Supplemento Della Domenica: La Ristampa Dell’Anno? C’Era Una Volta: Tim Buckley – The Complete Album Collection

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Tim Buckley – The Complete Album Collection – 8 CD Rhino/Warner

Prima di iniziare ad esaminare il contenuto di questo peraltro splendido cofanetto (per i contenuti), una breve premessa: il sottoscritto ha sempre avuto una particolare predilezione per Tim Buckley, che considero uno dei più bravi ed originali cantautori mai prodotti dalla cosiddetta musica leggera o pop (per usare la terminologia inglese). Originale ed avventuroso, in possesso di una voce splendida, in grado di eseguire incredibili acrobazie vocali, ma anche di una dolcezza ed una tristezza a tratti infinita e struggente. Quindi uno presume che dietro tutto ciò si celasse una personalità complessa e multiforme, capace, dopo aver sposato, a soli 18 anni, Mary Guilbert, sua compagna ad un corso di francese, di lasciarla appena un mese prima della nascita del figlio Jeff  (poi diventato anche lui musicista, sia pure osannato dalla critica e dal pubblico ovunque nel mondo, soprattutto tra i più giovani, ma secondo me, che pure lo apprezzo, non ha raggiunto comunque i vertici espressivi del babbo), abbandonato ancora prima di conoscerlo. Quindi diciamo non una persona “simpatica” o da ammirare per forza, uno che in ogni caso, dopo il successo iniziale, ha vissuto una vita difficile, segnata da problemi con alcol e droga, e culminata con la morte avvenuta per una overdose nel giugno del 1975, dopo un lungo periodo da “tossico perduto” nella parte finale della sua carriera, e  pochi mesi dopo aver lasciato il “club dei 27”, tristemente noto in quel periodo storico musicale.

Ma prima Buckley ha fatto in tempo a consegnarci, tra il 1966 e il 1975, una serie di album veramente formidabili, che ora la Rhino/Warner, con la tipica incongruenza delle case discografiche majors, ha raccolto in questo box di 8 CD, dove mancano però gli ultimi due dischi della sua discografia, Sefronia e Look At The Fool (ristampati separatamente dalla Edsel), e obbligandoci quasi a definire questo cofanetto The (In)Complete Album Collection. Comunque si tratta di un bel sentire, gli album sono nelle loro edizioni regolari, anche se alcuni dei primi, usciti per la Elektra, avevano avuto in passato l’onore di edizioni rimasterizzate e potenziate, e come bonus, oltre ai primi sette album, c’è anche un CD Works In Progress, che raccoglie rare versioni alternative ed inedite di molti suoi brani, pubblicato in origine dalla Rhino Handmade a tiratura limitata, e quindi di scarsa reperibilità, come peraltro molti dei suoi album che in CD hanno sempre avuto una vita difficile, quasi come quella del loro autore.

