; What Would I Not Do? è l’altro brano pop-rock dai sapori Beatlesiani, raffinato come sempre. Piacevoli anche la rockeggiante Brother’s Keeper, con le chitarre che si fanno sentire, e la West-Coastiana So The Story Goes, sempre con il lodevole lavoro delle tastiere di Crosby e delle chitarre elettriche, anche se forse manca il colpo d’ala. When The Time Is Right è il classico brano da cantautore, un folk-rock morbido che mi ha ricordato di nuovo il lavoro di James Taylor, mentre l’epilogo di Little Bird Song rimane sempre in queste atmosfere quiete e rarefatte!

Bruno Conti

Una Grande Band Dimenticata Dal Tempo, Catturata Dal Vivo! Beat Farmers – Heading North 53°N 8°E Live in Bremen 1988

beat farmers heading north live

Beat Farmers – Heading North 53°N 8°E – Live in Bremen 1988 – MIG Made In Germany

La MIG (Made In Germany) è una etichetta tedesca impegnata perlopiù nel pubblicare buona musica registrata dal vivo in Germania, di solito nel passato, e per la maggior parte nella gloriosa serie del Rockpalast, ma ogni tanto propongono delle variazioni sul tema e questo Heading North 53°N 8°E – Live in Bremen 1988 è una di queste eccezioni. La registrazione cattura il quartetto dei Beat Farmers nella seconda fase della carriera, il primo chitarrista e cantante Buddy Blue (Bernard Siegal all’anagrafe) non è più in formazione, ma sono arrivati ben due ottimi sostituti nelle figure di Joey Harris e Jerry Raney, entrambi voce e chitarra, Daniel Monte Mclain, o se preferite Country Dick Montana è sempre una presenza “inquietante” e imponente, seduto dietro la sua batteria, ma anche cantante in alcuni siparietti di sicuro effetto sul pubblico, Rolle Dexter Love pompa come un indemoniato sul basso, e il gruppo rimane pur sempre una forza della natura dal vivo. Tales From The New West, il primo album, viene considerato giustamente il loro capolavoro, un disco di cowpunk (termine coniato anche per la band),  roots music, country, R&R, scegliete voi il termine, o usateli tutti insieme: i gruppi simili a loro erano Jason And The Scorchers, per certi versi i primi Blasters, appena prima c’erano stati i Rank And File, poi sarebbero arrivati anche i True Believers (tanto per inquadrare il periodo e le band più valide), ma Country Dick e soci proponevano con grande nonchalance e vigore questo rock venato di country, o viceversa, un misto di materiale originale e cover, eseguito con classe e potenza, belle voci (vabbé, diciamo che il vocione di Montana era “atipico”) e chitarre taglienti, una ritmica esplosiva e tanta voglia di divertirsi.

Come ricordano le note (in tedesco, ma per fortuna anche in inglese) del libretto, questo concerto del 1988 li cattura al Modernes di Brema, per l’emittente Radio Bremen, e si tratta di uno show, ben registrato e con diciannove fucilate di punk-country-rock di rara efficacia. Il primo brano Bigger Stones è uno dei pezzi di Paul Kaminksi, autore storico della band, country’n’roll di gran classe, una bella melodia, armonie vocali pregevoli e chitarre ingrifate, con Country Dick e Love che battono il tempo alla perfezione. Big Big Man, un brano di Jerry Raney, con un riff diddleyano delle due chitarre che poi si scatenano in una serie di soli veramente gagliardi, di nuovo una miscela tra country e rock eseguita con una vigoria inusitata. A questo punto dello show arriva la prima esibizione di Montana: una versione di Lucille (non quella di Little Richard), bensì il brano di Kenny Rogers, cantata con una voce baritonale che neppure Johnny Cash ce l’avrete mai fatta, molto kitsch e valzerata a tratti, ma anche divertente e assai sopra le righe,  e pure una cortissima Happy Boy è ai limiti della parodia, senza rutti ma con gargarismi e tutto il campionario del “cattivo gusto”, assolo di kazoo incluso. Poi, dopo essersi ripresi (quasi) si lanciano in una Rosie di Tom Waits, che di suo sarebbe una gran ballata, ma il R&R è giusto dietro l’angolo e il tiro di Dark Light è da paura, chitarre cattivissime e atmosfera minacciosa, messaggi criptici di Country Dick inclusi. Eccellente il blues-rock a tutta slide di una Texas che avrebbe fatto felice Johnny Winter e purei Blasters.

Notevole anche Blue Chevrolet, ancora firmata da Kaminski, per la serie non li ferma nessuno, mentre Beat generation di Rod McKuen,è di nuovo l’occasione per Montana per “cazzeggiare” a tutta velocità, tra R&R indiavolato e gli Who (giuro)! I Want You Too giustamente accelera ancora leggermente i tempi, prima di regalare al pubblico una sontuosa e coinvolgente Hollywood Hills, grande rock con una armonica guizzante a farsi largo in un muro di chitarre e batteria. Never Goin’ Back è un pezzo del primo John Stewart, quando il grande cantautore americano scriveva anche pezzi per i Monkees, di nuovo pura roots-rock music di gran classe, degna di Blasters, Jason and The Scorchers e le altre band californiane dell’epoca. Ottime God Is Here Tonight, un’altra devastante fucilata rock di Joey Harris e Riverside di Jerry Rainey, rispettivamente tratte da Pursuit Of Happiness e Van Go, ragazzi se tiravano! Deceiver è un altro deragliante R&R preso a tutta velocità, mentre Key To The World vira verso un rock-blues alla ennesima potenza, con un magnifico Jerry Rainey impegnato a strapazzare la sua chitarra. California Kid, di nuovo di Kaminski era sul primo album con Country Dick Montana che la annuncia come una canzone su “drinkin’ and fuckin’ and lovin’ every minute of it”, e poi procede a dimostrarlo. Purtroppo niente cover di Powderfinger di Neil Young, sostituita nei bis da un Led Zeppelin Medley di 1:02, senza strumenti, solo a cappella, una vera presa per il culo. Ma il vero gran finale è una versione cataclismica di You Can Judge A Book By Looking At The Cover, circa otto minuti di rock and roll scatenato a tutte chitarre, dedicato a “San Bo Diddley”, che conclude in modo degno un concerto giustamente preservato per i posteri. Se fossi bolognese direi “Socc’mel”!

Bruno Conti