Ma i contenuti musicali sono assolutamente da tesaurizzare: si parte con l’omonimo Tim Buckley, pubblicato dalla Elektra e prodotto da Jac Holzman e Paul A. Rotchild, il primo, il boss della etichetta che lo aveva messo sotto contratto grazie alla segnalazione del manager dell’epoca di Frank Zappa, Herb Cohen, che poi sarà un personaggio ricorrente nella carriera di Buckley; il disco esce nell’ottobre del 1966, si tratta di un album “folk”, ma con elementi rock, grazie alla presenza di musicisti come Lee Underwood alla chitarra (una costante nelle carriera di Tim), Jim Fielder al basso (poi nei Blood, Sweat And Tears), Van Dyke Parks alle tastiere, Billy Mundi batterista dei Mothers Of Invention e gli arrangiamenti degli archi di Jack Nitzsche. I testi di parecchie delle canzoni sono del poeta e paroliere Larry Beckett, mentre Buckley usa quel particolare stile chitarristico, dovuto all’incidente occorso in una partita di baseball, che gli causò la frattura delle prime due dita della mano sinistra, con un danno permanente che lo obbligò all’uso di particolari accordature più aperte che creano un suono più ricercato e complesso. Senza approfondire, potrebbe essere stato un fattore fondamentale nel suo stile unico e quasi sperimentale: il disco, come si diceva è uscito anche in una edizione estesa doppia, che contiene sia la versione mono che stereo, oltre a 22 tracce registrate tra il 1965 e il 1966 prima della pubblicazione dell’album. Nel box c’è la versione con 12 brani: l’incalzante I Can’t See You ci introduce a quella voce già splendida e matura, a soli 19 anni in grado di intricati timbri e sfumature, con un sound che è quello del folk-rock dell’epoca, ma con tempi e arrangiamenti molto più complessi, mentre Wings più sognante e segnata dall’uso barocco degli archi fu il primo singolo, Song Of The Magician ha quell’aria favolistica tipica dei testi di Beckett e le prime derive jazzistiche del suono di Buckley; Valentine Melody è una ballata acustica ed elegiaca che anticipa futuri sviluppi e dove si apprezza il tenore di Tim, che poi sarebbe stato in grado di spaziare anche verso timbri baritonali, molto belle anche le atmosfere di Song Slowly Song e della frizzante Grief In My Soul, molto jingle-jangle, come pure She Is.

Goodbye And Hello, che molti critici americani più allineati alla tradizione, che non amano il periodo sperimentale del nostro, considerano il suo capolavoro, oltre ad essere un disco bellissimo, fu anche il suo maggiore successo commerciale, co-prodotto da Holzman e Jerry Yester dei Lovin’ Spoonful, il disco fu inciso nel giugno del 1967, mentre usciva Sgt. Pepper dei Beatles, che qualche influenza, almeno a livello esplorativo la generò, comprende due delle canzoni più celebri di Buckley, Once I Was (di recente apparsa nell’album postumo di Gregg Allman) e Morning Glory, ma già l’incipit di No Man Can Find The War, con il lavoro splendido di Fielder al basso e di Jim Gordon alla batteria, spinge la voce di Tim verso ardite timbriche che ne esaltano l’afflato interpretativo. Comunque tutto il disco è molto bello,  il valzerone beatlesiano di Carnival Song, con quei tocchi di leggero falsetto affascinanti, l’ardita Pleasant Street, la visionaria Hallucinations, l’urgenza sonora di I Never Asked To Be Your Mountain, l’acid folk di Phantasmagoria In Two e le atmosfere complesse ed orchestrali della lunga title track testimoniano di un album splendido in tutte le sue componenti.

Happy/Sad, il terzo album, l’ultimo per la Elektra, segna una svolta più sperimentale e jazz nel suo songbook, con la produzione affidata ad un altro Lovin’ Spoonul, Zal Yanovksy, e la presenza a fianco dell’immancabile Underwood, di musicisti più portati all’improvvisazione, come John Miller al contrabbasso, Carter Collins alle congas e soprattutto David Friedman a vibrafono, marimba e percussioni: i brani si dilatano in lunghezza, con le improvvisazioni vocali che sfiorano gli otto minuti in una Strange Feelin’ ancora quasi “tradizionale”, la bellissima Buzzin’ Fly che è ancora legata alle atmosfere degli album precedenti, Love From Room 109 At The Islander, supera i dieci minuti, ma le melodie supportate dall’elettrica di Underwood e marimba e vibrafono di Friedman sono ancora ricche di spunti melodici, come pure Dream Letter, un altro dei suo brani più noti, fino a culminare nella lunghissima Gypsy Woman, che per certi versi anticipa la futura svolta R&B di Greetings From L.A., con le acrobazie vocali di Buckley sempre più intricate.

Blue Afternoon, registrato insieme a Happy/Sad, esce sempre nel 1969 ed è il primo album per la nuova etichetta Straight, fondata da Herb Cohen e Frank Zappa, il sound è sempre jazz-rock, ai musicisti si aggiunge Jimmy Madison alla batteria: Happy Time è comunque splendida e malinconica, ed insieme alla successiva Chase The Blues Away era già stato “provato” nel 1968 per una eventuale inclusione nel disco precedente, come testimoniano le versioni presenti nell’ottavo CD Works In Progress; splendide anche I Must Have Been Blind, The River e Blue Melody, ma come sempre è l’album nel suo insieme ad essere immune allo scorrere del tempo.

In quel periodo di attività frenetica viene inciso anche Lorca, che poi uscirà nel 1970 ancora per la Elektra, si tratta di un album ermetico e molto difficile da ascoltare, free form folk, avanguardia, jazz, il tutto portato ai limiti dell’improvvisazione vocale, ricordo che la prima volta che lo ascoltai, in una calda serata estiva di tanti anni fa, alla fine dell’ascolto effettuato in cuffia (per non disturbare i vicini) c’era quasi la tentazione di gettarsi dalla finestra, ma per fortuna ho sempre abitato al primo piano e non ho mai corteggiato velleità autolesioniste. Comunque il disco consta di soli cinque brani ed è da maneggiare con cura in fase di ascolto, affascinante ma non consigliabile a rockers ed affini, la voce sale e scende su un tappeto di piano elettrico, chitarra, organo e percussioni, con degli attimi di ascolto “quasi doloroso” nella title track e nella successiva intensissima Anonymous Proposition, mentre la seconda facciata con la dolce I Had A Talk With My Woman, la jazzata Driftin’ e la movimentata Nobody Walkin’ è più approcciabile.

Starsailor, esce a dicembre del 1970, di nuovo per la Straight, e si tratta dell’album che la critica cosiddetta più illuminata, considera il suo capolavoro assoluto, prodotto dallo stesso Buckley, contiene la sua canzone più ripresa da altri artisti, Song To The Siren, un brano scritto ancora con Beckett (che torna a collaborare con Tim) nel 1967 e per la serie “il mondo è strano” fu incisa per primo dal famoso “cantante di avanguardia” Pat Boone (e sapete una cosa, l’avevo sentito per curiosità già ai tempi, e, eresia, non è per niente una brutta versione, diversa da quella eterea dei This Mortal Coil ma per nulla disprezzabile https://www.youtube.com/watch?v=3gH3Z6BOCco ): l’originale è magnifico, radioso, sfarzoso, splendente, scegliete il sinonimo che preferite, ci stanno tutti, con il resto dell’album più buio e tempestoso, dalla iniziale, aggressiva Come Here Woman, alla “sognante” I Woke Up, passando per il rock sperimentale di Monterey, Jungle Fire, o la title-track Starsailor, un collage vocale ai confini della sperimentazione, tutti brani dove Buckley spinge la sua voce ai limiti della ricerca, al di fuori forse solo della classica contemporanea o del free jazz.

A questo punto Tim Buckley, con le vendite degli album a picco, scioglie la band di Starsailor e raduna un gruppo funky per incidere il carnale e sorprendente Greetings From L.A. , il disco del 1972 per gli amanti di un Buckley più immediato ed avvicinabile, ma anche un grande album di funky-rock, cantato e suonato da Dio, con canzoni che anticipano il blue-eyed soul di qualche anno dopo e non sfigurano con il repertorio, che so, dei Little Feat più leggeri, testi salaci e ritmi vorticosi per Move With Me, Get On Top, Nighthawkin’, Devil Eyes o la più ricercata Sweet Surrender. Un’altra faccia di un artista complesso e completo come pochi nella storia del rock. E soprattutto un cofanetto indispensabile! Prossimamente su queste pagine virtuali anche i due recenti Live inediti e un cenno ai due album di studio mancanti,

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: La Ristampa Dell’Anno? C’Era Una Volta: Tim Buckley – The Complete Album Collectionultima modifica: 2017-11-26T10:31:35+01:00da bruno_conti
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